SENTENZA N. 7
ANNO 2021
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giancarlo CORAGGIO;
Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 36, 51, lettera b), e 67, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 6 agosto 2019, n. 13 (Assestamento del bilancio per gli anni 2019-2021 ai sensi dell’articolo 6 della legge regionale 10 novembre 2015, n. 26), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato l’8-15 ottobre 2019, depositato in cancelleria il 15 ottobre 2019, iscritto al n. 108 del registro ricorsi 2019 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visto l’atto di costituzione della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia;
udito nell’udienza pubblica del 1° dicembre 2020 il Giudice relatore Luca Antonini;
uditi l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Massimo Luciani per la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 30 ottobre 2020;
deliberato nella camera di consiglio del 3 dicembre 2020.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso notificato l’8-15 ottobre 2019 e depositato il 15 ottobre 2019 (reg. ric. n. 108 del 2019), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso distinte questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 36, 51, lettera b), e 67 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 6 agosto 2019, n. 13 (Assestamento del bilancio per gli anni 2019-2021 ai sensi dell’articolo 6 della legge regionale 10 novembre 2015, n. 26), in riferimento complessivamente agli artt. 3, 32, 41, 117, terzo comma, e 118, quarto comma, della Costituzione, nonché all’art. 5, numero 16), della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia).
1.1.– Con il primo motivo è impugnato il comma 36, il quale ha sostituito il comma 29 dell’art. 9 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 28 dicembre 2018, n. 29 (Legge di stabilità 2019), prevedendo che «[l]’Amministrazione regionale, al fine di sostenere il sistema di mobilità e accessibilità a favore delle persone con disabilità, è autorizzata a concedere alle associazioni di volontariato e di promozione sociale con sede in regione, iscritte nei rispettivi registri regionali e aventi quali esplicite finalità statutarie la tutela e promozione sociale delle persone con disabilità, contributi straordinari per sostenere gli oneri connessi all’acquisto di autoveicoli di categoria M1 e M2 allestiti per il trasporto di persone con disabilità».
Nell’introdurre la censura l’Avvocatura richiama il Registro unico nazionale (da qui, anche: RUN) del Terzo settore, previsto dagli artt. 45 e seguenti del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, recante «Codice del Terzo settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106» (da qui, anche: CTS) e segnala che, ai sensi dell’art. 102, comma 4, del citato decreto, non essendo il RUN ancora operativo, restano applicabili le disposizioni di cui agli artt. 7 e 8 della legge 7 dicembre 2000, n. 383 (Disciplina delle associazioni di promozione sociale) e all’art. 6 della legge 11 agosto 1991, n. 266 (Legge-quadro sul volontariato).
Ciò premesso, il ricorrente prospetta innanzitutto la violazione dell’art. 3 Cost., poiché la norma impugnata riserverebbe i contributi in questione alle sole associazioni di promozione sociale iscritte nel registro regionale, mentre li negherebbe a quelle iscritte nel registro nazionale, ma operanti anche nel territorio della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia. Vi sarebbe quindi un contrasto con il contenuto degli artt. 7 e 8 della legge n. 383 del 2000, rispettivamente disciplinanti il registro nazionale, quelli regionali e provinciali, e il relativo procedimento per le iscrizioni.
Una censura analoga è formulata con riferimento alle associazioni di volontariato, poiché, a fronte di attività parimenti svolte nel territorio friulano, la norma discriminerebbe le organizzazioni soltanto sulla base del dato formale del registro di iscrizione, inidoneo tuttavia a differenziarle: l’art. 6 della legge n. 266 del 1991 prevederebbe, infatti, per tali associazioni soltanto una registrazione a base regionale, senza che l’attività delle stesse possa essere limitata alla sola Regione di iscrizione.
Con un’ulteriore censura, la violazione dell’art. 3 Cost. è motivata in quanto la disposizione si porrebbe «come disciplina "a regime”»; applicandosi anche quando sarà divenuto operativo il RUN del Terzo settore, la stessa sarebbe pertanto in contrasto con la finalità di riforma insita nella unificazione del registro.
La disposizione regionale è poi contestata laddove limita l’accesso ai contributi da questa previsti alle sole due tipologie di enti ivi indicate, mentre, invece, il CTS avrebbe inteso equiparare tutti gli enti del Terzo settore (da qui, anche: ETS) dal punto di vista funzionale, mantenendo differenze tipologiche e organizzative essenzialmente per rispettare la volontà degli associati, ma non per distinguerne i compiti. Poiché questi ultimi devono consistere nelle «attività di interesse generale» enumerate dall’art. 5 del CTS, l’accesso ai contributi non potrebbe essere limitato ad alcuni ETS, escludendone altri pur operanti nello stesso campo di attività.
Infine, è addotta la violazione del principio di sussidiarietà di cui all’art. 118, quarto comma, Cost., perché la norma impugnata, favorendo con i contributi solo talune tipologie di enti, interferirebbe in modo indebito con la libera dinamica delle formazioni sociali, orientando «"dall’alto” la libertà associativa del terzo settore, spingendola a preferire questi tipi di enti».
1.2.– La seconda disposizione impugnata, recata dal comma 51 dell’art. 9 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 13 del 2019, ha ad oggetto le risorse del fondo regionale per il contrasto alla povertà, trasferite ai servizi sociali dei Comuni in forza dell’art. 9, comma 9, lettera a), della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 29 del 2018, ma non utilizzate nell’anno 2019. La norma impugnata afferma che tali risorse «sono confermate» in capo ai servizi sociali comunali «per la concessione di interventi di contrasto alla povertà a favore di nuclei familiari come definiti dall’articolo 2, comma 5, del decreto legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, aventi almeno un componente che sia in possesso, congiuntamente, dei seguenti requisiti: a) cittadinanza italiana o di Paesi facenti parte dell’Unione europea, ovvero suo familiare come individuato dall’articolo 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri), che sia titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ovvero cittadino di Paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo; b) residenza in regione da almeno cinque anni continuativi. In caso di rimpatrio di corregionali, il periodo di residenza all’estero non è computato e non è considerato quale causa di interruzione della continuità della residenza in regione».
1.2.1.– L’Avvocatura ritiene che in base alla suddetta previsione l’accesso alla prestazione si baserebbe in modo decisivo sulla durata della residenza in Regione, ovvero su una circostanza priva di alcuna specifica connessione con lo stato di bisogno a cui la prestazione stessa mira a porre rimedio.
Ne conseguirebbe il carattere irragionevole e discriminatorio della disposizione, in violazione dell’art. 3 Cost., perché questa escluderebbe dalla prestazione situazioni di povertà maggiori di altre, solo perché nessun componente del nucleo familiare ha risieduto in Regione per almeno cinque anni. In senso contrario non rileverebbe la finalità diretta a evitare abusi: per un verso, «anche la mera residenza [potrebbe] attestare il radicamento territoriale e il carattere non abusivo del trasferimento»; per altro verso, gli abusi non potrebbero essere presunti ex lege, ma accertati mediante appositi procedimenti di controllo.
In ogni caso non potrebbero essere richiesti requisiti di residenza minima a fronte di prestazioni assistenziali volte a sopperire a necessità fondamentali degli individui, come la protezione dallo stato di indigenza dell’intero nucleo familiare.
1.2.2.– La disciplina del «rimpatrio di corregionali» è parimenti censurata, ritenendola irragionevole per incongruità tra fini e mezzi, poiché assunto come fine quello di «limitare le prestazioni ai soli casi che manifestino un effettivo radicamento con la regione, è contraddittorio equiparare a tali casi quello in cui l’interessato non abbia risieduto in regione perché residente, addirittura, all’estero».
La norma sarebbe irragionevole anche per l’assoluta indeterminatezza del presupposto; trattandosi di disposizione eccezionale, sarebbe stata necessaria la definizione dei termini «corregionali» e «rimpatrio», invece mancante, con conseguente eccessivo ampliamento della platea dei possibili beneficiari.
1.3.– Con l’ultimo motivo è impugnato il comma 67 dell’art. 9 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 13 del 2019, ai sensi del quale «[a]i fini della programmazione regionale, per consentire la rivalutazione del fabbisogno complessivo di strutture residenziali per anziani non autosufficienti, è sospesa la presentazione delle domande per l’ottenimento dell’autorizzazione alla realizzazione di nuove strutture sino alla conclusione del processo di accreditamento, di cui all’articolo 49 della legge regionale 17/2014, delle strutture già autorizzate all’esercizio in via definitiva o in deroga temporanea, per le quali resta ammessa la possibilità di presentare domanda di ampliamento, trasformazione e trasferimento della sede».
1.3.1.– La disposizione citata contrasterebbe con le previsioni statutarie e costituzionali che riconducono alla legislazione concorrente la materia della «igiene e sanità, assistenza sanitaria ed ospedaliera» – come enunciato dall’art. 5, numero 16), dello statuto di autonomia – ovvero della «tutela della salute», di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.
In particolare, verrebbero in rilievo gli artt. 8-ter e 8-quater del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), che disciplinano, rispettivamente, l’autorizzazione e l’accreditamento delle strutture sanitarie private e che sono peraltro richiamati dagli artt. 48 e 49 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 16 ottobre 2014, n. 17 (Riordino dell’assetto istituzionale e organizzativo del Servizio sanitario regionale e norme in materia di programmazione sanitaria e sociosanitaria).
Tali fonti, sia statali, sia regionali, distinguerebbero nettamente per contenuto, presupposti e funzione l’autorizzazione e l’accreditamento; sarebbe dunque principio generale della materia quello secondo cui l’autorizzazione alla realizzazione di nuove strutture sanitarie «presuppone una semplice valutazione del fabbisogno complessivo e della distribuzione (localizzazione) territoriale» delle strutture stesse.
L’accreditamento, invece, comporterebbe l’inserimento funzionale della struttura sanitaria autorizzata nel Servizio sanitario regionale (SSR) che, nei limiti stabiliti dagli accordi contrattuali previsti dall’art. 8-quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992, deve remunerare le prestazioni rese dalle strutture accreditate. Pertanto, come prescrivono l’art. 8-quater, comma 1, del d.lgs. n. 502 del 1992 e l’art. 49, commi 1 e 2, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 14 del 2017, l’accreditamento sarebbe rilasciato soltanto alle strutture di cui si accerti la rispondenza ai requisiti ulteriori di qualificazione, alla loro funzionalità rispetto agli indirizzi di programmazione regionale e alla verifica positiva dell’attività svolta e dei risultati raggiunti.
Su tale base non sarebbe consentito collegare la proponibilità delle domande di autorizzazione per la realizzazione di nuove strutture sanitarie all’esito dei procedimenti di accreditamento delle strutture esistenti, senza peraltro prevedere alcun termine. Infatti, secondo la logica del sistema, quand’anche queste ultime non fossero più accreditabili per difetto dei requisiti prescritti, potrebbero comunque rimanere autorizzate a operare in regime puramente privato, al di fuori del SSR.
Ad avviso dell’Avvocatura, non avrebbe rilievo l’obiezione che il fabbisogno, alla cui verifica l’autorizzazione è soggetta, potrebbe essere determinato solo conoscendo numero e localizzazione delle strutture accreditate; infatti, il fabbisogno in questione consisterebbe nella domanda di determinate prestazioni in sé considerate, prescindendo dalla circostanza, logicamente successiva, «se tali prestazioni saranno richieste al servizio sanitario regionale o, invece, in regime di diritto privato».
Pertanto, in presenza di un fabbisogno completamente soddisfatto, non rileverebbe il numero delle strutture accreditate o meno che partecipano a tale risultato: per questo solo fatto non potrebbero, infatti, autorizzarsi nuove strutture. Al contrario, se il fabbisogno non fosse integralmente soddisfatto ben potrebbero essere autorizzate nuove strutture, lasciando a un momento successivo la valutazione sulla necessità di «potenziare la risposta "pubblica”» del SSR includendovi anche quelle strutture mediante l’accreditamento.
1.3.2.– Il ricorso lamenta altresì la violazione dell’art. 41 Cost., nella parte in cui afferma che l’iniziativa economica privata è libera e in quella in cui «garantisce la libera concorrenza».
In particolare, dall’Avvocatura viene richiamato, al riguardo, l’orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui «il sistema di norme che regolamentano l’accesso al mercato di privati che intendono erogare prestazioni sanitarie senza rimborsi o sovvenzioni a carico della spesa pubblica non deve tradursi in una compressione della libertà di iniziativa economica privata»; nello stesso senso è richiamata la posizione espressa dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, diretta a evidenziare come «una politica di contenimento dell’offerta sanitaria possa tradursi in una posizione di privilegio degli operatori del settore già presenti nel mercato, che possono incrementare la loro offerta a discapito dei nuovi entranti, assorbendo la potenzialità della domanda».
1.3.3.– Da ultimo, il ricorso afferma che «[s]otto i profili ora illustrati» l’impugnato comma 67 contrasterebbe anche con l’art. 32 Cost., nella parte in cui questo garantisce la «libertà di scelta dei cittadini riguardo alle strutture sanitarie a cui affidarsi».
2.– Con atto depositato il 21 novembre 2019 si è costituita la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, in persona del presidente pro tempore.
2.1.– Quanto al primo motivo di impugnazione, sostiene la Regione resistente che la censura sarebbe inammissibile, non avendo il ricorrente tenuto conto delle disposizioni dello statuto di autonomia, neanche menzionate, in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte (è richiamata la sentenza n. 147 del 2019).
Nel merito, a escludere l’asserita disparità di trattamento tra le associazioni di promozione sociale iscritte al registro regionale e quelle iscritte al registro nazionale, varrebbe il contenuto di una disposizione non considerata dal ricorrente: l’art. 20, comma 2-bis, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 9 novembre 2012, n. 23 (Disciplina organica sul volontariato e sulle associazioni di promozione sociale). Questa, infatti, consente alle associazioni di promozione sociale iscritte nel registro nazionale di «presentare domanda di iscrizione al Registro regionale per le proprie articolazioni regionali o provinciali che operano nel territorio della Regione Friuli-Venezia Giulia, per le quali si considerano accertati i medesimi requisiti valutati ai fini dell’iscrizione nel Registro nazionale»; ad avviso della resistente, ciò attesterebbe la sostanziale identità del trattamento dei vari soggetti e impedirebbe di ravvisare la disparità lamentata dallo Stato.
Analoga conclusione varrebbe a maggior ragione per le organizzazioni del volontariato, in quanto la loro disciplina prevede la sola registrazione a base regionale. Infatti, l’art. 5 della citata legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 23 del 2012 – anch’esso mai menzionato dal ricorrente – prevede, al comma 4, che «[p]ossono iscriversi al Registro le organizzazioni di volontariato aventi i requisiti previsti dall’articolo 3 della legge 266/1991 con sede legale o operativa in regione e dotate di autonomia amministrativa e contabile».
In ogni caso, l’iscrizione delle associazioni di promozione sociale nel registro nazionale o in quello regionale non costituirebbe un mero dato formale, come sostenuto dal ricorso statale, ma sarebbe proprio il riflesso della diversa dimensione dell’azione delle stesse, come si desume dai requisiti fissati dall’art. 7, commi 1 e 2, della legge n. 383 del 2000. Di conseguenza, la normativa regionale dovrebbe ritenersi pienamente rispettosa dell’art. 3 Cost.
La censura di violazione delle norme dettate dal d.lgs. n. 117 del 2017 sarebbe invece inammissibile per la sua genericità, anche perché carente della indicazione delle specifiche disposizioni del CTS asseritamente violate.
In ogni caso, nelle more della compiuta attuazione delle norme in materia di istituzione del RUN sarebbe ragionevole la scelta del legislatore regionale di fare ancora riferimento alle due categorie di ETS e ai relativi, distinti, registri. Il rispetto e il coordinamento con il CTS sarebbe comunque già assicurato dalla presenza nella legislazione friulana di clausole idonee ad adeguare il sistema alla futura operatività del RUN, in quanto la citata legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 23 del 2012 prevederebbe che l’iscrizione nel registro regionale delle organizzazioni di volontariato (art. 5, comma 5-bis) e delle associazioni di promozione sociale (art. 20, comma 6-bis) abbia validità fino all’eventuale iscrizione dell’ente in questione nel RUN del Terzo settore.
La lamentata violazione dell’art. 118, quarto comma, Cost. andrebbe, infine, respinta perché la disposizione impugnata dimostrerebbe un favor nei confronti proprio delle iniziative considerate dalla previsione costituzionale.
Da ultimo, le censure sarebbero comunque inammissibili per sopravvenuto difetto d’interesse, poiché l’art. 9, comma 29, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 29 del 2018, novellato dalla disposizione impugnata, è stato abrogato dall’art. 8, comma 7, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 4 novembre 2019, n. 16 (Misure finanziarie intersettoriali), a decorrere dal 7 novembre 2019, non risultando alla difesa regionale alcun atto applicativo della disciplina censurata.
2.2.– L’impugnativa dell’art. 9, comma 51, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 13 del 2019 sarebbe infondata. Sulla base di una ricostruzione della normativa regionale e statale, la difesa regionale argomenta la tesi sotto tre profili: le risorse impiegate per l’intervento sociale, le modalità di erogazione, e il coordinamento con analoghe misure stabilite dallo Stato.
In primo luogo, la norma impugnata andrebbe ricollegata alla «misura attiva di sostegno al reddito» familiare introdotta dall’art. 2 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 10 luglio 2015, n. 15 (Misure di inclusione attiva e di sostegno al reddito) per un periodo di tre anni ed espressamente in via sperimentale.
Tale intervento regionale sarebbe stato poi novellato alla luce dell’adozione della misura statale del «Sostegno per l’inclusione attiva (SIA)» – in forza dell’art. 1, comma 387, lettera a), della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)» –, prevedendo che, fermo il carattere sperimentale, la misura regionale si sarebbe coordinata con il SIA e che, per coloro che erano eleggibili a entrambe le misure, la prima avrebbe costituito una "integrazione” del secondo (art. 8, comma 53, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 11 agosto 2016, n. 14, recante «Assestamento del bilancio per l’anno 2016 e del bilancio per gli anni 2016-2018 ai sensi della legge regionale 10 novembre 2015, n. 26»).
È poi richiamata la normativa statale che, dapprima, ha riformato il SIA, sostituendo questo istituto con il «Reddito di inclusione» (decreto legislativo 15 settembre 2017, n. 147, recante «Disposizioni per l’introduzione di una misura nazionale di contrasto alla povertà») e, successivamente, ha istituito il «Reddito di cittadinanza», contestualmente disponendo che la precedente misura non sia più riconosciuta o rinnovata a far data dall’aprile 2019 (decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, recante «Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni», convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26).
In conclusione, alla luce dei notevoli cambiamenti nelle politiche nazionali di sostegno al reddito, con la disposizione impugnata il legislatore regionale si sarebbe limitato a prevedere una diversa destinazione per le sole risorse non utilizzate nel 2019 e già trasferite ai Comuni a titolo di acconto.
Al riguardo, secondo la difesa regionale, il fatto che addirittura la prima tranche non sia stata integralmente impiegata dimostrerebbe con evidenza l’eccedenza rispetto al bisogno per l’attuazione della misura di sostegno attiva regionale. Il legislatore regionale avrebbe perciò reimpiegato tale surplus per ulteriori interventi a favore di nuclei familiari, diversi rispetto alla suddetta misura di sostegno.
La norma avrebbe dunque rispettato i limiti elaborati dalla giurisprudenza costituzionale, non avendo previsto una correlazione tra la durata prolungata della residenza e le situazioni di bisogno o di disagio, riferibili alla persona in quanto tale. Infatti, le risorse utilizzate sarebbero quelle non impiegate per la misura di sostegno attivo al reddito e, perciò, ulteriori rispetto a quelle necessarie a fronteggiare le correlate situazioni di bisogno o di disagio della persona; inoltre, le risorse stesse sarebbero state indirizzate non a singole persone, ma a nuclei familiari, richiedendosi perciò ragionevolmente l’impiego del criterio della residenza, peraltro usato in maniera limitata, dovendo essere sussistente semplicemente per un componente.
Sarebbero, sostiene la Regione resistente, comunque ben diversi da quello in esame i casi in cui questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di criteri stabiliti per l’accesso a determinate prestazioni sociali. Infatti, quanto alle sentenze n. 106 del 2018 e n. 168 del 2014, i requisiti lì esaminati erano di durata ben più ampia (rispettivamente, 10 e 8 anni) e riferiti ai «c.d. "soggiornanti di lungo periodo”»; quanto alla sentenza n. 107 del 2018, questa era relativa a un requisito di ben 15 anni di residenza, che entrambi i genitori dovevano soddisfare ai fini dell’iscrizione della prole a un asilo nido. Nella specie, invece, oltre alla minore durata del requisito, questo potrebbe essere soddisfatto anche da un solo componente del nucleo familiare.
Infine, le censure riferite alle nozioni di «corregionale» e di «rimpatrio» sarebbero inammissibili, consistendo in semplici difficoltà interpretative, e comunque infondate, potendo l’interprete essere indirizzato dalla ratio della norma, volta a facilitare lo stabile rientro «dei friulani e dei giuliani che, per i casi della vita, hanno sin qui vissuto all’estero».
2.3.– Le questioni sulla sospensione dei procedimenti di autorizzazione alla realizzazione di strutture sanitarie – oggetto del terzo motivo di impugnazione – sarebbero anzitutto inammissibili, non avendo il ricorrente tenuto in alcun conto le disposizioni di cui agli artt. 1 e seguenti del decreto legislativo 20 giugno 2005, n. 126 (Norme di attuazione dello Statuto speciale della regione Friuli-Venezia Giulia, concernenti il trasferimento di funzioni in materia di salute umana e sanità veterinaria), in contrasto con la giurisprudenza costituzionale che richiede l’onere di motivare l’estraneità della disposizione impugnata anche rispetto alle competenze definite dalle norme di attuazione dello statuto di autonomia (sono richiamate le sentenze n. 288 del 2013 e n. 51 del 2006).
Nel merito, la norma impugnata intenderebbe tutelare la ricognizione del fabbisogno complessivo cui le strutture sanitarie devono far fronte, sospendendo temporaneamente (e non sine die, come sostiene il ricorrente) la presentazione delle domande di autorizzazione; soltanto una volta concluse le procedure di accreditamento delle strutture già autorizzate, sarebbe possibile avere «un quadro il più possibile completo della domanda complessiva di prestazioni sanitarie».
Infatti, sia la disciplina statale (art. 8-ter, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992) sia quella regionale (art. 48 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 17 del 2014) confermerebbero la necessità di provvedere alla verifica dell’effettivo fabbisogno complessivo già all’atto di procedere all’autorizzazione per la realizzazione di strutture sanitarie e sociosanitarie.
Inoltre, sarebbe erronea l’affermazione del ricorrente che esclude ogni relazione tra i procedimenti di autorizzazione e quelli di accreditamento, ai fini della valutazione e dell’aggiornamento del fabbisogno. Infatti, i procedimenti della seconda tipologia identificherebbero strutture specifiche di soddisfacimento della necessità di assistenza sanitaria e, dunque, inciderebbero sugli stessi profili quantitativi e qualitativi del fabbisogno che, in quanto complessivo, dovrebbe essere calcolato tenendo conto di tali profili.
Da ciò deriverebbe la infondatezza della censura relativa alla violazione dell’art. 32 Cost.
Infine, le censure riferite all’art. 41 Cost. sarebbero parimenti infondate, perché la necessità di una previa verifica servirebbe anche a evitare, a garanzia dell’utilità sociale, «la proliferazione» delle richieste di autorizzazione e ad accertare in maniera rigorosa sia il possesso dei requisiti previsti per le strutture richiedenti, sia la qualità delle prestazioni sanitarie che esse erogano.
3.– In prossimità dell’udienza, entrambe le parti hanno depositato una memoria.
3.1.– Il Presidente del Consiglio, con riferimento al primo motivo del ricorso, relativo ai contributi alle associazioni che operano a favore dei disabili, da un lato riconosce che lo ius superveniens indicato opera una riformulazione della disciplina dei contributi adeguandosi totalmente alle censure, ma dall’altro ritiene che permanga l’interesse alla decisione sul merito, salvo che la Regione dimostri, nel pur breve arco di vigenza della norma impugnata, l’assenza di impegni contabili.
In ogni caso, in risposta alle difese regionali sullo stesso motivo, l’Avvocatura afferma che l’indicazione delle competenze legislative della Regione autonoma non sarebbe nella specie necessaria, essendo in discussione la conformità della normativa regionale al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. e non l’assetto delle competenze stesse. Nel merito, rileva che sarebbe comunque ingiustificato e sproporzionato imporre l’iscrizione ai registri regionali alle associazioni già iscritte nel registro nazionale o in quello di altra Regione.
Con riguardo poi al secondo motivo d’impugnazione, l’Avvocatura replica alla difesa regionale ritenendo, in particolare, non dirimente la destinazione degli interventi ai nuclei familiari, anziché alle singole persone: mancherebbe in ogni caso una ragionevole correlazione tra l’esteso requisito territoriale preteso dalla norma e lo stato di bisogno. Le risorse confluite nella misura in questione non potrebbero, infine, considerarsi un surplus, in quanto la loro finalità non sarebbe mutata rispetto alla impostazione originaria, sempre diretta a contrastare la povertà.
Infine, con riguardo all’ultimo motivo, la memoria confuta l’eccepita inammissibilità, ritenendo che le norme di attuazione richiamate dalla resistente siano estranee all’oggetto della censura. Nel merito, ribadisce che ai fini dell’autorizzazione alla realizzazione di nuove strutture sanitarie il numero delle strutture accreditate non influirebbe sulla copertura astratta di questo: «[i]l fabbisogno, infatti, è quello delle prestazioni rese nella Regione e non dalla Regione».
3.2.– Nella propria memoria, la resistente ribadisce l’inammissibilità delle censure articolate col primo motivo di ricorso e precisa che il ricorrente, pur prospettando una violazione del principio di eguaglianza, non avrebbe indicato «alcun tertium», mentre avrebbe qualificato «apoditticamente il d.lgs. n. 117 del 2017 "norma interposta”»: tuttavia la «censura di violazione del principio di eguaglianza e la censura di inosservanza di una fonte interposta hanno struttura logica e schemi di articolazione del tutto diversi, la cui indebita sovrapposizione determina l’inammissibilità del gravame».
Nel merito, a sostegno delle precedenti difese, richiama la sentenza di questa Corte n. 27 del 2020, resa su una censura analoga, la quale varrebbe a valorizzare la ratio, sottesa anche alla disposizione regionale impugnata, di promozione di attività di interesse generale nel rispetto del principio di territorialità, «che è corollario del principio di sussidiarietà». In ogni caso, la diversità di trattamento stabilita dalla disposizione per le due tipologie di enti sarebbe basata sulla oggettiva diversità che li connoterebbe rispetto ad altri ETS, il che varrebbe a escludere anche la violazione dell’art. 118, quarto comma, Cost.
Affrontando le censure rivolte al requisito di accesso agli interventi di contrasto alla povertà, la memoria ribadisce come la norma impugnata non realizzi «una sorta di "distrazione” di fondi dalla loro originaria finalità». Dando quindi conto della sentenza di questa Corte n. 44 del 2020 precisa che nella specie, da un lato, sarebbe sussistente un nesso logico e ragionevole tra il requisito di accesso alla prestazione e il beneficio reso; dall’altro sarebbe inesistente il pericolo di radicale esclusione dall’accesso a una prestazione pubblica.
Quanto al primo profilo, l’intervento del legislatore regionale, complementare rispetto alle misure statali, fornirebbe assistenza a nuclei familiari connotati da stabilità di residenza e legame col territorio amministrato, fronteggiando situazioni di disagio connesse proprio alla permanenza in aree del territorio regionale colpite da difficoltà di sviluppo socio-economico (al riguardo sono richiamati alcuni contenuti della Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza regionale per il 2020).
Quanto al secondo profilo, la disposizione impugnata non escluderebbe alcun soggetto dai benefici minimi di sostegno al reddito; infatti, l’intervento di base sarebbe assicurato dalla disciplina statale sul reddito di cittadinanza, mentre quella regionale lo integrerebbe con misure complementari a favore delle famiglie, al fine di intervenire contro la dispersione sociale delle giovani generazioni: sostegno alle famiglie e «legame col territorio» andrebbero quindi «di pari passo».
Nel confutare le censure dell’ultimo motivo, la memoria afferma che l’art. 8-bis del d.lgs. n. 502 del 1992 comprenderebbe «le strutture accreditate e quelle autorizzate nella programmazione relativa alla garanzia dei livelli essenziali di assistenza» e che la norma impugnata si porrebbe in questa stessa prospettiva.
Viceversa, il ricorrente si muoverebbe nell’ottica di un’incontrollata liberalizzazione delle attività sanitarie, invece chiaramente disattesa dalla giurisprudenza amministrativa, da cui risulta incontestata l’esigenza di programmazione. Di tale esigenza il legislatore regionale avrebbe ragionevolmente tenuto conto, limitando la sospensione al tempo strettamente necessario e sufficiente a concludere le procedure di accreditamento.
4.– Da ultimo, la difesa della resistente ha depositato una nota della competente direzione regionale, che attesta la mancata applicazione della norma impugnata con il primo motivo e dà atto dell’assenza di prenotazioni, impegni e liquidazioni di somme a titolo di contributi sul pertinente capitolo di bilancio. Nel prendere atto di questa produzione, l’avvocato dello Stato in udienza ha concluso esprimendosi a favore di una dichiarazione di cessazione della materia del contendere.
Considerato in diritto
1.– Con il ricorso in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso distinte questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 36, 51, lettera b), e 67 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 6 agosto 2019, n. 13 (Assestamento del bilancio per gli anni 2019-2021 ai sensi dell’articolo 6 della legge regionale 10 novembre 2015, n. 26), in riferimento complessivamente agli artt. 3, 32, 41, 117, terzo comma, e 118, quarto comma, della Costituzione, nonché all’art. 5, numero 16), della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia).
2.– La prima disposizione impugnata, recata dal comma 36 del citato art. 9, ha sostituito il comma 29 dell’art. 9 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 28 dicembre 2018, n. 29 (Legge di stabilità 2019), prevedendo che «[l]’Amministrazione regionale, al fine di sostenere il sistema di mobilità e accessibilità a favore delle persone con disabilità, è autorizzata a concedere alle associazioni di volontariato e di promozione sociale con sede in regione, iscritte nei rispettivi registri regionali e aventi quali esplicite finalità statutarie la tutela e promozione sociale delle persone con disabilità, contributi straordinari per sostenere gli oneri connessi all’acquisto di autoveicoli di categoria M1 e M2 allestiti per il trasporto di persone con disabilità».
In violazione dell’art. 3 Cost., secondo il ricorso statale, la norma citata discriminerebbe le associazioni che, pur in possesso delle altre condizioni, risultino iscritte in registri diversi da quelli della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia secondo la disciplina tuttora applicabile fino alla piena operatività del Registro unico nazionale del Terzo settore, previsto dagli artt. 45 e seguenti del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, recante «Codice del Terzo settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106». La stessa censura, dato il carattere di «disciplina "a regime”» della previsione impugnata, rimarrebbe valida anche una volta divenuto operativo il Registro unico nazionale.
Il contrasto con l’art. 3 Cost. è altresì motivato perché la disposizione medesima limiterebbe l’accesso ai previsti contributi alle sole due tipologie di enti ivi indicate laddove, invece, il codice del Terzo settore avrebbe inteso equiparare dal punto di vista funzionale tutti gli enti che ne fanno parte. Poiché i compiti che tali enti possono svolgere devono consistere nelle «attività di interesse generale» enumerate dall’art. 5 del codice, l’accesso ai contributi non potrebbe essere limitato solo ad alcuni di questi enti, escludendone altri pur operanti nello stesso campo di attività.
Infine, è addotta la violazione del principio di sussidiarietà di cui all’art. 118, quarto comma, Cost. perché la norma censurata, favorendo con i contributi solo talune tipologie di enti, interferirebbe in modo indebito con la libera dinamica delle formazioni sociali, orientando «"dall’alto” la libertà associativa del terzo settore, spingendola a preferire questi tipi di enti».
2.1.– È necessario innanzitutto verificare l’effetto dello ius superveniens nel giudizio in corso, poiché, come segnalato già nell’atto di costituzione, la disposizione regionale sostituita da quella impugnata è stata abrogata dall’art. 8, comma 7, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 4 novembre 2019, n. 16 (Misure finanziarie intersettoriali), a decorrere dal 7 novembre 2019.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte la modifica normativa, intervenuta nel corso del giudizio, della disposizione oggetto della questione di legittimità costituzionale promossa in via principale, determina la cessazione della materia del contendere quando ricorrono, al contempo, due condizioni: il carattere satisfattivo delle pretese avanzate con il ricorso e il fatto che la disposizione censurata non abbia avuto medio tempore applicazione (ex plurimis, da ultimo, sentenze n. 200, n. 70 e n. 25 del 2020; n. 287 e n. 56 del 2019).
La prima condizione deve ritenersi realizzata, in quanto contestualmente alla richiamata abrogazione, i commi da 1 a 6 del citato art. 8 hanno modificato la disciplina dei contributi in questione in termini oggettivamente satisfattivi delle pretese avanzate con il ricorso, come del resto anche l’Avvocatura ha riconosciuto nella propria memoria.
La resistente ha poi attestato la mancata applicazione della norma impugnata, depositando la nota della competente direzione regionale, datata 30 novembre 2020; a seguito della stessa l’Avvocatura generale ha concluso in pubblica udienza per la cessazione della materia del contendere. D’altro canto, già dai lavori preparatori dell’art. 8 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 16 del 2019 – in particolare, dalla relazione tecnico-finanziaria dell’emendamento poi approvato – risulta che la copertura della spesa per i contributi come ridisciplinati è avvenuta mediante lo storno delle somme stanziate sul capitolo di bilancio relativo alla norma abrogata, delle quali è attestata la integrale disponibilità e l’assenza di programmi di spesa in precedenza adottati.
Anche la seconda condizione si è quindi realizzata; va pertanto dichiarata la cessazione della materia del contendere in relazione alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 36, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 13 del 2019.
3.– Con il secondo motivo è impugnato il comma 51, lettera b), dell’art. 9 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 13 del 2019. Nel suo complesso, la disposizione prevede che «[l]e risorse del fondo per il contrasto alla povertà trasferite ai Servizi sociali dei Comuni (SSC) a titolo di acconto ai sensi dell’articolo 9, comma 9, lettera a), della legge regionale 29/2018 e non utilizzate nell’anno 2019, sono confermate in capo ai SSC per la concessione di interventi di contrasto alla povertà a favore di nuclei familiari come definiti dall’articolo 2, comma 5, del decreto legge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, aventi almeno un componente che sia in possesso, congiuntamente, dei seguenti requisiti:
a) cittadinanza italiana o di Paesi facenti parte dell’Unione europea, ovvero suo familiare come individuato dall’articolo 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri), che sia titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ovvero cittadino di Paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo;
b) residenza in regione da almeno cinque anni continuativi. In caso di rimpatrio di corregionali, il periodo di residenza all’estero non è computato e non è considerato quale causa di interruzione della continuità della residenza in regione».
La censura del ricorrente contesta la previsione dell’accesso alla prestazione basata in modo decisivo sulla durata della residenza in Regione, ovvero su una circostanza priva di specifica connessione con lo stato di bisogno a cui la prestazione stessa mira a porre rimedio. Da ciò conseguirebbe il carattere irragionevole e discriminatorio della disposizione perché, in violazione dell’art. 3 Cost., escluderebbe dalla prestazione situazioni di povertà maggiori di altre, solo perché nessun componente del nucleo familiare ha risieduto in Regione per almeno cinque anni. In senso contrario non rileverebbe la finalità diretta a evitare abusi: per un verso, «anche la mera residenza [potrebbe] attestare il radicamento territoriale e il carattere non abusivo del trasferimento»; per altro verso, gli abusi non potrebbero essere presunti ex lege ma accertati mediante appositi procedimenti di controllo.
In ogni caso non potrebbero essere richiesti requisiti di residenza minima a fronte di prestazioni assistenziali volte a sopperire a necessità fondamentali degli individui, come la protezione dallo stato di indigenza dell’intero nucleo familiare.
La disciplina del «rimpatrio di corregionali» è parimenti censurata per incongruità tra fini e mezzi, poiché «assunto come fine limitare le prestazioni ai soli casi che manifestino un effettivo radicamento con la regione, è contraddittorio equiparare a tali casi quello in cui l’interessato non abbia risieduto in regione perché residente, addirittura, all’estero».
La norma, infine, sarebbe irragionevole anche per l’assoluta indeterminatezza del presupposto; trattandosi di disposizione eccezionale, sarebbe stata necessaria la definizione dei termini «corregionali» e «rimpatrio», invece mancante.
3.1.– La norma impugnata dispone anzitutto un criterio di ammissione alla prestazione, basato sulla residenza protratta in Regione per almeno cinque anni continuativi; stabilisce poi una previsione derogatoria per il «caso di rimpatrio di corregionali».
Va dunque prioritariamente scrutinata la questione sul requisito della residenza protratta, che si pone come logico presupposto della seconda parte della impugnativa.
Essa è fondata.
La censurata previsione del comma 51 intende consentire ai Comuni il reimpiego delle specifiche risorse loro trasferite, ma non utilizzate nel 2019, per la prima attuazione degli interventi del «fondo di contrasto alla povertà» istituito per lo stesso anno dall’art. 9, comma 8, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 29 del 2018.
Quest’ultima disposizione chiarisce che il fondo è introdotto «[n]elle more della compiuta valutazione del periodo di sperimentazione della Misura attiva di sostegno al reddito di cui all’articolo 2 della legge regionale 10 luglio 2015, n. 15 (Misure di inclusione attiva e di sostegno al reddito), e della revisione delle misure nazionali in materia di contrasto alla povertà e di inclusione sociale […] al fine di garantire la continuità degli interventi economici a favore dei nuclei familiari in condizioni di disagio economico ed esclusione sociale». Il successivo comma 9 indica come destinatari del fondo gli enti gestori dei servizi sociali dei Comuni, tra i quali le risorse sono ripartite assegnando «una quota pari al 50 per cento delle risorse disponibili, a titolo di acconto per consentire l’avvio delle erogazioni degli interventi economici, sulla base delle Misure attive di sostegno al reddito in corso di concessione alla data del 30 giugno 2018» (così la lettera a, richiamata dalla disposizione impugnata); la ripartizione delle restanti risorse avviene in base al fabbisogno necessario alla copertura delle domande in carico per tutto il periodo di concessione (così la lettera b dello stesso comma 9).
Le articolate previsioni contenute nei successivi commi da 10 a 19 individuano, infine, come beneficiari del fondo i nuclei familiari aventi determinati requisiti economici e coordinano le misure di sostegno del fondo con quelle analoghe di fonte sia statale sia regionale.
3.2.– Proprio quest’ultimo aspetto, relativo al coordinamento e alla integrazione delle misure aventi la medesima finalità, è valorizzato, da più punti di vista, dalla difesa della resistente e in particolare per ritenere che il legislatore regionale avrebbe agito nell’ottica di garantire una sostanziale continuità degli interventi regionali di sostegno al reddito dei nuclei familiari legati al territorio, coordinandoli però con le significative riforme degli analoghi strumenti apprestati dallo Stato. In quest’ottica, la disposizione impugnata si sarebbe occupata delle risorse stanziate per l’attuazione della misura di sostegno regionale che non sono state utilizzate nel 2019, in quanto rivelatesi eccedenti rispetto al bisogno: per le stesse avrebbe quindi stabilito una diversa destinazione in quanto costituirebbero un surplus rispetto a esigenze di carattere primario.
L’argomento tuttavia non è dirimente, anche perché la censura del ricorrente, prescindendo dalla provenienza delle risorse, si concentra piuttosto sullo specifico requisito della residenza quinquennale, necessario per beneficiare delle prestazioni concesse dai Comuni con le risorse in capo ad essi «confermate» dalla norma.
Occorre poi soprattutto considerare che la disposizione censurata non disciplina la struttura e il contenuto degli interventi di contrasto concessi dai servizi sociali comunali, ma si limita: a) a "confermare” in capo ai servizi sociali dei Comuni le risorse già trasferite e non utilizzate per il 2019; b) ad affermare che queste devono essere utilizzate per la concessione di generici interventi di contrasto alla povertà; c) a dettare criteri di selezione dei destinatari.
Ciò a differenza di quanto è dato riscontrare nella disciplina che ha istituito il fondo per l’anno 2019, che invece, come anche quella relativa alla misura attiva di sostegno al reddito che l’ha preceduto, prevedeva espressamente due componenti, una di carattere economico e una di inclusione sociale; quest’ultima, in particolare, strutturata mediante la sottoscrizione di un patto cui erano obbligatoriamente tenuti (a pena di decadenza dal beneficio economico) i componenti maggiorenni del nucleo familiare.
Va inoltre rimarcato che la previsione impugnata nemmeno contiene alcuna disposizione di coordinamento con la disciplina sul Reddito di cittadinanza, mentre entrambe le precedenti discipline regionali si raccordavano con le vigenti misure statali di sostegno al reddito, prevedendo un’integrazione di queste oppure, come disposto per il più recente fondo del 2019, l’attivazione dell’intervento regionale per aiutare i soggetti rimasti esclusi dalle misure statali.
In conclusione, dal tenore della norma impugnata emerge una soluzione di continuità rispetto al peculiare modello degli interventi che l’hanno preceduta e appare chiara la finalità di destinare le risorse individuate (che hanno ormai assunto, nel descritto sviluppo normativo, un carattere autonomo e non possono più essere considerate un mero surplus dell’intervento del 2019) a soddisfare un bisogno basilare e immediato dei beneficiari selezionati, genericamente correlato alla loro situazione di povertà, senza la previsione di un progetto di inclusione.
3.3.– L’analisi dianzi svolta sulla natura degli interventi approntati dal censurato comma 51 dell’art. 9 della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 13 del 2019 esclude, quindi, la possibilità di distinguerli dalle prestazioni legate ai bisogni primari della persona; né si rivela dirimente la formale individuazione del nucleo familiare come beneficiario, risultando invece determinante la condizione di indigenza delle persone che lo compongono.
Nemmeno risolutiva è la circostanza che il requisito della residenza protratta sia richiesto solo per un componente del nucleo familiare, dal momento che il requisito mantiene comunque un carattere escludente: questa Corte ha invece chiarito che la residenza prolungata potrebbe semmai rilevare come criterio premiale, da valutare «in sede di formazione della graduatoria», ma non può costituire, come nella norma impugnata, un requisito che preclude di per sé l’accesso alle provvidenze (sentenza n. 44 del 2020; nello stesso senso, da ultimo, sentenza n. 281 del 2020).
Infatti, mentre il requisito della residenza tout court serve a identificare l’ente pubblico competente a erogare una certa prestazione, quello della residenza protratta determina una irragionevole discriminazione tra i medesimi residenti sul territorio regionale quando esclude l’accesso a provvidenze connesse ai bisogni primari a soggetti imputabili solo «di aver esercitato il proprio diritto di circolazione» o di aver dovuto, per le più svariate ragioni, «mutare regione di residenza» (sentenza n. 107 del 2018).
Tanto precisato, ne deriva che risulta irragionevole negare l’erogazione della prestazione a chiunque abbia la (sola) residenza nella Regione, dal momento «che non vi è alcuna correlazione tra il soddisfacimento dei bisogni primari dell’essere umano, insediatosi nel territorio regionale, e la protrazione nel tempo di tale insediamento (sentenza n. 40 del 2011; sentenza n. 187 del 2010)» (sentenza n. 222 del 2013).
Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 51, lettera b), della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 13 del 2019 con riferimento alle parole «da almeno cinque anni continuativi».
3.4.– Dalla illegittimità ora dichiarata consegue anche quella della disposizione, sempre contenuta nella medesima lettera b) del comma 51, relativa al caso di rimpatrio di corregionali.
Come già rilevato, tale previsione trova esclusiva applicazione come deroga al criterio selettivo della residenza quinquennale continuativa in Regione. Ma una volta ricondotto, all’esito della presente pronuncia, il requisito di ammissione dalla residenza protratta alla mera «residenza in regione», anche la deroga connessa al periodo di residenza all’estero risulta priva di significato.
Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 51, lettera b), della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 13 del 2019, anche con riferimento alle parole «In caso di rimpatrio di corregionali, il periodo di residenza all’estero non è computato e non è considerato quale causa di interruzione della continuità della residenza in regione».
Restano assorbiti gli altri motivi di censura.
4.– L’ultimo motivo di ricorso concerne la disposizione recata dal comma 67 dell’art. 9 della legge regionale impugnata, ai sensi del quale «[a]i fini della programmazione regionale, per consentire la rivalutazione del fabbisogno complessivo di strutture residenziali per anziani non autosufficienti, è sospesa la presentazione delle domande per l’ottenimento dell’autorizzazione alla realizzazione di nuove strutture sino alla conclusione del processo di accreditamento, di cui all’articolo 49 della legge regionale 17/2014, delle strutture già autorizzate all’esercizio in via definitiva o in deroga temporanea, per le quali resta ammessa la possibilità di presentare domanda di ampliamento, trasformazione e trasferimento della sede».
La disposizione citata contrasterebbe con le previsioni statutarie e costituzionali che riconducono alla legislazione concorrente la materia, ovvero, rispettivamente l’art. 5, numero 16), dello statuto di autonomia, in relazione a «igiene e sanità, assistenza sanitaria ed ospedaliera», e l’art. 117, terzo comma, Cost., in riferimento alla «tutela della salute».
In particolare, verrebbero in rilievo gli artt. 8-ter e 8-quater del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), che stabiliscono una netta distinzione per contenuto, presupposti e funzione tra autorizzazione e accreditamento delle strutture sanitarie: la prima, infatti, «presuppone una semplice valutazione del fabbisogno complessivo e della distribuzione (localizzazione) territoriale» delle strutture stesse, mentre il secondo «comporta l’inserimento funzionale della struttura sanitaria autorizzata nel servizio sanitario regionale» che, nei limiti stabiliti dagli accordi contrattuali previsti dall’art. 8-quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992, deve remunerare le prestazioni rese dalle strutture accreditate.
Su tale base non sarebbe consentito collegare la proponibilità delle domande di autorizzazione per la realizzazione di nuove strutture sanitarie all’esito dei procedimenti di accreditamento di quelle esistenti, senza peraltro prevedere alcun termine.
Ad avviso dell’Avvocatura non avrebbe fondamento l’obiezione che il fabbisogno potrebbe essere determinato solo conoscendo numero e localizzazione delle strutture accreditate; ciò in quanto il fabbisogno in questione «è quello delle prestazioni rese nella Regione e non dalla Regione», poiché determinato a prescindere dalla circostanza «se tali prestazioni saranno richieste al servizio sanitario regionale o, invece, in regime di diritto privato».
Il ricorso lamenta altresì la violazione dell’art. 41 Cost., nella parte in cui afferma che l’iniziativa economica privata è libera e in quella in cui «garantisce la libera concorrenza».
In particolare viene richiamato l’orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui – scrive l’Avvocatura – «il sistema di norme che regolamentano l’accesso al mercato di privati che intendono erogare prestazioni sanitarie senza rimborsi o sovvenzioni a carico della spesa pubblica non deve tradursi in una compressione della libertà di iniziativa economica privata»; nello stesso senso è richiamata la posizione espressa dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato diretta a evidenziare come «una politica di contenimento dell’offerta sanitaria possa tradursi in una posizione di privilegio degli operatori del settore già presenti nel mercato, che possono incrementare la loro offerta a discapito dei nuovi entranti, assorbendo la potenzialità della domanda».
Da ultimo, il ricorso afferma che «[s]otto i profili ora illustrati» l’impugnato comma 67 contrasterebbe anche con l’art. 32 Cost., nella parte in cui questo garantisce la «libertà di scelta dei cittadini riguardo alle strutture sanitarie a cui affidarsi».
4.1.– Va preliminarmente disattesa la eccezione di inammissibilità motivata dalla mancata considerazione, da parte del ricorrente, delle disposizioni di cui agli artt. 1 e seguenti del decreto legislativo 20 giugno 2005, n. 126 (Norme di attuazione dello Statuto speciale della regione Friuli-Venezia Giulia, concernenti il trasferimento di funzioni in materia di salute umana e sanità veterinaria). In tal modo, secondo la difesa regionale, non sarebbe stato assolto l’onere di motivare la estraneità della disposizione impugnata anche rispetto alle competenze definite dalle norme di attuazione dello statuto di autonomia.
A escludere la fondatezza della eccezione vale la constatazione dell’estraneità del contenuto del d.lgs. n. 126 del 2005 rispetto allo specifico oggetto della disposizione impugnata.
Il suddetto decreto legislativo, infatti, concerne il trasferimento alla Regione delle «funzioni in tema di salute umana e sanità veterinaria di cui alla tabella «A» allegata al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri in data 26 maggio 2000» (art. 1), tabella che elenca funzioni chiaramente estranee all’ambito della disposizione in esame.
4.2.– Va, invece, rilevata d’ufficio l’inammissibilità della questione riferita alla violazione dell’art. 32 Cost. nella parte in cui, afferma il ricorrente, questo garantisce la più ampia libertà di scelta dei cittadini con riguardo alle strutture sanitarie a cui affidarsi.
Per un verso, la censura è priva di un’autonoma e specifica motivazione; per altro verso, essa non precisa sufficientemente i termini del contrasto lamentato. Infatti, l’art. 8-bis, comma 2, del d.lgs. n. 502 del 1992 dispone che «[i] cittadini esercitano la libera scelta del luogo di cura e dei professionisti nell’ambito dei soggetti accreditati con cui siano stati definiti appositi accordi contrattuali»; pertanto, il ricorrente non chiarisce in che modo la norma impugnata, la quale incide sulla fase dell’autorizzazione e non su quella dell’accreditamento, possa limitare la suddetta libertà di scelta.
4.3.– Occorre, inoltre, precisare che ai fini dello scrutinio nel merito rileva il parametro di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., e non quello statutario parimenti evocato, poiché la relativa competenza in tema di «tutela della salute» è più favorevole rispetto a quanto previsto dallo statuto di autonomia della Regione resistente in materia di «igiene e sanità, assistenza sanitaria ed ospedaliera» (sentenza n. 98 del 2007).
4.4.– La questione promossa con riferimento agli artt. 41, primo comma, e 117, terzo comma, Cost. è fondata.
Occorre premettere che la realizzazione di strutture sanitarie, al pari dell’esercizio di attività sanitarie e sociosanitarie, è disciplinata dall’art. 8-ter del d.lgs. n. 502 del 1992 ed è subordinata ad autorizzazione. Tali autorizzazioni, prosegue il comma 1 della richiamata disposizione, «si applicano alla costruzione di nuove strutture, all’adattamento di strutture già esistenti e alla loro diversa utilizzazione, all’ampliamento o alla trasformazione nonché al trasferimento in altra sede di strutture già autorizzate». Ciò con riferimento a determinate tipologie di strutture, tra cui quelle «sanitarie e sociosanitarie che erogano prestazioni in regime residenziale, a ciclo continuativo o diurno»; categoria in cui rientrano le strutture per anziani non autosufficienti oggetto della disposizione impugnata.
Il comma 3 del citato art. 8-ter prevede poi che per la realizzazione di strutture sanitarie e sociosanitarie il Comune acquisisce, nell’esercizio delle proprie competenze in materia edilizia, «la verifica di compatibilità del progetto da parte della regione. Tale verifica è effettuata in rapporto al fabbisogno complessivo e alla localizzazione territoriale delle strutture presenti in ambito regionale, anche al fine di meglio garantire l’accessibilità ai servizi e valorizzare le aree di insediamento prioritario di nuove strutture».
In questi termini gli unici profili rilevanti per l’autorizzazione sono quelli inerenti il fabbisogno complessivo di prestazioni sanitarie nel territorio e in particolare quelli concernenti la localizzazione delle strutture già presenti, ciò al fine di garantire la corretta distribuzione sul territorio «in modo che siano adeguatamente servite tutte le zone, anche quelle a bassa redditività, che in mancanza di tale strumento non sarebbero coperte» (Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 7 marzo 2019, n. 1589).
Distinto dal fabbisogno rilevante ai fini del rilascio dell’autorizzazione è quello rilevante ai fini dell’accreditamento, che è il fabbisogno di assistenza programmato per garantire l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza (LEA). Mentre il primo implica una valutazione complessiva, che considera anche le prestazioni extra LEA e le strutture private non accreditate, il secondo riguarda unicamente i LEA e prevede il coinvolgimento, in base all’art. 8-bis, comma 1, del d.lgs. n. 502 del 1992, solo «dei presidi direttamente gestiti dalle aziende unità sanitarie locali, delle aziende ospedaliere, delle aziende universitarie e degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, nonché di soggetti accreditati ai sensi dell’articolo 8-quater, nel rispetto degli accordi contrattuali di cui all’articolo 8-quinquies», senza quindi considerare le strutture private non accreditate.
4.4.1.– Ciò premesso, la norma impugnata, ai dichiarati fini della programmazione regionale, per consentire la rivalutazione del fabbisogno complessivo di strutture residenziali per anziani non autosufficienti, sospende la presentazione delle domande per l’ottenimento dell’autorizzazione alla realizzazione di nuove strutture sino alla conclusione del processo di accreditamento delle strutture già autorizzate all’esercizio in via definitiva o in deroga temporanea.
In tal modo, tuttavia, essa contraddice il principio fondamentale desumibile dall’art. 8-ter, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992, per cui, come si è visto – e come anche ha notato la memoria statale –, l’autorizzazione non è subordinata alla verifica di compatibilità con il "fabbisogno programmato” delle prestazioni LEA rese «dalla Regione», bensì a quella con il "fabbisogno complessivo” e attuale «nella Regione», che è stabilito senza che risulti determinante la circostanza se tali prestazioni saranno richieste al Servizio sanitario regionale o, invece, saranno rese in regime di diritto privato.
Non convince quindi il suggestivo argomento della difesa regionale, secondo cui solamente con la conclusione delle procedure di accreditamento delle strutture già autorizzate, sarebbe possibile avere un quadro completo della domanda complessiva di prestazioni sanitarie. Seguendo tale impostazione, infatti, si attribuirebbe alle procedure medesime l’impropria funzione di soddisfare il "fabbisogno complessivo” anziché la quota oggetto della programmazione sanitaria dei LEA; nell’impianto fondamentale dei ricordati articoli del d.lgs. n. 502 del 1992, invece, le vicende del processo di accreditamento restano tendenzialmente estranee alla determinazione del fabbisogno che rileva per la verifica di compatibilità delineata dall’indicato art. 8-ter, comma 3.
Sussiste pertanto la denunciata violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.
4.4.2.– Inoltre, la norma impugnata, attraverso la suddetta sospensione delle autorizzazioni alla realizzazione di nuove strutture, introduce una indebita barriera all’ingresso nel mercato delle prestazioni sanitarie in questione, in contrasto, altresì, con la libertà formale di accesso al mercato garantita dal primo comma dell’art. 41 Cost.
Come rilevato dalla giurisprudenza amministrativa, infatti, ai fini dell’autorizzazione di cui all’art. 8-ter, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992 occorre una «valutazione del fabbisogno accurata ed attualizzata, che sia preceduta e sorretta [da] una idonea istruttoria sull’esistenza di una determinata domanda sanitaria sul territorio e di una correlativa offerta da parte delle strutture private, senza che ciò si traduca di fatto in un illegittimo blocco, a tempo indeterminato, all’accesso del nuovo operatore sul mercato, con una indebita limitazione della sua libertà economica, che non solo non risponde ai criterî ispiratori dell’art. 8-ter, comma 3, d.lgs. n. 502 del 1992, ma è contraria ai principî del diritto eurounitario affermati dalla Corte di Giustizia in riferimento alla pur ampia discrezionalità del legislatore in materia sanitaria» (Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 5 marzo 2020, n. 1637).
4.4.3.– L’indebita limitazione della libertà di accesso al mercato – che si traduce in una posizione di privilegio degli operatori in questo già presenti – peraltro, risulta ulteriormente confermata dalla specifica previsione che, nella norma censurata, ammette una deroga al regime di sospensione delle autorizzazioni in favore della «possibilità di presentare domanda di ampliamento, trasformazione e trasferimento della sede», accordata però alle sole strutture già autorizzate (in via definitiva o in deroga temporanea).
In tal modo, infatti, tale previsione riserva l’offerta ai soli soggetti già presenti sul mercato, peraltro in contraddizione con le stesse esigenze («consentire la rivalutazione del fabbisogno complessivo di strutture residenziali per anziani non autosufficienti») addotte dalla medesima disposizione per giustificare la sospensione delle nuove autorizzazioni.
4.5.– Dalle considerazioni fin qui svolte discende l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 67, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 13 del 2019.
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 51, lettera b), della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 6 agosto 2019, n. 13 (Assestamento del bilancio per gli anni 2019-2021 ai sensi dell’articolo 6 della legge regionale 10 novembre 2015, n. 26), limitatamente alle parole «da almeno cinque anni continuativi. In caso di rimpatrio di corregionali, il periodo di residenza all’estero non è computato e non è considerato quale causa di interruzione della continuità della residenza in regione»;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 67, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 13 del 2019;
3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 9, comma 67, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 13 del 2019, promossa, in riferimento all’art. 32 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe;
4) dichiara cessata la materia del contendere in ordine alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 36, della legge reg. Friuli-Venezia Giulia n. 13 del 2019, promosse, in riferimento agli artt. 3 e 118, quarto comma, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 dicembre 2020.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Luca ANTONINI, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 22 gennaio 2021.