SENTENZA N. 125
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Gaetano SILVESTRI Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 9, 43 e 44 della legge della Regione Umbria 6 maggio 2013, n. 10 (Disposizioni in materia di commercio per l’attuazione del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 e del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27. Ulteriori modifiche ed integrazioni della legge regionale 3 agosto 1999, n. 24, della legge regionale 20 gennaio 2000, n. 6 e della legge regionale 23 luglio 2003, n. 13), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato l’8-11 luglio 2013, depositato in cancelleria l’11 luglio 2013 ed iscritto al n. 74 del registro ricorsi 2013.
Udito nell’udienza pubblica del 25 marzo 2014 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;
udito l’avvocato dello Stato Diego Giordano per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.− Con ricorso notificato l’8-11 luglio 2013 e depositato il successivo 11 luglio il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato, in riferimento agli artt. 41 e 117, primo e secondo comma, lettera e), della Costituzione, gli artt. 9, 43 e 44 della legge della Regione Umbria 6 maggio 2013, n. 10 (Disposizioni in materia di commercio per l’attuazione del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 e del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27. Ulteriori modifiche ed integrazioni della legge regionale 3 agosto 1999, n. 24, della legge regionale 20 gennaio 2000, n. 6 e della legge regionale 23 luglio 2003, n. 13).
1.1.− L’art. 9 della legge reg. n. 10 del 2013 integra le previsioni dell’art. 10-bis della legge della Regione Umbria 3 agosto 1999, n. 24 (Disposizioni in materia di commercio in attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114), rubricato «poli commerciali».
Preliminarmente, l’Avvocatura dello Stato precisa che la definizione di «polo commerciale» è frutto dell’elaborazione legislativa regionale in materia, non rinvenendosi, nella legislazione nazionale, una simile definizione né, tantomeno, una specifica disciplina.
Ciò premesso, il ricorrente osserva che il comma 3-quater aggiunto all’art. 10-bis dalla norma impugnata classifica come polo commerciale «gli esercizi commerciali inseriti in un medesimo piano attuativo con progetto di carattere unitario e oggetto di richiesta di approvazione unica oltre che di autorizzazione per ciascuna attività commerciale prevista dal medesimo progetto», e precisa che «Sono classificati polo commerciale, inoltre, gli esercizi commerciali inseriti in: a) edifici contigui i cui perimetri si tocchino; b) edifici nei quali sono inseriti più esercizi commerciali in piani sovrastanti; c) edifici adiacenti i cui perimetri si trovino ad una distanza lineare inferiore a 40 metri; d) edifici adiacenti i cui perimetri si trovino ad una distanza lineare superiore a 40 metri, qualora vi siano collegamenti strutturali di qualsiasi tipo tra detti edifici; e) un unico edificio dotato di più ingressi autonomi e indipendenti e servizi non gestiti unitariamente».
Il comma 3-quinquies aggiunto al medesimo art. 10-bis della legge reg. n. 24 del 1999 prescrive, ai fini del precedente comma, che «Il perimetro dell’edificio e le distanze tra gli edifici sono calcolate con le modalità stabilite dal Reg. reg. 3 novembre 2008, n. 9 (Disciplina di attuazione dell’art. 12, comma 1, lettere a e d-bis della legge regionale 18 febbraio 2004, n. 1 «Norme per l’attività edilizia» − Criteri per regolamentare l’attività edilizia e per il calcolo delle superfici, delle volumetrie, delle altezze e delle distanze relative alla edificazione). Ai fini della classificazione di polo commerciale, sono considerati anche gli edifici separati da strade delle tipologie F-Strade locali e F-bis-Itinerari ciclopedonali di cui all’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada)».
Orbene, secondo il ricorrente, con le norme regionali sopra citate viene, di fatto, introdotta l’eventualità che un esercizio di vicinato debba essere sottoposto ad autorizzazione preventiva, in quanto facente parte di un «polo commerciale» come definito dalla norma, potendosi pertanto verificare la possibilità che, a priori, l’esercente non sia in condizioni di conoscere i requisiti di accesso all’attività stessa. Infatti, l’avvio dell’attività verrebbe sottoposto a disposizioni specifiche, in relazione alla superficie di vendita complessiva eventualmente derivante dall’appartenenza, appunto, ad un polo commerciale che, in alcuni casi, non è all’evidenza chiaramente individuabile in tale fase; e ciò anche alla luce dei complessi criteri previsti al comma 3-quinquies.
Tale interpretazione sarebbe ulteriormente confermata dal comma 3-ter dell’art. 10-bis, sempre introdotto dalla norma impugnata, secondo il quale: «La diversa articolazione interna della superficie di vendita degli esercizi commerciali presenti in un polo commerciale sono soggette (recte: è soggetta) a SCIA da presentare secondo le modalità di cui all’articolo 4-bis, salvo superamento degli standard urbanistici e di viabilità originariamente previsti. In tal caso trova applicazione la procedura di autorizzazione di cui al comma 3».
Le citate norme regionali, quindi, introdurrebbero regole restrittive e discriminatorie, in contrasto con i principi di liberalizzazione contenuti nell’art. 31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, il quale stabilisce che «Secondo la disciplina dell’Unione Europea e nazionale in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, costituisce principio generale dell’ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali […]». Sarebbe violato quindi l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., nonché il principio di libertà dell’iniziativa economica, di cui all’art. 41 Cost.
2.− La seconda delle norme impugnate con il presente ricorso è l’art. 43 della legge reg. n. 10 del 2013 che − nel sostituire l’art. 7 della legge della Regione Umbria 23 luglio 2003, n. 13 (Disciplina della rete distributiva dei carburanti per autotrazione), − prescrive, al comma 1, che i nuovi impianti di distribuzione dei carburanti eroghino «benzina e gasolio e almeno un prodotto a scelta fra alimentazione elettrica, metano, GPL, biodiesel per autotrazione, idrogeno o relative miscele, a condizione che tale ultimo obbligo non comporti ostacoli tecnici o oneri economici eccessivi e non proporzionati alle finalità dell’obbligo».
Tale previsione non sarebbe in linea con il disposto del comma 5 dell’art. 17 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 marzo 2012, n. 27, il quale, nel modificare l’art. 83-bis, comma 17, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133, prevede che, al fine di garantire il pieno rispetto delle disposizioni dell’ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e di assicurare il corretto e uniforme funzionamento dei mercato, l’installazione e l’esercizio di un impianto di distribuzione di carburanti non possono essere subordinati, tra l’altro, all’obbligo della erogazione «di più tipologie di carburanti, ivi incluso il metano per autotrazione, se tale ultimo obbligo comporta ostacoli tecnici o oneri economici eccessivi e non proporzionali alle finalità dell’obbligo».
Pertanto, la norma regionale nel prescrivere che i nuovi impianti debbano erogare «benzina e gasolio e almeno un prodotto a scelta tra alimentazione elettrica, metano, GPL, biodiesel per autotrazione, idrogeno o relative miscele», anche se a condizione che tale ultimo obbligo non comporti ostacoli tecnici o oneri economici eccessivi e non proporzionati alle finalità dell’obbligo, introdurrebbe una misura limitativa della concorrenza, con violazione dell’art. 117, primo e secondo comma, lettera e), Cost.
3.− La terza norma impugnata è l’art. 44 della legge reg. n. 10 del 2013 che, nell’aggiungere l’art. 7-ter alla legge reg. n. 13 del 2003, prescrive, al comma 1, con riguardo agli impianti cosiddetti “ghost”, che «Possono essere installati nuovi impianti dotati di apparecchiature self-service pre-pagamento funzionanti senza la presenza del gestore, se classificati di pubblica utilità ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera q) e a condizione che ne sia garantita adeguata sorveglianza secondo le modalità stabilite dal Comune»
La norma, secondo il ricorrente mediante l’inciso «se classificati di pubblica utilità ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera q)» introdurrebbe, anche in questo caso, una misura restrittiva della concorrenza in quanto condizionerebbe l’apertura di un impianto senza gestore al rispetto del requisito prescritto dal citato art. 2, comma 1, lettera q), ovvero l’essere o l’unico impianto del Comune o un impianto posto ad almeno dieci chilometri dal punto di distribuzione più vicino anche se ubicato sul territorio di altro Comune limitrofo.
Tale previsione, condizionando l’apertura di impianti senza gestore sarebbe in contrasto con le norme che hanno liberalizzato gli impianti di distribuzione dei carburanti completamente automatizzati al di fuori dai centri abitati contenute nell’art. 18 del d.l. n. 1 del 2012, secondo cui non possono essere posti vincoli o limitazioni all’utilizzo continuativo delle apparecchiature per la modalità di rifornimento senza servizio con pagamento anticipato, nonché con l’art. 28, comma 7, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111.
La norma impugnata, pertanto, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. che riserva in via esclusiva allo Stato la competenza legislativa nella materia «tutela della concorrenza».
4.− La Regione non si è costituita.
Considerato in diritto
1.− Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato, in riferimento agli artt. 41 e 117, primo e secondo comma, lettera e), della Costituzione, gli artt. 9, 43 e 44 della legge della Regione Umbria 6 maggio 2013, n. 10 (Disposizioni in materia di commercio per l’attuazione del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 e del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27. Ulteriori modifiche ed integrazioni della legge regionale 3 agosto 1999, n. 24, della legge regionale 20 gennaio 2000, n. 6 e della legge regionale 23 luglio 2003, n. 13).
1.1.− Il ricorrente ritiene che gli artt. 9, 43 e 44, della legge reg. n. 10 del 2013 siano in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. che riserva alla competenza legislativa dello Stato la materia «tutela della concorrenza».
Pertanto, prima di esaminare nel dettaglio le singole norme censurate, si rende opportuna una premessa di carattere generale sulla giurisprudenza di questa Corte in materia di «tutela della concorrenza».
La giurisprudenza costituzionale è costante nell’affermare che la nozione di concorrenza di cui al secondo comma, lettera e), dell’art. 117 Cost. riflette quella operante in ambito comunitario e comprende: a) sia gli interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali le misure legislative di tutela in senso proprio, che contrastano gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e che ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione; b) sia le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, rimuovendo, cioè, in generale, i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche (ex multis, sentenze n. 270 e n. 45 del 2010, n. 160 del 2009, n. 430 e n. 401 del 2007).
In questa seconda accezione, attraverso la «tutela della concorrenza», vengono perseguite finalità di ampliamento dell’area di libera scelta dei cittadini e delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta, di beni e di servizi (sentenza n. 401 del 2007).
Come questa Corte ha più volte osservato, «Si tratta dell’aspetto più precisamente di promozione della concorrenza, che costituisce una delle leve della politica economica statale e, pertanto, non può essere intesa soltanto in senso statico, come garanzia di interventi di regolazione e ripristino di un equilibrio perduto, ma anche in quell’accezione dinamica, ben nota al diritto comunitario, che giustifica misure pubbliche volte a ridurre squilibri, a favorire le condizioni di un sufficiente sviluppo del mercato o ad instaurare assetti concorrenziali» (sentenze n. 299 del 2012, n. 80 del 2006, n. 242 e n. 175 del 2005, n. 272 e n. 14 del 2004). In particolare, con riferimento alle misure di liberalizzazione, questa Corte ha avuto modo di affermare che «la liberalizzazione da intendersi come razionalizzazione della regolazione, costituisce uno degli strumenti di promozione della concorrenza capace di produrre effetti virtuosi per il circuito economico. Una politica di “ri-regolazione” tende ad aumentare il livello di concorrenzialità dei mercati e permette ad un maggior numero di operatori economici di competere, valorizzando le proprie risorse e competenze. D’altra parte, l’efficienza e la competitività del sistema economico risentono della qualità della regolazione, la quale condiziona l’agire degli operatori sul mercato: una regolazione delle attività economiche ingiustificatamente intrusiva – cioè non necessaria e sproporzionata rispetto alla tutela di beni costituzionalmente protetti (sentenze n. 247 e n. 152 del 2010, n. 167 del 2009) – genera inutili ostacoli alle dinamiche economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori e degli stessi lavoratori e, dunque, in definitiva reca danno alla stessa utilità sociale. L’eliminazione degli inutili oneri regolamentari, mantenendo però quelli necessari alla tutela di superiori beni costituzionali, è funzionale alla tutela della concorrenza e rientra a questo titolo nelle competenze del legislatore statale» (sentenze n. 299 e n. 200 del 2012).
Infine, si deve precisare che la materia «tutela della concorrenza», dato il suo carattere «finalistico», non è una «materia di estensione certa» o delimitata, ma è configurabile come «trasversale», corrispondente ai mercati di riferimento delle attività economiche incise dall’intervento e in grado di influire anche su materie attribuite alla competenza legislativa, concorrente o residuale, delle Regioni (sentenze n. 80 del 2006, n. 175 del 2005, n. 272 e n. 14 del 2004).
2.− La prima questione sottoposta all’esame di questa Corte è relativa all’art. 9 della legge reg. n. 10 del 2013 − che integra la disciplina dei «poli commerciali», di cui all’art. 10-bis della legge della Regione Umbria 3 agosto 1999, n. 24 (Disposizioni in materia di commercio in attuazione del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114), aggiungendovi i commi da 3-bis a 3-sexies.
Secondo il ricorrente le norme impugnate introdurrebbero regole discriminatorie e restrittive della concorrenza rendendo più difficoltosa l’apertura di nuovi esercizi commerciali, e, pertanto, le stesse si porrebbero in contrasto con i principi di liberalizzazione contenuti nell’art. 31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, e, di conseguenza, con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. che riserva alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la materia «tutela della concorrenza».
2.1.− La questione è fondata.
L’art. 10-bis, comma 1, della legge reg. n. 24 del 1999 classifica il polo commerciale come «un complesso di esercizi contigui o adiacenti la cui superficie di vendita complessiva sia pari o superiore alle dimensioni di una media struttura di tipo M3, comprendente almeno una media struttura di vendita e costituente un’unica entità economico commerciale. Il polo, a seconda della superficie, è considerato un’unica media struttura M3 o un’unica grande struttura di vendita».
Nella classificazione degli esercizi commerciali che risale al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), non è ricompresa la categoria del «polo commerciale».
L’art. 10-bis della legge reg. n. 24 del 1999, nella parte non modificata dalle norme impugnate, al comma 2 prevede che: «L’apertura di un polo commerciale avviene sulla base di un apposito progetto o mediante l’avvio di più operazioni formalmente distinte di apertura, trasferimento o ampliamento o accorpamento di attività commerciali in un arco di tempo inferiore a trentasei mesi. Tali operazioni sono considerate contestuali quando vengono superati i limiti dimensionali minimi previsti per le tipologie G e M3». Al comma 3 prevede che: «La domanda di autorizzazione per il polo commerciale è presentata con la stessa procedura di cui all’articolo 18 [vale a dire mediante il procedimento per il rilascio delle autorizzazioni per le grandi strutture di vendita e per le medie strutture superiori di tipologia M3] dal promotore o dal legale rappresentante dell’organismo di gestione del polo o, in mancanza, dal titolare dell’esercizio che, con il proprio ingresso nel polo, fa superare i limiti dimensionali minimi previsti». Al comma 3-quater stabilisce che: «Sono classificati polo commerciale gli esercizi commerciali inseriti in un medesimo piano attuativo con progetto di carattere unitario e oggetto di richiesta di approvazione unica oltre che di autorizzazione per ciascuna attività commerciale prevista dal medesimo progetto. Sono classificati polo commerciale, inoltre, gli esercizi commerciali inseriti in: a) edifici contigui i cui perimetri si tocchino; b) edifici nei quali sono inseriti più esercizi commerciali in piani sovrastanti; c) edifici adiacenti i cui perimetri si trovino ad una distanza lineare inferiore a 40 metri; d) edifici adiacenti i cui perimetri si trovino ad una distanza lineare superiore a 40 metri, qualora vi siano collegamenti strutturali di qualsiasi tipo tra detti edifici; e) un unico edificio dotato di più ingressi autonomi e indipendenti e servizi non gestiti unitariamente».
Dalla lettura della disciplina sopra riportata emerge come il legislatore regionale attribuisca la qualifica di «polo commerciale» ad esercizi commerciali per il solo fatto che questi siano adiacenti o vicini e a prescindere dalla volontà degli esercenti di unirsi in un polo commerciale.
In tali casi, dunque, il legislatore regionale sottopone anche gli esercizi di vicinato alla complessa procedura autorizzatoria prevista per le grandi strutture di vendita, o per le medie strutture superiori di tipologia M3, mentre essi, altrimenti, sarebbero soggetti, in base all’art. 4-bis della medesima legge regionale, alla segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) da presentare, ai sensi dell’art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), allo Sportello unico per le attività produttive e per l’edilizia (SUAPE) del Comune competente per territorio.
Risulta evidente, pertanto, che la norma impugnata introduce nuovi vincoli all’apertura degli esercizi commerciali ponendosi in contrasto, tra l’altro, con i principi di liberalizzazione posti: 1) dall’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011 secondo cui: «costituisce principio generale dell’ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali»; 2) dall’art. 1 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 marzo 2012, n. 27, che ha stabilito, in attuazione del principio di libertà di iniziativa economica sancito dall’art. 41 Cost. e del principio di concorrenza sancito dal Trattato dell’Unione europea, che sono abrogate «a) le norme che prevedono limiti numerici, autorizzazioni, licenze, nulla osta o preventivi atti di assenso dell’amministrazione comunque denominati per l’avvio di un’attività economica non giustificati da un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l’ordinamento comunitario nel rispetto del principio di proporzionalità; b) le norme che pongono divieti e restrizioni alle attività economiche non adeguati o non proporzionati alle finalità pubbliche perseguite, nonché le disposizioni di pianificazione e programmazione territoriale o temporale autoritativa con prevalente finalità economica o prevalente contenuto economico, che pongono limiti, programmi e controlli non ragionevoli, ovvero non adeguati ovvero non proporzionati rispetto alle finalità pubbliche dichiarate e che in particolare impediscono, condizionano o ritardano l’avvio di nuove attività economiche o l’ingresso di nuovi operatori economici ponendo un trattamento differenziato rispetto agli operatori già presenti sul mercato, operanti in contesti e condizioni analoghi, ovvero impediscono, limitano o condizionano l’offerta di prodotti e servizi al consumatore, nel tempo nello spazio o nelle modalità, ovvero alterano le condizioni di piena concorrenza fra gli operatori economici oppure limitano o condizionano le tutele dei consumatori nei loro confronti».
Infine, le norme impugnate, nell’assoggettare gli esercizi di vicinato, nei casi previsti dal comma 3-quater dell’art. 10-bis, alla procedura di autorizzazione delle medie e grandi strutture di vendita, introducono nuovamente dei vincoli anche in relazione al rispetto di distanze minime obbligatorie tra attività commerciali appartenenti alla medesima tipologia di esercizio in violazione dell’art. 3, comma 1, lettera b), del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 4 agosto 2006, n. 248.
Tale ultima disposizione nel fissare le regole di tutela della concorrenza nel settore della distribuzione commerciale pone un divieto espresso all’introduzione, da parte del legislatore regionale, di limiti relativi al «rispetto di distanze minime obbligatorie tra attività commerciali appartenenti alla medesima tipologia di esercizio».
In conclusione, le norme impugnate si prestano a reintrodurre limiti e vincoli in contrasto con la normativa statale di liberalizzazione sopra indicata, così invadendo la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela della concorrenza» e violando, quindi, l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
Restano assorbiti gli altri profili di illegittimità costituzionale dedotti nel ricorso.
3.− La seconda questione sollevata dal Presidente del Consiglio con il ricorso in esame è relativa all’art. 43 della legge reg. n. 10 del 2013 che, nel sostituire l’art. 7 della legge della Regione Umbria 23 luglio 2003, n. 13 (Disciplina della rete distributiva dei carburanti per autotrazione), concernente i nuovi impianti di distribuzione dei carburanti, prescrive, al comma 1, che i nuovi impianti eroghino «benzina e gasolio e almeno un prodotto a scelta tra alimentazione elettrica, metano, GPL, biodiesel per autotrazione, idrogeno o relative miscele, a condizione che tale ultimo obbligo non comporti ostacoli tecnici o oneri economici eccessivi e non proporzionati alle finalità dell’obbligo».
Secondo il ricorrente la norma violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. che riserva alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la materia «tutela della concorrenza», introducendo una disciplina più restrittiva di quella prevista dall’art. 83-bis, comma 17, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133, secondo cui: «Al fine di garantire il pieno rispetto delle disposizioni dell’ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e di assicurare il corretto e uniforme funzionamento del mercato, l’installazione e l’esercizio di un impianto di distribuzione di carburanti non possono essere subordinati alla chiusura di impianti esistenti né al rispetto di vincoli, con finalità commerciali, relativi a contingentamenti numerici, distanze minime tra impianti e tra impianti ed esercizi o superfici minime commerciali o che pongono restrizioni od obblighi circa la possibilità di offrire, nel medesimo impianto o nella stessa area, attività e servizi integrativi o che prevedano obbligatoriamente la presenza contestuale di più tipologie di carburanti, ivi incluso il metano per autotrazione, se tale ultimo obbligo comporta ostacoli tecnici o oneri economici eccessivi e non proporzionali alle finalità dell’obbligo».
3.1.− La questione è fondata.
Anche in questo caso la norma regionale introduce vincoli più restrittivi all’apertura di nuovi impianti di distribuzione di carburanti, prevedendo l’obbligo di erogare contestualmente gasolio e benzina in contrasto con quanto previsto dall’83-bis, comma 17, del d.l. n. 112 del 2008 che vieta restrizioni che prevedano obbligatoriamente la presenza contestuale di più tipologie di carburanti.
In altri termini la norma impugnata introduce significative e sproporzionate barriere all’ingresso nei mercati, non giustificate dal perseguimento di specifici interessi pubblici, condizionando o ritardando l’ingresso di nuovi operatori e, conseguentemente, ingenerando ingiustificate discriminazioni a danno della concorrenza, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
4.− Il ricorrente, infine, solleva questione di costituzionalità dell’art. 44, della legge reg. n. 10 del 2013 che nell’aggiungere l’art. 7-ter alla legge reg. n. 13 del 2003, prescrive al comma 1, che «Possono essere installati nuovi impianti dotati di apparecchiature self-service pre-pagamento funzionanti senza la presenza del gestore, se classificati di pubblica utilità ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera q) e a condizione che ne sia garantita adeguata sorveglianza secondo le modalità stabilite dal Comune».
L’art. 2, comma 1, lettera q), della legge reg. n. 13 del 2003, richiamato dalla norma impugnata, fornisce la seguente nozione di «impianto di pubblica utilità», definendolo: «l’unico impianto del Comune o l’impianto posto ad almeno dieci chilometri dal punto di distribuzione più vicino anche se ubicato sul territorio di altro Comune limitrofo».
Ne consegue che il legislatore regionale, con la nuova formulazione dell’art. 7-ter, subordina l’installazione di un nuovo impianto dotato di apparecchiature self-service e pre-pagamento funzionanti senza la presenza del gestore alla condizione che esso sia l’unico del Comune o che quello più vicino sia ad almeno dieci chilometri di distanza anche se ubicato in un Comune limitrofo.
Il ricorrente ritiene che la norma violi la competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia della «tutela della concorrenza» ex art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
4.1.− La questione è fondata.
La norma impugnata pone ulteriori e diversi limiti all’apertura di nuovi impianti che utilizzano apparecchiature per la modalità di rifornimento senza servizio con pagamento anticipato in contrasto con quanto stabilito dal d.l. n. 1 del 2012, che all’art. 18 rubricato «Liberalizzazione degli impianti completamente automatizzati fuori dei centri abitati», ha modificato il comma 7 dell’art. 28 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, prevedendo che «Nel rispetto delle norme di circolazione stradale, presso gli impianti stradali di distribuzione carburanti posti al di fuori dei centri abitati, quali definiti ai sensi del codice della strada o degli strumenti urbanistici comunali, non possono essere posti vincoli o limitazioni all’utilizzo continuativo, anche senza assistenza, delle apparecchiature per la modalità di rifornimento senza servizio con pagamento anticipato».
Risulta evidente, pertanto, che anche quest’ultima norma impugnata introduce una misura restrittiva della concorrenza ponendo divieti e restrizioni che condizionano e ritardano l’avvio di nuove attività economiche e l’ingresso di nuovi operatori, senza che tali ostacoli siano proporzionati alle finalità pubbliche perseguite.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9 della legge della Regione Umbria 6 maggio 2013, n. 10 (Disposizioni in materia di commercio per l’attuazione del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 e del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27. Ulteriori modifiche ed integrazioni della legge regionale 3 agosto 1999, n. 24, della legge regionale 20 gennaio 2000, n. 6 e della legge regionale 23 luglio 2003, n. 13), che ha aggiunto all’art. 10-bis della legge della Regione Umbria 3 agosto 1999, n. 24 (Disposizioni in materia di commercio in attuazione del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114), i commi da 3-bis a 3-sexies;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 43 della legge reg. n. 10 del 2013 che sostituisce l’art. 7 della legge della Regione Umbria 23 luglio 2003, n. 13 (Disciplina della rete distributiva dei carburanti per autotrazione);
3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 44 della legge reg. n. 10 del 2013 che aggiunge l’art. 7-ter alla legge reg. n. 13 del 2003.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 maggio 2014