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SENTENZA N. 239
ANNO 2016
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto
Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale degli artt. 9, comma 4, 13, comma 7, lettere a) e c), 17, commi
3 e 4, 18 e 45 della legge
della Regione Puglia 16 aprile 2015, n. 24 (Codice del commercio), promosso
dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso
spedito per la notificazione il 22 giugno 2015, depositato in cancelleria il 25
giugno 2015 e iscritto al n. 70 del registro ricorsi 2015.
Visto l’atto di costituzione della Regione Puglia;
udito nell’udienza pubblica del 4 ottobre 2016 il Giudice relatore Marta Cartabia;
uditi l’avvocato dello Stato Chiarina Aiello per il Presidente del Consiglio
dei ministri e l’avvocato Marcello Cecchetti per la Regione Puglia.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato
il 22 giugno 2015 (Reg. ric. n. 70 del 2015), il Presidente del Consiglio dei
ministri ha impugnato gli articoli 9, comma 4, 13, comma 7, lettere a) e c),
17, commi 3 e 4, 18 e 45 della legge della Regione Puglia 16 aprile 2015, n. 24
(Codice del Commercio), per violazione degli artt. 3, 41, 97 e 117, primo e secondo
comma, lettere e) e m), della Costituzione.
1.1.– I censurati artt. 9,
comma 4, e 13, comma 7, lettera c), intervengono nell’ambito degli orari di
apertura e di chiusura degli esercizi commerciali, stabilendo rispettivamente
che: la Regione e i Comuni promuovano «accordi volontari» fra gli operatori volti
a garantire il rispetto e l’attuazione delle disposizioni in materia di
sostegno della maternità e paternità e di coordinamento dei tempi della città,
nonché in materia di poteri del Sindaco di coordinare e riorganizzare gli orari
delle predetta attività; il Comune, nella elaborazione di «progetti di
valorizzazione commerciale», possa prevedere interventi in materia di orari di
apertura.
Secondo il ricorrente le
norme di cui sopra violerebbero, in primo luogo, l’art. 117, secondo comma,
lettera e), Cost., che riserva alla competenza legislativa esclusiva dello
Stato la materia «tutela della concorrenza», in quanto regolano una variabile
concorrenziale, qual è quella degli orari di apertura e chiusura degli esercizi
commerciali, che lo Stato ha disciplinato nell’art. 31 del decreto-legge 6
dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il
consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, secondo cui le attività
commerciali si esercitano senza vincoli e prescrizioni riguardanti il rispetto
degli orari di apertura e di chiusura: del resto, la giurisprudenza
costituzionale avrebbe, per tale ragione, già ritenuto che questa norma statale
sia vincolante per le Regioni nelle sentenze n. 65 e n. 27 del 2013
e n. 299 del
2012.
Inoltre, e più
specificamente, l’art. 9, comma 4, della legge reg. Puglia n. 24 del 2015,
promuovendo esplicitamente accordi tra operatori volti a creare un
coordinamento consapevole su una variabile concorrenziale, qual è appunto
l’orario degli esercizi, legittimerebbe intese restrittive della concorrenza
vietate dall’art. 2 della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela
della concorrenza e del mercato) e dall’art. 101 del Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea (TFUE), sottoscritto a Roma il 25 marzo 1957, così violando
anche l’art. 117, primo comma, Cost., che impone il rispetto degli obblighi
assunti nei confronti dell’Unione europea anche da parte del legislatore
regionale.
Né, secondo la difesa dello
Stato, a legittimare l’intervento legislativo regionale varrebbe il riferimento
ai capi I e VII della legge 8 marzo 2000, n. 53 (Disposizioni per il sostegno
della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e
per il coordinamento dei tempi delle città), e all’art. 50, comma 7, del
decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali). Si tratterrebbe, infatti, di disposizioni
anteriori alla riforma del titolo V della Costituzione che «vanno, quindi,
considerate superate dalla legislazione statale sopravvenuta, e in particolare
dall’art. 31 d.l. 201/2011». Inoltre, l’illimitata discrezionalità attribuita
all’ente locale attraverso tali generici riferimenti alla normativa statale,
introdurrebbe un elemento di incertezza nella disciplina dell’attività
commerciale, così da rappresentare un altro vulnus al corretto svolgimento
della concorrenza.
1.2.– Il ricorrente censura,
inoltre, l’art. 13, comma 7, lettera a), della legge reg. Puglia n. 24 del
2015, che consente ai Comuni, nell’ambito dei progetti di valorizzazione
commerciale, di vietare la vendita di particolari merceologie o l’attività in
particolari settori merceologici.
La norma regionale,
pertanto, reintrodurrebbe limitazioni già abrogate dal legislatore statale
nell’esercizio della sua competenza esclusiva in materia di «tutela della
concorrenza», segnatamente con l’art. 34, comma 3, lettera d), della legge n.
214 del 2011 (recte: del d.l. n. 201 del 2011) e con
l’art. 3, comma 9, lettera f), della legge 14 settembre 2011, n. 148 (recte: del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante
«Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo
sviluppo.»), che vietano le limitazioni merceologiche.
1.3.– Riguardo al censurato
art. 17 della legge reg. Puglia n. 24 del 2015, il Presidente del Consiglio dei
ministri evidenzia come la disposizione, al comma 3, subordini ad
autorizzazione commerciale l’apertura, il trasferimento di sede, il cambiamento
di settore di vendita o l’ampliamento della superficie di una "media” o "grande
struttura di vendita” e, al comma 4, preveda per i "centri commerciali” e per
le "aree commerciali integrate” che l’apertura, il trasferimento di sede, il
cambiamento di settore di vendita e l’ampliamento della superficie necessitino
di autorizzazione per l’intero centro e di autorizzazione o segnalazione
certificata di inizio attività (SCIA), a seconda della dimensione, per ciascuno
degli esercizi al dettaglio presenti nel centro medesimo.
Secondo il ricorrente, detta
normativa si porrebbe in contrasto con i principi di semplificazione e
liberalizzazione stabiliti dalla legislazione statale e, segnatamente,
dall’art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme sul procedimento
amministrativo) – secondo cui la SCIA è sostitutiva di ogni atto di
autorizzazione o licenza per l’esercizio di un’attività commerciale – e dagli
artt. 31 e 34 della legge n. 214 del 2011 (recte: del
d.l. n. 201 del 2011), nonché «dall’art. 1 della legge 27/2012», che hanno
abolito le autorizzazioni espresse, con la sola esclusione degli interessi
pubblici più sensibili indicati dalla Direttiva n. 2006/123/CE del Parlamento
europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato
interno.
Rimarca la difesa dello
Stato, che le disposizioni statali in materia di SCIA costituiscono, secondo la
giurisprudenza costituzionale (viene citata la sentenza n. 164 del
2012), livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali, di tal che la loro violazione determina un vulnus all’art. 117,
secondo comma, lettera m), Cost., che riserva in via esclusiva alla competenza
dello Stato la legislazione in materia.
Sotto altro profilo, la
trasgressione alle norme di liberalizzazione contenute nella predetta normativa
statale – la cui immediata portata precettiva e abrogativa sarebbe stata
riconosciuta, con riferimento all’art. 31 del d.l. n. 201 del 2011, dalla sentenza n. 125 del
2014 della Corte costituzionale – altererebbe altresì le condizioni di
piena concorrenza tra gli operatori, così da violare anche l’art. 117, secondo
comma, lettera e), Cost.
1.4.– Il ricorrente censura
anche l’art. 18 della legge reg. Puglia n. 24 del 2015, secondo cui i Comuni
debbono individuare nei loro strumenti urbanistici le aree idonee
all’insediamento di strutture commerciali, stabilendo altresì che
l’insediamento di "grandi strutture di vendita” e di "medie strutture di
vendita di tipo M3” sia consentito solo in aree con profilo urbanistico idoneo
e oggetto di piani urbanistici attuativi, al fine di prevedere opere di
mitigazione ambientale, di miglioramento dell’accessibilità e di riduzione
dell’impatto socio-economico.
Secondo la difesa dello
Stato, la predeterminazione con legge regionale di nuovi divieti di
localizzazione, avulsa da una verifica territoriale o da forme di
coinvolgimento e partecipazione popolare nelle forme del giusto procedimento,
non potrebbe essere compresa nell’esercizio del potere di pianificazione
urbanistica, ma determinerebbe un limite allo sviluppo del commercio
condizionando l’insediamento di nuove attività, in contrasto con gli artt. 3,
41, 97 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione alla citata
Direttiva n. 2006/123/CE.
Ad avviso del ricorrente,
infatti, dagli artt. 31, comma 2, e 34, comma 3, della legge n. 214 del 2011 (recte: del d.l. n. 201 del 2011) e dall’«art. 1 della legge
n. 27/2012» si ricaverebbe il principio secondo cui nel nucleo essenziale delle
libertà economiche rientrerebbe quella di localizzare le attività commerciali
senza divieti e limiti preventivi, così da consentire il pieno svolgimento
della concorrenza tra gli operatori.
La censurata normativa
regionale, ponendosi in contrasto con tali disposizioni, violerebbe, quindi, la
libertà economica degli operatori (artt. 3 e 41 Cost.), l’interesse alla
riduzione al minimo dei vincoli amministrativi (rilevante ex art. 97 Cost.) e,
infine, quelle sulla competenza statale esclusiva in materia di «tutela della
concorrenza» (art. 117, secondo comma, lettera e). Infatti, stabilire che
qualunque struttura commerciale, indipendentemente dalle sue dimensioni e dal
suo oggetto, possa insediarsi nel territorio solo se ciò sia previsto in uno
strumento urbanistico comunale, significherebbe condurre la pianificazione
urbanistica oltre il proprio limite naturale di prescrizione delle destinazioni
generali del territorio, per diventare uno strumento di programmazione
dell’attività economica, che pone i presupposti per l’introduzione di vincoli,
divieti e disparità di trattamento a base territoriale di intere categorie di
attività di commercio o tra attività di commercio analoghe.
Inoltre, subordinare
l’insediamento di strutture di notevoli dimensioni – ma fra loro eterogenee (in
quanto estese da un minimo di 1.501 metri quadri ad un massimo di 15.000 metri
quadri) – all’adozione di un «piano» urbanistico attuativo, significherebbe
condizionare l’attività economica a preliminari decisioni amministrative
latamente discrezionali, escludendo arbitrariamente la possibilità di
attuazione convenzionata con il privato.
1.5.– Il ricorrente impugna,
infine, l’art. 45 della legge reg. Puglia n. 24 del 2015, secondo cui i nuovi
impianti di distribuzione del carburante devono essere dotati di almeno un
prodotto ecocompatibile GPL o metano, «a condizione che non vi siano ostacoli
tecnici o oneri economici eccessivi».
In tal modo, secondo la
difesa dello Stato, viene introdotta una barriera all’accesso al mercato della
distribuzione di carburanti in rete, perché si introduce un obbligo asimmetrico
(gravante, cioè, solo sugli operatori nuovi entranti) di fornire un prodotto
eco-compatibile: in particolare la norma regionale stabilisce l’obbligo come
regola, prevedendo come eccezione la possibilità di dimostrare che ottemperare
a tale obbligo determini ostacoli tecnici o oneri economici eccessivi e
sproporzionati (così da addossare l’onere della prova al richiedente), mentre
la legislazione statale – segnatamente l’art. 17, comma 5, del decreto-legge 24
gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle
infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, dall’art. 1,
comma 1, della legge 24 marzo 2012, n. 27 – pone come regola la libertà di
iniziativa e come eccezione l’imposizione di obblighi asimmetrici,
subordinandoli al rispetto della proporzionalità (il cui onere probatorio
ricade, quindi, sull’ente che rilascia l’autorizzazione).
Palese sarebbe, pertanto, la
violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in punto di tutela
della concorrenza e dell’art. 117, primo comma, Cost. per mancato rispetto
degli obblighi assunti nei confronti dell’Unione europea.
2.– Con memoria depositata
il 30 luglio 2015, giusta delibera della Giunta regionale 22 luglio 2015, n.
1503, si è costituita in giudizio la Regione Puglia, chiedendo che il ricorso
sia dichiarato inammissibile o infondato.
2.1.– In particolare, in
relazione agli artt. 9, comma 4, e 13, comma 7, lettera c), della legge
regionale n. 24 del 2015, concernenti gli orari degli esercizi commerciali, la
Regione contesta l’ammissibilità della censura relativa alla violazione
dell’art. 117, primo comma, Cost., in quanto il ricorso non enuncia i motivi
per i quali gli «accordi» tra operatori, previsti dalle disposizioni censurate,
sarebbero riconducibili alle «intese» vietate dall’art. 2 della legge n. 287
del 1990 e dall’art. 1 del TFUE.
In ogni caso, ad avviso
della resistente, questa censura sarebbe infondata nel merito, in quanto gli
accordi predetti, concernendo gli orari di apertura, hanno oggetto diverso
rispetto a quello delle intese vietate dalla legislazione sulla concorrenza e
non sarebbero riconducibili a restrizioni dell’offerta quantitativa. Inoltre,
gli accordi in parola sarebbero inidonei a incidere sulla concorrenza,
rimanendo il singolo commerciante libero di aderirvi o meno. Aggiunge poi la
Regione Puglia che palese risulterebbe l’infondatezza della censura relativa
all’art. 13, comma 7, lettera c), in quanto quest’ultima previsione non
contempla – e, quindi, non incentiva – alcun tipo di accordi e, come tale, non
potrebbe violare in alcun modo il divieto di intese.
2.2.– Riguardo poi ai
medesimi artt. 9, comma 4, e 13, comma 7, lettera c), la censura relativa alla
violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. sarebbe infondata.
Ad avviso della resistente,
infatti, le disposizioni censurate non si tradurrebbero in vere e proprie
«imposizioni normative» di orari di apertura, queste sì vietate, ma
rientrerebbero in quel minimo margine di azione che sul punto deve ritenersi
comunque residuare in capo al legislatore regionale, in quanto titolare della
competenza in materia di «commercio». Infatti, secondo la difesa della Regione
Puglia, sia il legislatore nazionale, sia la giurisprudenza costituzionale,
hanno mostrato di essere ben consapevoli che una «totale anarchia» degli orari
di apertura potrebbe collidere con molteplici interessi collettivi di rilievo
costituzionale, che proprio con le disposizioni regionali impugnate verrebbero
tutelati.
2.3.– Con riferimento
all’art. 13, comma 7, lettera a), della legge regionale n. 24 del 2015, la
resistente ha osservato che la censura relativa alla violazione dell’art. 117,
primo comma, Cost. sarebbe inammissibile, in quanto detto parametro
costituzionale non risulta indicato nella delibera del Consiglio dei ministri
che ha autorizzato il giudizio, né nel ricorso è stato indicato il parametro
interposto che, essendo trasgredito dalla norma regionale, determinerebbe la
violazione costituzionale.
In ogni caso, la censura sarebbe
infondata nel merito anche con riguardo alla dedotta violazione dell’art. 117,
secondo comma, lettera e), Cost., in quanto la disposizione regionale non
sarebbe in grado, di per sé, di determinare alcun vulnus alla Costituzione.
La norma regionale, infatti,
si limiterebbe a stabilire genericamente che, nell’ambito dei progetti di
valorizzazione commerciale, i Comuni possano apporre vincoli o restrizioni di
vendita di particolari merceologie o settori merceologici, con la conseguenza
che qualsiasi illegittimità della restrizione potrebbe derivare esclusivamente
dal singolo progetto elaborato in concreto dal Comune (come tale, da far valere
nelle opportune sedi giurisdizionali) e non dalla normativa regionale
censurata.
2.4.– Le censure relative
all’art. 17, commi 3 e 4, della medesima legge regionale impugnata, che
prevedono autorizzazioni per l’apertura, il trasferimento e l’ampliamento degli
esercizi commerciali, secondo la difesa della Regione Puglia, sarebbero
infondate.
Infatti, le norme censurate
non sarebbero idonee a integrare alcuna violazione della competenza legislativa
esclusiva dello Stato in materia di «tutela della concorrenza» (art. 117,
secondo comma, lettera e, Cost.), in quanto si limitano a prevedere
genericamente la necessità di un’autorizzazione comunale, senza null’altro
stabilire in ordine alle procedure o ai requisiti per il rilascio della stessa
e, pertanto, senza introdurre alcuna deroga alla disciplina dettata dalla
vigente legislazione nazionale: anche in questo caso, quindi, non sarebbero le
disposizioni legislative regionali a confliggere con le disposizioni statali in
materia, ma solo, ed eventualmente, i criteri autorizzatori
in concreto adottati di volta in volta dal Comune.
Parimenti non potrebbe
ritenersi violato l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto il
principio di semplificazione amministrativa, costituente «livello essenziale
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali», trova corpo in una
disciplina statale che già prevede deroghe a tutela di esigenze imperative di
interesse generale che abbiano rilievo costituzionale.
2.5.– Riguardo all’art. 18
della medesima legge regionale n. 24 del 2015, concernente la localizzazione di
aree idonee all’insediamento di strutture commerciali, la resistente ha
osservato che le censure relative alla violazione degli artt. 3, 41, 97 e 117,
primo comma, Cost. sarebbero inammissibili per la loro genericità e carenza
assoluta di motivazione.
Le censure sarebbero
comunque infondate nel merito con riguardo all’ulteriore parametro
costituzionale dedotto (art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.), posto che
le stesse disposizioni statali – e, in particolare, il citato art. 31, comma 2,
del d.l. n. 201 del 2011 – espressamente consente alle Regioni di individuare
aree interdette agli esercizi commerciali al fine di garantire la tutela della
salute, dei lavoratori, dell’ambiente, incluso l’ambiente urbano, e dei beni
culturali. Nessuna discriminazione concorrenziale potrebbe poi realizzarsi per
questa via, posto che la norma regionale lega l’individuazione delle aree
interdette non al "tipo” di attività commerciale, ma alle "dimensioni” della
medesima. La stessa previsione della necessità di piani attuativi per le
strutture più grandi, si impone proprio per consentire di valutare, sulla base
delle effettive dimensioni dell’insediamento, la sussistenza di interessi che
ne sconsiglino la realizzazione ovvero che la subordinino a opere di
mitigamento ambientale, miglioramento dell’accessibilità e riduzione
dell’impatto socioeconomico.
2.6.– In relazione all’art.
45, comma 1, della medesima legge regionale n. 24 del 2015, la resistente ha
osservato che la censura relativa alla violazione dell’art. 117, primo comma,
Cost., sarebbe inammissibile, in quanto il parametro costituzionale dedotto non
è menzionato nella delibera del Consiglio dei ministri che ha autorizzato
l’impugnazione e il ricorso non indicherebbe neppure il parametro interposto
integrante la violazione costituzionale.
La censura sarebbe comunque
infondata nel merito con riguardo alla dedotta violazione dell’art. 117,
secondo comma, lettera e), Cost., in quanto le disposizioni statali e regionali
sarebbero concordi nel sollevare gli operatori dall’obbligo di offerta di più
tipologie di carburanti quando ciò comporti ostacoli tecnici od oneri economici
eccessivi e non proporzionati alle finalità dell’obbligo.
Una simile lettura
costituzionalmente orientata dell’impugnato art. 45 consentirebbe di escludere
qualsiasi vulnus costituzionale, né sarebbe chiaro, secondo la resistente,
perché tale interpretazione sia stata esclusa dalla Corte costituzionale con
riferimento ad una disposizione di analogo tenore della Regione Umbria – l’art.
44 della legge della Regione Umbria 6 maggio 2013, n. 10 (Disposizioni in
materia di commercio per l’attuazione del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201
convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 e del
decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 convertito, con modificazioni, dalla legge
24 marzo 2012, n. 27. Ulteriori modifiche ed integrazioni della legge regionale
3 agosto 1999, n. 24, della legge regionale 20 gennaio 2000, n. 6 e della legge
regionale 23 luglio 2003, n. 13) – che è stata dichiarata illegittima con la sentenza n. 125 del
2014.
3.– Con memoria depositata
il 9 settembre 2016, la Regione Puglia ha ribadito la richiesta di una
declaratoria di inammissibilità o infondatezza delle questioni sollevate,
ulteriormente illustrando le ragioni già esposte nella memoria di costituzione.
3.1.– Ha osservato, in particolare,
che le disposizioni di cui al capo VII della legge n. 53 del 2000 e di cui
all’art. 50, comma 7, del d.lgs. n. 267 del 2000, cui fa rinvio l’impugnato
art. 9, comma 4, della legge reg. n. 24 del 2015, devono considerarsi
implicitamente abrogate dall’art. 31 del d.l. n. 201 del 2011, di tal che gli
accordi volontari da promuovere sugli orari di lavoro devono considerarsi
finalizzati alla sola solidarietà sociale, che nulla avrebbe a che vedere con
le lamentate distorsioni alla concorrenza.
3.2.– In ordine
all’impugnazione degli artt. 17, commi 3 e 4, della legge reg. Puglia n. 24 del
2015, ha aggiunto che il Consiglio dei ministri, in virtù della delega
contenuta nell’art. 5 della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in
materia di riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni), ha approvato il
15 giugno 2016 uno schema di decreto legislativo relativo all’«[i]ndividuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione,
segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), silenzio assenso e comunicazione
e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e
procedimenti», attualmente all’esame della Conferenza unificata per
l’acquisizione della prescritta intesa con le Regioni.
Nel predetto schema di
decreto legislativo, si prevede la necessità di un’autorizzazione comunale per
l’apertura, l’ampliamento e il trasferimento di sede delle medie e grandi
strutture di vendita, a conferma della legittimità delle prescrizioni contenute
nella disposizione regionale impugnata a questo proposito.
3.3.– Infine, in ordine alle
prescrizioni contenute nell’impugnato art. 45 della legge reg. n. 24 del 2015,
in materia di distribuzione del carburante, la resistente ha richiamato la
recente sentenza
n. 105 del 2016 della Corte costituzionale, che avrebbe confermato la
legittimità di disposizioni analoghe a quelle della Regione Puglia.
Considerato in diritto
1.– Con ricorso notificato
il 22 giugno 2015, il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato gli
articoli 9, comma 4, 13, comma 7, lettere a) e c), 17, commi 3 e 4, 18 e 45
della legge della Regione Puglia 16 aprile 2015, n. 24 (Codice del Commercio),
per violazione degli artt. 3, 41, 97 e 117, primo e secondo comma, lettere e) e
m), della Costituzione.
1.1.– Più precisamente, il ricorrente
evidenzia che gli artt. 9, comma 4, e 13, comma 7, lettera c), della legge reg.
Puglia n. 24 del 2015 prevedono interventi regolativi degli orari di apertura e
di chiusura degli esercizi commerciali attraverso la promozione di «accordi
volontari» tra operatori e attraverso «programmi di valorizzazione
commerciale». In tal modo, le citate disposizioni violerebbero l’art. 117,
secondo comma, lettera e), Cost., in quanto regolano una variabile
concorrenziale che lo Stato ha disciplinato, nell’esercizio della sua
competenza esclusiva in materia di concorrenza, disponendo – all’art. 31 del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita,
l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214 – che
le attività commerciali si esercitano senza vincoli e prescrizioni riguardanti
il rispetto degli orari di apertura e di chiusura.
1.2.– Con riguardo al solo
art. 9, comma 4, della citata legge regionale n. 24 del 2015, il ricorrente
reputa che tale norma – promuovendo esplicitamente accordi tra operatori volti
a creare un coordinamento consapevole sulla variabile concorrenziale
dell’orario di apertura degli esercizi – contrasti anche l’art. 117, primo
comma, Cost., in quanto legittimerebbe intese restrittive della concorrenza
vietate dall’art. 2 della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela
della concorrenza e del mercato) e dall’art. 101 del Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea (TFUE), sottoscritto a Roma il 25 marzo 1957, in violazione
degli obblighi assunti nei confronti dell’Unione europea.
1.3.– La difesa dello Stato
censura poi l’art. 13, comma 7, lettera a), della stessa legge regionale n. 24
del 2015, che consente ai Comuni, nell’ambito dei citati progetti di
valorizzazione commerciale, di vietare la vendita di particolari merceologie o
l’attività in particolari settori merceologici.
Così facendo la norma
violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., in quanto reintroduce
limitazioni già abrogate dal legislatore statale nell’esercizio della sua
competenza esclusiva in materia di «tutela della concorrenza», segnatamente con
l’art. 34, comma 3, lettera d), della legge n. 214 del 2011 (recte: del d.l. n. 201 del 2011) e con l’art. 3, comma 9,
lettera f), della legge 14 settembre 2011, n. 148 (recte:
del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante «Ulteriori misure urgenti per
la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo»), che vietano le limitazioni
alla commercializzazione di determinati prodotti.
1.4.– Il ricorrente ha poi
osservato che l’art. 17, commi 3 e 4, della legge reg. Puglia n. 24 del 2015,
subordina ad autorizzazione commerciale l’apertura, il trasferimento di sede,
il cambiamento di settore di vendita o l’ampliamento della superficie di una
"media” o "grande struttura di vendita” e prevede, per i "centri commerciali” e
per le "aree commerciali integrate”, che l’apertura, il trasferimento di sede,
il cambiamento di settore di vendita e l’ampliamento necessitino di
autorizzazione per l’intero centro e di autorizzazione o segnalazione
certificata di inizio attività (SCIA), a seconda della dimensione, per ciascuno
degli esercizi al dettaglio presenti nel centro medesimo.
Simile norma, ad avviso
dello Stato, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto
si pone in contrasto con i principi di semplificazione e liberalizzazione
stabiliti in punto di SCIA dalla legislazione statale. Segnatamente la
disciplina regionale contrasterebbe con l’art. 19 della legge 7 agosto 1990, n.
241 (Nuove norme sul procedimento amministrativo), secondo cui la SCIA è
sostitutiva di ogni atto di autorizzazione o licenza per l’esercizio di
un’attività commerciale. Allo stesso modo il contrasto sussisterebbe con gli
artt. 31 e 34 della legge n. 214 del 2011 (recte: del
d.l. n. 201 del 2011), nonché con l’«art. 1 della legge 27/2012», che hanno
abolito le autorizzazioni commerciali espresse, con la sola esclusione delle
autorizzazioni concernenti gli interessi pubblici più sensibili, indicati dalla
Direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre
2006, relativa ai servizi nel mercato interno.
La censurata previsione di
un’autonoma autorizzazione commerciale, secondo il ricorrente, violerebbe anche
l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., in quanto, ponendosi in contrasto
con i sopra citati principi di semplificazione e liberalizzazione contenuti
nella legislazione statale ricordata, altererebbe le condizioni di piena
concorrenza tra gli operatori.
1.5.– Quanto all’art. 18
della legge reg. Puglia n. 24 del 2015, il ricorrente osserva che la
disposizione stabilisce che i Comuni debbono individuare nei loro strumenti
urbanistici le aree idonee all’insediamento di strutture commerciali e prevedere
altresì che l’insediamento di «grandi strutture di vendita» e di «medie
strutture di vendita di tipo M3» sia consentito solo in aree con profilo
urbanistico idoneo e oggetto di piani urbanistici attuativi.
Detta norma confliggerebbe
con gli artt. 3 e 41 Cost. in quanto sacrificherebbe il nucleo essenziale della
libertà economica degli operatori, ricavabile dagli artt. 31, comma 2, e 34,
comma 3, della legge n. 214 del 2011 (recte: del d.l.
n. 201 del 2011) e dall’«art. 1 della legge n.27/2012»; con l’art. 97 Cost., in
quanto sacrificherebbe l’interesse degli operatori alla riduzione al minimo dei
vincoli amministrativi, pure affermato dalle norme statali sopra citate; con
l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., in quanto altererebbe le condizioni
per il pieno sviluppo della concorrenza, tutelata dalle norme statali sopra
citate; con l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto contravverrebbe agli
obblighi assunti nei confronti dell’Unione europea in merito alla tutela della
concorrenza.
1.6.– Infine, è impugnato
l’art. 45 della legge reg. Puglia n. 24 del 2015, che stabilisce che i nuovi
impianti di distribuzione del carburante devono essere dotati di almeno un
prodotto ecocompatibile GPL o metano, «a condizione che non vi siano ostacoli
tecnici o oneri economici eccessivi».
In tal modo, la norma
violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., in quanto introduce
una barriera all’accesso al mercato della distribuzione di carburanti in rete,
perché impone un obbligo asimmetrico (gravante, cioè, solo sugli operatori
nuovi entranti) di fornire un prodotto eco-compatibile, prevedendo come
eccezione la possibilità di dimostrare che ottemperare a tale obbligo determini
ostacoli tecnici o oneri economici eccessivi e sproporzionati (così da
addossare l’onere della prova al richiedente). Diversamente, la legislazione
statale – segnatamente l’art. 17, comma 5, del decreto-legge 24 gennaio 2012,
n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture
e la competitività), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della
legge 24 marzo 2012, n. 27 – pone come regola la libertà di iniziativa,
subordinando la previsione di eventuali obblighi al rispetto della
proporzionalità (il cui onere probatorio ricade, quindi, sull’ente che rilascia
l’autorizzazione).
Palese sarebbe, pertanto, la
violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in punto di tutela
della concorrenza e dell’art. 117, primo comma, Cost. per mancato rispetto
degli obblighi assunti nei confronti dell’Unione europea.
2.– In via preliminare deve
osservarsi che la Regione Puglia, regolarmente costituitasi in giudizio, ha
eccepito l’inammissibilità di talune delle questioni sollevate.
2.1.– In relazione
all’impugnazione degli artt. 9, comma 4, e 13, comma 7, lettera c), della legge
regionale n. 24 del 2015, ha eccepito l’inammissibilità delle questioni
sollevate con riguardo alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per
genericità o carenza della motivazione.
L’eccezione è fondata.
La giurisprudenza
costituzionale è costante nell’affermare che, nei ricorsi in via principale,
non solo deve, a pena di inammissibilità, essere individuato l’oggetto della
questione proposta (con riferimento alla normativa che si censura e ai
parametri che si ritengono violati), ma il ricorrente ha anche l’onere di
esplicitare un’argomentazione di merito a sostegno del vulnus lamentato, onere
che deve considerarsi addirittura più pregnante rispetto a quello sussistente
nei giudizi incidentali (ex multis, e
da ultimo, sentenza
n. 38 del 2016). Ancora più esplicitamente e proprio in relazione al
rispetto di normativa comunitaria, la sentenza n. 63 del
2016 ha precisato che «l’assenza di qualsiasi argomentazione in merito ai
presupposti di applicabilità delle norme dell’Unione europea alla legge in
esame rende il riferimento a queste ultime generico (sentenze n. 199 del 2012
e n. 185 del
2011)».
Nella specie il ricorso si è
limitato a individuare le norme censurate e i parametri evocati con le relative
norme interposte, asserendo semplicemente che tali disposizioni promuoverebbero
un coordinamento consapevole tra gli esercenti su una variabile concorrenziale,
quale sarebbe quella degli orari di apertura e chiusura, e che, così facendo,
legittimerebbe intese vietate.
Tuttavia, lo stesso ricorso
non si fa carico di ricostruire, neppure in termini meramente assertivi, i
presupposti (particolarmente articolati) cui è subordinato il divieto di
intese, con particolare riguardo alla natura della delega a privati di
decisioni economiche, al pregiudizio al commercio tra gli Stati membri e alla
conseguente applicabilità della normativa europea alla specie in esame.
Analoghe lacune si evidenziano poi con riguardo alla rinuncia dell’ente
pubblico territoriale a controllare l’applicazione del divieto, agli elementi
da cui dedurre (anche solo astrattamente) la probabilità che si verifichino
significative alterazioni della concorrenza, alla natura diretta o indiretta
della influenza sulla concorrenza medesima, rinunciando, del resto, ad una
completa, e pur necessaria, indicazione della conferente giurisprudenza
comunitaria o, almeno, delle indicazioni da questa desumibili.
Sotto questo profilo,
pertanto, la censura sembra effettivamente generica e, come tale, inammissibile
limitatamente al citato art. 117, primo comma, Cost.
2.2.– La medesima eccezione
di inammissibilità per genericità della motivazione è stata poi reiterata dalla
Regione resistente anche in relazione all’impugnazione dell’art. 18,
limitatamente alle censure relative alla violazione degli artt. 3, 41, 97 e
117, primo comma, Cost.
L’eccezione è fondata.
Anche in questo caso nel
ricorso si esplicita il contenuto della disposizione censurata, ritenendola
espressiva di una norma di programmazione economica che, attribuendo il potere
di condizionare l’insediamento di nuove attività commerciali solo in alcune
zone, indipendentemente dal loro oggetto e dalle dimensioni dell’esercizio,
eccederebbe i limiti della consueta attività di zonizzazione urbanistica, così
da condizionare illegittimamente il libero mercato.
Tuttavia, in relazione alla
violazione dei parametri ex artt. 3, 41, 97 e 117, primo comma, Cost. il
ricorso risulta meramente assertivo. In ossequio alla giurisprudenza
costituzionale sopra richiamata, i parametri evocati, anche in considerazione
della loro ampiezza espressiva, avrebbero dovuto essere oggetto di una più
approfondita disamina, che ne evidenziasse gli aspetti rilevanti in relazione
alla disposizione impugnata, in modo da supportare la loro asserita violazione
con argomenti specifici, tali da consentire a questa Corte di comprendere e
saggiare nel merito la fondatezza delle censure.
La genericità delle censure
riferite alla violazione degli artt. 3, 41, 97 e 117, primo comma, Cost.
determina perciò l’inammissibilità delle relative questioni.
2.3.– Analogamente generiche
sono anche le censure riferite al parametro interposto, individuato
semplicemente nell’«art. 1 della legge 27/2012».
L’art. 1 della legge 24
marzo 2012, n. 27, infatti, dispone soltanto la conversione in legge, con
modificazioni, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, recante «Disposizioni
urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la
competitività».
Nei termini in cui è
effettuata, pertanto, l’indicazione della norma interposta non consente neppure
di individuare la pertinente disposizione del decreto-legge cui il ricorrente
intende fare riferimento.
2.4.– La Regione resistente
ha infine eccepito l’inammissibilità dell’impugnazione degli artt. 13, comma 7,
lettera a), e 45, in entrambi i casi limitatamente alle censure che si
riferiscono all’art. 117, primo comma, Cost., in quanto il predetto parametro
non risulta incluso nella delibera di autorizzazione.
L’eccezione è fondata.
Occorre ricordare, infatti,
che la giurisprudenza costituzionale (da ultimo sentenze n. 46 del 2015
e n. 298 del
2013) è costante nel ritenere che l’omissione di qualsiasi accenno ad un
parametro costituzionale nella delibera di autorizzazione all’impugnazione
dell’organo politico, comporta l’esclusione della volontà del ricorrente di
promuovere la questione al riguardo, con conseguente inammissibilità della
questione che, sul medesimo parametro, sia stata proposta dalla difesa nel
ricorso.
Poiché nella delibera di
autorizzazione all’impugnazione dei citati artt. 13, comma 7, lettera a), e 45,
non è fatta alcuna menzione della censura relativa all’art. 117, primo comma,
Cost., deve dichiararsi l’inammissibilità della questione limitatamente a quel
parametro.
3.– Nel merito, è fondata la
questione di legittimità costituzionale degli artt. 9, comma 4, e 13, comma 7,
lettera c), della legge reg. Puglia n. 24 del 2015, che prevedono interventi in
punto di orari degli esercizi commerciali, per violazione dell’art. 117,
secondo comma, lettera e), Cost., il quale riserva alla competenza esclusiva
dello Stato la legislazione in materia di «tutela della concorrenza».
3.1.– Il legislatore statale
è intervenuto per assicurare la liberalizzazione degli orari degli esercizi
commerciali, dapprima in via sperimentale e poi a regime, con l’art. 3, comma
1, lettera d-bis), del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni
urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la
razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate
e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall’art.
1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248. Attualmente, in seguito alla
modifica disposta dall’art. 31, comma 1, del d.l. n. 201 del 2011, le attività
commerciali, come individuate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114
(Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma
dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), e quelle di somministrazione
di alimenti e bevande si svolgono «senza i seguenti limiti e prescrizioni»
concernenti, tra l’altro, «il rispetto degli orari di apertura e di chiusura,
l’obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonché quello della mezza
giornata di chiusura infrasettimanale dell’esercizio».
Tale ultima modifica,
contenuta nel citato art. 31, comma 1, del d.l. n. 201 del 2011, è stata
oggetto di impugnazione da parte di numerose Regioni che hanno lamentato la
violazione della competenza legislativa regionale residuale in materia di
commercio ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.
Questa Corte, con sentenza n. 299 del
2012, ha ritenuto non fondate le questioni di costituzionalità sollevate
dalle Regioni ricorrenti, dovendosi inquadrare l’art. 31, comma 1, del d.l. n.
201 del 2011 nella materia «tutela della concorrenza», di competenza esclusiva
dello Stato.
A seguito di tale pronuncia,
la Corte costituzionale, con le sentenze n. 27 e n. 65 del 2013
e n. 104 del
2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di diverse norme
regionali con le quali si erano regolati gli orari degli esercizi commerciali,
in quanto contrastanti con l’espresso divieto di limiti e prescrizioni in
materia, contenuto nella citata normativa statale.
Analogo contrasto deve essere
ravvisato nella specie, con riferimento alle impugnate disposizioni della
Regione Puglia.
3.2.– L’art. 9, comma 4,
della legge reg. Puglia n. 24 del 2015, infatti, stabilisce che la Regione e i
Comuni promuovono «accordi volontari» tra operatori commerciali volti alla
regolazione degli orari di esercizio, con ciò ponendosi in aperto contrasto con
il perentorio e assoluto divieto contenuto nella descritta legislazione
statale, in modo da determinare una violazione dell’art. 117, secondo comma,
lettera e), Cost.
Né vale a escludere detta
violazione il carattere «volontario» degli accordi che la legge regionale
impugnata prefigura. La legislazione statale vigente è perentoria
nell’affermare che l’attività commerciale è esercitata «senza limiti e prescrizioni»
concernenti gli orari. Il divieto previsto riguarda, pertanto, ogni forma di
regolazione, diretta o indiretta, degli orari di esercizio: sia quelle
prescritte per via normativa, sia quelle frutto di accordi tra operatori
economici.
3.3.– L’art. 13 della legge
reg. Puglia n. 24 del 2015, prevede che i Comuni – in accordo con i soggetti
pubblici e i privati interessati, con le associazioni del commercio
maggiormente rappresentative anche in sede locale, le organizzazioni dei
consumatori e dei sindacati – elaborino «progetti di valorizzazione
commerciale» esaminando «le politiche pubbliche riferite all’area, la
progettualità privata e l’efficacia degli strumenti normativi e finanziari in
atto, al fine del rilancio e della qualificazione dell’area stessa e
dell’insieme di attività economiche in essa presenti». Ai sensi del censurato
comma 7, lettera c), del medesimo articolo, il legislatore regionale ha
previsto che, tra i possibili contenuti di tali progetti, rientrino anche
«interventi in materia di orari di apertura».
Anche in questo caso la
legge regionale dispone in materia di orari degli esercizi commerciali, in
contrasto con il citato divieto assoluto e perentorio di regolazione, disposto
dallo Stato nell’ambito della sua competenza esclusiva in materia di «tutela
della concorrenza». Conseguentemente anche l’impugnato art. 13, comma 7,
lettera c) deve ritenersi violare l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
3.4.– Non può essere
condiviso l’argomento dedotto dalla resistente, secondo cui l’eventuale
illegittimità potrebbe riguardare solo gli «atti» in concreto adottati in
applicazione delle disposizioni impugnate (cioè i singoli accordi o i singoli
programmi di valorizzazione), ma non la disposizione di legge regionale che li
prevede.
A fronte di un divieto
assoluto di regolazione degli orari disposto dalla legge dello Stato, è proprio
l’aver fornito una base legale all’adozione di atti concernenti tale
problematica a determinare la violazione costituzionale lamentata. Del resto,
qualunque sia il contenuto dei singoli atti, esso contrasterebbe con
l’assolutezza del divieto stabilito dal legislatore statale, tanto che, in sede
giurisdizionale, la loro illegittimità sarebbe pregiudizialmente condizionata
dalla declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni
legislative regionali che li prevedono.
3.5.– La totale
liberalizzazione degli orari degli esercizi commerciali non costituisce una
soluzione imposta dalla Costituzione, sicché lo Stato potrà rivederla in tutto
o in parte, temperarla o mitigarla. Nondimeno, nel vigore del divieto di
imporre limiti e prescrizioni sugli orari, stabilito dallo Stato nell’esercizio
della sua competenza esclusiva a tutela della concorrenza, la disciplina
regionale che intervenga per attenuare il divieto risulta illegittima sotto il
profilo della violazione del riparto di competenze. Ne consegue che gli artt.
9, comma 4, e 13, comma 7, lettera c), della legge reg. Puglia n. 24 del 2015
devono essere dichiarati illegittimi per violazione dell’art. 117, secondo
comma, lettera e), Cost.
4.– Il Presidente del
Consiglio dei ministri dubita altresì della legittimità costituzionale
dell’art. 13, comma 7, lettera a), della legge reg. Puglia n. 24 del 2015, che,
tra i possibili contenuti dei «programmi di valorizzazione commerciale»,
stabilisce possa esservi «il divieto di vendita di particolari merceologie o
settori merceologici».
La questione è fondata.
Il divieto di vendita
previsto dalla legislazione regionale risulta letteralmente in contrasto con
l’art. 34, comma 3, lettera d), del citato d.l. n. 201 del 2011, secondo cui
sono abrogate le restrizioni concernenti il «divieto, nei confronti di alcune
categorie, di commercializzazione di taluni prodotti» e con l’art. 3, comma 9,
lettera f), del d.l. n. 138 del 2011, secondo cui tra le restrizioni abrogate è
compresa ogni «limitazione dell’esercizio di una attività economica ad alcune
categorie o divieto, nei confronti di alcune categorie, di commercializzazione
di taluni prodotti».
Si tratta, anche in questo
caso, di disposizioni statali dettate per evitare restrizioni alla libera
concorrenza e discriminazioni concorrenziali tra operatori, come tali
rientranti nell’esercizio della competenza esclusiva dello Stato in materia di
«tutela della concorrenza». Conseguentemente, le disposizioni regionali che,
come quelle oggetto del presente giudizio, mantengano tali tipi di restrizioni
sono costituzionalmente illegittime, per violazione dell’art. 117, secondo
comma, lettera e), Cost.
5.– Il Presidente del
Consiglio dei ministri contesta la legittimità costituzionale dell’art. 17,
commi 3 e 4, della legge reg. Puglia n. 24 del 2015, in quanto, richiedendo
apposite autorizzazioni all’esercizio delle attività commerciali da parte del
Comune, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettere e) e m), Cost.
La questione è fondata.
5.1.– In primo luogo deve
osservarsi che gli impugnati commi 3 e 4 dell’art. 17 prevedono,
rispettivamente, che «[l]’apertura, il trasferimento di sede, il cambiamento di
settore di vendita e l’ampliamento della superficie di una media o grande
struttura di vendita sono soggetti ad autorizzazione rilasciata dal comune
competente per territorio» (comma 3) e che «[l]’apertura, il trasferimento di
sede, il cambiamento di settore di vendita e l’ampliamento della superficie di
un centro commerciale e di un’area commerciale integrata necessitano di: a)
autorizzazione per il centro come tale, in quanto media o grande struttura di
vendita, che è richiesta dal suo promotore o, in assenza, congiuntamente da
tutti i titolari degli esercizi commerciali che vi danno vita, purché associati
per la creazione del centro commerciale; b) autorizzazione o SCIA, a seconda
delle dimensioni, per ciascuno degli esercizi al dettaglio presenti nel centro»
(comma 4).
Le disposizioni regionali
censurate introducono la necessità di un’autorizzazione comunale finalizzata
fra l’altro a consentire l’esercizio del commercio, in ordine alla quale
rimette ai Comuni l’individuazione di procedure e presupposti specifici.
La previsione di un tale
provvedimento autorizzatorio, a maggior ragione se di
contenuto indefinito e rimesso sostanzialmente alla discrezionalità
dell’amministrazione, contraddice esplicitamente i principi di semplificazione
e liberalizzazione stabiliti dall’art. 19 della legge n. 241 del 1990 – secondo
cui la SCIA è sostitutiva di ogni atto di autorizzazione o licenza anche per
l’esercizio di un’attività commerciale – e dagli artt. 31 e 34 del d.l. n. 201
del 2011, che hanno affermato la libertà di apertura, accesso, organizzazione e
svolgimento delle attività economiche, abolendo le autorizzazioni espresse e i
controlli ex ante, con la sola esclusione degli atti amministrativi di assenso
o autorizzazione o di controllo, posti a tutela di specifici interessi pubblici
costituzionalmente rilevanti e compatibili con l’ordinamento dell’Unione
europea, secondo quanto stabilito dalla Direttiva n. 2006/123/CE relativa ai
servizi nel mercato interno, e comunque nel rispetto del principio di
proporzionalità.
Poiché le citate
disposizioni statali in materia di semplificazione, in quanto riferite ad
attività economiche, costituiscono principi di liberalizzazione, e rientrano
anzitutto nella competenza in tema di tutela della concorrenza (sentenza n. 8 del
2013 e n.
200 del 2012); d’altra parte, questa Corte ha ritenuto che, in generale, i
principi di semplificazione amministrativa sono espressione dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (sentenza n. 164 del
2012); sicché, la loro violazione determina un vulnus all’art. 117, secondo
comma, lettere e) e m), Cost., che riserva in via esclusiva alla competenza
dello Stato la legislazione in materia.
6.– Il Presidente del
Consiglio dei ministri ha impugnato anche l’art. 18 della legge reg. Puglia n.
24 del 2015, che stabilisce la previsione di una zonizzazione commerciale negli
strumenti urbanistici generali e la necessità di piani attuativi per gli
insediamenti commerciali di maggiori dimensioni, ritenendo che anch’esso violi
l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
La questione non è fondata.
6.1.– L’impugnato art. 18
stabilisce che i Comuni individuino le «aree idonee all’insediamento di
strutture commerciali attraverso i propri strumenti urbanistici, in conformità
alle finalità di cui all’articolo 2, con particolare riferimento al
dimensionamento della funzione commerciale», prevedendo altresì che
l’insediamento di «grandi strutture di vendita e di medie strutture di vendita
di tipo M3 è consentito solo in aree idonee sotto il profilo urbanistico e oggetto
di piani urbanistici attuativi anche al fine di prevedere le opere di
mitigazione ambientale, di miglioramento dell’accessibilità e/o di riduzione
dell’impatto socio economico, ritenute necessarie».
In questo campo la
legislazione statale è intervenuta con l’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del
2011, che è bene richiamare nel suo tenore testuale: «costituisce principio
generale dell’ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi
commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri
vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della
salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei
beni culturali. Le Regioni e gli enti locali adeguano i propri ordinamenti alle
prescrizioni del presente comma entro il 30 settembre 2012, potendo prevedere
al riguardo, senza discriminazioni tra gli operatori, anche aree interdette
agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi
attività produttive e commerciali solo qualora vi sia la necessità di garantire
la tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente
urbano, e dei beni culturali».
In riferimento al citato
comma 2 dell’art. 31, la Corte costituzionale (sentenza n. 104 del
2014) ha ritenuto che si tratta di un legittimo intervento del legislatore
statale nell’esercizio della competenza esclusiva in materia di concorrenza.
Tuttavia, la disposizione non preclude ogni ulteriore intervento normativo
regionale sul punto. Occorre, infatti, osservare che, a differenza di quanto
avvenuto con riferimento agli orari degli esercizi commerciali, pure
espressione della competenza statale a tutela della concorrenza, la legge dello
Stato non pone divieti assoluti di regolazione, né obblighi assoluti di
liberalizzazione, ma, al contrario, consente alle Regioni e agli enti locali la
possibilità di prevedere «anche aree interdette agli esercizi commerciali,
ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e
commerciali», purché ciò avvenga «senza discriminazioni tra gli operatori» e a
tutela di specifici interessi di adeguato rilievo costituzionale, quali la
tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente
urbano, e dei beni culturali.
6.2.– Tale specifica
apertura al legislatore regionale per la regolazione delle zone adibite alle
attività commerciali attraverso gli strumenti urbanistici corrisponde, del
resto, a un orientamento della giurisprudenza di questa Corte – espresso a
partire dalla sentenza
n. 200 del 2012 – che adotta una nozione di liberalizzazione intesa come
«razionalizzazione della regolazione», compatibile con il mantenimento degli
oneri «necessari alla tutela di superiori beni costituzionali».
Similmente, la sentenza n. 8 del
2013 ha ribadito che «in vista di una progressiva e ordinata
liberalizzazione delle attività economiche» siano fatte salve «le
regolamentazioni giustificate da un interesse generale, costituzionalmente
rilevante e compatibile con l’ordinamento comunitario», che siano «adeguate e
proporzionate alle finalità pubbliche perseguite», così da «garantire che le
dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con l’utilità sociale e con
gli altri principi costituzionali».
In questa prospettiva,
prosegue la Corte con la medesima decisione n. 8 del 2013, «i principi di
liberalizzazione presuppongono che le Regioni seguitino ad esercitare le
proprie competenze in materia di regolazione delle attività economiche», sia
pure «in base ai principi indicati dal legislatore statale».
Tale orientamento ha
consentito il formarsi di una giurisprudenza costituzionale che non esclude
ogni intervento legislativo regionale regolativo delle attività economiche, ma
vigila sulla legittimità e proporzionalità degli stessi rispetto al perseguimento
di un interesse di rilievo costituzionale: tale è stato ritenuto ad esempio, un
precetto regionale, in materia di distribuzione del carburante, contenente un
"obbligo conformativo” alla norma statale, di carattere relativo e non
assoluto, a tutela di «specifici interessi pubblici» (sentenza n. 105 del
2016).
6.3.– Non contraddice detto
orientamento la sentenza
n. 104 del 2014 con cui questa Corte ha ritenuto costituzionalmente
illegittime alcune disposizioni regionali che precludevano l’insediamento di
esercizi commerciali in determinate zone, in particolare nel centro storico
degli agglomerati urbani. In tale caso, infatti, l’illegittimità costituzionale
è stata dichiarata in ragione dell’assolutezza del divieto stabilito dal
legislatore regionale e della discriminazione tra operatori che ne sarebbe
derivata. Anche nella suddetta decisione, la Corte non ha mancato di
sottolineare che l’art. 31 del d.l. n. 201 del 2011 consente di introdurre
limiti alla apertura di nuovi esercizi commerciali per ragioni di tutela
dell’ambiente «ivi incluso l’ambiente urbano» e attribuisce alle Regioni la
possibilità di prevedere «anche aree interdette agli esercizi commerciali,
ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e
commerciali». La dichiarazione di illegittimità costituzionale pronunciata in
quel caso si radica nella assolutezza del divieto stabilito dalla norma
regionale e, in definitiva, nella sua sproporzione rispetto alle finalità
perseguite, tale da frapporre una ingiustificata barriera all’ingresso nel
mercato, discriminatoria nei confronti dei nuovi operatori.
6.4.– Ciò premesso sui
principi da applicare nella specie, va osservato che la previsione di
zonizzazioni commerciali negli strumenti urbanistici generali e di piani
attuativi per gli insediamenti più grandi, rientra proprio in quegli spazi di
intervento regionale che lo stesso legislatore statale, con il citato art. 31
del decreto-legge n. 201 del 2011, ha salvaguardato a condizione che, come è
possibile e doveroso fare, la zonizzazione commerciale non si traduca
nell’individuazione di aree precluse allo sviluppo di esercizi commerciali in
termini assoluti e che le finalità del «dimensionamento della funzione
commerciale» e dell’«impatto socio-economico», siano volte alla cura di interessi
di rango costituzionale, indicati nella medesima disposizione e che risultano
coerenti con quelli dichiaratamente perseguiti dalla impugnata legge regionale
n. 24 del 2015 (art. 2, richiamato esplicitamente dall’art. 18).
La possibilità, pertanto,
che la citata zonizzazione sia utilizzata per proteggere dalla concorrenza gli
esercizi esistenti, confinando l’apertura dei nuovi in aree distanti o non
competitive, concerne non la previsione legislativa regionale, quanto
l’eventuale illegittimo esercizio in concreto del potere amministrativo in
campo urbanistico da parte dal singolo Comune, censurabile nelle opportune sedi
di giustizia amministrativa, senza che esso possa dirsi in alcun modo
legittimato dalle disposizioni regionali in esame e dovendosi al contrario
ritenere in contrasto con esse, come correttamente interpretate.
In conclusione, sul punto,
la questione di legittimità costituzionale concernente l’art. 18 citato non è
fondata.
7.– Il Presidente del
Consiglio dei ministri ha infine impugnato l’art. 45 della legge reg. Puglia n.
24 del 2015, dubitando della sua legittimità in relazione all’art. 117, secondo
comma, lettera e), Cost.
La questione è fondata.
7.1.– Il citato art. 45
stabilisce che i «nuovi» impianti di distribuzione del carburante devono essere
dotati di almeno un prodotto ecocompatibile GPL o metano, «a condizione che non
vi siano ostacoli tecnici o oneri economici eccessivi».
Si tratta di una norma che
introduce come regola un obbligo asimmetrico, in quanto gravante solo sui nuovi
distributori, pur prevedendosi in via di eccezione la possibilità di derogarvi,
ove l’interessato ne dimostri l’eccessiva onerosità sul piano tecnico o
economico.
La legislazione statale,
invece, con l’art. 17, comma 5, del d.l. n. 1 del 2012, convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 27 del 2012, pone come
regola, a tutela della concorrenza, la libertà d’iniziativa da parte dei
singoli distributori, stabilendo solo in via d’eccezione la possibilità di
imporre obblighi asimmetrici, pur sempre subordinati al rispetto della
proporzionalità.
Nel caso della legge
regionale in esame, l’onere della prova dell’eccessiva onerosità ricade
sull’operatore economico, mentre nel caso della legge statale esso grava, al
contrario, sull’Ente che rilascia l’autorizzazione.
7.2.– Questa Corte, con la sentenza n. 125 del
2014, ha ritenuto – pronunciandosi sull’art. 43 della legge della Regione
Umbria 6 maggio 2013, n. 10 (Disposizioni in materia di commercio per
l’attuazione del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 convertito, con
modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 e del decreto-legge 24
gennaio 2012, n. 1 convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n.
27. Ulteriori modifiche ed integrazioni delle leggi regionali 3 agosto 1999, n.
24, 20 gennaio 2000, n. 6 e 23 luglio 2003, n. 13), di contenuto del tutto
analogo a quella impugnata in questa sede – che simili previsioni regionali
determinano una violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in
materia di tutela della concorrenza, in quanto rendono eccessivamente oneroso
l’ingresso di nuovi operatori entranti in un determinato settore di mercato,
con correlativa discriminazione concorrenziale tra operatori già presenti e
quelli che intendano accedervi.
Anche la già citata sentenza n. 105 del
2016 – che pure ha ritenuto non illegittimo l’art. 1, comma 1, lettere d)
ed e), della legge della Regione Lombardia 19 dicembre 2014, n. 34
(Disposizioni in materia di vendita dei carburanti per autotrazione. Modifiche
al titolo II, capo IV della legge regionale 2 febbraio 2010, n. 6 ‒ Testo
unico delle leggi regionali in materia di commercio e fiere), che prevedeva la
presenza contestuale di più tipologie di carburanti – si inserisce coerentemente
nel corso dei precedenti della Corte sul punto. Nella specie la violazione
costituzionale è stata esclusa rimarcandosi, in particolare, che la legge
regionale censurata introduceva l’obbligo anche per gli impianti esistenti in
caso di loro ristrutturazione, così da attenuare se non escludere, l’asimmetria
tra vecchi e nuovi operatori; inoltre, si è sottolineata la transitorietà del
vincolo, previsto «fino al completo raggiungimento di tutti gli obiettivi di
programmazione regionale».
7.3.– Tali peculiarità di
disciplina – che hanno indotto questa Corte a evidenziare specifici caratteri
di flessibilità nella legge regionale lombarda sui distributori di carburante,
così da superare il vaglio di legittimità costituzionale – non sussistono, per
contro, in riferimento alla legge della Regione Puglia qui censurata, del tutto
sovrapponibile a quella umbra dichiarata illegittima.
Non vi è infatti, nella
legge regionale impugnata in questa sede, alcun elemento da cui desumere
margini di flessibilità o caratteri che denotino la transitorietà del vincolo.
Tali rilievi conducono
questa Corte a esprimere una valutazione negativa della ragionevolezza e della
proporzionalità della norma regionale impugnata, in coerenza con i precedenti
in tal senso.
per questi
motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 9, comma 4, 13,
comma 7, lettere a) e c), 17, commi 3 e 4, e 45 della legge della Regione
Puglia 16 aprile 2015, n. 24 (Codice del Commercio);
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 18 della legge reg. Puglia n. 24 del 2015, promosse dal Presidente
del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe, in riferimento
agli artt. 3, 41, 97 e 117, primo comma, Cost.;
3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale
degli artt. 9, comma 4, 13, comma 7, lettere a) e c), e 45 della legge reg.
Puglia n. 24 del 2015, promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri con
il ricorso indicato in epigrafe, in riferimento all’art. 117, primo comma,
Cost.;
4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 18 della legge reg. Puglia n. 24 del 2015, promossa dal Presidente
del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe, in riferimento
all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 ottobre 2016.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 novembre
2016.