Sentenza n. 230 del 2021

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SENTENZA N. 230

ANNO 2021

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 11, commi 1, lettera a), e 4, del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), promossi dal Tribunale ordinario di Genova con ordinanza del 24 settembre 2020, dal Tribunale ordinario di Catania con ordinanza del 25 novembre 2020 e dal Tribunale ordinario di Genova con ordinanza del 24 settembre 2020, iscritte, rispettivamente, ai numeri 205 e 207 del registro ordinanze 2020 e al n. 10 del registro ordinanze 2021, e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 5 e 6, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visti l’atto di costituzione di G. G., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udita nell’udienza pubblica del 19 ottobre 2021 e nella camera di consiglio del 20 ottobre 2021 la Giudice relatrice Daria de Pretis;

uditi l’avvocato Daniele Granara per G. G. e l’avvocato dello Stato Agnese Soldani per il Presidente del Consiglio dei ministri, la seconda in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 18 maggio 2021;

deliberato nella camera di consiglio del 20 ottobre 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 24 settembre 2020, iscritta al n. 205 del registro ordinanze 2020, il Tribunale ordinario di Genova ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 113 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 11, commi 1, lettera a), e 4, del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235, recante «Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190» (di seguito, anche: “legge Severino”).

Le disposizioni censurate dispongono, rispettivamente: «[s]ono sospesi di diritto dalle cariche indicate al comma 1 dell’articolo 10 […] coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all’articolo 10, comma 1, lettere a), b) e c)» (comma 1, lettera a); e «[l]a sospensione cessa di diritto di produrre effetti decorsi diciotto mesi. Nel caso in cui l’appello proposto dall’interessato avverso la sentenza di condanna sia rigettato anche con sentenza non definitiva, decorre un ulteriore periodo di sospensione che cessa di produrre effetti trascorso il termine di dodici mesi dalla sentenza di rigetto» (comma 4).

1.1.– Il rimettente descrive la controversia oggetto del processo principale nei seguenti termini.

Con decreto del 31 maggio 2019 il Prefetto di Genova ha accertato nei confronti di G. G., ai sensi dell’art. 11, comma 5, del d.lgs. n. 235 del 2012, la sospensione di diritto dalla carica di sindaco del Comune di C., in conseguenza della sentenza non definitiva con la quale il 30 maggio 2019 il Tribunale di Genova lo ha condannato alla pena della reclusione per il reato continuato di peculato, commesso tra il 2010 e il 2012, nella qualità di consigliere regionale della Regione Liguria.

Con ricorso presentato al Tribunale di Genova nei confronti del Ministro dell’interno e del Prefetto di Genova, ai sensi dell'art. 22 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), G. G. ha impugnato il decreto prefettizio di sospensione, assumendone la nullità e chiedendone la disapplicazione.

Nel processo principale il ricorrente lamenta l’illegittimità del provvedimento impugnato, in quanto adottato prima del deposito della motivazione della sentenza di condanna e comunque, in via derivata, in quanto l’art. 11, commi 1, lettera a), e 4, della legge Severino, che ne costituisce la fonte normativa, violerebbe gli artt. 2, 3, 24, 25, secondo comma, 27, secondo comma, 51, 76, 77 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. Le medesime disposizioni contrasterebbero inoltre con gli artt. 47, 48 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, in riferimento ai quali lo stesso ricorrente ha presentato, in via subordinata, istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea.

1.2.– Dopo avere affermato la sussistenza della propria giurisdizione e la titolarità in capo al ricorrente dell’interesse concreto e attuale a una decisione che accerti il suo diritto di elettorato passivo, il rimettente ritiene rilevanti le questioni, stante che la controversia non potrebbe essere definita senza applicare la disposizione censurata. Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la sospensione di diritto contestata opera, infatti, a prescindere dal deposito della motivazione della sentenza, con la conseguenza che il provvedimento impugnato sarebbe stato emesso nel rispetto delle condizioni previste dal citato art. 11, non diversamente interpretabile, anche alla luce della giurisprudenza di questa Corte.

Il giudice a quo osserva, altresì, che questioni di costituzionalità dell’art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012, parzialmente analoghe a quelle oggi all’esame di questa Corte sono state promosse dallo stesso Tribunale di Genova con precedente ordinanza del 27 dicembre 2019, ma che il loro eventuale accoglimento non produrrebbe effetti nel processo principale, in cui trova applicazione la diversa disposizione dell’art. 11 del d.lgs. n. 235 del 2012.

1.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente ne ravvisa la sussistenza in riferimento agli artt. 24 e 113 Cost., mentre ritiene prive di tale requisito, considerati i precedenti di questa Corte (sono citate le sentenze n. 236 del 2015 e n. 276 del 2016), le censure formulate dal ricorrente in relazione ad altri parametri.

Non consentendo un sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità tra la condanna non definitiva e la sospensione dalla carica – configurata come conseguenza automatica della condanna – l’art. 11, commi 1, lettera a), e 4, del d.lgs. n. 235 del 2012 contrasterebbe con il diritto di difesa e con il principio di effettività della tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della pubblica amministrazione.

Le norme censurate si connoterebbero per un rigido automatismo e qualificherebbero de iure come pericolosa la permanenza in carica del condannato in forza di una valutazione di indegnità operata ex ante dal legislatore, in contrasto «con la ritenuta natura cautelare e non sanzionatoria della misura della sospensione».

Essendo precluso – al giudice penale e a chiunque altro – di apprezzare in concreto la gravità delle condotte per le quali è intervenuta la condanna, l’anzidetta misura conseguirebbe anche a condanne per «fattispecie minori di peculato e di corruzione», alle quali, in quanto sanzionate con la reclusione superiore nel massimo edittale a cinque anni, non può essere applicata la causa di non punibilità di cui allo «art. 133-bis» del codice penale. Sarebbero dunque assoggettati alla sospensione anche gli autori di «condotte di peculato e corruzione lievi», che, in ipotesi, abbiano conseguito la loro carica «con larghissimo consenso nella consapevolezza da parte dell’elettorato dell’esistenza di un procedimento penale e dei fatti […] ascritti all’eletto». La volontà dell’elettorato risulterebbe così modificata sulla base di un’astratta valutazione ex lege, senza possibilità di un apprezzamento da parte dell’autorità giudiziaria del fatto accertato in sede penale. E ciò nonostante che le presunzioni legali (assolute) di pericolosità siano state ormai generalmente “espulse” dall’ambito delle misure cautelari e delle misure di sicurezza personali.

La possibilità di impugnare avanti al giudice il provvedimento accertativo della causa di sospensione non consentirebbe, comunque, un sindacato di proporzionalità della misura, sicché il vigente assetto normativo comporterebbe la «mancanza di giustiziabilità della sospensione», anche in sede cautelare, «allo scopo di riesaminare gli accertamenti del giudice penale».

2.– Con atto depositato il 23 febbraio 2021 si è costituito in giudizio G. G., ricorrente nel processo principale, che ha chiesto di accogliere le questioni, aderendo alle considerazioni svolte nell’ordinanza di rimessione sulla lesione del diritto di difesa (art. 24 Cost.) e del principio di effettività della tutela giurisdizionale (art. 113 Cost.).

2.1.– La parte lamenta inoltre la violazione, ad opera delle disposizioni denunciate, degli artt. 3, 48, 51 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU e all’art. 47 CDFUE.

La sospensione potrebbe infatti operare anche in mancanza di esigenze di tutela del buon andamento della pubblica amministrazione, con evidente lesione del diritto di elettorato passivo di cui all'art. 51 Cost. (che sarebbe ingiustificatamente limitato in caso di riforma della condanna in appello), del diritto di elettorato attivo di cui all'art. 48 Cost. (potendo il condannato essere rieletto, pur nella consapevolezza degli elettori delle imputazioni a suo carico) e del principio di proporzionalità (art. 3 Cost.). La parte sottolinea, inoltre, che il principio di effettività della tutela giurisdizionale è desumibile anche dall’art. 47 CDFUE e ribadisce che la disposizione censurata, introducendo una presunzione assoluta di pericolosità, preclude sia la tutela cautelare che quella di merito.

2.2.– La parte chiede, altresì, che questa Corte sollevi davanti a sé questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 11, commi 1, lettera a), e 4, del d.lgs. n. 235 del 2012 per violazione degli artt. 76 e 77 Cost., in relazione all’art. 1, commi 63 e 64, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalita` nella pubblica amministrazione), assumendone la pregiudizialità rispetto alle questioni promosse dal rimettente.

2.3.– Infine, e in via subordinata, G. G. invita questa Corte a proporre domanda di pronuncia pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea ai sensi dell'art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), come modificato dall'art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, sulla compatibilità della prevista sospensione automatica con l’art. 47 della Carta di Nizza, in tema di effettività della tutela giurisdizionale, e con la giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di proporzionalità.

3.– Con atto depositato il 22 febbraio 2021 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la non fondatezza delle questioni.

3.1.– In via preliminare, l’interveniente osserva che non sarebbero chiare le ragioni della censura del comma 4 dell’art. 11 del d.lgs. n. 235 del 2012, sorgendo il dubbio che il rimettente volesse invece riferirsi al comma 5 della stessa disposizione, secondo cui «[a] cura della cancelleria del tribunale o della segreteria del pubblico ministero i provvedimenti giudiziari che comportano la sospensione sono comunicati al prefetto, il quale, accertata la sussistenza di una causa di sospensione, provvede a notificare il relativo provvedimento agli organi che hanno convalidato l’elezione o deliberato la nomina».

3.2.– Nel merito – premesso che il d.lgs. n. 235 del 2012 ha riordinato la disciplina delle cariche elettive, allargando il novero delle ipotesi che possono dare luogo a incandidabilità, decadenza e sospensione, inizialmente limitate all’ambito delle infiltrazioni della criminalità organizzata e in seguito estese sino a ricomprendere i reati contro la pubblica amministrazione – l’interveniente osserva che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, la sospensione dalla carica elettiva per un tempo determinato a fronte di una condanna non definitiva per reati quali il peculato non ha natura sanzionatoria bensì cautelare, essendo diretta a prevenire o comunque a limitare il pericolo della perdita d’immagine degli apparati pubblici.

Inoltre, un’esigenza di proporzionalità non sarebbe prospettabile rispetto al fatto commesso, ma piuttosto «rispetto alla possibile lesione dell’interesse pubblico causata dalla permanenza dell’eletto nell’organo elettivo», sicché non si porrebbe un problema di adeguatezza della misura rispetto alla gravità del fatto (sono citate le sentenze di questa Corte n. 276 del 2016 e n. 25 del 2002, quest’ultima riferita alla previgente disciplina di cui all’art. 15, comma 4, della legge 19 marzo 1990, n. 55, recante «Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale»).

La stessa mancanza di discrezionalità in capo all’autorità amministrativa chiamata ad accertare l’intervenuta causa di sospensione – e dunque lo stesso automatismo applicativo censurato dal rimettente – costituirebbe invece, sempre secondo la giurisprudenza costituzionale, «un indice ulteriore del fatto che l’incapacità giuridica temporanea di cui si discute non consegue a un giudizio di riprovazione personale, ma è semplicemente diretta a garantire l’oggettiva onorabilità di chi riveste la funzione di cui si tratta» (è citata, ancora, la sentenza n. 276 del 2016).

Sarebbe pertanto inconferente il richiamo a parametri quali la proporzionalità della sospensione rispetto alla gravità del fatto o l’accertamento in concreto della pericolosità del condannato in via non definitiva, tipici delle misure cautelari penali, che rispondono a esigenze processuali o a finalità di prevenzione speciale.

Come affermato ancora da questa Corte (sono citate le sentenze n. 25 del 2002 e n. 206 del 1999), non si potrebbe comunque negare al legislatore la facoltà di operare il necessario bilanciamento degli interessi coinvolti, identificando ipotesi circoscritte nelle quali l’esigenza cautelare è apprezzata in via generale e astratta dalla stessa legge. Così come rientra nella sua discrezionalità la definizione in via generale e astratta dell’ambito di applicazione della misura cautelare in relazione ai soggetti coinvolti e al nesso tra la condanna non definitiva e le funzioni elettive svolte.

3.3.– Quanto al lamentato “tradimento” della volontà elettorale, si tratterebbe di una censura inammissibile, sia perché non accompagnata dall’indicazione del parametro costituzionale violato, sia perché ne difetterebbe la rilevanza, essendo la condanna intervenuta, nel caso di specie, dopo l’elezione alla carica di sindaco, onde la sospensione non produrrebbe alcuna “modifica” della volontà dell’elettorato, tutt’al più potenzialmente consapevole della pendenza del processo.

3.4.– In conclusione, non sussisterebbe la violazione degli artt. 24 e 113 Cost., poiché l’interessato può far valere in giudizio eventuali doglianze relative all’insussistenza dei presupposti stabiliti dalla legge per l’adozione del provvedimento di sospensione. L’impossibilità di ottenere in tale sede il riesame degli accertamenti compiuti dal giudice penale non sarebbe in contrasto con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, in quanto il diritto di difesa, secondo la giurisprudenza costituzionale, concerne la possibilità di far valere in giudizio posizioni soggettive giuridicamente protette e non riguarda l’esistenza e il contenuto di queste ultime (è citata la sentenza n. 206 del 1999).

4.– Il ricorrente nel processo principale ha depositato, il 28 settembre 2021, una memoria illustrativa in cui sviluppa le considerazioni già svolte e ribadisce le istanze di autorimessione e di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia avanzate nell’atto di costituzione in giudizio.

5.– Anche il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato, il 27 settembre 2021, una memoria illustrativa, in cui, insistendo per l’accoglimento delle conclusioni già assunte, richiama le considerazioni svolte da questa Corte nella sopravvenuta sentenza n. 35 del 2021 – con riferimento all’analoga misura prevista all’art. 8, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012 e sotto il profilo della sua compatibilità con l’art. 3 del Protocollo addizionale alla CEDU, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 – in ordine alla non irragionevolezza, e comunque non arbitrarietà, della scelta legislativa, nonché in ordine alla non sproporzione della misura in esame.

Dalle medesime considerazioni si desumerebbe anche l’infondatezza dell’istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, comunque inammissibile per difetto di rilevanza, poiché la questione interpretativa del diritto europeo è posta solo in via subordinata al mancato accoglimento della questione di legittimità costituzionale, rispetto alla quale non avrebbe, dunque, carattere pregiudiziale.

Sarebbero inammissibili anche le altre censure formulate dalla parte costituita – di violazione degli artt. 3, 48, 57 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU – in quanto fondate su parametri diversi da quelli individuati nell’ordinanza di rimessione, nonché l’istanza di autorimessione della questione concernente il vizio di eccesso di delega, perché avrebbe per oggetto le stesse disposizioni censurate dal rimettente e, in ogni caso, non supererebbe il vaglio della non manifesta infondatezza.

6.– Con ordinanza del 25 novembre 2020, iscritta al n. 207 del registro ordinanze 2020, il Tribunale ordinario di Catania ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 11, commi 1 e 4, del d.lgs. n. 235 del 2012, in riferimento agli «articoli 3, comma 1, 48, commi 1 e 2, 51, comma 1, e 97, comma 1 della Costituzione, tenuto in considerazione il principio di incolpevolezza [recte: non colpevolezza] sancito all’articolo 27, comma 1, Costituzione».

6.1.– Le questioni sono sorte durante un giudizio promosso da S.D.A. P. ai sensi dell'art. 22 del d.lgs. n. 150 del 2011. Oggetto di impugnazione è il decreto del 24 luglio 2020, con cui il Prefetto di Catania ha accertato la sospensione di diritto dalla sua carica di sindaco del Comune di C., in conseguenza della sentenza non definitiva, pronunciata dal Tribunale ordinario di Palermo, di condanna dello stesso S.D.A. P. alla pena di quattro anni e tre mesi di reclusione per il reato continuato di peculato.

In corso di causa il ricorrente ha presentato istanza cautelare di sospensione degli effetti del provvedimento impugnato.

6.2.– Dopo avere affermato la sussistenza della sua giurisdizione, il rimettente esclude, in primo luogo, il fumus boni iuris delle censure di incompetenza, eccesso di potere, difetto di istruttoria e motivazione, nonché di omessa comunicazione dell’avvio del procedimento.

6.2.1.– Il rimettente ritiene, invece, rilevanti e non manifestamente infondate, in riferimento agli indicati parametri, le questioni che investono i commi 1 e 4 dell’art. 11 del d.lgs. n. 235 del 2012, «nella parte in cui stabiliscono la sospensione cautelare nella misura fissa di 18 mesi, invece che in misura graduale “sino a 18 mesi”».

Ad avviso del giudice a quo, l’esigenza di protezione dell’amministrazione presso la quale il condannato esercita la funzione elettiva, sottesa alla sospensione dalla carica, richiederebbe una verifica in concreto dell’entità del pregiudizio causato dai comportamenti per i quali è intervenuta la condanna, nonché una valutazione complessiva dei contrapposti interessi in gioco, tutti di valenza costituzionale.

La vigente formulazione dell’art. 11, commi 1 e 4, del d.lgs. n. 235 del 2012 escluderebbe la possibilità di ponderare tali interessi ai fini della determinazione della durata della misura «entro un limite massimo stabilito dal legislatore» da parte dell’autorità «deputata a decretare la sospensione», e ciò comporterebbe il dubbio di violazione dell’art. 3, primo comma, Cost. sotto un profilo non ancora esaminato da questa Corte nelle pronunce già adottate in materia (sono citate le sentenze n. 276 del 2016 e n. 36 del 2019).

La misura fissa della sospensione, che non consente di tenere conto «della tipologia del fatto e dell’entità del comportamento illecito accertato», né «dell’entità del pregiudizio che può derivare all’ente», introdurrebbe, infatti, un regime illogicamente e ingiustificatamente uguale per «comportamenti ontologicamente diversi oppure posti in essere con minore o maggiore gravità e, quindi, notevolmente disomogenei», in contrasto con i principi di pari dignità sociale e di uguaglianza.

Sulla necessità di riferire la congruità della misura al comportamento del suo autore, in applicazione dei principi di adeguatezza e di proporzionalità, il rimettente cita le sentenze di questa Corte n. 222 del 2018 in tema di sanzione accessoria prevista dall'art. 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), e n. 24 del 2020 sul provvedimento di revoca della patente di guida di cui all’art. 120, comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nonché la disciplina sulla durata delle misure cautelari interdittive contenuta nel codice di procedura penale.

6.2.2.– Ad avviso del rimettente, le questioni andrebbero esaminate in base al «combinato disposto» dell’art. 3, primo comma, Cost., sotto il profilo appena esposto, con gli «articoli [...] 97, comma 1, 51, comma 1, e 48, commi 1 e 2», Cost.

Il pregiudizio dell’interesse al buon andamento dell’amministrazione protetto dall’art. 97 Cost potrebbe mutare sensibilmente caso per caso, a seconda della gravità del comportamento illecito, e richiederebbe dunque una valutazione in concreto. E ciò tanto più in seguito all’ampliamento della platea dei reati per cui è prevista la sospensione dalla carica, originariamente limitata ai reati di criminalità organizzata (onde la sentenza n. 206 del 1999, sulla sospensione dalla carica disciplinata dall’art. 15 della legge n. 55 del 1990, si dovrebbe considerare superata) ed estesa poi ad altri, come quelli contro la pubblica amministrazione.

6.2.3.– La valutazione in concreto del tipo di reato commesso e della maggiore o minore gravità del comportamento illecito sarebbe imposta anche dalla considerazione degli interessi tutelati dagli artt. 48 e 51 Cost., tenuto conto (quanto all’elettorato passivo) del grave e irreparabile pregiudizio all’esercizio della funzione elettiva che deriverebbe al titolare della carica nel caso di proscioglimento successivo alla sospensione, nonché (quanto all’elettorato attivo) del pregiudizio all’interesse della «comunità» alla continuazione dell’esercizio della funzione da parte dell’eletto.

La mancata previsione di un potere di valutazione in concreto si risolverebbe in un non corretto bilanciamento tra gli interessi in gioco.

6.2.4.– Le questioni sarebbero rilevanti, riguardando disposizioni sulla cui base è stato adottato il provvedimento prefettizio impugnato, e ammissibili, giacché, ove accolte, non sarebbero necessari interventi del legislatore. Al comma 1 dell’art. 11 del d.lgs. n. 235 del 2012 si dovrebbero infatti sostituire le parole «[s]ono sospesi di diritto» con le parole «sono sospesi sino a 18 mesi», mentre al comma 4 dello stesso art. 11 sarebbe sufficiente sopprimere il primo periodo, secondo cui «[l]a sospensione cessa di diritto di produrre effetti decorsi diciotto mesi».

6.2.5.– Con la stessa ordinanza, il giudice a quo ha accolto l’istanza cautelare, sospendendo provvisoriamente gli effetti del decreto prefettizio impugnato fino alla definizione dell’incidente di legittimità costituzionale.

7.– Con atto depositato il 22 febbraio 2021 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la non fondatezza delle questioni.

L’Avvocatura offre argomenti analoghi, anche testualmente, a quelli già svolti nell’atto di intervento nel giudizio promosso con l’ordinanza iscritta al n. 205 del registro ordinanze 2020.

A suo giudizio, inoltre, non sarebbero conferenti le pronunce di questa Corte invocate dal giudice a quo (sentenze n. 222 del 2018 e n. 24 del 2020), poiché la necessità, in esse affermata, di procedere a una valutazione in concreto e caso per caso riguarderebbe istituti aventi natura sanzionatoria o finalità rieducative.

Secondo l’Avvocatura, l’automatismo insito nella durata fissa della misura non esclude un corretto bilanciamento tra il principio di buon andamento e il diritto di elettorato attivo e passivo, bilanciamento in effetti operato a monte dall’art. 11 del d.lgs. n. 235 del 2012.

Deporrebbero in tal senso la gradualità dell’applicazione della misura, non prevista per qualunque condanna, e la diversa disciplina riservata a delitti particolarmente gravi attinenti al traffico di stupefacenti, alla criminalità organizzata e contro la pubblica amministrazione (art. 11, comma 1, lettera a, del d.lgs. n. 235 del 2012) e a delitti “comuni” non colposi situati al di sopra di una determinata soglia di gravità, in quanto puniti in concreto con una condanna a una pena non inferiore a due anni di reclusione (art. 11, comma 1, lettera b, del d.lgs. n. 235 del 2012). Per questi ultimi, l’incidenza della condanna sul mandato elettivo è subordinata a requisiti molto più stringenti, quali la conferma della condanna in appello e la sopravvenienza della stessa condanna all’elezione o alla nomina, ciò che rivelerebbe il «maggior peso» attribuito dal legislatore al diritto di elettorato attivo e passivo nei casi meno gravi.

7.1.– Quanto alla durata fissa, l’equilibrio tra gli interessi in gioco sarebbe garantito dal carattere interinale della sospensione, oltre che dalla sua «limitata severità, sia in termini oggettivi di durata, sia in termini soggettivi di detrimento della reputazione» (è citata la sentenza n. 276 del 2016).

In conclusione, nessuno dei parametri invocati dal rimettente sarebbe violato dalle disposizioni censurate.

8.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato il 28 settembre 2021 una memoria illustrativa nella quale richiama le considerazioni svolte da questa Corte nella sopravvenuta sentenza n. 35 del 2021.

9.– Con una seconda ordinanza del 24 settembre 2020, iscritta al n. 10 del registro ordinanze 2021, il Tribunale ordinario di Genova ha sollevato questioni di legittimità costituzionale coincidenti – per oggetto (art. 11, commi 1, lettera a, e 4, del d.lgs. n. 235 del 2012), parametri invocati (artt. 24 e 113 Cost.) e motivi di censura – con quelle sollevate con l’ordinanza iscritta al n. 205 del registro ordinanze 2020 e sorte nel corso di una controversia analoga.

Nel giudizio a quo M. L. ha impugnato il decreto del 31 maggio 2019, con cui il Prefetto di Genova ha accertato nei suoi confronti la sospensione di diritto dalla carica di sindaco del Comune di C., a seguito della sentenza non definitiva con la quale il 30 maggio 2019 il Tribunale di Genova lo ha condannato alla pena di tre anni di reclusione per fatti di peculato commessi tra il 2010 e il 2015 nella qualità di consigliere regionale della Regione Liguria.

9.1.– Anche in questa controversia il ricorrente ha chiesto la disapplicazione del decreto prefettizio impugnato, assumendone la nullità per ragioni sostanzialmente identiche a quelle dedotte nell’altro giudizio citato, e il rimettente ha considerato rilevanti e non manifestamente infondate le sole questioni riferite agli artt. 24 e 113 Cost.

10.– Con atto depositato il 1° marzo 2021 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate per le stesse ragioni svolte nell’atto di intervento nell’altro giudizio originato dall’ordinanza iscritta al n. 205 del registro ordinanze 2020. La difesa erariale ha poi depositato il 28 settembre 2021 una memoria illustrativa di contenuto analogo a quelle depositate negli altri due giudizi.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 24 settembre 2020, iscritta al n. 205 del registro ordinanze 2020, il Tribunale ordinario di Genova dubita della legittimità costituzionale dell’art. 11, commi 1, lettera a), e 4, del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235, recante «Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190» (di seguito, anche: “legge Severino”), in riferimento agli artt. 24 e 113 della Costituzione.

Le questioni sono sorte nel corso di un giudizio avente per oggetto il decreto con cui il Prefetto di Genova ha dichiarato la sussistenza in capo a G. G. di una causa di sospensione di diritto dalla carica di sindaco del Comune di C. ai sensi dell’art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012. In base a questa disposizione, «[s]ono sospesi di diritto dalle cariche indicate al comma 1 dell’articolo 10 […] coloro che hanno riportato una condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all’articolo 10, comma 1, lettere a), b) e c)».

Il giudice a quo riferisce che la sospensione si fonda su una sentenza di condanna non definitiva pronunciata dal Tribunale di Genova per fatti di peculato commessi da G. G. nella qualità di consigliere della Regione Liguria.

1.1.– Secondo il rimettente, l’art. 11, commi 1, lettera a), e 4, del d.lgs. n. 235 del 2012 contrasterebbe con il diritto di difesa e con il principio di effettività della tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della pubblica amministrazione, non consentendo all’autorità giudiziaria di sindacare la proporzionalità tra la condanna non definitiva e la sospensione dalla carica, che è configurata dal legislatore come conseguenza automatica della condanna in forza di un’astratta valutazione di pericolosità, preclusiva di qualsiasi apprezzamento del fatto accertato in sede penale. Sarebbero in tal modo assoggettati alla sospensione anche gli autori di «condotte di peculato e corruzione lievi» e ne risulterebbe modificata la volontà dell’elettorato.

Il vigente assetto normativo si risolverebbe, dunque, nella «mancanza di giustiziabilità della sospensione», anche per l’impossibilità di ottenere tutela giurisdizionale in via cautelare «allo scopo di riesaminare gli accertamenti del giudice penale».

2.– Con ordinanza del 25 novembre 2020, iscritta al n. 207 del registro ordinanze 2020, anche il Tribunale ordinario di Catania dubita della legittimità costituzionale dell’art. 11, commi 1 e 4, del d.lgs. n. 235 del 2012, in riferimento agli «articoli 3, comma 1, 48, commi 1 e 2, 51, comma 1, e 97, comma 1 della Costituzione, tenuto in considerazione il principio di incolpevolezza [recte: non colpevolezza] sancito all’articolo 27, comma 1, Costituzione».

Oggetto del giudizio a quo è in questo caso il decreto con cui il Prefetto di Catania ha accertato nei confronti di S.D.A. P. la sospensione di diritto dalla sua carica di sindaco del Comune di C., in conseguenza della sentenza non definitiva, pronunciata dal Tribunale ordinario di Palermo, di condanna dello stesso S.D.A. P. per il reato continuato di peculato.

L’art. 11, commi 1 e 4, del d.lgs. n. 235 del 2012 è censurato «nella parte in cui stabilisc[e] la sospensione cautelare nella misura fissa di 18 mesi, invece che in misura graduale “sino a 18 mesi”».

Secondo il rimettente, l’esigenza cautelare sottesa alla sospensione dalla carica richiederebbe una verifica in concreto dell’entità del pregiudizio causato all’amministrazione, che potrebbe mutare sensibilmente caso per caso, in ragione della tipologia del reato e della maggiore o minore gravità del comportamento illecito accertato in sede penale.

Prevedendo una durata fissa della sospensione, il legislatore avrebbe dunque introdotto un regime ingiustificatamente uguale per «comportamenti ontologicamente diversi oppure posti in essere con minore o maggiore gravità e, quindi, notevolmente disomogenei», in contrasto con il principio di uguaglianza, di cui all’art. 3, primo comma, Cost.

Le questioni andrebbero esaminate in base al «combinato disposto» del citato art. 3, primo comma, Cost. con gli «articoli [...] 97, comma 1, 51, comma 1, e 48, commi 1 e 2», Cost., tenendo conto anche del principio di non colpevolezza sino alla condanna definitiva, «sancito all’articolo 27, comma 1», Cost., in quanto la disposizione censurata sarebbe il frutto di un non corretto bilanciamento tra l’interesse al buon andamento dell’azione amministrativa e i contrapposti interessi dell’eletto al mantenimento della carica e degli elettori a che esso continui a svolgere la sua funzione.

3.– Con una seconda ordinanza del 24 settembre 2020, iscritta al n. 10 del registro ordinanze 2021, il Tribunale di Genova ha sollevato questioni di legittimità costituzionale coincidenti – per oggetto (art. 11, commi 1, lettera a, e 4, del d.lgs. n. 235 del 2012), parametri invocati (artt. 24 e 113 Cost.) e motivi di censura – con quelle sollevate dallo stesso rimettente con l’ordinanza iscritta al n. 205 del registro ordinanze 2020 e sorte nel corso di una controversia analoga.

Nel giudizio a quo, infatti, M. L. ha impugnato il decreto con cui il Prefetto di Genova ha accertato nei suoi confronti la sospensione di diritto dalla carica di sindaco del Comune di C., a seguito della sentenza non definitiva con la quale il Tribunale di Genova lo ha condannato per fatti di peculato commessi nella qualità di consigliere regionale della Regione Liguria.

4.– I giudizi vanno riuniti e decisi con unica sentenza, giacché le questioni sollevate dai Tribunali di Genova e di Catania coincidono per l’oggetto e si fondano su motivi di censura in parte analoghi, anche se riferiti a parametri diversi.

5.– In via preliminare, va rilevato che la parte costituita in giudizio G. G., ricorrente in uno dei processi principali pendenti davanti al Tribunale di Genova, ha dedotto anche la violazione degli artt. 3, 48, 51 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. Si tratta di questioni in parte già eccepite dal medesimo ricorrente davanti al giudice a quo – e da quest’ultimo ritenute manifestamente infondate – e in parte dedotte ex novo in questa sede.

Tali questioni non possono avere ingresso in questo giudizio.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle norme e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione, mentre non possono essere presi in considerazione ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, diretti ad ampliare o modificare il contenuto delle stesse ordinanze, quand’anche eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo (ex plurimis, sentenze n. 203, n. 172, n. 149, n. 147, n. 119, n. 49 e n. 35 del 2021, n. 35 del 2017 e n. 203 del 2016).

Dall’estraneità al thema decidendum della censura di incompatibilità con il diritto dell’Unione europea prospettata dalla parte privata deriva l’estraneità ad esso anche della questione interpretativa che la medesima parte chiede, in via subordinata, di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea con istanza di rinvio pregiudiziale (sentenza n. 49 del 2021).

5.1.– Quanto alla richiesta di autorimessione della questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 11, commi 1, lettera a), e 4, del d.lgs. n. 235 del 2012 per violazione degli artt. 76 e 77 Cost., in relazione all’art. 1, commi 63 e 64, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalita` nella pubblica amministrazione), essa è inammissibile per diverse ragioni.

In primo luogo, in quanto l’obiettivo con essa perseguito è pur sempre quello di estendere il giudizio di legittimità costituzionale a profili eccepiti nel processo principale, ma espressamente esclusi dal giudice a quo, che si è pronunciato per la loro manifesta infondatezza, con la conseguenza che la sollecitazione a questa Corte di sollevare di fronte a se stessa la relativa questione, ove fosse considerata ammissibile, finirebbe per configurarsi nella sostanza come l’improprio ricorso a un mezzo di impugnazione della decisione del giudice rimettente (sentenza n. 35 del 2017).

In secondo luogo, «[l]a possibilità che questa Corte sollevi in via incidentale una questione davanti a sé si dà solo allorché dubiti della legittimità costituzionale di una norma, diversa da quella impugnata, che sia chiamata necessariamente ad applicare nell’iter logico per arrivare alla decisione sulla questione che le è stata sottoposta: in altri termini, si deve trattare di una questione che si presenti pregiudiziale alla definizione della questione principale e strumentale rispetto alla decisione da emanare (sentenze n. 122 del 1976, n. 195 del 1972 e n. 68 del 1961)» (sentenza n. 24 del 2018). Nella specie, la questione avrebbe invece per oggetto le stesse norme censurate dal rimettente, sicché deve escludersi che sussista il nesso di pregiudizialità che consente a questa Corte di sollevare davanti a sé una questione in via incidentale (in questo senso, da ultimo, sentenza n. 203 del 2021).

5.2.– Ancora in via preliminare, va corretto il riferimento agli artt. 27, primo comma, e 97, primo comma, Cost., contenuto nell’ordinanza del Tribunale di Catania, nel senso che, alla luce della motivazione, si devono intendere invocati i principi di non colpevolezza e di buon andamento dell’azione amministrativa di cui, rispettivamente, agli artt. 27, secondo comma, e 97, secondo comma, Cost.

Infine, nonostante il Tribunale di Catania censuri l’intero comma 1 dell’art. 11 del d.lgs. n. 235 del 2012, le questioni vanno circoscritte alla lettera a) del medesimo comma. È questa, infatti, la disposizione che, prevedendo la sospensione di coloro che hanno riportato una sentenza di condanna non definitiva per uno dei delitti indicati all’art. 10, comma 1, lettere a), b) e c), dello stesso decreto legislativo, deve essere applicata nel giudizio a quo, relativo a un provvedimento di sospensione dalla carica di un sindaco condannato in primo grado per il delitto di peculato di cui all’art. 314 cod. pen., compreso nell’elenco di cui al citato art. 10, comma 1, lettera c).

6.– Nel merito, si esaminano per prime le identiche questioni sollevate dal Tribunale di Genova con le due ordinanze sopra indicate.

Il rimettente lamenta, come visto, che la disposizione censurata non gli consentirebbe di sindacare la proporzionalità della sospensione rispetto alla gravità dei fatti accertati in sede penale, in quanto la misura sarebbe configurata dal legislatore come una conseguenza automatica della condanna non definitiva, anche per fatti di lieve entità, sulla base di una presunzione di pericolosità della permanenza in carica del condannato.

Tali considerazioni sono poste a fondamento di questioni che prospettano la lesione del diritto di difesa (art. 24 Cost.) e del principio di effettività della tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della pubblica amministrazione (art. 113 Cost.), sull’assunto che, pur offrendo l’ordinamento la facoltà di impugnare il decreto di sospensione davanti all’autorità giudiziaria, l’impossibilità di contestare la congruità della misura rispetto al comportamento che ha determinato la condanna si risolverebbe nella mancanza di reale «giustiziabilità» del provvedimento impugnato.

6.1.– Le questioni non sono fondate.

Il presupposto da cui muove il rimettente – secondo cui esso non ha il potere di valutare se la sospensione del condannato dalla carica sia proporzionata in concreto alla gravità del fatto accertato con sentenza non definitiva – è corretto. Il decreto prefettizio previsto all’art. 11, comma 5, del d.lgs. n. 235 del 2012, impugnato davanti all’autorità giudiziaria, ha carattere vincolato e assolve a una funzione di mero accertamento dell’effetto sospensivo derivante direttamente dalla pronuncia di condanna (sentenze n. 352 del 2008 e n. 407 del 1992, rese in riferimento alle analoghe misure previste nella previgente disciplina di cui all’art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, recante «Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale»). Il legislatore ha scelto infatti di individuare egli stesso le condizioni per l’applicazione della sospensione e di riservare ai giudici il compito di verificarne la sussistenza, senza apprezzamenti da operare nel caso specifico.

Una soluzione normativa di questo tipo non integra, di per sé, la violazione degli artt. 24 e 113 Cost.

Secondo il costante orientamento di questa Corte, «l’art. 24, come pure il successivo art. 113 Cost., enunciano il principio dell’effettività del diritto di difesa, il primo in ambito generale, il secondo con riguardo alla tutela contro gli atti della pubblica amministrazione, ed entrambi tali parametri sono volti a presidiare l’adeguatezza degli strumenti processuali posti a disposizione dall’ordinamento per la tutela in giudizio dei diritti, operando esclusivamente sul piano processuale (in tal senso, ex plurimis, sentenza n. 20 del 2009)» (sentenza n. 71 del 2015). La garanzia costituzionale non comporta tuttavia che il cittadino debba conseguire la tutela giurisdizionale sempre nello stesso modo e con i medesimi effetti, assicurando invece che «non vengano imposti oneri o prescritte modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale (tra le tante, sentenze n. 199 del 2017, n. 121 e n. 44 del 2016)» (sentenza n. 271 del 2019).

Ne deriva che la violazione dei citati parametri costituzionali si può considerare sussistente solo nei casi di «sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 della Costituzione» (sentenza n. 237 del 2007) o di imposizione di oneri tali da compromettere irreparabilmente la tutela stessa (ordinanza n. 213 del 2005) e non anche nel caso in cui la norma censurata non elimini affatto la possibilità di usufruire della tutela giurisdizionale (sentenza n. 85 del 2013).

La valenza esclusivamente processuale propria degli artt. 24 e 113 Cost. fa sì che «“la garanzia costituzionale della difesa oper[i] entro i limiti del diritto sostanziale” (sentenza n. 178 del 1975)» (sentenza n. 420 del 1998; in senso analogo, sentenza n. 98 del 2019) e non esclude che il sindacato del giudice «possa essere più o meno penetrante a seconda del tipo di disciplina legislativa di carattere sostanziale che regola l’atto di volta in volta preso in considerazione» (sentenza n. 409 del 1988, con specifico riguardo all’art. 113 Cost.). Non si può dunque a ragione prospettare una tale violazione «in difetto di una norma che riconosca una situazione di diritto sostanziale» (ex plurimis, sentenza n. 317 del 1990).

Alla luce di queste considerazioni, il richiamo operato dal giudice a quo agli artt. 24 e 113 Cost. è inconferente.

Una disciplina sostanziale che collega automaticamente la sospensione alla condanna penale non definitiva per determinati reati non è idonea a violare, di per sé, a cagione del previsto automatismo, il diritto di difesa, in quanto non preclude all’interessato la possibilità di far valere in giudizio il suo diritto nei limiti in cui esso è protetto dal diritto sostanziale.

Occupandosi di un automatismo sanzionatorio – contenuto in una disposizione in materia di procedimenti disciplinari a carico dei notai, censurata per la violazione dei principi di proporzionalità e di individualizzazione delle pene (art. 3 Cost.), e per la conseguente compressione del diritto di difesa (art. 24 Cost.) – questa Corte ha affermato che, «[u]na volta escluso che la disciplina sostanziale incorra essa stessa in un vizio di illegittimità costituzionale [riferita all’art. 3 Cost.] nel prevedere l’automatismo sanzionatorio in parola, anche questa ulteriore censura [riferita all’art. 24 Cost.] deve necessariamente ritenersi non fondata», in quanto «[l]’allegata compressione del diritto di difesa del notaio incolpato, che discenderebbe secondo il rimettente dall’impossibilità a carico dello stesso “di chiedere al giudice di apprezzare la sua condotta in concreto e di pervenire all’irrogazione della sanzione più adeguata al caso”, costituisce infatti il mero riflesso della preclusione stabilita sul piano sostanziale dalla disposizione censurata, che vieta per l’appunto al giudice (disciplinare) di irrogare una sanzione diversa dalla destituzione, in presenza dei requisiti indicati dalla disposizione medesima» (sentenza n. 133 del 2019).

In precedenza, lo stesso principio era stato enunciato da questa Corte proprio con riferimento alla misura della sospensione dalle cariche elettive, nella versione disciplinata dalla normativa previgente: «[u]na volta ammessa la legittimità di una sospensione obbligatoria in relazione alle circostanze specifiche individuate dal legislatore, non può riconoscersi fondamento nemmeno alla censura di violazione del diritto alla difesa, di cui all’art. 24, secondo comma, della Costituzione», in quanto «il diritto costituzionale di difesa (come lo stesso diritto alla tutela giudiziaria, di cui all’art. 24, primo comma, della Costituzione) attiene alla possibilità effettiva di far valere nel giudizio le proprie posizioni giuridicamente protette, e non riguarda l’esistenza e il contenuto di queste ultime, onde non può essere invocato quando manchi la posizione di diritto sostanziale di cui possa essere chiesta la tutela giudiziaria (cfr. sentenze nn. 317 del 1990, 146 del 1996, 420 del 1998; ordinanza n. 141 del 1990)» (sentenza n. 206 del 1999).

A maggior ragione si deve pervenire alla medesima conclusione allorché, come nella specie, l’automatismo degli effetti sospensivi sia investito esclusivamente da una censura di violazione degli artt. 24 e 113 Cost., sull’assunto che la qualificazione come vincolato anziché come discrezionale del potere del prefetto di disporre la sospensione – potere ovviamente sempre contestabile in giudizio per eventuali vizi nel suo esercizio – si tradurrebbe di per sé in una lesione del principio costituzionale di effettività della tutela giurisdizionale.

L’allegata compressione del diritto di difesa del titolare della carica colpito dalla sospensione costituisce infatti il mero riflesso della preclusione stabilita sul piano sostanziale dalla disposizione censurata, della quale tuttavia il rimettente non si duole mediante l’invocazione di parametri pertinenti.

7.– Le questioni sollevate dal Tribunale di Catania si incentrano, come visto, sulla durata della sospensione, in quanto stabilita dal legislatore nella misura fissa di diciotto mesi anziché in una misura graduale, entro il limite massimo di diciotto mesi, da riservare alla determinazione dell’autorità «deputata a decretare la sospensione».

Il giudice a quo lamenta che le disposizioni censurate non considerino l’entità del pregiudizio causato all’amministrazione presso la quale il condannato esercita la carica elettiva, un pregiudizio che potrebbe variare a seconda della differente tipologia dei reati accertati, vista la multiforme platea dei reati ostativi creata dal legislatore, e a seconda della loro gravità. Di conseguenza, la stessa natura cautelare della misura che quel pregiudizio mira a scongiurare imporrebbe di diversificarne in concreto la durata, entro un limite massimo predeterminato.

Non tenendo conto di tale esigenza ed equiparando situazioni differenti, le disposizioni censurate violerebbero il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.). Non sarebbero bilanciati correttamente gli interessi in gioco, in particolare quello (tutelato dall’art. 97 Cost.) al buon andamento dell’azione amministrativa e quelli contrapposti (tutelati dagli artt. 48 e 51 Cost.) dell’eletto al mantenimento della carica e degli elettori alla continuazione della funzione da parte del cittadino da essi democraticamente scelto, nonché il principio di non colpevolezza sino alla condanna definitiva (art. 27 Cost.).

7.1.– Le questioni non sono fondate.

L’accento posto dal giudice a quo sulla necessità che spetti all’autorità amministrativa che le applica – e conseguentemente al giudice che ne controlli la scelta – di calibrare la durata della sospensione sulla maggiore o minore gravità dell’esigenza cautelare di tutela del buon andamento e della legalità dell’azione amministrativa non introduce significativi elementi di novità rispetto ai temi già esaminati a più riprese da questa Corte scrutinando, sotto diversi profili di legittimità costituzionale, le norme sulla sospensione dalle cariche elettive contenute nel d.lgs. n. 235 del 2012.

Secondo l’orientamento così formatosi – che si colloca nel solco tracciato da sentenze di questa Corte rese su analoghe disposizioni previgenti e che è stato di recente fatto proprio dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 17 giugno 2021, Miniscalco contro Italia; decisione 18 maggio 2021, Galan contro Italia) – la sospensione in esame non ha natura sanzionatoria, ma è una misura cautelare diretta a evitare che coloro che sono stati condannati anche in via non definitiva per determinati reati gravi o comunque offensivi della pubblica amministrazione – come il peculato, per il quale e` stato condannato il ricorrente nel giudizio principale – rivestano cariche elettive, mettendo così in pericolo il buon andamento dell’amministrazione stessa e la sua onorabilità (sentenze n. 35 del 2021, n. 36 del 2019, n. 276 del 2016 e n. 236 del 2015).

L’adeguatezza della misura a corrispondere a queste esigenze va dunque apprezzata in una logica che prescinde dalla concreta gravita` del reato contestato e dalla pena irrogata, e che si incentra invece sulla finalità cautelare perseguita, che è quella di evitare che la permanenza dell’eletto nell’organo elettivo pregiudichi lo stesso interesse al buon andamento e all’onorabilità della pubblica amministrazione (ex plurimis, sentenze n. 35 del 2021 e n. 276 del 2016).

Quanto al fatto che la scelta della misura e della sua durata sia operata direttamente dalla legge, questa Corte ha già osservato che «non si può […] negare al legislatore, nell’esercizio di una non irragionevole discrezionalità, la facoltà di effettuare il necessario bilanciamento degli interessi coinvolti, identificando ipotesi circoscritte nelle quali l’esigenza cautelare su cui si basa la sospensione è apprezzata in via generale ed astratta, anziché essere rimessa alla valutazione in concreto dell’amministrazione interessata, così come è apprezzato in via generale ed astratta l’ambito di applicazione della misura cautelare in relazione ai soggetti e al nesso tra la condanna non definitiva e le funzioni elettive svolte» (sentenza n. 25 del 2002; in senso analogo, sentenza n. 206 del 1999).

Né si può ritenere che, come sostiene il rimettente, la necessità di graduare la durata della misura cautelare derivi dall’ampliamento, rispetto all’originaria previsione dell’art. 15 della legge n. 55 del 1990, della platea dei reati per cui è prevista la sospensione dalla carica, ab initio limitata ai reati di criminalità organizzata (onde le pronunce rese sulla sospensione dalla carica disciplinata dalla normativa previgente, come la citata sentenza n. 206 del 1999, si dovrebbero considerare superate) ed estesa poi ad altri reati, come quelli contro la pubblica amministrazione. Non irragionevolmente, infatti, il legislatore ha accomunato nello stesso trattamento normativo reati resi omogenei dall’essere «direttamente connessi alle funzioni che [i condannati] sarebbero chiamati ad assumere, perché di particolare gravità […] o perché commessi contro la pubblica amministrazione», quindi «di specifico rilievo in funzione dell’attitudine a incidere sull’immagine e l’onorabilità della pubblica amministrazione» medesima (sentenza n. 35 del 2021).

Non può essere condiviso nemmeno l’assunto del giudice a quo secondo cui sarebbe la natura cautelare della finalità perseguita a imporre una sua variazione in rapporto al tipo e alla concreta gravità del reato ostativo. La sospensione, invero, non fa altro che anticipare in via interinale l’effetto interdittivo – anch’esso peraltro «parimenti non diretto a finalità punitive» (sentenza n. 276 del 2016) – in attesa che l’accertamento penale, consolidandosi nel giudicato, faccia venire definitivamente meno un requisito essenziale per il mantenimento della carica da parte di chi la ricopre, determinandone di diritto la decadenza (art. 11, comma 7, del d.lgs. n. 235 del 2012).

La non irragionevolezza del bilanciamento che il legislatore ha ritenuto di operare nell’esercizio della sua discrezionalità è stata poi riconosciuta in plurime occasioni da questa Corte anche per quanto riguarda la durata della prevista sospensione.

In particolare, sono state sottolineate «la temporaneità e la gradualità dei suoi effetti», trattandosi di misura «rigorosamente circoscritta nel tempo e destinata a cessare immediatamente nel caso di sopravvenuti non luogo a procedere, proscioglimento o assoluzione dell’eletto» (sentenza n. 35 del 2021) ovvero a essere prolungata di ulteriori dodici mesi ove la condanna sia confermata in appello (art. 11, comma 4, del d.lgs. n. 235 del 2012). La disciplina in esame ha in tal modo «ulteriormente bilanciato le descritte esigenze di tutela della pubblica amministrazione, da un lato, e dell’eletto condannato, dall’altro, temperando in maniera non irragionevole gli effetti automatici della sentenza di condanna non definitiva in ragione del trascorrere del tempo e della progressiva stabilizzazione della stessa pronuncia» (sentenza n. 36 del 2019), con l’obiettivo di evitare un’eccessiva compressione del diritto di elettorato passivo.

Inoltre, la disciplina della sospensione, valutata nel suo complesso, non trascura di assegnare conseguenze differenziate a diverse condanne penali non definitive, come si desume dalla lettera b) del comma 1 dell’art. 11 del d.lgs. n. 235 del 2012, che prevede la sospensione dalla carica in caso di «condanna ad una pena non inferiore a due anni di reclusione per un delitto non colposo» (diverso da quelli richiamati alla lettera a dello stesso comma 1), solo qualora la condanna intervenga dopo l’elezione o la nomina e sia confermata in appello. La previsione di più rigorosi presupposti di applicabilità della misura al di fuori del caso dei reati più gravi e dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione sembra ispirata a un’evidente ratio differenziatrice, fondata sull’assunto che, quando si tratti di reati meno gravi, l’esigenza di tutela oggettiva dell’ente territoriale viene meno o si indebolisce (in questi termini, sentenza n. 36 del 2019).

Tali conclusioni, e il giudizio di non irragionevolezza che ne costituisce l’esito, non sono scalfite dall’inserimento tra i valori in gioco, prospettato dal giudice a quo, dell’interesse degli elettori, sotteso all’art. 48 Cost., a che l’eletto continui a svolgere la funzione. Scrutinando la stessa disposizione qui censurata nella parte in cui non prevede che la sospensione dalla carica consegua solo alle sentenze non definitive di condanna pronunciate dopo l’elezione o la nomina, questa Corte ha già disatteso analoghe censure. Nella citata sentenza n. 36 del 2019, si è osservato, infatti, che, se «la ratio della sospensione è prevalentemente quella della tutela oggettiva del buon andamento e della legalità nella pubblica amministrazione, e solo in misura limitata quella della protezione del rapporto di fiducia tra eletti ed elettori [...], la scelta del legislatore di non attribuire rilievo, nei casi considerati, all’intervenuta investitura popolare del condannato, e di far prevalere, nei termini e nei limiti detti, l’interesse alla legalità dell’amministrazione non risulta irragionevole»; ciò in quanto, «[i]n questa logica, l’“atto di fiducia” di una parte dell’elettorato che elegge il candidato già condannato (in via non definitiva) non è sufficiente a far venir meno l’esigenza di tutela oggettiva dell’ente territoriale. Senza considerare le esigenze di garanzia dell’intero corpo elettorale, le cui altrettanto meritevoli aspirazioni all’onorabilità e alla credibilità dell’eletto possono essere messe in discussione dall’elezione del condannato».

A fortiori, la non irragionevolezza della scelta legislativa di far prevalere l’esigenza di tutela oggettiva dell’amministrazione sugli interessi sottesi agli artt. 48 e 51 Cost. si deve riconoscere quando – come nel caso oggetto del giudizio a quo – la condanna non definitiva sopravvenga all’elezione, posto che in tale ipotesi l’elettore ha espresso la propria scelta nella mera consapevolezza, tutt’al più, della pendenza del procedimento penale a carico del candidato.

Infine, nessun rilievo assume nel contesto in esame il principio di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), in quanto la sospensione, come più volte sottolineato, non ha natura sanzionatoria, essendo priva dei tratti funzionali tipici della pena; essa, infatti, «non consegue a un giudizio di riprovazione personale, ma è semplicemente diretta a garantire l’oggettiva onorabilità di chi riveste la funzione di cui si tratta» (sentenza n. 276 del 2016).

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 11, commi 1, lettera a), e 4, del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190), sollevate dal Tribunale ordinario di Genova, in riferimento agli artt. 24 e 113 della Costituzione, e dal Tribunale ordinario di Catania, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 27, secondo comma, 48, primo e secondo comma, 51, primo comma, e 97, secondo comma, Cost., con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 ottobre 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Daria de PRETIS, Redattrice

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 2 dicembre 2021.