Sentenza n. 149 del 2021

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SENTENZA N. 149

ANNO 2021

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 3-ter e 3-quater, quest’ultimo limitatamente alle parole «al netto del versamento di cui al comma 3-ter», di cui al primo periodo, e alle parole «e 3-ter» di cui al terzo periodo, del decreto-legge 14 febbraio 2016, n. 18 (Misure urgenti concernenti la riforma delle banche di credito cooperativo, la garanzia sulla cartolarizzazione delle sofferenze, il regime fiscale relativo alle procedure di crisi e la gestione collettiva del risparmio), convertito con modificazioni, nella legge 8 aprile 2016, n. 49, promosso dalla Corte di cassazione, sezione tributaria civile, nel procedimento vertente tra l’Ente Cambiano, società cooperativa per azioni, già Banca di credito cooperativo di Cambiano società cooperativa per azioni e l’Agenzia delle entrate, con ordinanza del 2 luglio 2020, iscritta al n. 183 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 53, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Visti l’atto di costituzione dell’Ente Cambiano società cooperativa per azioni, già Banca di credito cooperativo di Cambiano società cooperativa per azioni, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udita nell’udienza pubblica dell’8 giugno 2021 la Giudice relatrice Daria de Pretis;

uditi gli avvocati Stefano Grassi e Marco Miccinesi per l’Ente Cambiano società cooperativa per azioni, già Banca di credito cooperativo di Cambiano società cooperativa per azioni e l’avvocato dello Stato Gianna Maria De Socio per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio dell’8 giugno 2021.

 

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 2 luglio 2020, iscritta al n. 183 del registro ordinanze 2020, la Corte di cassazione, sezione tributaria civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 3-ter e 3-quater, quest’ultimo limitatamente alle parole «al netto del versamento di cui al comma 3-ter», di cui al primo periodo, e alle parole «e 3-ter» di cui al terzo periodo, del decreto-legge 14 febbraio 2016, n. 18 (Misure urgenti concernenti la riforma delle banche di credito cooperativo, la garanzia sulla cartolarizzazione delle sofferenze, il regime fiscale relativo alle procedure di crisi e la gestione collettiva del risparmio), convertito, con modificazioni, nella legge 8 aprile 2016, n. 49, in riferimento agli artt. 3, 41, 45, 47 e 53 della Costituzione.

In base alle norme censurate, la banca di credito cooperativo (BCC) con patrimonio netto superiore a duecento milioni di euro al 31 dicembre 2015, qualora opti per il conferimento dell’azienda bancaria a una società per azioni autorizzata all’esercizio dell’attività bancaria in luogo dell’adesione a un gruppo bancario cooperativo (cosiddetta way out, disciplinata all’art. 2, comma 3-bis, del d.l. n. 18 del 2016, come convertito), deve versare al bilancio dello Stato, all’atto del conferimento, un importo pari al venti per cento di tale patrimonio netto; in caso di inosservanza, il patrimonio stesso è devoluto ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione.

1.1.– Le questioni sono sorte nel corso di una controversia tributaria promossa dall’Ente Cambiano società cooperativa per azioni (di seguito: Ente Cambiano) – già BCC di Cambiano società cooperativa per azioni (di seguito: BCC di Cambiano) – nei confronti dell’Agenzia delle entrate.

Il giudice a quo riferisce che la BCC di Cambiano ha versato all’erario la somma di 54.208.740,00 euro, pari al venti per cento del suo patrimonio netto al 31 dicembre 2015, avendo conferito la propria azienda bancaria a una spa ai sensi del citato comma 3-bis e modificato lo statuto ai sensi del successivo comma 3-quater dello stesso art. 2, in modo da escludere l’attività bancaria e da mantenere le clausole mutualistiche di cui all’art. 2514 del codice civile al fine di assicurare ai soci servizi funzionali al mantenimento del rapporto con la spa conferitaria, servizi di formazione e di informazione sui temi del risparmio, nonché servizi di promozione di programmi di assistenza.

Il giudice a quo riferisce altresì che l’Ente Cambiano ha presentato all’Agenzia delle entrate istanza di rimborso dell’importo versato e ha successivamente impugnato davanti alla Commissione tributaria provinciale di Firenze il silenzio-rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso. Il gravame è stato respinto con sentenza poi confermata dalla Commissione tributaria regionale della Toscana, la cui pronuncia è stata a sua volta impugnata dallo stesso Ente Cambiano con ricorso per cassazione.

1.1.1.– Dopo avere esposto i motivi del ricorso, il rimettente afferma «di dover accogliere in primis alcuni dei dubbi di legittimità costituzionale sollevati» in relazione alle norme richiamate «in quanto direttamente collidenti con alcuni parametri costituzionali», considerato che «il contrasto con il diritto dell’Unione europea» prospettato con altri motivi «viene ipotizzato rispetto a principi o disposizioni di carattere generale, ma non con norme europee dotate di effetto diretto sulla fattispecie» (è citata la sentenza di questa Corte n. 269 del 2017).

L’ordinanza prosegue individuando la ratio sottesa alla riforma delle BCC introdotta dal d.l. n. 18 del 2016, come convertito, nel «superamento delle criticità proprie della previgente disciplina di settore», concernenti le debolezze strutturali del settore del credito cooperativo. A queste debolezze il legislatore avrebbe inteso ovviare adottando come strumento principale – configurato quale «opzione privilegiata» – l’adesione delle BCC a un gruppo bancario cooperativo con al vertice una capogruppo in forma di spa avente un patrimonio netto minimo di un miliardo di euro, partecipata a maggioranza dalle BCC «affiliate» e dotata di poteri di direzione e coordinamento delle stesse, le quali continuano a operare secondo il proprio regime senza alcuna conseguenza sul patrimonio (artt. 37-bis e 37-ter del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante «Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia», inseriti dall’art. 1, comma 5, del d.l. n. 18 del 2016, come convertito).

Si osserva poi che per le BCC autorizzate all’esercizio dell’attività bancaria alla data di entrata in vigore delle disposizioni esecutive emanate ai sensi dell’art. 37-bis t.u. bancario, ma non aderenti a un gruppo bancario cooperativo, la riforma prevede come prima scelta alternativa la trasformazione in spa o, in difetto, la liquidazione, in entrambi i casi con devoluzione del patrimonio sociale ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione ex art. 2, comma 3, del d.l. n. 18 del 2016, come convertito, alla cui stregua «[r]esta fermo quanto previsto dall’articolo 150-bis, comma 5, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 [...]».

Secondo il rimettente, il richiamato art. 150-bis, comma 5, t.u. bancario, già sostituito dall’art. 1, comma 6, lettera b), del d.l. n. 18 del 2016 nel testo originario, avrebbe inciso profondamente «sulle modalità di esercizio di quella che è venuta a configurarsi come un’ulteriore scelta, ridisegnando i termini della c.d. way out», per effetto delle rilevanti modifiche che vi ha apportato la legge di conversione.

Il giudice a quo osserva che prima di tali modifiche l’art. 150-bis, comma 5, t.u. bancario, come modificato dal d.l. n. 18 del 2016, manteneva sì fermi gli effetti devolutivi del patrimonio delle cooperative «stabiliti dall’articolo 17 della legge 23 dicembre 2000, n. 388» nei casi «di fusione e trasformazione [delle BCC in spa] previsti dall’articolo 36 [t.u. bancario], nonché di cessione di rapporti giuridici in blocco e scissione da cui risulti una banca costituita in forma di società per azioni» (primo periodo), tuttavia in tale caso la devoluzione non si produceva, pur essendosi realizzate le operazioni trasformanti previste al periodo precedente, nei riguardi delle BCC con «un patrimonio netto superiore a duecento milioni di euro» (secondo periodo), poiché in questa ipotesi «le riserve [erano] affrancate corrispondendo all’erario un’imposta straordinaria pari al venti per cento della loro consistenza» (terzo periodo).

Il rimettente ricorda che la disposizione aveva suscitato timori «sui rischi di demutualizzazione del settore» (è citata l’audizione del Capo del Dipartimento di vigilanza bancaria e finanziaria della Banca d’Italia durante i lavori parlamentari di conversione del d.l. n. 18 del 2016), soprattutto per la mancata previsione di un termine per l’esercizio della scelta e di un riferimento temporale cui collegare la valutazione del patrimonio netto. Inoltre, la previsione dell’affrancamento delle riserve dietro versamento dell’imposta, senza devoluzione del patrimonio ai fondi mutualistici, avrebbe inciso su un assetto normativo che ammetteva le trasformazioni delle BCC in spa solo eccezionalmente – a seguito di fusioni con banche di altra natura nell’interesse dei creditori e per ragioni di stabilità, previa autorizzazione della Banca d’Italia: art. 36 t.u. bancario – e mai su base meramente volontaria, fermo restando l’obbligo di devolvere l’intero patrimonio ai fondi mutualistici in tutte le operazioni trasformanti, ex art. 17 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)» (è citata al riguardo la sentenza di questa Corte n. 170 del 2008, secondo cui la ratio di tale obbligo è quella «di garantire che i benefici conseguiti grazie alle agevolazioni previste per incentivare lo scopo mutualistico non siano destinati allo svolgimento di un’attività priva di tale carattere e, comunque, non siano fatti propri da coloro che ne hanno fruito»).

Ulteriori dubbi erano poi stati espressi sulla ragionevolezza dell’entità del previsto prelievo, «se rapportato all’incidenza del complesso delle agevolazioni fiscali [...] che avevano contribuito alla formazione del patrimonio» della BCC optante per la trasformazione in spa.

1.1.2.– Ricostruendo il quadro normativo risultante dalla legge di conversione, il rimettente espone che le modifiche con essa introdotte al testo originario hanno riguardato, per quanto di interesse, la soppressione del secondo e del terzo periodo del comma 5 dell’art. 150-bis t.u. bancario, esaminati in precedenza, e l’inserimento nell’art. 2 dello stesso decreto-legge dei nuovi commi 3-bis, 3-ter e 3-quater.

Queste ultime disposizioni avrebbero affiancato all’alternativa della trasformazione delle BCC in spa, con conseguente devoluzione del patrimonio ai fondi mutualistici, un’altra scelta riservata alle BCC in possesso al 31 dicembre 2015 di un patrimonio netto superiore a duecento milioni di euro (come risultante dal bilancio riferito a tale data e sottoposto al giudizio senza rilievi del revisore contabile).

Per tali BCC – in dichiarata deroga a quanto previsto dal citato art. 150-bis, comma 5, t.u. bancario, nel testo risultante dalla legge di conversione – la devoluzione patrimoniale non si produce se entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della stessa legge di conversione esse presentano alla Banca d’Italia istanza, anche congiunta con altre BCC, di conferimento delle rispettive aziende bancarie a una medesima spa, anche di nuova costituzione, autorizzata all’esercizio dell’attività bancaria (comma 3-bis). Come visto (al punto 1), all’atto del conferimento dell’azienda bancaria la BCC conferente deve versare al bilancio dello Stato un importo pari al venti per cento del patrimonio netto nell’ammontare esistente alla stessa data del 31 dicembre 2015 (comma 3-ter). Al contempo essa è tenuta a modificare l’oggetto sociale per escludere l’esercizio dell’attività bancaria, obbligandosi a mantenere le clausole mutualistiche di cui all’art. 2514 cod. civ. nonché ad assicurare ai soci servizi funzionali al mantenimento del rapporto con la spa conferitaria, di formazione e informazione sui temi del risparmio e di promozione di programmi di assistenza (comma 3-quater, ove si prevede altresì, rispettivamente al primo e al terzo periodo, che la conferente «mantiene le riserve indivisibili al netto del versamento di cui al comma 3-ter» e che in caso di «inosservanza degli obblighi previsti dal presente comma e dai commi 3-bis e 3-ter, il patrimonio della conferente o, a seconda dei casi, della banca di credito cooperativo è devoluto ai sensi dell’articolo 17 della legge 23 dicembre 2000, n. 388»).

1.2.– Passando a esaminare le eccezioni di illegittimità costituzionale proposte dalla ricorrente nel processo principale, il giudice a quo respinge quelle riferite alla violazione degli artt. 77 e 42 Cost. (quest’ultimo «anche con riferimento» all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952) e considera invece non manifestamente infondate, nei termini di seguito esposti, le questioni ex artt. 3, 53, 41, 45 e 47 Cost.

1.2.1.– Con la prima questione è lamentata la violazione degli artt. 3 e 53 Cost.

Secondo il rimettente, il previsto prelievo avrebbe natura di imposta sul patrimonio netto dell’impresa e non colpirebbe il conferimento dell’azienda bancaria, soggetto in quanto tale a un regime di neutralità fiscale ex art. 176, comma 1, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi). Deporrebbe in questo senso anche l’individuazione della base imponibile, rappresentata da una percentuale del patrimonio netto a una specifica data (31 dicembre 2015), e dunque del tutto «sganciata» dal valore del conferimento dell’azienda bancaria.

L’imposta stessa, tuttavia, non potrebbe trovare ragione – come sostenuto dalla difesa erariale nel giudizio a quo – nella scelta della BCC di conferire l’azienda bancaria nella spa «di nuova costituzione», sul presupposto che l’imposta medesima sarebbe «bilanciata perché calibrata sulla detassazione degli utili di cui ha fruito la [BCC]», con la conseguenza che essa graverebbe dunque sul patrimonio netto, costituente specifico indice di capacità contributiva, in quanto formato anche grazie alle agevolazioni fiscali di settore.

Questa ricostruzione – ad avviso del rimettente – sarebbe coerente con l’originaria configurazione del prelievo, in cui esso fungeva da strumento per affrancare le riserve ed evitare la devoluzione ai fondi mutualistici del patrimonio della BCC trasformatasi in spa, nonostante il venir meno del perseguimento dello scopo di mutualità prevalente.

Nell’assetto definitivo della riforma, la ricostruzione dovrebbe essere rovesciata, in quanto l’esercizio della «terza opzione» riservata alle BCC di grande rilevanza patrimoniale fa sì che l’ente cooperativo persista e persegua lo scopo mutualistico attraverso il pacchetto azionario ottenuto con il conferimento dell’azienda bancaria nella spa, «secondo un modus operandi già conosciuto dall’ordinamento».

Le norme censurate sarebbero pertanto viziate da irragionevolezza ex artt. 3 e 53 Cost., con riferimento alla stessa ratio della riforma. L’imposta straordinaria introdotta dalla legge di conversione del d.l. n. 18 del 2016 colpisce infatti il patrimonio netto di una società che continua a operare nel settore della mutualità prevalente, una volta conferita l’azienda bancaria in una spa e modificato l’oggetto sociale escludendo l’attività bancaria. Difetterebbe quindi uno specifico indice di capacità contributiva che giustifichi l’imposizione e la conseguente destinazione del prelievo alla fiscalità generale, mentre, secondo la giurisprudenza costituzionale, «la possibilità di imposizioni differenziate deve pur sempre ancorarsi a una adeguata giustificazione obiettiva, la quale deve essere coerentemente, proporzionalmente e ragionevolmente tradotta nella struttura dell’imposta» (è citata la sentenza di questa Corte n. 10 del 2015).

Nemmeno il carattere straordinario dell’imposta, istituita nell’ambito di una disciplina transitoria, sarebbe sufficiente a rendere ragionevole la scelta del legislatore, ponendosi essa in oggettivo contrasto con l’esigenza di consolidamento della struttura del credito cooperativo e con il generale riconoscimento, anche in sede europea (è citata la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2011, in cause riunite C-78/08, C-79/08 e C-80/08, Paint Graphos e altri), della ridotta capacità contributiva delle cooperative a mutualità prevalente.

1.2.2.– Con la seconda questione è lamentata la violazione degli artt. 41 e 45 Cost.

Il rimettente premette che l’art. 41 Cost., nel garantire la libertà di iniziativa economica privata, ha assunto il ruolo di fondamento costituzionale del principio di tutela della concorrenza, in linea con l’evoluzione del diritto dell’Unione europea, e osserva che la riforma delle BCC persegue il fine di «assicurare l’effettivo sviluppo della concorrenza sul mercato unico europeo nel quadro comunque del consolidamento dell’intera struttura del credito cooperativo». La «funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata», riconosciuta dall’art. 45, primo comma, Cost., fungerebbe dunque da limite al principio di tutela della concorrenza, nell’ambito della «clausola generale» dell’utilità sociale ex art. 41, secondo comma, Cost. e nel quadro di un necessario bilanciamento tra diversi valori di rilievo costituzionale.

Date queste premesse, il giudice a quo reputa che l’imposizione tributaria contrasti con l’indicata funzione sociale della cooperazione, sulla base delle seguenti ragioni:

a) la società conferente continua a operare nel settore della cooperazione a mutualità prevalente anche dopo aver conferito l’azienda bancaria nella spa e adottato le modifiche statutarie;

b) l’imposta colpisce proprio le banche di credito cooperativo più in grado, per consistenza patrimoniale, di assicurare la capacità competitiva nel mercato e mantenere il collegamento con il territorio, anche senza aderire a un gruppo bancario cooperativo;

c) infine, restando indivisibili le riserve della conferente – diversamente da come era stato previsto nel testo originario – sarebbe pregiudicata la capacità di erogare credito da parte «dell’azienda di nuova formazione».

Il fatto che l’assoggettamento all’imposta straordinaria derivi dalla scelta volontaria della BCC di non aderire al gruppo non varrebbe a rendere insindacabili – come ritenuto dal giudice tributario d’appello nel processo principale – le ricadute economiche dell’imposta. Non si tratterebbe infatti di un’opzione fiscale equiparabile a quella – di natura negoziale – tra un’imposta sostitutiva e una (inesistente) imposta ordinaria, bensì della scelta di un modulo organizzativo tramite il quale la libertà di iniziativa economica privata si svolge non in contrasto con l’utilità sociale, nel rispetto dell’art. 41 Cost., e che esprime inoltre la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di lucro, riconosciuta dall’art. 45 Cost.

1.2.3.– In terzo luogo è lamentata la violazione dell’art. 47 Cost., nella parte in cui, al primo comma, prevede che «[l]a Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme».

Secondo il rimettente, la scelta legislativa di assoggettare al tributo l’adesione a un modulo imprenditoriale piuttosto che a un altro «nel quadro del medesimo settore del credito cooperativo», si porrebbe in contraddizione con il principio della tutela del risparmio. Nel contesto della censura si osserva poi che il menzionato settore è interessato da esigenze di rafforzamento patrimoniale e di capitalizzazione analoghe a quelle perseguite dalla riforma delle banche popolari, con riferimento alle quali questa Corte, con la sentenza n. 99 del 2018, ha riconosciuto la legittimità dell’art. 1 del decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3 (Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti), convertito con modificazioni, nella legge 24 marzo 2015, n. 33, in tema di limiti al rimborso delle azioni in caso di recesso del socio di una banca popolare.

1.3.– La rilevanza delle questioni sarebbe in re ipsa, in quanto il loro eventuale accoglimento comporterebbe, con la caducazione dell’imposta, il riconoscimento della fondatezza della domanda di rimborso della somma versata dalla ricorrente nel processo principale. Inoltre, non sarebbe possibile una diversa interpretazione delle disposizioni censurate in senso costituzionalmente orientato, stante la chiarezza del dato letterale.

2.– Con atto depositato il 19 gennaio 2021 si è costituito nel giudizio costituzionale l’Ente Cambiano, ricorrente nel processo principale, che ha concluso per l’accoglimento delle questioni.

2.1.– Anche la parte ricostruisce in premessa il quadro normativo della riforma delle BCC, e in tale contesto osserva che le procedure di riassetto organizzativo del credito cooperativo sarebbero riconducibili a due categorie, distinte per il diverso impatto prodotto sulle finalità mutualistiche proprie delle BCC.

Alla prima categoria di procedure, comportanti la fuoriuscita dall’attività mutualistica e la devoluzione del patrimonio ai fondi mutualistici, apparterrebbero la trasformazione della BCC in una spa bancaria e, in alternativa, la sua messa in liquidazione (art. 2, comma 3, del d.l. n. 18 del 2016, come convertito).

Nella seconda categoria, comportante per l’ente cooperativo il mantenimento dell’oggetto mutualistico e l’esclusione dell’effetto devolutivo, rientrerebbero, da un lato, l’adesione al gruppo bancario cooperativo diretto e coordinato da una spa capogruppo partecipata in misura maggioritaria dalle stesse BCC aderenti (artt. 1 e 2 del d.l. n. 18 del 2016, come convertito); dall’altro lato il conferimento dell’azienda bancaria a una spa, anche di nuova costituzione, da parte delle BCC dotate di un patrimonio netto superiore a duecento milioni di euro alla data del 31 dicembre 2015, con l’obbligo per la conferente di espungere dall’oggetto sociale lo svolgimento dell’attività bancaria e di mantenere nello statuto le clausole mutualistiche, assicurando ai soci servizi funzionali al mantenimento del rapporto con la spa conferitaria, di formazione e di informazione sui temi del risparmio e di promozione di programmi di assistenza (art. 2, commi 3-bis, 3-ter e 3-quater, del d.l. n. 18 del 2016, come convertito).

Le due fattispecie della seconda categoria presenterebbero numerosi elementi comuni – sopravvivenza della società cooperativa con il suo patrimonio e gli scopi mutualistici, modifica dell’oggetto sociale, conferimento di parte dell’attività a una spa (capogruppo da un lato, conferitaria dall’altro) operante senza scopo mutualistico – giacché anche nella formazione del gruppo bancario cooperativo si determinerebbe, in ragione dei pervasivi poteri di direzione, coordinamento e controllo della capogruppo, avente natura di società lucrativa, uno «svuotamento dall’interno» delle BCC aderenti non meno rilevante di quello conseguente al conferimento dell’azienda bancaria a una spa. La differenza starebbe solo nel carattere aggregato della formazione del gruppo e nel carattere invece “atomistico” del conferimento d’azienda.

Entrambi i modelli organizzativi perseguirebbero in conclusione la medesima finalità di «separare o distinguere attività di impresa di diritto comune e scopi mutualistici o sociali, e quindi fiscalmente agevolati», finalità per cui la soluzione del conferimento d’azienda risulterebbe ancora più coerente.

Nonostante tale comunanza di tratti e di finalità, alle due procedure sarebbe riservato un diverso trattamento fiscale, con la previsione solo per il secondo caso di un rilevante prelievo sul patrimonio netto della conferente.

2.1.1.– L’Ente Cambiano descrive poi l’evoluzione della disciplina del prelievo dalla versione originaria del d.l. n. 18 del 2016 a quella definitiva risultante dalla legge di conversione, e osserva che l’irrazionalità delle disposizioni censurate deriverebbe dal fatto che l’imposta straordinaria è stata conservata per l’ipotesi – diversa da quella della trasformazione della BCC in una spa – del conferimento dell’azienda bancaria a una spa, ipotesi in cui non è più prevista la possibilità di «affrancazione» delle riserve indivisibili, mentre la cooperativa dismette l’esercizio dell’attività creditizia e conserva l’originaria finalità mutualistica.

L’irrazionalità sarebbe ancora più evidente in quanto l’imposta una tantum ha per oggetto il conferimento d’azienda, che godrebbe di un regime di neutralità fiscale ex art. 179 del d.P.R. n. 917 del 1986. Colpendo inoltre la sola BCC di Cambiano – unica tra le BCC dotate delle dimensioni richieste ad avvalersi della facoltà di conferire la propria azienda bancaria a una spa (la Banca Cambiano 1884 spa) e a versare al bilancio dello Stato l’importo pari al venti per cento del patrimonio netto, pagando la «ingentissima» somma di 54.208.740,00 euro – finisce per imporre irrazionalmente il pesante prelievo all’unica banca di credito cooperativo che ha effettivamente attuato le finalità di «separazione» proprie della riforma.

2.2.– Sulla violazione degli artt. 3 e 53 Cost., la parte osserva che la previsione del tributo risulterebbe irragionevole, oltre che contraria ai principi sull’imposizione tributaria, in quanto non solo contrasterebbe con le finalità della riforma del credito cooperativo, ma individuerebbe altresì il presupposto del tributo in un fatto (il conferimento d’azienda) privo di rilievo economico e dunque inidoneo a esprimere la capacità contributiva del soggetto passivo. Essa fisserebbe inoltre un’aliquota di ammontare esageratamente elevato rispetto al presunto vantaggio economico che il conferimento d’azienda produrrebbe per l’ente cooperativo.

La norma impositiva non si potrebbe giustificare nemmeno qualificando l’imposizione come «prelievo straordinario in funzione solidaristica», posto che mancherebbero a sua giustificazione esigenze solidaristiche o contingenti necessità di sostegno della finanza pubblica; né come «norma fiscale di favore» per le BCC aderenti al gruppo bancario cooperativo, posto che, in tale caso, essa avrebbe introdotto un’illegittima discriminazione tra casi analoghi (l’adesione al gruppo bancario cooperativo e il conferimento dell’azienda bancaria in spa), connotati dai tratti comuni già messi in evidenza e diretti a realizzare, come osservato, la medesima finalità di separazione tra lo svolgimento di una comune attività d’impresa e il perseguimento dei fini mutualistici.

Sussisterebbe anche l’autonoma violazione del principio di uguaglianza, per la disparità di trattamento sia sul piano interno al d.l. n. 18 del 2016 – tra le due fattispecie appena richiamate – sia sul piano esterno, a fronte della previsione dell’art. 27-quinquies del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577 (Provvedimenti per la cooperazione), ratificato, con modificazioni, dalla legge 2 aprile 1951, n. 302 (cosiddetta “legge Basevi”), che consente alle società cooperative e loro consorzi di costituire spa o srl e di esserne soci, senza oneri fiscali aggiunti.

2.3.– Quanto alla violazione degli artt. 41, 45 e 47 Cost., l’Ente Cambiano osserva che la previsione del gravoso tributo porrebbe le cooperative che hanno scelto di adottare tale assetto organizzativo in una condizione di indebito svantaggio competitivo nei riguardi degli altri soggetti interessati dalla riforma e, comunque, nei confronti di ogni altro operatore del mercato del reddito, ciò che comporterebbe la lesione del principio della libera concorrenza ex art. 41 Cost., nonché – con particolare riferimento al settore cooperativo – dell’art. 45 Cost.

La norma istitutiva del tributo violerebbe l’art. 45 Cost. anche perché sarebbe ispirata a una logica opposta a quella della promozione della cooperazione. Il prelievo colpirebbe l’ente cooperativo proprio perché sceglie di mantenere finalità mutualistiche, e pregiudicherebbe così non solo l’ente stesso, ma l’intero sistema cooperativo, perché le riserve indivisibili ridotte dall’imposta non sarebbero più devolute ai fondi mutualistici in caso di soppressione delle clausole mutualistiche, di scioglimento e liquidazione della società cooperativa o di altre operazioni trasformanti in società lucrative.

Infine, la disciplina censurata si porrebbe in contrasto con il principio della tutela del risparmio sancito dall’art. 41 Cost., finendo per indebolire le garanzie offerte ai risparmiatori a causa della decurtazione delle riserve indivisibili della cooperativa conferente. Ciò sarebbe anche in contraddizione con il fine, proprio della riforma, di rafforzare il sistema del credito cooperativo.

L’imposizione ridurrebbe infatti significativamente la capacità dell’Ente conferente di dotare la banca spa controllata di risorse finanziarie in anni di difficile accesso delle imprese ai finanziamenti (è richiamata al riguardo una relazione predisposta dalla Banca Cambiano 1884 spa e depositata nel giudizio d’appello della controversia tributaria, attestante che la ridotta capacità della controllante di apportare capitale nella controllata avrebbe precluso a quest’ultima la possibilità di erogare credito nella misura del 57,28 per cento).

3.– Con atto depositato il 19 gennaio 2021 è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o manifestamente infondate, o comunque non fondate.

3.1.– Anche l’interveniente ricostruisce il quadro normativo della materia, soffermandosi sulle agevolazioni fiscali riservate al fenomeno della cooperazione, di cui fornisce un excursus storico che muove dall’art. 12 della legge 16 dicembre 1977, n. 904 (Modificazioni alla disciplina dell’imposta sul reddito delle persone giuridiche e al regime tributario dei dividendi e degli aumenti di capitale, adeguamento del capitale minimo delle società e altre norme in materia fiscale e societaria), a tenore del quale le somme destinate alle riserve indivisibili non concorrono in assoluto a formare il reddito imponibile delle società cooperative e dei loro consorzi, fino all’attuale regime di parziale detassazione degli utili delle cooperative a mutualità prevalente, nella misura del cinquantatré per cento, previsto dal decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante «Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo» (cosiddetta “Manovra bis”), convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148.

Tali agevolazioni avrebbero consentito alle cooperative, e in particolare alle BCC, di formare e incrementare il patrimonio, segnatamente le riserve indivisibili, con il fine di proteggere e promuovere i valori della cooperazione e fini mutualistici.

La stretta connessione tra le agevolazioni fiscali e le indicate finalità giustifica le disposizioni dirette a bilanciare, sul piano patrimoniale, i mutamenti o le trasformazioni incidenti sull’attività mutualistica, prima fra tutte il citato art. 17 della legge n. 388 del 2000, di interpretazione autentica delle norme sulla devoluzione del patrimonio delle cooperative ai fondi mutualistici, la cui ampia portata applicativa consentirebbe di affermare che «il patrimonio che ha fruito delle agevolazioni in capo a società cooperative non può essere trasferito ad un soggetto non agevolato ma deve essere devoluto ai fondi mutualistici».

3.1.1.– L’interveniente ricostruisce poi le ragioni poste a base della riforma delle BCC collocandola nel quadro della normativa europea di rafforzamento dei requisiti prudenziali delle banche e in rapporto con la riforma delle banche popolari – di poco anteriore – introdotta dal d.l. n. 3 del 2015, come convertito, anch’essa diretta all’identico fine di rafforzare la stabilità del sistema bancario nazionale e globale.

La disciplina dettata dal d.l. n. 18 del 2016, come convertito, sarebbe incentrata su tre opzioni, tutte rimesse alla scelta delle BCC. La soluzione “favorita”, consistente nell’adesione al gruppo bancario cooperativo, realizzerebbe un equilibrato bilanciamento tra la necessità di preporre al gruppo una holding dotata di un effettivo potere direttivo e la garanzia di autonomia delle BCC affiliate. La seconda comporta la trasformazione della BCC in spa con obbligo di integrale devoluzione patrimoniale ai fondi mutualistici. La terza (way out), riservata alle BCC “più grandi”, prevede il conferimento dell’azienda bancaria a una spa. Da essa non consegue l’effetto di devoluzione patrimoniale a condizione che la BCC assolva a due oneri, l’uno di carattere fiscale, che viene qui in rilievo, e l’altro di carattere statutario.

Nella formula way out, dunque, il patrimonio della banca, formato grazie alle agevolazioni fiscali di cui la BCC ha fruito, sarebbe totalmente sottratto alla regola della devoluzione, in quanto «le riserve obbligatorie rimangono in capo all’ente conferente (già BCC), mentre la restante parte di patrimonio viene trasferita alla banca commerciale di nuova costituzione, nella quale l’ente conferente mantiene le partecipazioni».

L’imposta straordinaria, commisurata in percentuale sul patrimonio netto, avrebbe perciò la funzione di «bilanciare l’immissione sul mercato commerciale di un patrimonio […] rappresentato dall’azienda bancaria». L’entità dell’azienda bancaria conferita sarebbe “ridotta” per effetto dell’imposta straordinaria, sicché «il valore dei beni conferiti non sarà pari a quello realizzato nel tempo dalla BCC […], ma […] quello risultante dopo l’applicazione» del prelievo.

La ratio giustificativa delle modifiche apportate dalla legge di conversione al testo originario sarebbe da individuare, come si può desumere dalle osservazioni raccolte durante le indicate audizioni parlamentari, nella volontà del legislatore di «evitare che (tassando le sole riserve indivisibili) confluisse nel mercato delle società “lucrative” un patrimonio formato grazie alle agevolazioni» concesse dallo Stato, con il forte rischio di una contestazione in sede europea per violazione della disciplina sugli aiuti di Stato e in contrasto con la finalità perseguita dalla norme sulla devoluzione del patrimonio delle cooperative ai fondi mutualistici, che questa Corte identifica nell’esigenza che i benefici conseguiti con le indicate agevolazioni non siano destinati allo svolgimento di un’attività priva di tale carattere e, comunque, non siano fatti propri da coloro che ne hanno fruito (è citata anche dall’interveniente la sentenza n. 170 del 2008).

3.2.– Quanto ai dubbi di violazione del principio di capacità contributiva, l’Avvocatura osserva che, a seguito del conferimento d’azienda e delle modifiche statutarie, l’ente non si priva del proprio patrimonio ma lo conserva previa detrazione dell’imposta. Infatti, «l’[e]nte manterrà direttamente la titolarità delle riserve indivisibili (destinate a garantire il prosieguo dell’attività cooperativa in settori diversi da quello bancario) e indirettamente, nella misura della propria partecipazione nella società conferitaria [non soggetta ai vincoli operativi che limitano le società cooperative], continuerà altresì a detenere, in forma di azioni, anche i beni entrati a far parte del capitale dell’azienda bancaria conferita (nella quale è incluso anche l’avviamento)», ponendo così in essere una situazione non irrilevante ai fini della valutazione del presupposto impositivo.

Nel negare l’esistenza di uno specifico indice di capacità contributiva, il rimettente avrebbe ignorato che il patrimonio delle BCC si è formato con il sostanziale concorso dello Stato. L’imposta consentirebbe inoltre di evitare l’addebito di violazione della disciplina sugli aiuti di Stato, nel momento in cui il patrimonio conferito «entra nel libero mercato dei capitali».

Infine, nell’affermare che la tassazione del patrimonio netto sarebbe in evidente contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost., in quanto l’ente continua a operare nel settore della mutualità prevalente, il giudice a quo non avrebbe considerato che, da un lato, la conferente mantiene la partecipazione nella banca lucrativa conferitaria e, dall’altro, nessun principio costituzionale impedisce al legislatore di adottare misure fiscali allorché si proceda a «una modifica di forma giuridica così eclatante come quella che ha riguardato la riforma delle banche cooperative».

3.3.– Quanto alla violazione degli artt. 41, 45 e 47 Cost., l’interveniente, rimettendosi alla valutazione di questa Corte sulla sufficienza della motivazione offerta dal rimettente, osserva in via preliminare che le censure, non chiaramente formulate, non lascerebbero intendere in che modo, al di là delle affermazioni di carattere generale, le disposizioni denunciate inciderebbero sui principi di libertà di iniziativa economica privata e di tutela del risparmio, e in cosa consisterebbe il vulnus a essi inferto.

Nel merito, le censure ex artt. 41 e 47 Cost. non sarebbero fondate, sia perché le BCC erano libere di adottare una delle tre opzioni apprestate dalla riforma, sia perché il risparmio di «quanti avevano a suo tempo aderito alla BCC» sarebbe tutelato per il fatto che «la quota di patrimonio non conferita alla società commerciale, costituita dalle riserve indivisibili, è rimasta nella titolarità dell’ente».

Nemmeno la censura ex art. 45 Cost. sarebbe fondata.

Dalla norma costituzionale non deriverebbe, infatti, la necessità di un’esenzione assoluta o perpetua delle cooperative dalla tassazione, restando salva l’ampia discrezionalità riconosciuta al legislatore in materia di agevolazioni fiscali o benefici tributari, censurabile solo per palese arbitrarietà o irrazionalità (è citata la sentenza di questa Corte n. 17 del 2018).

La soluzione scelta dal legislatore con le disposizioni censurate non sarebbe irragionevole, collocandosi in un quadro giuridico che, incidendo sulla forma giuridica e sulla consistenza economica delle “vecchie” BCC, darebbe vita a un «soggetto affatto peculiare», che, pur conservando la forma cooperativa, mantiene nondimeno un forte legame con la nuova banca commerciale, detenendo in essa una partecipazione azionaria.

4.– L’Ente Cambiano ha depositato una memoria in prossimità dell’udienza, in cui ha replicato alle difese dell’interveniente, insistendo per l’accoglimento delle questioni.

4.1.– La parte contesta l’assunto dell’Avvocatura secondo cui il patrimonio delle società cooperative non potrebbe essere trasferito a un soggetto fiscalmente non agevolato ma dovrebbe essere devoluto ai fondi mutualistici, non essendovi contraddizione tra lo scopo mutualistico perseguito dalla cooperativa e il conseguimento di un’utile d’impresa.

Inoltre, la cessione di rapporti giuridici in blocco tramite conferimento d’azienda non costituirebbe devoluzione patrimoniale. Si tratterebbe infatti di un atto a titolo oneroso che, continuando la cooperativa conferente a perseguire lo scopo mutualistico, lascia invariata la consistenza complessiva del patrimonio, espressa non più in numerario ma dal valore della partecipazione societaria acquisita.

4.2.– Non sarebbe condivisibile nemmeno la lettura data dall’interveniente ai lavori preparatori della legge di conversione del d.l. n. 18 del 2016, in quanto la riforma delle BCC avrebbe affrontato le criticità del settore in modo diverso dalla riforma delle banche popolari, formulando tre alternative aventi uguale coerenza con gli obiettivi perseguiti, diretti ad assicurare la stabilità delle banche.

4.3.– La penalizzazione fiscale non si potrebbe fondare su un preteso «favore del legislatore per la soluzione costituita dal Gruppo Cooperativo», in primo luogo perché l’intera disciplina dell’Unione europea sarebbe costruita sul paradigma della spa, considerata la forma organizzativa più adatta per le grandi imprese in generale e per le banche in particolare, e in secondo luogo perché l’obbligo generalizzato di adesione al gruppo bancario cooperativo, trasformando le BCC aderenti in parti di un’unica impresa soggetta a una gestione unitaria, realizzerebbe un obiettivo di rafforzamento patrimoniale non perseguibile in danno delle altre banche rimaste concorrenti, pena una limitazione intollerabile al principio di concorrenza, sia sul piano costituzionale che su quello europeo.

4.4.– L’Ente Cambiano contesta, altresì, che il legislatore avrebbe “sciolto” il patrimonio della conferente dal vincolo di destinazione, che impone “per regola generale” la devoluzione ai fondi mutualistici. Una simile regola generale non sussisterebbe, infatti, in caso di conferimento dell’azienda bancaria.

L’art. 150-bis, comma 5, t.u. bancario, come modificato dal d.l. n. 18 del 2016, avrebbe esteso l’effetto devolutivo, con una «artificiosa costruzione», al caso della «cessione di rapporti giuridici in blocco», e dunque anche al conferimento d’azienda: ciò che, insieme alla previsione del versamento al bilancio dello Stato, «si risolve soltanto nella creazione di un ostacolo grave all’esercizio dell’autonomia organizzativa dell’impresa, volto a rendere più gravosa la scelta di mantenere la propria autonomia rispetto al Gruppo cooperativo».

Il prelievo, pertanto, dirotterebbe a favore dell’erario risorse riservate alla cooperazione, in assenza delle ragioni che determinano la devoluzione secondo la «legislazione cooperativa».

4.5.– Sarebbe erronea anche l’affermazione dell’Avvocatura secondo cui l’imposta bilancerebbe la circostanza che il patrimonio della BCC conferente è immesso nel mercato commerciale, pur essendosi formato grazie alle agevolazioni fiscali di settore, in quanto le riserve indivisibili, alimentate da tali agevolazioni, rimangono nella titolarità della conferente e non costituiscono oggetto del conferimento.

4.6.– Il prelievo non sarebbe giustificato nemmeno dalla detenzione della partecipazione nella spa conferitaria, in quanto il conferimento d’azienda non costituirebbe presupposto di un tributo sul reddito della conferente o sul suo patrimonio.

4.7.– Quanto alla violazione del principio di libertà di concorrenza, la censura del giudice a quo avrebbe nitidamente evidenziato l’ingiustificata discriminazione introdotta dall’imposta a sfavore della cooperativa conferente, nonché il pregiudizio arrecato alla capacità della nuova società lucrativa di erogare credito.

Inoltre, la BCC di Cambiano non sarebbe stata libera di scegliere una delle modalità previste dal legislatore, stante la presenza di un prelievo fiscale così oneroso, né il risparmio rimarrebbe tutelato dalla titolarità delle riserve indivisibili in capo all’Ente Cambiano, in quanto il tributo decurterebbe significativamente proprio tali riserve.

Considerato in diritto

1.– La Corte di cassazione, sezione tributaria civile, dubita della legittimità costituzionale di alcune disposizioni del decreto-legge 14 febbraio 2016, n. 18 (Misure urgenti concernenti la riforma delle banche di credito cooperativo, la garanzia sulla cartolarizzazione delle sofferenze, il regime fiscale relativo alle procedure di crisi e la gestione collettiva del risparmio), convertito, con modificazioni, nella legge 8 aprile 2016, n. 49. Il dubbio investe in particolare la parte del d.l. n. 18 del 2016, come convertito, che ha introdotto la riforma delle banche di credito cooperativo (BCC), a cui sono dedicati gli artt. 1, 2 e 2-bis, nel testo risultante dalla legge di conversione.

Nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione è letteralmente indicato, quale oggetto delle questioni, l’art. 2, commi 3-bis e 3-ter, del d.l., ma l’oggetto va più precisamente individuato – come si vedrà al successivo punto 3 – nell’art. 2, commi 3-ter e 3-quater, quest’ultimo limitatamente alle parole «al netto del versamento di cui al comma 3-ter», di cui al primo periodo, e alle parole «e 3-ter» di cui al terzo periodo.

In base alle norme censurate, la BCC con patrimonio netto superiore a duecento milioni di euro al 31 dicembre 2015, qualora opti per conferire l’azienda bancaria a una società per azioni autorizzata all’esercizio dell’attività bancaria anziché aderire a un gruppo bancario cooperativo (cosiddetta way out, disciplinata all’art. 2, comma 3-bis, del d.l. n. 18 del 2016, come convertito), deve versare al bilancio dello Stato, all’atto del conferimento, un importo pari al venti per cento del suo patrimonio netto. In caso di inosservanza è previsto che il patrimonio stesso sia devoluto ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione, ai sensi dell’art. 17 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)».

Le questioni, sollevate in riferimento agli artt. 3, 41, 45, 47 e 53 della Costituzione, sono sorte nel corso di una controversia tributaria promossa dall’Ente Cambiano società cooperativa per azioni (Ente Cambiano) – già BCC di Cambiano società cooperativa per azioni (BCC di Cambiano) – nei confronti dell’Agenzia delle entrate.

Il giudice a quo riferisce che la BCC di Cambiano ha versato all’erario la somma di 54.208.740,00 euro, pari al venti per cento del suo patrimonio netto al 31 dicembre 2015, avendo conferito la propria azienda bancaria a una spa ai sensi del citato comma 3-bis e modificato lo statuto ai sensi del successivo comma 3-quater dello stesso art. 2, in modo da escludere l’attività bancaria e da mantenere le clausole mutualistiche di cui all’art. 2514 cod. civ. Resterebbero così assicurati ai soci servizi funzionali al mantenimento del rapporto con la spa conferitaria, servizi di formazione e di informazione sui temi del risparmio, nonché servizi di promozione di programmi di assistenza.

Il rimettente riferisce altresì che l’Ente Cambiano ha presentato all’Agenzia delle entrate istanza di rimborso dell’importo versato e ha successivamente impugnato il silenzio-rifiuto formatosi sulla sua istanza davanti alla Commissione tributaria provinciale di Firenze. Quest’ultima ha respinto la domanda con sentenza confermata dalla Commissione tributaria regionale della Toscana, la cui sentenza è stata a sua volta impugnata dallo stesso Ente Cambiano con ricorso per cassazione.

2.– Ad avviso del rimettente Corte di cassazione, le norme censurate sarebbero viziate da irragionevolezza e violerebbero gli artt. 3 e 53 Cost., in quanto l’imposta straordinaria introdotta dalla legge di conversione del d.l. n. 18 del 2016, a differenza di quella prevista in origine dallo stesso decreto-legge, colpisce il patrimonio netto di una società che, una volta conferita l’azienda bancaria in una spa e modificato l’oggetto sociale escludendo l’attività bancaria, continua a operare nel settore della mutualità prevalente. Difetterebbe dunque uno specifico indice di capacità contributiva idoneo a giustificare l’imposizione e la destinazione del prelievo alla fiscalità generale.

Sarebbero violati anche gli artt. 41 e 45 Cost., in quanto il prelievo del venti per cento del patrimonio netto si porrebbe in contrasto con la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata, operante come limite di utilità sociale al principio di concorrenza. Verrebbe in rilievo il fatto che la società conferente continua a operare nel settore della cooperazione a mutualità prevalente, che il prelievo colpisce le BCC in grado di assicurare la capacità competitiva nel mercato insieme al collegamento con il territorio e che la riduzione patrimoniale, restando indivisibili le riserve della conferente, pregiudicherebbe la capacità di erogare credito da parte «dell’azienda di nuova formazione».

Le norme censurate violerebbero, infine, l’art. 47 Cost., in quanto la scelta legislativa di assoggettare a tributo l’adesione a un modulo imprenditoriale piuttosto che a un altro, nel medesimo settore del credito cooperativo, si porrebbe in contraddizione con il principio della tutela del risparmio.

3.– Prima di esaminare le singole questioni occorre individuare esattamente le disposizioni oggetto delle censure.

Nell’ordinanza di rimessione si riscontra, infatti, una parziale difformità tra le disposizioni indicate nel dispositivo («artt. 2, commi 3-bis e 3-ter, del d.l. n. 18/2016, quale convertito, con modificazioni, dalla l. n. 49/2016») e quelle indicate nell’esposizione delle censure («art. 2, comma 3-ter» e «art. 2-quater primo periodo, limitatamente alle parole “al netto del versamento di cui al comma 3-ter”», nonché «terzo periodo del medesimo comma, limitatamente alle parole “e 3-ter”»).

Nondimeno, il contenuto delle censure – che non toccano la previsione del comma 3-bis sulla possibilità per le BCC di optare per la way out mediante il conferimento d’azienda – non sembra lasciare dubbi sul fatto che le disposizioni da scrutinare siano quelle meglio indicate in parte motiva, e quindi l’art. 2, comma 3-ter, del d.l. n. 16 del 2018, come convertito, che impone l’obbligo di versamento all’atto del conferimento dell’azienda bancaria e ne determina l’entità, e il comma 3-quater dello stesso art. 2 (così dovendosi correggere l’evidente refuso in cui è incorso il rimettente nel riferirsi a un inesistente «art. 2-quater» del d.l. n. 18 del 2016), quest’ultimo nelle parti che menzionano tale obbligo, dunque limitatamente alle parole «al netto del versamento di cui al comma 3-ter», di cui al primo periodo, e alle parole «e 3-ter» di cui al terzo periodo.

Della correttezza della descritta prospettazione si trova un riscontro letterale nel contesto dell’ordinanza di rimessione, là dove il giudice a quo, iniziando a esaminare le censure proposte nel ricorso, premette di dover «verificare entro quali limiti le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 3-ter e 3-quater, quest’ultimo limitatamente all’inciso “al netto del versamento di cui al comma 3-ter[”], nonché al successivo riferimento al predetto “3-ter”, sollevate dalla ricorrente in relazione ai parametri invocati, siano non manifestamente infondate e rilevanti ai fini della decisione».

4.– Passando al merito, conviene muovere dall’esame della questione concernente la violazione degli artt. 41 e 45 Cost., per la centralità, nella stessa prospettazione del rimettente, del problema della coerenza della previsione contestata con la garanzia costituzionale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata.

La questione non è fondata.

Va premesso che, ai fini della verifica della compatibilità della contestata disciplina con la tutela costituzionale della cooperazione a carattere di mutualità e con il principio di concorrenza, è irrilevante stabilire se la prestazione in essa prevista abbia o meno natura tributaria, sicché non è necessario qui – a differenza di quanto si vedrà trattando della presunta violazione degli artt. 3 e 53 Cost. – verificare la correttezza della qualificazione del prelievo come tributo, da cui prende le mosse l’ordinanza di rimessione.

Il giudice a quo si duole in sostanza del bilanciamento degli interessi operato dal legislatore con l’adozione della misura in esame. Il previsto prelievo colpirebbe una scelta imprenditoriale che, pur essendo alternativa a quella considerata dalla riforma come la più idonea a rafforzare la capacità competitiva e la stabilità patrimoniale del settore del credito cooperativo nel suo complesso – ossia l’adesione a un gruppo –, è comunque orientata a realizzare la funzione sociale riconosciuta dalla Costituzione alla cooperazione, funzione che verrebbe così irragionevolmente sacrificata.

È dunque necessario soffermarsi sulla ratio sottesa alla disciplina censurata nel quadro della riforma delle BCC, e in particolare sull’assetto offerto agli interessi che vengono in gioco nella fase transitoria della riforma stessa.

In questo contesto assume evidenza il ruolo fondamentale – nell’impianto riformatore del d.l. n. 18 del 2016, come convertito – del modello del gruppo bancario cooperativo, considerato la formula strutturale idonea, sia a ridurre il frazionamento del settore e, con esso, il deficit competitivo e patrimoniale delle BCC, sia a superare le criticità del governo societario cooperativo, in particolare attraverso la previsione di pervasivi poteri di nomina, di opposizione alla nomina e di revoca degli organi amministrativi e di controllo delle società aderenti, riconosciuti dal contratto di coesione con la capogruppo (art. 37-bis, comma 3, lettera b, numero 2, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante «Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia», inserito dall’art. 1, comma 5, del d.l. n. 18 del 2016, come convertito).

Il favore per il modello del gruppo, che il legislatore ha adottato per ridisegnare l’intero sistema delle BCC, è reso evidente dalle previsioni che, a regime, configurano come sostanzialmente obbligatoria l’adesione ad esso (obbligatorietà che vale a prescindere dalla consistenza patrimoniale, in ipotesi anche elevata, delle aderenti), subordinando a tale adesione l’autorizzazione della Banca d’Italia all’esercizio dell’attività bancaria in forma di BCC (art. 33, comma 1-bis, t.u. bancario, inserito dall’art. 1, comma 1, lettera a, del d.l. n. 18 del 2016, come convertito), e che circondano di particolari cautele l’esclusione o il recesso dal gruppo, imponendo alla BCC esclusa o receduta la devoluzione integrale del patrimonio ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione qualunque sia l’esito finale della sua fuoriuscita (trasformazione in banca spa o liquidazione: art. 36, comma 1-bis, t.u. bancario, inserito dall’art. 1, comma 4, lettera c, del d.l. n. 18 del 2016, come convertito).

Nell’esercizio della sua discrezionalità, il legislatore ha nondimeno ritenuto di escludere eccezionalmente da tale adempimento, in sede di prima applicazione della riforma, le BCC già operanti nel settore con patrimonio netto superiore a duecento milioni di euro al 31 dicembre 2015. A queste è offerta la scelta di uscire dal settore del credito cooperativo (diversa dalle ipotesi previste all’art. 2, comma 3, del d.l. n. 18 del 2016, come convertito, che comportano l’integrale devoluzione del patrimonio ai citati fondi mutualistici), esercitabile nel termine di sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione.

L’obbligo, che testualmente accompagna la possibilità di scelta, di versare al bilancio dello Stato un importo pari al venti per cento del patrimonio netto della banca – versamento la cui omissione fa scattare la devoluzione ex art. 2, comma 3-quater, terzo periodo, del d.l. n. 18 del 2016, come convertito – si giustifica con la preoccupazione del legislatore di preservare comunque la centralità strategica dell’adesione al gruppo bancario cooperativo (soprattutto nella fase transitoria) e di circoscrivere il rischio di depotenziamento della riforma.

Occorre ricordare che, nella versione originaria precedente la sua conversione in legge, il d.l. n. 18 del 2016 aveva delineato, per la fase transitoria di prima applicazione della riforma, una diversa soluzione alternativa all’adesione a un gruppo bancario cooperativo. Tale soluzione implicava l’applicazione dell’art. 150-bis, comma 5, t.u. bancario (come sostituito dall’art. 1, comma 6, lettera b, del d.l. n. 18 del 2016, nel testo anteriore alle modifiche introdotte dalla legge di conversione). In base a tale ultima disposizione la BCC con patrimonio netto superiore a duecento milioni di euro poteva effettuare le operazioni, previste dal novellato art. 36 t.u. bancario, di trasformazione in spa o di fusione eterogenea da cui risulti una spa, evitando tuttavia la devoluzione del patrimonio ai fondi mutualistici. In questo caso, infatti, le riserve patrimoniali della BCC venivano «affrancate», e potevano quindi essere destinate allo svolgimento di un’attività bancaria lucrativa, dietro versamento all’erario di una «imposta straordinaria pari al venti per cento della loro consistenza».

La previsione aveva suscitato preoccupazioni – espresse anche dalla Banca d’Italia durante l’iter di conversione del d.l. n. 18 del 2016 – di una demutualizzazione de facto del settore del credito cooperativo, nel caso in cui le BCC più significative avessero deciso di utilizzare l’opzione senza limiti – nemmeno temporali, ciò che avrebbe fra l’altro consentito alle banche interessate di riunirsi per raggiungere i requisiti dimensionali richiesti – e uscire così dal mercato di riferimento.

Anche tenuto conto di tali timori, in sede di conversione il d.l. n. 18 del 2016 è stato profondamente innovato nella parte in cui offre una diversa soluzione alternativa per le BCC con patrimonio netto superiore a duecento milioni di euro al 31 dicembre 2015. In base a quanto previsto dall’art. 2, comma 3-bis, invece di trasformarsi in banca lucrativa, perdendo le caratteristiche della mutualità prevalente, la cooperativa sopravvive conservando tali caratteristiche, ma conferisce l’azienda bancaria, da sola o congiuntamente ad altre BCC, in una spa preesistente o di nuova costituzione, munita dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria. È poi stabilito che «[a]ll’atto del conferimento» la BCC conferente «versa al bilancio dello Stato un importo pari al 20 per cento del patrimonio netto» (art. 2, comma 3-ter).

In questa diversa logica, il versamento al bilancio dello Stato si configura, per le BCC con patrimonio netto sopra soglia, come il “prezzo” da pagare per avvalersi dell’opportunità offerta dall’ordinamento di non aderire a un gruppo bancario cooperativo senza per questo dover devolvere il patrimonio ai fondi mutualistici, e per poter acquisire invece esse stesse il controllo della spa bancaria conferitaria, com’è avvenuto nel caso della BCC di Cambiano.

Nello stesso tempo, nella complessa operazione di bilanciamento di interessi realizzata dal legislatore in vista della prima applicazione della riforma, l’obbligo di versamento dell’indicato importo assolve nella nuova previsione, e in una logica completamente diversa da quella che ispirava la sua versione iniziale, alla funzione di disincentivo della – pur ancora offerta – scelta alternativa all’adesione al gruppo bancario, assicurando così a quest’ultima la veste di scelta legislativamente privilegiata anche per le BCC meglio dotate patrimonialmente, onde favorire la permanenza nel settore degli intermediari dotati di margini piu` elevati rispetto ai coefficienti patrimoniali obbligatori, in forma aggregata con quelli più fragili.

La circostanza che la conferente continui a perseguire uno scopo mutualistico – ciò che giustifica fra l’altro l’esclusione dell’obbligo di devoluzione dell’intero patrimonio ai fondi mutualistici – non comporta affatto che il prelievo disposto a suo carico sia di per sé lesivo della funzione sociale della cooperazione, essendo invece diretto, per le finalità di disincentivo che persegue a garanzia della realizzazione della riforma disegnata dal legislatore, a tutelare gli interessi di un settore chiave della stessa produzione cooperativistica, qual è il settore delle banche cooperative a mutualità prevalente.

Lungi dal sacrificare irragionevolmente la funzione sociale della cooperazione, come lamentato dal rimettente, la disciplina censurata si colloca infatti essa stessa nel solco della scelta legislativa di salvaguardia e promozione del credito cooperativo, contribuendo per la sua parte – attraverso la forza disincentivante dell’obbligo di versamento – alla realizzazione dell’obiettivo generale di garantire la solidità patrimoniale delle BCC e di superarne il deficit competitivo, mediante la loro aggregazione nei gruppi bancari cooperativi, senza impedire a quelle con maggiori livelli patrimoniali, e quindi più in grado di operare con autonomia nel mercato, di scegliere, nella fase transitoria, una formula alternativa che consenta comunque la prosecuzione dell’attività bancaria.

Sul punto va ribadito in particolare che qualora, in assenza di disincentivi, le BCC di maggiore consistenza patrimoniale avessero in larga parte aderito alla soluzione alternativa, la loro fuoriuscita avrebbe negativamente inciso sulla funzione sociale del credito cooperativo nel suo complesso. Funzione sociale che, invece, non risulta di per sé compromessa dall’adesione delle BCC al gruppo, giacché la pur rilevante riduzione della sfera d’autonomia delle singole BCC a favore della spa capogruppo è compensata dal vincolo di quest’ultima al rispetto delle finalità mutualistiche e del carattere localistico nell’esercizio dei suoi poteri, come indicato nel contratto di coesione (art. 37-bis, comma 3, lettera b, t.u. bancario, come modificato dall’ art. 11, comma 2, lettera c, del decreto-legge 25 luglio 2018, n. 91, recante «Proroga di termini previsti da disposizioni legislative», convertito, con modificazioni, nella legge 21 settembre 2018, n. 108). E ancora va sottolineato come la scelta della BCC per la way out faccia venir meno il suo obbligo di esercitare il credito prevalentemente a favore dei soci (art. 35, comma 1, t.u. bancario), senza che l’obbligo stesso si trasferisca sulla conferitaria, che in quanto spa non vi è soggetta, e senza che il ben diverso obbligo della conferente di assicurare ai propri soci i «servizi funzionali al mantenimento del rapporto con la società per azioni conferitaria» (art. 2, comma 3-quater, primo periodo, del d.l. n. 18 del 2016, come convertito) garantisca agli stessi soci i medesimi vantaggi cooperativi.

4.1.– Nell’ambito della stessa questione, il rimettente prospetta «un vulnus al principio della concorrenza in relazione alla capacità di erogare credito» da parte della spa conferitaria, per il fatto che, pur a fronte del versamento richiesto, le riserve resterebbero indivisibili, secondo quanto disposto dall’art. 2545-ter del codice civile, a differenza di quanto prevedeva invece l’originaria formulazione della norma per il caso di trasformazione della BCC in spa.

Nemmeno questo profilo della censura è fondato.

Il giudice a quo lamenta, in sostanza, che il prelievo, non più giustificato dall’affrancamento delle riserve – che restano nella titolarità della conferente e non sono liberamente utilizzabili dalla conferitaria –, pregiudicherebbe la capacità della nuova banca spa di fare credito, riducendone la capacità finanziaria. Si deve tuttavia osservare che il paventato pregiudizio – a prescindere dalla sua sussistenza – non deriva dall’applicazione delle disposizioni censurate e quindi dall’obbligo della BCC conferente di versare una percentuale del suo patrimonio al bilancio dello Stato, ma dall’art. 2, comma 3-quater, del d.l. n. 18 del 2016, come convertito – previsione questa non contestata dal rimettente – secondo cui la stessa conferente «mantiene le riserve indivisibili», sia pure al netto del versamento e continua a operare come cooperativa a mutualità prevalente escludendo dal suo oggetto sociale l’attività bancaria, come si chiarirà ulteriormente in seguito (punto 5.3.).

5.– Il rimettente, come visto, prospetta altresì la violazione degli artt. 3 e 53 Cost.

5.1.– Preliminarmente, va precisato che le censure riguardano esclusivamente l’irragionevolezza delle disposizioni denunciate per difetto, nella previsione del versamento al bilancio dello Stato, di uno specifico indice di capacità contributiva. Nel contesto della motivazione, il giudice a quo richiama il passaggio della sentenza di questa Corte n. 10 del 2015 secondo cui «la possibilità di imposizioni differenziate deve pur sempre ancorarsi a una adeguata giustificazione obiettiva, la quale deve essere coerentemente, proporzionalmente e ragionevolmente tradotta nella struttura dell’imposta», e lamenta che, nella fattispecie impositiva in esame, una tale giustificazione mancherebbe. Siffatto rilievo si risolve, però, in un argomento rafforzativo della censura di irragionevolezza, e ad esso non si accompagna un’autonoma censura di disparità di trattamento in materia tributaria, come del resto è confermato, oltre che dal contesto in cui la citazione è inserita, dall’assenza di indicazioni su un tertium comparationis da porre a confronto con la situazione incisa dalle norme censurate.

Si deve dunque ritenere inammissibile l’estensione del thema decidendum operata dall’Ente Cambiano, che, lamentando una irragionevole disparità di trattamento, indica come tertium comparationis la fattispecie di cui all’art. 27-quinques del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577 (Provvedimenti per la cooperazione), ratificato, con modificazioni, dalla legge 2 aprile 1951, n. 302, in base al quale le cooperative e i loro consorzi possono costituire (ed essere soci di) spa e società a responsabilità limitata, senza soggiacere ad alcun regime fiscale penalizzante. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, nei giudizi in via incidentale non possono essere prese in considerazione, oltre i limiti fissati nelle ordinanze di rimessione, ulteriori questioni di costituzionalità dedotte dalle parti, ma non fatte proprie dal giudice a quo (ex plurimis, sentenze n. 35 del 2021, n. 35 del 2017 e n. 203 del 2016).

5.2.– Nel merito, nemmeno tale questione è fondata.

Poiché con essa il rimettente contesta in buona sostanza il difetto di uno specifico indice di capacità contributiva che giustifichi l’imposizione e quindi la compatibilità dell’imposta con i parametri costituzionali degli artt. 3 e 53 Cost., ai fini della sua decisione si pone, in via logicamente prioritaria, il tema della natura del versamento previsto dall’art. 2, comma 3-ter, del d.l. n. 18 del 2016, come convertito.

Si è detto che, prima della sua conversione in legge, il d.l. n. 18 del 2016 aveva delineato una possibile scelta alternativa a quella dell’adesione a un gruppo bancario cooperativo, che implicava l’applicazione dell’art. 150-bis, comma 5, t.u. bancario (come sostituito dall’art. 1, comma 6, lettera b, del d.l. n. 18 del 2016, nel testo anteriore alle modifiche introdotte dalla legge di conversione). In essa, le riserve patrimoniali della BCC venivano «affrancate» – potendo quindi essere destinate all’attività bancaria lucrativa – dietro versamento all’erario di una «imposta straordinaria pari al venti per cento della loro consistenza».

Nella diversa soluzione alternativa configurata dopo la sua conversione, il d.l. n. 18 del 2016 prevede invece che «[a]ll’atto del conferimento» la BCC conferente «versa al bilancio dello Stato un importo pari al 20 per cento del patrimonio netto» (art. 2, comma 3-ter), e non qualifica più il versamento come «imposta straordinaria».

Benché la costante giurisprudenza di questa Corte consideri irrilevante il nomen iuris usato dal legislatore, «occorrendo riscontrare in concreto e caso per caso se si sia o no in presenza di un tributo» (ex plurimis, sentenze n. 58 del 2015, n. 141 del 2009, n. 334 del 2006 e n. 73 del 2005), l’indizio testuale – offerto dalla nuova versione della disposizione – nel senso dell’estraneità del versamento all’ambito dei tributi trova conferma nell’indagine sulla sua natura sostanziale.

Sempre secondo il costante orientamento di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 263 del 2020, n. 240 del 2019, n. 89 del 2018, n. 269 del 2017, n. 70 del 2015, n. 219 e n. 154 del 2014), gli elementi indefettibili della fattispecie tributaria sono individuabili in una disciplina legale diretta, in via prevalente, a determinare una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo, che non integri una modifica di un rapporto sinallagmatico, e nella destinazione delle risorse, connesse a un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, a sovvenire a pubbliche spese.

Si deve comunque trattare di un prelievo coattivo, finalizzato al concorso alle pubbliche spese e posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva (sentenza n. 102 del 2008). Tale indice, inoltre, «deve esprimere l’idoneità di ciascun soggetto all’obbligazione tributaria (fra le prime, sentenze n. 91 del 1972, n. 97 del 1968, n. 89 del 1966, n. 16 del 1965 e n. 45 del 1964)» (sentenza n. 70 del 2015).

5.2.1.– Prendendo le mosse dal presupposto che il versamento introdotto all’art. 2, comma 3-ter, del d.l. n. 18 del 2016, come convertito, abbia natura tributaria, la censura si dipana mettendo a confronto la nuova fattispecie impositiva con quella prevista dal d.l. n. 18 del 2016 prima della conversione. Dal confronto emergerebbe l’irragionevolezza della scelta operata dal legislatore in sede di conversione, poiché, mentre nella versione originaria della norma l’indice rivelatore della capacità contributiva consisteva nell’affrancamento delle riserve patrimoniali da destinare all’attività bancaria lucrativa, così non è nella versione definitiva, in cui tali cespiti restano nella disponibilità della conferente, vincolati alla realizzazione della causa mutualistica.

È evidente, nel percorso argomentativo del rimettente, che anche la ricostruzione in termini di tributo del versamento da operare per realizzare il conferimento dell’attività bancaria in una spa è condizionata – così come lo sono, del resto, pressoché tutte le dedotte censure di illegittimità costituzionale – dalla precedente formulazione del testo normativo. La sua ricostruzione si muove invero in una sorta di logica storica per cui il contenuto della norma risultante dalla legge di conversione dovrebbe essere letto e valutato alla luce del testo originario. La nuova disciplina della soluzione alternativa all’adesione al gruppo, tuttavia, non costituisce affatto un’evoluzione della precedente, ma sostituisce in radice quest’ultima, ponendosi in una prospettiva completamente diversa. Mentre infatti, in origine, era la stessa banca di credito cooperativo a trasformarsi in spa, abbandonando la funzione mutualistica e affrancando le proprie riserve attraverso il pagamento di un’imposta, non a caso commisurata al valore delle riserve stesse e qualificata come tale, nella versione oggetto della presente questione di legittimità costituzionale la conferente mantiene la propria natura di ente mutualistico – e con esso le riserve vincolate – ma esternalizza l’attività creditizia, trasferendola ad una spa di nuova istituzione o già esistente, destinata normalmente a operare sotto il suo controllo, e il pagamento dovuto per l’operazione – rapportato al patrimonio netto della conferente – si configura, come si vedrà, quale onere condizionale cui è subordinata la realizzazione dell’interesse della conferente. Una prospettiva dunque tutt’affatto diversa, nella quale è diversa anche la funzione del versamento.

Nel senso della natura non tributaria dell’onere presenta decisivo rilievo la previsione (qui censurata per un singolo frammento) secondo cui «[i]n caso di inosservanza degli obblighi previsti dal presente comma e dai commi 3-bis e 3-ter, il patrimonio della conferente […] è devoluto ai sensi dell’articolo 17 della legge 23 dicembre 2000, n. 388» (art. 2, comma 3-quater, terzo periodo, del d.l. n. 18 del 2016, come convertito).

L’omesso versamento all’atto del conferimento d’azienda, dunque, non legittima il fisco alla riscossione coattiva della somma dovuta, in esecuzione di un atto autoritativo di carattere ablatorio, ma comporta la definitiva soggezione della conferente, ex art. 17 della legge n. 388 del 2000, all’obbligo – non finalizzato a sovvenire a pubbliche spese – di devolvere il suo patrimonio effettivo ai fondi per la promozione e lo sviluppo della cooperazione, secondo la regola generale operante nel caso di mancata adesione della BCC al gruppo.

In altri termini, la tempestiva presentazione alla Banca d’Italia dell’istanza di autorizzazione al conferimento d’azienda impedisce sì la devoluzione del patrimonio ai fondi mutualistici (che «non si produce» per le BCC presentatrici: art. 2, comma 3-bis, del d.l. n. 18 del 2016, come convertito), ma tale effetto può venire meno anche successivamente al rilascio dell’autorizzazione, in caso di inosservanza degli ulteriori adempimenti previsti ai commi 3-ter e 3-quater dello stesso art. 2 e in particolare, per quanto qui interessa, se l’importo prescritto non viene versato.

Insieme al versamento concorrono a determinare l’indicato effetto la conservazione delle clausole mutualistiche e l’introduzione delle modifiche statutarie, che completano la scelta di uscita della BCC dal settore del credito cooperativo, ma non dalla categoria delle cooperative a mutualità prevalente.

Tutti questi comportamenti, che il legislatore definisce come «obblighi» da osservare ai sensi dei citati commi 3-ter e 3-quater, si configurano come oneri collegati all’esercizio di una determinata opzione (in questo senso, sentenza n. 500 del 1993), che la conferente è tenuta ex lege ad assolvere, ove intenda realizzare il suo interesse a non aderire a un gruppo bancario cooperativo, evitando, al contempo, di trasformarsi essa stessa in spa e di devolvere conseguentemente il proprio patrimonio ai fondi mutualistici. Il vantaggio per essa dell’operazione, del resto, è evidente: la conferente resta in vita come ente mutualistico e conserva una relazione qualificata con l’attività creditizia attraverso la partecipazione – normalmente, anche se non necessariamente – di controllo nel capitale di una spa bancaria di nuova costituzione o già costituita, senza dover confluire in un gruppo e doversi quindi assoggettare ai poteri di direzione e coordinamento di una capogruppo.

Alla luce della ratio della disciplina censurata e della descritta finalità del prelievo, alla prestazione in esame va negata la qualifica di tributo. Manca in essa, in particolare, il requisito della natura coattiva del prelievo, che si esprime in primo luogo nel diritto alla sua riscossione forzosa. La decurtazione patrimoniale è definitivamente provocata, in questo caso, solo dallo spontaneo versamento dell’importo, eseguito dalla conferente per ottenere i vantaggi perseguiti, mentre la sua omissione non fa sorgere alcuna pretesa impositiva, semplicemente impedendo la realizzazione dell’interesse della conferente stessa.

Né a diverse conclusioni si può pervenire configurando la devoluzione patrimoniale come una sorta di sanzione per il mancato versamento di un’imposta, ciò che non farebbe venir meno l’obbligo di pagare la somma dovuta (e quindi la possibilità del suo recupero coattivo). In nessun caso infatti alla devoluzione può essere riconosciuta natura sanzionatoria, stante che l’effetto devolutivo, che si produce in tutte le ipotesi di inosservanza degli «obblighi» indicati al citato comma 3-quater, altro non è che la conseguenza della riespansione della regola generale dettata dall’art. 150-bis, comma 5, t.u. bancario.

5.2.2.– Prima di proseguire nell’esame del merito, si deve escludere che la qualificazione del versamento nei sensi appena esposti abbia conseguenze in termini di inammissibilità delle questioni per difetto di giurisdizione dell’adito giudice tributario su una controversia non rientrante tra quelle indicate all’art. 2 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413).

In mancanza di impugnazione sul punto, infatti, si deve ritenere che nel giudizio a quo si fosse già implicitamente formato il giudicato interno sulla questione, con la conseguenza che la giurisdizione del giudice tributario – e, con essa, la rilevanza delle questioni – non poteva più essere posta in discussione (sentenza n. 46 del 2021, con riguardo all’analogo profilo del giudicato interno implicitamente formatosi nel processo amministrativo).

5.2.3.– Passando al merito, è sufficiente osservare che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, un prelievo come quello in esame, del quale si è esclusa la natura tributaria, resta sottratto al principio di capacità contributiva (ex plurimis, sentenze n. 263 e n. 234 del 2020 e n. 173 del 2016, ordinanza n. 22 del 2003), «con la conseguenza che l’invocato parametro di cui all’art. 53 Cost. deve ritenersi inconferente, siccome riguardante la materia della imposizione tributaria in senso stretto» (ordinanza n. 22 del 2003).

La pronuncia di non fondatezza investe la censura nel suo complesso, non residuando profili di irragionevolezza diversi dalla lamentata lesione della capacità contributiva. In particolare non sono individuabili aspetti della questione riferiti autonomamente all’art. 3 Cost., che si deve dunque ritenere evocato dal rimettente insieme all’art. 53 Cost. solo perché quest’ultimo costituisce, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, espressione specifica in materia tributaria del principio di uguaglianza e di ragionevolezza (ex plurimis, sentenze n. 142 del 2014, n. 116 del 2013 e n. 111 del 1997; ordinanza n. 341 del 2000).

5.3.– Non è fondata infine nemmeno la terza – e ultima – questione, con la quale è lamentata la violazione dell’art. 47 Cost., poiché la scelta legislativa contestata si porrebbe in contrasto con il principio di tutela del risparmio.

Questa Corte ha già avuto modo di affermare che l’art. 47 Cost. enuncia «un principio programmatico» (sentenza n. 143 del 1995), al quale «il legislatore ordinario deve ispirarsi, bilanciandolo con gli altri interessi costituzionalmente rilevanti, nell’esercizio di un potere discrezionale che incontra il solo limite [...] della contraddizione del principio stesso (sentenze n. 143 del 1995 e n. 19 del 1994)» (sentenza n. 29 del 2002).

Nel caso di specie, si deve escludere che il bilanciamento operato dal legislatore si ponga in contraddizione con il principio della tutela del risparmio. L’assunto per cui il prelievo graverebbe sulla scelta fra due moduli equiparati non tiene conto del fatto che invece la soluzione scoraggiata comporta l’uscita dell’impresa bancaria da tale settore e la sua continuazione in forma di spa.

Non è poi conferente il richiamo operato dal rimettente, nel contesto della censura, alla sentenza n. 99 del 2018 in tema di banche popolari. Con essa questa Corte si è pronunciata sulla legittimità di una norma affatto diversa per contenuto e finalità, diretta ad assicurare – attraverso la limitazione del diritto al rimborso delle azioni dei soci recedenti a seguito di trasformazione di una banca popolare in spa – il rispetto dei requisiti prudenziali delle banche stabiliti dalla disciplina dell’Unione europea.

Né infine può essere considerato decisivo l’argomento offerto dalla parte, secondo cui l’ingente prelievo, diminuendo le riserve indivisibili, ridurrebbe significativamente la capacità della conferente di dotare di risorse finanziarie la banca partecipata, comprimendone la solidità. La previsione del versamento non interferisce con il possesso in capo alla banca spa conferitaria degli inderogabili requisiti patrimoniali per lo svolgimento dell’attività bancaria, pena il mancato rilascio dell’autorizzazione al conferimento d’azienda da parte della Banca d’Italia. La solidità dell’impresa bancaria non può, quindi, comunque mai essere messa in discussione, con la conseguenza che anche la scelta che comporta il prelievo non può comprimerla fino al punto di pregiudicare la tutela del risparmio.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 3-ter e 3-quater, quest’ultimo limitatamente alle parole «al netto del versamento di cui al comma 3-ter», di cui al primo periodo, e alle parole «e 3-ter» di cui al terzo periodo, del decreto-legge 14 febbraio 2016, n. 18 (Misure urgenti concernenti la riforma delle banche di credito cooperativo, la garanzia sulla cartolarizzazione delle sofferenze, il regime fiscale relativo alle procedure di crisi e la gestione collettiva del risparmio), convertito, con modificazioni, nella legge 8 aprile 2016, n. 49, promosse dalla Corte di cassazione, sezione tributaria civile, in riferimento agli artt. 3, 41, 45, 47 e 53 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 giugno 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Daria de PRETIS, Redattrice

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 9 luglio 2021.