SENTENZA N. 24
ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Augusto
Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale
dell’art. 50, comma 4, penultimo e ultimo periodo, della legge
23 dicembre 2000, n. 388, recante
«Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato
(legge finanziaria 2001)», promossi dal Consiglio di Stato, adunanza
plenaria, con ordinanza del 14 luglio 2015 e dal Consiglio di Stato, sezione
quarta, con ordinanza dell’8 febbraio 2017, iscritte, rispettivamente, al n. 231 del
registro ordinanze 2015 e al n. 52 del
registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2015 e n. 16, prima serie
speciale, dell’anno 2017.
Visti gli atti di
costituzione di G. S. e altri (fuori termine, nel giudizio promosso con
l’ordinanza iscritta al n. 52 del registro ordinanze 2017), nonché gli atti di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella udienza
pubblica del 9 gennaio e nella camera di consiglio del 10 gennaio 2018 il
Giudice relatore Daria de Pretis;
uditi l’avvocato Pietro
Quinto per G. S. e altri e l’avvocato dello Stato Chiarina Aiello per il
Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza
del 14 luglio 2015 (reg. ord. n. 231 del 2015),
l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha sollevato questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 4, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante
«Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato
(legge finanziaria 2001)», in riferimento agli articoli 3, 97 e 117, primo comma, della
Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU),
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848.
La norma è censurata nella parte in cui prevede che
«[i]l nono comma dell’articolo 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425, si intende
abrogato dalla data di entrata in vigore del […] decreto-legge n. 333 del 1992,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, e perdono ogni
efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorità giurisdizionali comunque
adottati difformemente dalla predetta interpretazione dopo la data suindicata»
(penultimo periodo), e che «[i]n ogni caso non sono dovuti e non possono essere
eseguiti pagamenti sulla base dei predetti decisioni o provvedimenti» (ultimo
periodo).
L’abrogato art. 4,
nono comma, della legge 6 agosto 1984, n. 425 (Disposizioni relative al
trattamento economico dei magistrati) stabiliva che: «[…] per il personale che
ha conseguito la nomina a magistrato di corte d’appello o a magistrato di corte
di cassazione a seguito del concorso per esami previsto dalla legge 4 gennaio
1963, n. 1, e successive modificazioni e integrazioni, l’anzianità viene
determinata in misura pari a quella riconosciuta al magistrato di pari
qualifica con maggiore anzianità effettiva che lo segue nel ruolo».
1.1.– Le questioni
sono sorte nel corso del giudizio d’appello avverso la sentenza con la quale il
Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha respinto il ricorso proposto
da nove consiglieri di Stato – vincitori di concorso – per l’annullamento della
nota emessa il 3 febbraio 2003 dal Presidente del Consiglio dei ministri.
Con tale nota erano
state respinte le istanze di esecuzione delle decisioni adottate dal Presidente
della Repubblica il 27 settembre 1999, di accoglimento dei ricorsi straordinari
presentati dagli stessi consiglieri di Stato per ottenere, a titolo di
adeguamento stipendiale ai sensi dell’art. 4, nono comma, della legge n. 425
del 1984, il maggiore trattamento economico riconosciuto ai magistrati di pari
qualifica che li seguono nel ruolo.
Il rimettente
ricorda che in precedenza gli interessati avevano presentato ricorso in
ottemperanza allo stesso Consiglio di Stato per l’esecuzione delle decisioni
del Presidente della Repubblica, ma la sentenza di accoglimento era stata
successivamente annullata dalle sezioni unite della Corte di cassazione per
difetto di giurisdizione.
Riferisce inoltre
che il TAR Lazio, nel corso del giudizio di primo grado, aveva sollevato
questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 50, comma 4, della
legge n. 388 del 2000, in relazione agli artt. 3, 24, 100, 103 e 113 Cost., in
quanto, nello stabilire l’abrogazione retroattiva dell’art. 4, nono comma,
della legge n. 425 del 1984, la disposizione avrebbe inciso sulle posizioni
individuali già riconosciute da decisioni definitive di accoglimento di ricorsi
straordinari al Presidente della Repubblica. Con la sentenza n. 282 del
2005, questa Corte ha dichiarato non fondata la questione, sul presupposto
che le decisioni adottate con decreto del Presidente della Repubblica in sede
di ricorso straordinario non hanno la natura né gli effetti degli atti di tipo
giurisdizionale e che, pertanto, non vale per esse la salvezza del giudicato
che costituisce il limite invalicabile all’efficacia retroattiva delle norme di
interpretazione autentica.
1.2.– Premessa
un’ampia trattazione dei principi che regolano il controllo di legittimità
costituzionale delle norme interne in contrasto con la CEDU, il giudice a quo deduce che la questione è
rilevante, in quanto l’effetto preclusivo prodotto dalla norma censurata
costituisce l’unica ragione del diniego opposto dall’amministrazione alle
richieste dei ricorrenti e l’unico motivo posto a fondamento della decisione
sfavorevole resa dal TAR Lazio.
Quanto alla non
manifesta infondatezza, il giudice a quo
deduce che le sopravvenute modifiche legislative introdotte dall’art. 69 della
legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile) – sulla
legittimazione del Consiglio di Stato a sollevare questioni incidentali di
costituzionalità in sede di parere sul ricorso straordinario e sulla
soppressione del potere del Governo di discostarsi da tale parere – e dall’art.
7, comma 8, del codice del processo amministrativo (Allegato 1 al decreto
legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante «Attuazione dell’articolo 44 della
legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del
processo amministrativo») – in forza del quale il ricorso straordinario è
ammissibile solo per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa
– hanno attribuito al decreto presidenziale la natura sostanziale di decisione
di giustizia caratterizzata dall’intangibilità propria del giudicato, in quanto
il provvedimento finale sul ricorso straordinario sarebbe meramente
dichiarativo di un giudizio formulato in modo compiuto e definitivo da un
organo giurisdizionale operante nel rispetto delle regole del contraddittorio,
in posizione di terzietà e di indipendenza.
Lo ius superveniens,
tuttavia, non varrebbe ad attribuire la stessa natura sostanziale di giudicato
alle decisioni rese in precedenza, in un contesto normativo in cui esse, pur
esibendo nel loro nucleo essenziale la connotazione di statuizioni di carattere
giustiziale, non potevano ancora considerarsi espressione della funzione
giurisdizionale, nel significato pregnante degli artt. 102, primo comma, e 103,
primo comma, Cost. La decisione invero non era riconducibile in via esclusiva
ad un’autorità giurisdizionale, essendo prevista la concorrente paternità
dell’autorità amministrativa, sia pure attraverso l’aggravamento procedurale
della sottoposizione all’approvazione del Consiglio dei ministri, da parte del
ministro competente, della eventuale proposta difforme dal parere del Consiglio
di Stato. Né rileverebbe che, nel caso concreto, tale parere non sia stato
disatteso dal Governo, in quanto la natura giurisdizionale o non di una
decisione deve essere valutata in astratto, secondo il «paradigma normativo di
riferimento», che in epoca anteriore alle menzionate riforme non attribuiva al
giudice amministrativo il potere di decidere in via esclusiva la controversia.
Neppure gioverebbe a sostegno della tesi della portata di giudicato delle
decisioni rese sui ricorsi straordinari prima della riforma l’orientamento
giurisprudenziale che ammette anche per esse il giudizio di ottemperanza ex art. 112 cod. proc. amm., in quanto l’equiparazione di tali decisioni alle
sentenze passate in giudicato opera ai soli fini dell’esperibilità del giudizio
di ottemperanza, in applicazione del principio tempus regit actum
sotteso al disposto dell’art. 5 del codice di procedura civile.
1.3.– Dopo avere
riassunto le motivazioni della citata sentenza n. 282 del
2005 e avere escluso, per le ragioni appena esposte, che l’art. 50, comma
4, della legge n. 388 del 2000 possa essere interpretato nel senso di escludere
dalla sua sfera di applicazione retroattiva le precedenti decisioni rese sui
ricorsi straordinari, il rimettente osserva che secondo gli artt. 6 e 13 della
CEDU, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, le decisioni
amministrative irrevocabili espressione di «judicial review» sono «equated to a Court decision» e, in quanto tali,
non solo devono essere suscettibili di attuazione coattiva, ma sono anche
«caratterizzate dall’intangibilità» da parte di norme retroattive, a tutela
dell’affidamento legittimo dei singoli.
La norma in esame,
avente natura di legge provvedimento diretta a vanificare decisioni definitive,
anche se non stricto sensu
giurisdizionali, sarebbe pertanto in contrasto con parametri diversi da quelli
invocati dal giudice di primo grado – la cui lesione è stata esclusa dalla sentenza n. 282 del
2005 – e segnatamente con l’art. 117, primo comma, Cost., per il tramite
degli artt. 6 e 13 della CEDU, in quanto la decisione sul ricorso
straordinario, anche nella conformazione anteriore alle novelle del 2009 e del
2010, è caratterizzata dalla irrevocabilità, dall’immodificabilità
e dall’insindacabilità a opera di ogni altra autorità amministrativa e
giurisdizionale, come ha riconosciuto anche la Corte di giustizia dell’Unione
europea, chiamata a esaminare il diverso profilo della legittimazione del
Consiglio di Stato a chiedere, nella procedura di ricorso straordinario, una
pronuncia pregiudiziale interpretativa (è citata la sentenza della Corte
di giustizia delle Comunità europee, sezione quinta, 16 ottobre 1997, nelle
cause riunite da C-69/96 a C-79/96, Garofoli e altri).
Risulterebbero
dunque non manifestamente infondati i dubbi di legittimità costituzionale
dell’art. 50, comma 4, penultimo e ultimo periodo, della legge n. 388 del 2000,
nella parte in cui tali disposizioni prevedono «la vanificazione degli effetti
della decisione definitiva di giustizia che, secondo i parametri convenzionali,
va equiparata a una decisione giurisdizionale dal punto di vista
dell’effettività e della pienezza della tutela oltre che dell’intangibilità
dell’affidamento ragionevole e legittimo assicurato dall’esito del giudizio».
1.4.– Ad avviso del
giudice a quo, la norma in esame
contrasta inoltre con gli artt. 3 e 97 Cost., in quanto si tratterebbe di una
legge-provvedimento che incide in via retroattiva e in senso sfavorevole sulle
posizioni consolidatesi per effetto di decisioni irreversibili, così arrecando
un vulnus ai danni dei ricorrenti nel
processo principale, in mancanza di idonee ragioni di interesse generale che
giustifichino tale sacrificio.
2.– Con atti
depositati in cancelleria il 20 e il 30 novembre 2015, si sono costituiti otto
dei nove ricorrenti nel giudizio a quo.
In via principale,
le parti chiedono che questa Corte adotti una sentenza interpretativa di
rigetto, nel senso che le denunciate disposizioni dell’art. 50, comma 4, della
legge n. 388 del 2000 non si applicherebbero alle «decisioni irrevocabili
insuscettibili di impugnazione presso qualsiasi autorità giurisdizionale o
amministrativa», e quindi anche alle decisioni del 27 settembre 1999 rese sui
ricorsi straordinari da essi proposti al Presidente della Repubblica.
La richiesta si
fonda sulla tesi della "revisione” retroattiva che il legislatore, in attuazione
della VI disposizione transitoria della Costituzione, avrebbe operato con gli
artt. 69 della legge n. 69 del 2009 e 7, comma 8, cod. proc. amm., riconoscendo al decreto decisorio dei ricorsi
straordinari la natura di rimedio giurisdizionale che esso già possedeva. Tale
"revisione” ex tunc
dell’istituto, secondo le parti, si desumerebbe dal "diritto vivente” espresso
in numerosissime sentenze pronunciate sia dalla Corte di cassazione che dal
Consiglio di Stato tra il 2011 e il 2015, le quali, riconoscendo il rimedio
dell’ottemperanza per l’esecuzione di decisioni di ricorsi straordinari al
Presidente della Repubblica o al Presidente della Regione Siciliana rese prima
delle riforme degli anni 2009-2010 su conformi pareri del Consiglio di Stato o
del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana,
renderebbero non più contestabile la natura giurisdizionale del rimedio e
l’esistenza di un «giudicato» anche con riguardo alle predette decisioni.
Ad avviso delle
parti, pertanto, la precedente sentenza n. 282 del
2005 sarebbe «superata», alla luce delle riforme degli anni 2009-2010,
mentre l’impostazione assunta dal giudice a
quo nell’ordinanza di rimessione, oltre a essere in conflitto con il
menzionato orientamento giurisprudenziale, contrasterebbe con il divieto di
costituire nuovi giudici speciali ex art.
102 Cost. e con la VI disposizione transitoria della Costituzione (è citata la sentenza n. 287 del
1974, sul riconoscimento ex tunc della natura giurisdizionale delle commissioni
tributarie dopo la riforma del contenzioso tributario del 1972).
Inoltre, questa
Corte, anche se in diversa materia, avrebbe già qualificato come giudicato una
decisione resa prima delle riforme su conforme parere del Consiglio di Stato (è
citata l’ordinanza
n. 57 del 2015) e avrebbe ancora ritenuto ammissibile la questione
sollevata dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana in
sede di parere su un ricorso straordinario al Presidente della Regione
Siciliana (è citata la sentenza n. 265 del
2013).
Qualora questa Corte
non ritenesse di interpretare la norma censurata nel senso di fare salvi, per
effetto delle riforme degli anni 2009-2010, anche i decreti decisori dei
ricorsi straordinari, in quanto dotati ex
tunc di una forza equiparabile al giudicato, le
parti chiedono che essa sollevi davanti a se stessa questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 112 cod. proc. amm. e
dell’art. 15 del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199
(Semplificazione dei procedimenti in materia di ricorsi amministrativi) in
rapporto all’art. 395, numero 5), cod. proc. civ., per contrasto, il primo, con
gli artt. 3, 102 e 117 Cost. e con la VI disposizione transitoria della
Costituzione e, il secondo, per contrasto con gli artt. 2, 3, 24 e 117 Cost.
In via subordinata,
le medesime parti chiedono che siano accolte le questioni sollevate dal giudice
a quo, aderendo alle ragioni esposte
nell’ordinanza di rimessione con riferimento alla giurisprudenza della Corte
EDU in tema di intangibilità delle decisioni amministrative irrevocabili
espressione di «judicial review» e
osservando, tra l’altro, che la stessa Corte di Strasburgo, con la sentenza 1° luglio 2014,
Guadagno e altri contro Italia, in un caso di cosiddetto "galleggiamento”
di magistrati amministrativi, avrebbe già dichiarato che l’art. 50, comma 4,
della legge n. 388 del 2000 ha violato l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU,
avendo influito sull’esito di giudizi pendenti nei quali era parte lo Stato, in
assenza di motivi imperativi di interesse generale. Infine, sarebbero
condivisibili anche le censure ex artt.
3 e 97 Cost., trattandosi di una legge-provvedimento retroattiva, che avrebbe
introdotto una discriminazione ai soli danni dei ricorrenti nel processo
principale, destinati a subire l’inefficacia delle decisioni definitive assunte
a loro favore.
3.– Con atto
depositato il 1° dicembre 2015 è intervenuto in giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, che ha concluso per l’inammissibilità o l’infondatezza, anche manifesta,
delle questioni.
In primo luogo, i
precedenti della Corte di Strasburgo evocati dal giudice a quo non sarebbero pertinenti, sicché mancherebbe una consolidata
interpretazione dell’art. 6 della CEDU nel senso prospettato nell’ordinanza di
rimessione, di insanabile contrasto tra la norma interna e la Convenzione dei
diritti dell’uomo. Da qui, ad avviso dell’intervenuto, l’insufficiente
motivazione sulla non manifesta infondatezza o, comunque, la manifesta infondatezza
della questione riferita all’art. 117, primo comma, Cost.
In ogni caso, non
sussisterebbe violazione dei diritti riconosciuti dalla CEDU, in quanto gli
interessati avrebbero scelto liberamente un mezzo di tutela alternativo alla
tutela giurisdizionale, così esponendosi a interventi normativi incidenti
sull’eseguibilità della decisione sul ricorso straordinario. La retroattività
della norma deriverebbe dalla sua natura di legge di interpretazione autentica,
la cui legittimità si dovrebbe rinvenire nel fine perseguito dal legislatore di
ribadire una incompatibilità sistematica già realizzatasi, in ordine alla
vigenza dell’art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984, per effetto
dell’abrogazione dell’istituto dell’allineamento stipendiale, già disposto
dall’art. 2, comma 4, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti
per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni,
dalla legge 8 agosto 1992, n. 359.
L’Avvocatura
generale dello Stato ricorda, altresì, che un precedente intervento retroattivo
su quest’ultima disposizione, operato con l’art. 7, comma 7, del decreto-legge
19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e
di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con
modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438, è già stato considerato da
questa Corte immune da censure attinenti a profili analoghi a quelli ora
proposti dal giudice a quo, con la sentenza n. 6 del
1994, della quale riporta ampi stralci. Le considerazioni svolte nella
sentenza, dovrebbero valere con più forza con riferimento alla norma censurata,
che sarebbe nuovamente intervenuta a interpretare il complesso delle norme
relative al superamento dell’allineamento stipendiale «a fronte delle
persistenti disapplicazioni di cui tali chiare previsioni continuavano talvolta
ad essere oggetto nella prassi […], con grave pregiudizio dell’eguaglianza e
della finanza pubblica».
Il divieto di dare
esecuzione a sentenze, purché non passate in giudicato, o a provvedimenti
amministrativi, comprese le decisioni sui ricorsi straordinari, che avessero
comunque attribuito allineamenti stipendiali, sarebbe pertanto diretto a
evitare il perpetuarsi delle diseguaglianze insite nel meccanismo, già
censurate da questa Corte nella citata sentenza n. 6 del
1994, e costituirebbe un coerente e razionale completamento dell’intervento
normativo del 1992, che il legislatore sarebbe stato «costretto» a reiterare
nel 2000.
Pertanto, la norma
censurata non avrebbe leso l’affidamento dei ricorrenti nel processo
principale, i quali nel 1992 non avevano ancora intrapreso alcun procedimento
inteso a rivendicare il maggiore trattamento stipendiale. In ogni caso, non vi
sarebbe lesione del loro diritto a un giusto processo, avendo essi già goduto
di un primo giudizio di legittimità costituzionale, che secondo la stessa
giurisprudenza della Corte EDU rappresenterebbe una circostanza di per sé
sufficiente a escludere la privazione di garanzie processuali ad opera di una
legge sopravvenuta.
Infine, non
sussisterebbe la lesione degli artt. 3 e 97 Cost., non potendosi parlare di
legge-provvedimento, in quanto la norma censurata detterebbe una disciplina
generale relativa a tutti i provvedimenti che avessero fatto applicazione
dell’art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984 in senso difforme
dall’interpretazione voluta dal legislatore, prevedendo la loro non
eseguibilità per incensurabili ragioni di finanza pubblica.
4.– Con successiva
memoria, depositata il 22 novembre 2016, le parti costituite hanno replicato
alle deduzioni difensive del Presidente del Consiglio dei ministri.
Sull’asserita
irrilevanza delle sentenze della Corte di Strasburgo indicate nell’ordinanza di
rimessione, si precisa che con quei richiami giurisprudenziali (ai quali la
memoria aggiunge la citazione di ulteriori decisioni) l’adunanza plenaria
avrebbe evidenziato che in molti Paesi europei le controversie sono decise da
autorità che, anche se non fanno parte degli ordini giurisdizionali, dirimono
per legge controversie, con decisioni aventi «piena equiparazione» al
giudicato.
Si ribadisce altresì
il rilievo, ritenuto decisivo dalle parti, della sentenza resa dalla Corte EDU
nel caso Guadagno e altri, che avrebbe già statuito in ordine al contrasto
tra la norma censurata e l’art. 6 della CEDU, nonché la richiesta di una
sentenza interpretativa di rigetto che, riconoscendo che la "revisione” del
ricorso straordinario ha avuto natura dichiarativa-ricognitiva, ravvisi la non
applicabilità della norma censurata in danno dei ricorrenti nel processo
principale.
Viene poi contestata
l’assimilazione del caso riguardante i ricorrenti a quello di un ordinario
allineamento (o "galleggiamento”) stipendiale, trattandosi invece
dell’applicazione di una disposizione legislativa basata sul "merito” dei
consiglieri di Stato vincitori di concorso, avente funzione premiale. E ancora
si contesta la tesi secondo cui l’art. 50, comma 4, costituirebbe un
completamento sistematico della previsione del 1992, soppressiva dell’istituto
del "galleggiamento”, in quanto la scelta del legislatore del 2000 era nel
senso di ridurre i vantaggi economici dei consiglieri di Stato – pur
conservando il relativo concorso – salvo il rispetto delle posizioni
consolidate da decisioni irrevocabili.
Infine, le parti
costituite contestano l’assunto secondo cui nessuno, tranne i beneficiari di
sentenze passate in giudicato, avrebbe potuto vantare "diritti quesiti”
all’allineamento stipendiale, in quanto, in assenza di oscillazioni
interpretative della norma interpretata, le uniche decisioni irrevocabili «equated to a Court decision»
e fondate sull’art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984 erano quelle
riguardanti i nove consiglieri di Stato interessati, che la disposizione
interpretativa censurata, operando quale legge provvedimento, avrebbe inteso
privare di efficacia.
5.– Con ulteriore
memoria, depositata il 21 novembre 2017, le parti hanno nuovamente illustrato
le proprie difese e ribadito le richieste già presentate nei precedenti atti.
6.– Con ordinanza
dell’8 febbraio 2017 (reg. ord. n. 52 del 2017), il
Consiglio di Stato, sezione quarta, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 50, comma 4, penultimo e ultimo periodo, della legge n. 388 del 2000, in
riferimento agli artt.
3, 24, 97, 111 e 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU.
Il rimettente dubita della conformità a Costituzione delle stesse disposizioni
oggetto del giudizio promosso con l’ordinanza iscritta al n. 231 reg. ord. del 2015.
Le questioni sono
sorte nel corso del giudizio di ottemperanza promosso dagli stessi consiglieri
di Stato vincitori di concorso per ottenere l’esecuzione delle medesime
decisioni adottate a loro favore dal Presidente della Repubblica il 27
settembre 1999 sui ricorsi straordinari.
Il giudice a quo riassume la complessa vicenda
processuale, nella quale gli interessati avevano già proposto ricorso in
ottemperanza, accolto dal Consiglio di Stato con sentenza poi annullata per
difetto di giurisdizione dalle sezioni unite della Corte di cassazione, e
ricorda che con una precedente ordinanza l’adunanza plenaria del Consiglio di
Stato ha sollevato questioni relative alle medesime disposizioni nel diverso
giudizio attinente all’impugnazione del diniego di esecuzione dei decreti del
27 settembre 1999.
Ad avviso del
rimettente, il ricorso in ottemperanza è ammissibile, ex art. 112 cod. proc. amm., anche per le
decisioni rese su ricorsi straordinari prima della riforma del 2009, sulla base
dell’indirizzo manifestato dall’adunanza plenaria nella menzionata ordinanza di
rimessione, ma tale ammissibilità, secondo lo stesso condivisibile indirizzo,
non comporterebbe l’attribuzione ex tunc a quelle decisioni del carattere giurisdizionale,
come sostengono i ricorrenti, perché «l’ottemperabilità
di una decisione è una qualitas non sovrapponibile a quella diversa della
sussistenza di un giudicato resistente al potere della legge».
6.1.– Dopo avere
respinto le eccezioni di illegittimità costituzionale proposte dai ricorrenti
in riferimento a parametri o a censure diversi da quelli poi indicati, il
giudice a quo ritiene rilevante e non
manifestamente infondato il dubbio concernente la violazione degli artt. 3, 24
e 111 Cost. e ripropone, altresì, le questioni già sollevate dall’adunanza
plenaria con l’ordinanza citata, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, primo
comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU.
Le questioni
sarebbero rilevanti, in quanto «[i]l soddisfacimento della pretesa dell’odierna parte ricorrente […]
trova ostacolo nella permanente vigenza degli ultimi due periodi del comma 4
dell’art. 50 della legge 388/2000».
6.2.– Secondo il rimettente, la norma
censurata violerebbe gli artt. 3, 24 e 111 Cost. «nella parte in cui»,
stabilendo l’abrogazione retroattiva dell’art. 4, nono comma, della
legge n. 425 del 1984 e prevedendo che tale abrogazione possa travolgere anche
posizioni individuali già riconosciute da decisioni definitive di accoglimento
di ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica, avrebbe inciso, in
assenza di motivi imperativi di interesse generale, sulle controversie pendenti
che erano state intraprese per ottenere l’esecuzione delle suddette decisioni
definitive, con conseguente lesione del diritto di difesa e del principio di
parità delle parti.
Il giudice a quo osserva che le decisioni del
Presidente della Repubblica avevano definito in senso favorevole ai ricorrenti
la lite concernente la spettanza del bene della vita a cui essi aspiravano e
che al momento della pubblicazione dell’art. 50, comma 4, della legge n. 388
del 2000 la controversia relativa alla «cogenza ed eseguibilità dei detti
decreti era ancora in corso, in quanto, nel permanente rifiuto
dell’Amministrazione di conformarvisi, gli originari ricorrenti avevano
proposto un ricorso per l’esecuzione del giudicato, accolto dal Consiglio di
Stato (Cons. Stato Sez. IV, 15-12-2000, n. 6697) e soltanto successivamente la
decisione favorevole da quest’ultimo adottata era stata annullata da parte
della Suprema Corte di Cassazione per difetto di giurisdizione (Cass. civ. Sez.
Unite, 18 dicembre 2001, n. 15978)».
La norma censurata
violerebbe il principio di parità delle parti di cui all’art. 111 Cost., perché
avrebbe immesso nell’ordinamento una fattispecie di ius singolare, dettando una disposizione di tenore coincidente con la
tesi propugnata da una delle parti (l’amministrazione), con il conseguente
sbilanciamento fra le due posizioni in gioco (è citata la sentenza n. 186 del
2013).
Il denunciato
contrasto deriverebbe anche dall’applicazione dei principi previsti all’art. 6
della CEDU, in materia di equo processo. Il rimettente richiama al riguardo la
giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull’ingerenza del potere legislativo
nell’amministrazione della giustizia ad opera di leggi retroattive al fine di
influenzare l’esito giudiziario di una controversia, invocando in particolare
la citata sentenza 1°
luglio 2014, Guadagno e altri contro Italia.
6.3.– Quanto alla
violazione degli artt. 3, 97 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in
relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU, il giudice a quo richiama, dichiarando di condividerle, le considerazioni espresse
dall’adunanza plenaria, aggiungendo che per effetto dell’introduzione della
norma censurata si sarebbe «inverata», sia pure solo con riferimento al
trattamento stipendiale, una condizione analoga a quella già reputata in
contrasto con l’art. 97 Cost. dalla sentenza n. 269 del
1988, sulla «posposizione in ruolo degli avvocati dello Stato vincitori di
concorso rispetto agli ex Procuratori capo dello Stato inseriti tra gli avvocati
alla seconda classe di stipendio».
7.– Con atto
depositato il 17 maggio 2017, fuori termine, si sono costituiti otto dei nove
ricorrenti nel processo principale, i quali il 21 novembre 2017 hanno altresì
depositato una memoria illustrativa.
8.– Con atto
depositato il 9 maggio 2017 è intervenuto in giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, che ha concluso per l’inammissibilità o, comunque, per l’infondatezza
delle questioni.
In via preliminare,
l’interveniente eccepisce l’inammissibilità per difetto di motivazione sulla
rilevanza, osservando che un’analoga azione di ottemperanza, diretta a ottenere
l’esecuzione degli stessi decreti decisori dei ricorsi straordinari, è stata
dichiarata inammissibile dalle sezioni unite della Corte di cassazione per
difetto di giurisdizione. Il rimettente non svolge sul punto alcuna
considerazione, mentre avrebbe invece dovuto giustificare in modo adeguato la
rilevanza della questione. La medesima azione di ottemperanza sarebbe invero
preclusa dal giudicato sussistente inter partes, sorto per effetto delle sentenze delle sezioni
unite, come era già stato eccepito nel corso del giudizio a quo.
Nel merito,
l’interveniente ripropone argomentazioni difensive analoghe a quelle dedotte
nel giudizio promosso dall’adunanza plenaria e, sulle censure specificamente
sollevate dalla quarta sezione del Consiglio di Stato, osserva che il giudizio
di ottemperanza non potrebbe «ambire alla illustrata intangibilità da interventi
legislativi in corso di procedimento», qualora abbia ad oggetto l’esecuzione di
una decisione emessa all’esito di un procedimento amministrativo come quello
che sfocia nei decreti decisori dei ricorsi straordinari, che non tende alla
formazione di un giudicato. Ciò dimostrerebbe la non pertinenza del richiamo
alla sentenza resa dalla
Corte EDU nel caso Guadagno, in cui si discuteva dell’applicazione
dell’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000 a sentenze di organi
giurisdizionali passate in giudicato, ricognitive del diritto all’allineamento
stipendiale. Da qui, l’asserita contraddittorietà dell’ordinanza di rimessione,
nella quale sarebbe più volte affermato che nella fattispecie non si verte in
materia di procedimenti giurisdizionali.
Inoltre,
l’Avvocatura ribadisce che la norma censurata non costituirebbe una
disposizione isolata, estemporanea e imprevedibile, reiterando il precedente
intervento retroattivo di cui all’art. 7, comma 7, del d.l.
n. 384 del 1992, come convertito, al fine di ristabilire l’uguaglianza del
trattamento retributivo tra i magistrati e l’incompatibilità sistemica dei
meccanismi di allineamento stipendiale con la disciplina di tale trattamento, a
fronte dell’insorgenza di prassi disapplicative dello
stesso art. 7, comma 7.
La norma censurata,
pertanto, non avrebbe pregiudicato il principio di parità delle armi, parità
che semmai avrebbe contribuito a ristabilire, e non lederebbe alcun
affidamento, che il chiaro disposto del citato art. 7, comma 7, avrebbe escluso
sin dal 1992.
Infine, l’intervento
retroattivo sarebbe sorretto da valide ragioni di interesse pubblico, vale a
dire «la tutela degli equilibri di finanza pubblica rispetto a meccanismi
retributivi suscettibili di innescare processi di incremento retributivo casuali,
non prevedibili e non controllabili […] e la tutela dell’eguaglianza
retributiva tra dipendenti pubblici preposti a mansioni analoghe e in possesso
di anzianità paragonabili».
Considerato in diritto
1.– L’adunanza plenaria del
Consiglio di Stato dubita della legittimità costituzionale dell’art. 50, comma
4, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria
2001)», in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, primo comma, della Costituzione,
quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata
a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955,
n. 848.
La norma è censurata nella parte
in cui prevede che «[i]l nono comma dell’articolo 4 della legge 6 agosto 1984,
n. 425, si intende abrogato dalla data di entrata in vigore del […]
decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n.
359 del 1992, e perdono ogni efficacia i provvedimenti e le decisioni di
autorità giurisdizionali comunque adottati difformemente dalla predetta
interpretazione dopo la data suindicata» (penultimo periodo), e che «[i]n ogni
caso non sono dovuti e non possono essere eseguiti pagamenti sulla base dei
predetti decisioni o provvedimenti» (ultimo periodo).
L’abrogato art. 4, nono comma,
della legge 6 agosto 1984, n. 425 (Disposizioni relative al trattamento
economico dei magistrati) stabiliva che: «[…] per il personale che ha
conseguito la nomina a magistrato di corte d’appello o a magistrato di corte di
cassazione a seguito del concorso per esami previsto dalla legge 4 gennaio
1963, n. 1, e successive modificazioni e integrazioni, l’anzianità viene determinata
in misura pari a quella riconosciuta al magistrato di pari qualifica con
maggiore anzianità effettiva che lo segue nel ruolo».
Le questioni sono sorte nel
corso del giudizio d’appello avverso la sentenza con la quale il Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio ha respinto il ricorso proposto da alcuni
consiglieri di Stato – vincitori di concorso – per l’annullamento della nota
emessa il 3 febbraio 2003 dal Presidente del Consiglio dei ministri.
Con tale nota erano
state respinte le istanze di esecuzione delle decisioni adottate dal Presidente
della Repubblica il 27 settembre 1999, di accoglimento dei ricorsi straordinari
presentati dagli stessi consiglieri di Stato per ottenere, a titolo di
adeguamento stipendiale ai sensi dell’art. 4, nono comma, della legge n. 425
del 1984, il maggiore trattamento economico riconosciuto ai magistrati di pari
qualifica che li seguono nel ruolo.
Il rimettente
riferisce che nel corso del giudizio di primo grado il TAR Lazio aveva
sollevato questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 50, comma
4, della legge n. 388 del 2000, in relazione agli artt. 3, 24, 100, 103 e 113
Cost., in quanto, nello stabilire l’abrogazione retroattiva dell’art. 4, nono
comma, della legge n. 425 del 1984, la disposizione avrebbe inciso sulle
posizioni individuali già riconosciute da decisioni definitive di accoglimento
di ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica. Con la sentenza n. 282 del
2005, questa Corte ha dichiarato non fondata la questione sul presupposto
che le decisioni adottate con decreto del Presidente della Repubblica in sede
di ricorso straordinario non hanno la natura né gli effetti degli atti di tipo
giurisdizionale e che, pertanto, non vale per esse la salvezza del giudicato
costituente il limite invalicabile all’efficacia retroattiva delle norme di
interpretazione autentica.
Le questioni
sarebbero rilevanti, in quanto l’effetto preclusivo prodotto dalla norma
censurata costituirebbe l’unica ragione del diniego opposto
dall’amministrazione alle richieste dei ricorrenti e l’unico motivo posto a
fondamento della decisione sfavorevole resa dal TAR Lazio.
Quanto alla non
manifesta infondatezza, il giudice a quo
deduce che le sopravvenute modifiche legislative introdotte dall’art. 69 della
legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile) – sulla
legittimazione del Consiglio di Stato a sollevare questioni incidentali di
costituzionalità in sede di parere sul ricorso straordinario e sulla
soppressione del potere del Governo di discostarsi da tale parere – e dall’art.
7, comma 8, del codice del processo amministrativo (Allegato 1 al decreto
legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante «Attuazione dell’articolo 44 della
legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del
processo amministrativo») – in forza del quale il ricorso straordinario è
ammissibile solo per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa
– hanno attribuito al decreto presidenziale la natura sostanziale di decisione
di giustizia caratterizzata dall’intangibilità propria del giudicato, in quanto
il provvedimento finale sul ricorso straordinario sarebbe meramente
dichiarativo di un giudizio formulato in modo compiuto e definitivo da un
organo giurisdizionale, operante nel rispetto delle regole del contraddittorio
e in posizione di terzietà e di indipendenza.
Lo ius superveniens,
tuttavia, non varrebbe ad attribuire la stessa natura sostanziale di giudicato
alle decisioni rese in precedenza, in un contesto normativo in cui esse, pur
esibendo nel loro nucleo essenziale la connotazione di statuizioni di carattere
giustiziale, non potevano ancora essere considerate espressione della funzione
giurisdizionale nel significato pregnante degli artt. 102, primo comma, e 103,
primo comma, Cost. La decisione invero non era riconducibile in via esclusiva
ad un’autorità giurisdizionale, essendo prevista la concorrente paternità
dell’autorità amministrativa, sia pure attraverso l’aggravamento procedurale
della sottoposizione all’approvazione del Consiglio dei ministri, da parte del
ministro competente, della eventuale proposta difforme dal parere del Consiglio
di Stato.
Il rimettente
osserva che, tuttavia, secondo gli artt. 6 e 13 della CEDU, come interpretati
dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, le decisioni amministrative
irrevocabili espressione di «judicial review» sono «equated to a Court decision» e, in quanto tali, non solo devono essere
suscettibili di attuazione coattiva, ma sono anche «caratterizzate
dall’intangibilità» da parte di norme retroattive a tutela dell’affidamento
legittimo dei singoli.
La norma in esame
sarebbe pertanto in contrasto con parametri diversi da quelli invocati dal
giudice di primo grado – la cui lesione è stata esclusa dalla sentenza di questa
Corte n. 282 del 2005 – e segnatamente con l’art. 117, primo comma, Cost.,
per il tramite degli artt. 6 e 13 della CEDU, in quanto la decisione sul
ricorso straordinario, anche nella conformazione anteriore alle novelle del
2009 e del 2010, è caratterizzata dalla irrevocabilità, dall’immodificabilità e dall’insindacabilità a opera di ogni
altra autorità amministrativa e giurisdizionale.
Risulterebbero
dunque non manifestamente infondati i dubbi di legittimità costituzionale
dell’art. 50, comma 4, penultimo e ultimo periodo, della legge n. 388 del 2000,
nella parte in cui le disposizioni in esso contenute prevedono «la
vanificazione degli effetti della decisione definitiva di giustizia che,
secondo i parametri convenzionali, va equiparata a una decisione
giurisdizionale dal punto di vista dell’effettività e della pienezza della
tutela oltre che dell’intangibilità dell’affidamento ragionevole e legittimo
assicurato dall’esito del giudizio».
Ad avviso del
giudice a quo, la norma in esame
contrasterebbe inoltre con gli artt. 3 e 97 Cost., in quanto si tratterebbe di
una legge provvedimento che incide in via retroattiva e in senso sfavorevole
sulle posizioni consolidatesi per effetto di decisioni irreversibili, così
arrecando un vulnus ai danni dei
ricorrenti nel processo principale in mancanza di idonee ragioni di interesse
generale che giustifichino tale sacrificio.
2.– La quarta
sezione del Consiglio di Stato dubita a sua volta della legittimità
costituzionale dell’art. 50, comma 4, penultimo e ultimo periodo, della legge n. 388 del 2000, in
riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo
in relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU.
Le questioni sono
sorte nel corso di un giudizio di ottemperanza promosso dagli stessi
consiglieri di Stato per ottenere l’esecuzione delle medesime decisioni
adottate a loro favore dal Presidente della Repubblica il 27 settembre 1999 sui
ricorsi straordinari.
Secondo il rimettente, la norma censurata violerebbe
gli artt. 3, 24 e 111 Cost. «nella parte in cui», stabilendo l’abrogazione retroattiva
dell’art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984 e prevedendo che tale abrogazione
possa travolgere anche posizioni individuali già riconosciute da decisioni
definitive di accoglimento di ricorsi straordinari al Presidente della
Repubblica, avrebbe inciso, in assenza di motivi imperativi di interesse
generale, sulle controversie pendenti che erano state intraprese per ottenere
l’esecuzione delle ricordate decisioni definitive, con conseguente lesione del
diritto di difesa e del principio di parità delle parti.
Il giudice a quo osserva che le decisioni del
Presidente della Repubblica avevano definito la lite in senso favorevole ai
ricorrenti e che al momento della pubblicazione dell’art. 50, comma 4, della
legge n. 388 del 2000 la controversia relativa alla «cogenza ed eseguibilità
dei detti decreti era ancora in corso, in quanto, nel permanente rifiuto
dell’Amministrazione di conformarvisi, gli originari ricorrenti avevano
proposto un ricorso per l’esecuzione del giudicato, accolto dal Consiglio di
Stato (Cons. Stato Sez. IV, 15-12-2000, n. 6697), e soltanto successivamente la
decisione favorevole da quest’ultimo adottata era stata annullata da parte
della Suprema Corte di Cassazione per difetto di giurisdizione (Cass. civ. Sez.
Unite, 18 dicembre 2001, n. 15978)».
La norma censurata
violerebbe dunque il principio di parità delle parti di cui all’art. 111 Cost.,
perché avrebbe immesso nell’ordinamento una fattispecie di ius singolare, dettando una disposizione di tenore coincidente con la
tesi propugnata da una delle parti (l’amministrazione), con il conseguente
sbilanciamento fra le due posizioni in gioco.
Il denunciato
contrasto deriverebbe anche dall’applicazione dei principi previsti all’art. 6
della CEDU in materia di equo processo. Il rimettente richiama in proposito la
giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull’ingerenza del potere legislativo
nell’amministrazione della giustizia a opera di leggi retroattive al fine di
influenzare l’esito giudiziario di una controversia, e invoca in particolare la
sentenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo 1° luglio 2004, Guadagno e altri contro Italia.
Quanto alla
violazione degli artt. 3, 97 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in
relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU, il giudice a quo richiama le considerazioni espresse dall’adunanza plenaria,
aggiungendo che per effetto dell’introduzione della norma censurata si sarebbe
«inverata», sia pure solo con riferimento al trattamento stipendiale, una
condizione analoga a quella già reputata in contrasto con l’art. 97 Cost. dalla
sentenza n. 269
del 1988.
3.– I
giudizi vanno riuniti per essere definiti con un’unica pronuncia, avendo a
oggetto questioni relative alla medesima norma, censurata in riferimento a
parametri in larga parte coincidenti.
4.– L’eccezione di inammissibilità
proposta dall’Avvocatura generale dello Stato per insufficiente motivazione
sulla non manifesta infondatezza della questione sollevata dall’adunanza
plenaria in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., non è accoglibile.
Il rimettente ha esposto in modo
adeguato le ragioni del lamentato contrasto fra la norma denunciata e i
parametri convenzionali evocati, mentre la eccepita non pertinenza dei
precedenti della Corte di Strasburgo citati a sostegno della censura può
riguardare semmai solo il merito della questione.
4.1.– Nel merito, tuttavia, le
questioni sollevate dall’adunanza plenaria non sono fondate.
4.1.1.– Va disatteso, in primo
luogo, l’assunto delle parti secondo il quale la norma censurata dovrebbe
essere interpretata nel senso che essa farebbe salve, oltre alle sentenze
passate in giudicato, anche le decisioni rese anteriormente alla sua entrata in
vigore sui ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica.
Questa Corte ha costantemente
ritenuto che, nel regime anteriore alle riforme introdotte dalla legge n. 69
del 2009 e dal codice del processo amministrativo approvato con il d.lgs. n.
104 del 2010, il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica avesse
natura amministrativa, anche se peculiare, trattandosi di un rimedio diretto ad
assicurare la risoluzione non giurisdizionale di una controversia in sede
amministrativa. In quel contesto era dunque da escludere che la conclusione del
relativo procedimento amministrativo presentasse la natura o gli effetti degli
atti di tipo giurisdizionale (ex plurimis, sentenze n. 254 del
2004 e n.
298 del 1986, ordinanze
n. 357 del 2004, n. 301 e n. 56 del 2001).
L’orientamento è confermato anche
dalla sentenza
n. 282 del 2005, resa sulla questione di legittimità costituzionale dello
stesso art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000, che era stata sollevata
dal giudice di primo grado nella controversia ora pendente in appello davanti
al rimettente. In essa questa Corte, dopo avere qualificato la norma censurata
come legge retroattiva di interpretazione autentica, ha escluso che tale
portata retroattiva possa riguardare gli effetti di sentenze passate in
giudicato basate su un’interpretazione in ordine alla vigenza del nono comma
dell’art. 4 della legge n. 425 del 1984 difforme da quella imposta dal
legislatore. Ha tuttavia parimenti escluso, sul presupposto della natura amministrativa
del ricorso straordinario, che la sua decisione avesse natura ed effetti
equivalenti a un giudicato, con la conseguenza che «[l]a salvezza del giudicato
formatosi anteriormente alla data di entrata in vigore della legge di
interpretazione autentica non è anche la salvezza delle decisioni adottate, nel
regime dell’alternatività, con decreto del Presidente della Repubblica in sede
di ricorso straordinario».
D’altro canto, la trasformazione
dell’istituto del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica in
conseguenza delle modifiche introdotte dalla legge n. 69 del 2009 – che hanno
reso vincolante il parere del Consiglio di Stato e hanno consentito che in
quella sede vengano sollevate questioni di legittimità costituzionale – non
costituisce una ragione sufficiente per discostarsi qui dalle conclusioni della
sentenza n. 282
del 2005 sulla natura delle decisioni rese sui ricorsi amministrativi prima
dell’entrata in vigore della norma censurata.
Le ricordate modifiche hanno
trasformato il ricorso straordinario da antico ricorso amministrativo «in un
rimedio giustiziale […] sostanzialmente assimilabile ad un "giudizio”,
quantomeno ai fini dell’applicazione dell’art. 1 della legge cost. n. 1 del
1948 e dell’art. 23 della legge n. 87 del 1953», sicché l’istituto ha perso la
propria «connotazione puramente amministrativa ed ha assunto la qualità di
rimedio giustiziale amministrativo, con caratteristiche strutturali e
funzionali in parte assimilabili a quelle tipiche del processo amministrativo»
(sentenza n. 73
del 2014). Non si può tuttavia ritenere che tale trasformazione abbia efficacia
retroattiva, nel senso di incidere sulla natura e sulla portata delle decisioni
di ricorsi straordinari già prese in precedenza, le quali continuano a
presentare la natura e la forza (non di giudicato) che l’ordinamento conferiva
ad esse nel momento in cui furono assunte, come hanno conformemente concluso
sia l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (nell’ordinanza che ha sollevato
la presente questione) che le sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza
6 settembre 2013, n. 20569). Né depongono nel senso sostenuto dalle parti i
numerosi precedenti che hanno ammesso il giudizio di ottemperanza anche per
l’esecuzione di decisioni su ricorsi straordinari rese prima delle riforme
legislative. In casi siffatti, invero, l’operatività delle riforme non riguarda
la portata delle decisioni, ma è affermata ai soli fini del riconoscimento, in
forza di una legge sopravvenuta, della giurisdizione del giudice amministrativo
adito in sede di ottemperanza, e ciò in piena applicazione del principio tempus regit actum sotteso all’art. 5 del codice di procedura civile
(ex plurimis,
Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 28 gennaio 2011, n. 2065). Il
punto è esattamente colto anche dall’adunanza plenaria nell’ordinanza di
rimessione, là dove, negando l’effetto retroattivo di «giurisdizionalizzazione»
delle decisioni già adottate in vigenza del precedente regime, afferma che «[…]
l’ottemperabilità di una decisione è una qualitas non
sovrapponibile a quella diversa della sussistenza di un giudicato resistente al
potere della legge».
4.1.2.– Neppure può essere
accolta la richiesta delle parti che questa Corte sollevi davanti a se stessa
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 112 cod. proc. amm. e dell’art. 15 del d.P.R. 24
novembre 1971, n. 1199 (Semplificazione dei procedimenti in materia di ricorsi
amministrativi), in rapporto all’art. 395, numero 5), cod. proc. civ., per
contrasto, il primo, con gli artt. 3, 102 e 117 Cost. e con la VI disposizione
transitoria della Costituzione, e, il secondo, con gli artt. 2, 3, 24 e 117
Cost.
La possibilità che questa Corte
sollevi in via incidentale una questione davanti a sé si dà solo allorché
dubiti della legittimità costituzionale di una norma, diversa da quella
impugnata, che sia chiamata necessariamente ad applicare nell’iter logico per
arrivare alla decisione sulla questione che le è stata sottoposta: in altri
termini, si deve trattare di una questione che si presenti pregiudiziale alla
definizione della questione principale e strumentale rispetto alla decisione da
emanare (sentenze
n. 122 del 1976, n. 195 del 1972
e n. 68 del 1961).
Tali presupposti non sussistono nel caso in esame, giacché, per definire la
questione sollevata dal rimettente attinente alla violazione, da parte della
norma di interpretazione autentica censurata, dei parametri convenzionali in
tema di equo processo, non si deve fare applicazione di nessuna delle due norme
sulle quali le parti chiedono a questa Corte di sollevare questione di
legittimità costituzionale, ossia la disposizione sul giudizio di ottemperanza
e la disposizione sulla revocazione dei decreti che decidono i ricorsi
straordinari per i motivi previsti all’art. 395, n. 5), cod. proc. civ.
4.2.– Pur negando, come visto,
che alla decisione sul ricorso straordinario al Presidente della Repubblica
assunta prima delle modifiche normative introdotte negli anni 2009-2010 possa
essere riconosciuto valore di pronuncia giurisdizionale, l’adunanza plenaria
del Consiglio di Stato ritiene nondimeno che a tale tipo di pronuncia essa sia
equiparabile, anche nel regime anteriore a tali modifiche, ciò che
consentirebbe di ricondurla alla sfera di applicazione degli artt. 6 e 13 della
CEDU come interpretati dalla Corte di Strasburgo.
In altri termini, il rimettente
sostiene che quella che nel diritto interno resta pur sempre una decisione
amministrativa non giurisdizionale presenterebbe purtuttavia, nella prospettiva
convenzionale, i caratteri di una decisione giudiziale, in quanto tale
equiparabile alla decisione di un giudice, con la conseguenza che, non
diversamente dal giudicato, anch’essa sarebbe «intangibile» da parte di leggi
retroattive, pena la violazione dei richiamati parametri convenzionali come
interpretati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
4.2.1.– A sostegno del proprio
assunto il giudice a quo richiama
innanzitutto, come precedenti rilevanti della Corte EDU, le sentenze 16
novembre 2006, Mužević contro Croazia; 27 aprile 2004, Gorraiz Lizarraga e altri contro
Spagna; 27 luglio 2004,
Romashov contro Ucraina; 28 ottobre 1999, Zielinski e Pradal & Gonzalez e altri contro Francia (grande camera); 19 marzo 1997, Hornsby contro Grecia.
Si tratta tuttavia di sentenze
che – con l’eccezione di una, Romashov
contro Ucraina, su cui si ritornerà fra poco – non risultano pertinenti, in
quanto, pur attenendo all’applicazione della tutela convenzionale in materia di
equo processo, non riguardano ipotesi di decisioni amministrative che la Corte
di Strasburgo abbia equiparato, in virtù di loro particolari caratteri, a pronunce
giurisdizionali, e fanno riferimento a ipotesi nelle quali non era in
discussione la natura giurisdizionale, per provenienza giudiziale o per
espressa assegnazione di tale carattere da parte dell’ordinamento interno,
della decisione, ma solo i suoi effetti o la sua esecuzione. Così è nei casi: Mužević
contro Croazia, ove si fa riferimento a un titolo esecutivo di formazione
giudiziale, i cui effetti sono espressamente equiparati dalla legislazione
dello Stato contraente a quelli di una sentenza passata in giudicato; Hornsby
contro Grecia, riguardante il giudicato di una corte amministrativa la cui
natura di decisione giurisdizionale non era in discussione; Zielinsky
e Pradal & Gonzalez e
altri contro Francia, in tema decisioni autorità giurisdizionali, passate
in giudicato, fatte salve dall’intervento legislativo; Gorraiz
Lizarraga e altri contro Spagna, riguardante una
legge che, pur influendo sull’esito di una controversia pendente, non aveva
tuttavia impedito successivi interventi giurisdizionali.
L’unico caso, fra quelli citati
dal rimettente, in cui si fa questione dell’applicabilità a un atto emesso da
un organo non giurisdizionale delle regole convenzionali in tema di equo
processo è quello deciso con la sentenza Romashov
contro Ucraina. La pronuncia, al pari di altre rese su casi analoghi (Corte
europea dei diritti dell’uomo, sentenza 8 novembre 2005, Bukhovets contro Ucraina; sentenza 20 settembre 2005, Trykhlib contro Ucraina; sentenza 19 aprile 2005, Dolgov contro Ucraina), può effettivamente avere
rilievo in questa sede, giacché in essa la Corte EDU affronta il problema della
riconducibilità alla sfera di applicazione dell’art. 6 della CEDU di una
decisione proveniente da un organo denominato «labour disputes commission»,
di natura non giurisdizionale, problema che si era posto in relazione al
ritardo, giudicato eccessivo, nella sua esecuzione (si trattava della pronuncia
di condanna di una società mineraria sotto il controllo statale al pagamento di
retribuzioni arretrate in favore di un ex dipendente). La Corte EDU perviene
alla conclusione dell’equiparabilità della decisione in questione a una
pronuncia giurisdizionale (con la conseguenza che lo Stato viene giudicato
responsabile per la sua mancata esecuzione: paragrafo 41) in considerazione dei
tre seguenti caratteri del suo regime nella normativa nazionale ucraina: il
ricorso alla «labour disputes commission» è obbligatorio per la soluzione di
controversie in materia di rapporti di lavoro (art. 224 del codice del lavoro
ucraino); la decisione della commissione può essere appellata davanti a una
corte (art. 228); per la sua esecuzione è comunque possibile procedere
giudizialmente (art. 230).
Il caso appena esposto (così
come gli altri analoghi oggetto delle sentenze della Corte EDU menzionate da ultimo)
si differenzia tuttavia da quello oggetto del presente giudizio quantomeno per
un aspetto decisivo ai fini della vicenda in esame. Mentre il ricorso alla
commissione ucraina è obbligatorio per la risoluzione di una controversia in
materia di rapporto di lavoro, il ricorso straordinario al Presidente della
Repubblica è, come noto, rimedio alternativo al ricorso giurisdizionale al
giudice amministrativo, spettando al ricorrente di scegliere liberamente fra
l’una e l’altra via, con l’unica conseguenza che una volta scelta una non è più
possibile intraprendere l’altra, e salva restando naturalmente la facoltà dei
controinteressati di chiedere la trasposizione in sede giurisdizionale del
ricorso straordinario eventualmente prescelto dal ricorrente.
4.2.2.– Del resto, che dalla
giurisprudenza della Corte di Strasburgo si traggano conclusioni negative sulla
riferibilità alla decisione del ricorso straordinario delle garanzie
convenzionali in tema di equo processo – e più precisamente sul riconoscimento
ad essa del valore di giudicato ai fini della sua salvezza di fronte a
sopravvenute previsioni retroattive – è confermato dalle pronunce nelle quali
la stessa Corte si è direttamente occupata di questo particolare rimedio. Ciò è
avvenuto in tre occasioni, e in due in particolare proprio con specifico
riferimento alla previsione dell’art. 6 della CEDU.
Nella decisione 28 settembre
1999, Nardella contro Italia, la Corte EDU ricostruisce la disciplina
dell’istituto del ricorso straordinario come rimedio speciale ed esclude che
esso – del ritardo nella cui decisione il ricorrente si doleva nel caso di
specie – ricada nell’ambito di applicazione della Convenzione. Per la stessa
ragione osserva che il ricorso al Presidente della Repubblica non rientra fra
quelli che devono essere esperiti previamente al ricorso ex art. 35 della Convenzione stessa. Ciò premesso, nella pronuncia
è sottolineato come, optando per il gravame speciale del ricorso straordinario,
il ricorrente (che pure è stato informato della possibilità di proporre il
ricorso giurisdizionale), sceglie esso stesso di esperire un rimedio che si
pone fuori dall’ambito di applicazione dell’art. 6 della Convenzione.
Sulla base dei medesimi
argomenti e richiamando il caso Nardella, nella decisione 31 marzo 2005, Nasalli Rocca contro Italia, la Corte EDU ha dichiarato
irricevibile un ricorso proposto a essa dal ricorrente che aveva
preventivamente esposto le sue ragioni in lettere al Presidente della
Repubblica. La Corte osserva che tali lettere, anche a volerle considerare
equivalenti a un rimedio straordinario, non ricadono comunque nella sfera di
applicazione dell’art. 35 della Convenzione.
Particolarmente significativo è
che alle stesse conclusioni la Corte di Strasburgo pervenga nella sentenza 2 aprile 2013,
Tarantino e altri contro Italia, successiva quindi alla riforma del 2009,
dove ribadisce che la parte ricorrente, «presentando un appello speciale al
Presidente della Repubblica nel 2007, non ha avviato un procedimento
contenzioso del tipo descritto all’articolo 6 della Convenzione (si veda Nardella
c. Italia (dec.), n. 45814/99, CEDU 1999-VII, e Nasalli Rocca (dec.), sopra
citata), e che, pertanto, la disposizione non è applicabile» (paragrafo
62).
4.2.3.– Conviene sottolineare, infine,
che non è pertinente il riferimento operato dalle parti costituite alla sentenza 1° luglio 2014,
Guadagno e altri contro Italia, con cui la Corte EDU ha ritenuto che vi sia
stata violazione dell’art. 6 della CEDU in conseguenza dell’intervento del legislatore
con la legge n. 388 del 2000, e in particolare con l’art. 50 qui censurato, nel
corso di una controversia promossa da alcuni consiglieri di Stato che,
anch’essi, chiedevano il riconoscimento del medesimo diritto al trattamento
stipendiale più elevato assegnato ad altri consiglieri di Stato aventi minore
anzianità.
La rilevanza della pronuncia ai
fini che qui interessano è solo apparente. Sebbene infatti si trattasse anche
in quel caso della richiesta di applicazione dello stesso meccanismo di adeguamento
stipendiale poi eliminato con la normativa oggetto della disposizione di
interpretazione autentica qui censurata, la controversia si svolgeva davanti
all’autorità giudiziaria nell’ambito di un processo amministrativo.
Per questa ragione, nella sua
sentenza la Corte di Strasburgo pone giustamente la questione nei termini della
possibile ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia
allo scopo di influenzare la conclusione giudiziaria di una controversia, e
conclude osservando che a tale ingerenza si oppongono «il principio della preminenza del diritto e la nozione di
processo equo sanciti dall’articolo 6 […], salvo imperiosi motivi di interesse
generale […]» (paragrafo 28; nello stesso senso, ex plurimis, Corte europea dei diritti
dell’uomo, sentenza 24 giugno 2014, Azienda agricola Silverfunghi
sas e altri contro Italia; sentenza 15 aprile 2014, Stefanetti e altri contro Italia; sentenza 11 dicembre 2012, De
Rosa contro Italia; sentenza
14 febbraio 2012, Arras contro Italia; sentenza 7 giugno 2011, Agrati contro Italia; sentenza 31 maggio 2011,
Maggio contro Italia).
Diverso è invece il caso in
esame, nel quale gli interessati hanno proposto la loro richiesta non mediante
un’azione giudiziaria, ma attraverso un rimedio di carattere amministrativo,
con la conseguenza che, come visto, la controversia che ne è sorta non presenta
natura tale da poter essere ricondotta alla sfera di applicazione della tutela
convenzionale in materia di equo processo ex
art. 6 della CEDU.
Ciò chiarito, è comunque il caso
di segnalare, con riguardo alla possibile esistenza di motivi imperativi di
interesse generale idonei a giustificare la retroattività della norma qui
censurata, che nella stessa pronuncia la Corte EDU non ne ha escluso la
possibile sussistenza, ma si è limitata a notare
come il Governo non avesse «neanche tentato di spiegar[li]» e avesse indicato soltanto la necessità di eliminare la
disparità di trattamento nelle retribuzioni dei magistrati.
Più precisamente, davanti alla
Corte di Strasburgo a giustificazione dell’intervento legislativo non è stato
prospettato – come invece si sarebbe potuto – l’intento del legislatore di
chiarire che, come questa Corte ha già avuto modo di affermare nella più volte citata sentenza n.
282 del 2005, l’abrogazione dell’istituto dell’allineamento stipendiale
disposta dal decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il
risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge
8 agosto 1992, n. 359, rendeva sistematicamente incompatibile la vigenza
dell’art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984 sul conseguimento, da
parte dei magistrati ordinari vincitori del concorso per la nomina a magistrato
di corte d’appello o di cassazione, della maggiore anzianità dei colleghi posposti
nel ruolo. Sarebbe così emerso lo scopo perseguito dal legislatore, di
ristabilire, mediante l’intervento retroattivo, un’interpretazione più aderente
alla sua originaria volontà, ponendo rimedio a una possibile imperfezione
tecnica della norma che aveva abrogato l’istituto dell’allineamento stipendiale
(Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 23 ottobre 1997,
National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society
contro Regno Unito; sentenza
27 maggio 2004, Ogis-Institut Stanislas,
Ogec St. Pie X e Blanche De
Castille e altri contro Francia), e perseguendo
dunque finalità perequative e a tutela della certezza del diritto e
dell’eguaglianza dei cittadini, cioè di principi di preminente interesse costituzionale,
che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale secondo
la Corte EDU.
4.2.4.– In conclusione la
questione sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. non è
fondata.
4.3.– Secondo il giudice
rimettente l’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000 si porrebbe in
contrasto anche con gli artt. 3 e 97 Cost., trattandosi di legge-provvedimento
diretta a incidere in via retroattiva su posizioni consolidatesi a seguito di
decisioni irreversibili, i cui effetti sarebbero stati cancellati in assenza di
idonee ragioni di interesse generale, con la conseguenza che sarebbero così
violati il principio di eguaglianza e il canone della ragionevolezza.
La dedotta violazione degli
artt. 3 e 97 Cost. può essere considerata una censura unica: la previsione
tratterebbe in modo discriminatorio i suoi destinatari (art. 3 Cost.) e, al
contempo, lederebbe il canone di imparzialità della pubblica amministrazione,
che, nell’applicarla, sarebbe chiamata a perseguire un interesse di parte e non
generale (art. 97 Cost.).
Il rimettente, affermando la
natura di legge provvedimento della disposizione censurata, prende le mosse da
un erroneo presupposto ricostruttivo.
La fattispecie della
legge-provvedimento ricorre quando con una previsione di contenuto particolare
e concreto si incide su un numero limitato di destinatari, attraendo alla sfera
legislativa quanto è normalmente affidato all’autorità amministrativa (ex plurimis, sentenze n. 114 del
2017 e n.
214 del 2016). La portata e il contenuto specifico della disposizione
censurata, tuttavia, escludono che nel caso in esame si ricada nell’ambito di questa
definizione.
Come già affermato da questa
Corte con la sentenza
n. 282 del 2005, l’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000 contiene
una norma di interpretazione autentica, consistente nel riconoscimento di
un’incompatibilità sistematica tra due leggi che si sono succedute nel tempo.
Più precisamente essa dà conto del fatto che «il venir meno, a partire dalla
data di entrata in vigore del decreto-legge n. 333 del 1992, dell’istituto del
riallineamento stipendiale, riguarda anche la norma dell’art. 4, nono comma,
della legge n. 425 del 1984, che prevedeva una particolare forma di
allineamento stipendiale per i magistrati (di appello e) di cassazione
vincitori di concorso per esami, stabilendo che l’anzianità di questi ultimi
fosse determinata "in misura pari a quella riconosciuta al magistrato di pari
qualifica con maggiore anzianità effettiva che lo segue nel ruolo”».
A corollario
dell’interpretazione così fornita, viene altresì stabilito che, per effetto del
riconoscimento dell’intervenuta abrogazione dell’allineamento stipendiale,
«perdono ogni efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorità
giurisdizionali» comunque adottati difformemente dalla predetta interpretazione
dopo la data di entrata in vigore del d.l. n. 333 del
1992, come convertito, e non sono dovuti né possono essere eseguiti pagamenti
«sulla base dei predetti decisioni o provvedimenti».
Ne consegue che, sul piano
soggettivo, i destinatari della disposizione appena citata non sono affatto
«determinati o di numero limitato», se non altro perché la norma offre
un’interpretazione destinata a valere non solo nei riguardi di coloro che, al
momento della sua entrata in vigore, avevano rapporti controversi con l’amministrazione,
ma nei confronti di tutti coloro che, anche in futuro, si trovassero nella
stessa situazione. L’esistenza di una lite in corso – in particolare di quella
che coinvolge i ricorrenti nel giudizio a
quo – e il rilievo della disposizione in questione nella sua definizione
costituiscono in questo contesto «evenienze di mero fatto, non influenti per
circoscrivere la produzione di effetti esclusivamente nei confronti dei
ricorrenti nel giudizio a quo» (sentenza n. 214 del
2016). Per le stesse ragioni, sul piano oggettivo, l’impugnata disposizione
non presenta contenuto particolare e concreto, ma detta, al contrario, una
regola di carattere astratto, destinata a risolvere in via generale l’antinomia
tra corpi disciplinari succedutesi nel tempo.
Sotto un diverso profilo, la
semplice considerazione che la legge di interpretazione autentica si muove
esclusivamente sul piano delle fonti normative ‒ con l’imposizione di uno
dei significati compresi fra le possibilità di senso ragionevolmente
ascrivibili al testo della disposizione interpretata ‒ conduce a negare
che, adottandola, il legislatore abbia avocato a sé una determinazione
normalmente affidata all’autorità amministrativa.
Esclusa dunque la natura di
legge-provvedimento della norma impugnata – e con essa la necessità del vaglio
di costituzionalità riservato a questi atti – si deve concludere per
l’infondatezza di tutte le censure basate su tale erroneo assunto.
5.– Passando all’esame dell’ordinanza
della quarta sezione del Consiglio di Stato, va preliminarmente dichiarata
l’inammissibilità della costituzione delle parti, in quanto avvenuta fuori
termine.
L’ordinanza di rimessione, la
cui ultima notifica risale all’8 febbraio 2017, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 16 del 19 aprile
2017, sicché il termine di venti giorni per la costituzione in giudizio delle
parti ex art. 25 della legge 11 marzo
1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), computato ai sensi dell’art. 3 delle Norme integrative per i
giudizi dinanzi alla Corte costituzionale, scadeva il 9 maggio 2017, mentre i
ricorrenti nel processo principale si sono costituiti in giudizio solo il 17
maggio 2017.
Secondo la costante giurisprudenza
costituzionale, «il termine fissato dall’art. 3 delle norme integrative con
riguardo alla costituzione delle parti del giudizio a quo ha natura perentoria e dalla sua violazione consegue, in via
preliminare e assorbente, l’inammissibilità degli atti di costituzione
depositati oltre la sua scadenza (ex plurimis, sentenze n. 236
e 27 del 2015,
n. 364 e n. 303 del 2010,
n. 263 e n. 215 del 2009;
ordinanze n. 11
del 2010, n.
100 del 2009 e n. 124 del 2008)»
(sentenza n. 219
del 2016).
5.1.– Le questioni sollevate
dalla quarta sezione del Consiglio di Stato, nell’ambito del giudizio di
ottemperanza proposto davanti ad essa per l’esecuzione delle decisioni dei
ricorsi straordinari, sono inammissibili.
Come visto, lo stesso rimettente
riferisce che i ricorrenti nel giudizio a
quo avevano in precedenza già presentato ricorso in ottemperanza al
Consiglio di Stato per l’esecuzione delle stesse decisioni del Presidente della
Repubblica, ottenendo a suo tempo una sentenza favorevole, e che tale sentenza
è stata poi annullata dalle sezioni unite della Corte di cassazione per difetto
di giurisdizione.
Non vi è dubbio, quindi, che la
riproposizione in un nuovo giudizio, da parte dei medesimi ricorrenti, della
stessa azione di ottemperanza trova un ostacolo insormontabile nella
preclusione da giudicato, che il Presidente del Consiglio dei ministri afferma
di avere eccepito nel giudizio a quo
e che sarebbe comunque rilevabile d’ufficio. L’evidenza di tale preclusione
esclude la rilevanza delle questioni.
Deve essere dunque dichiarata la
loro inammissibilità per difetto di rilevanza.
per questi motivi
LA
CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibile la costituzione di G. S. e altri nel giudizio di legittimità costituzionale
dell’art. 50, comma 4, della legge 23 dicembre
2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», promosso dal
Consiglio di Stato, sezione quarta, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000, sollevate dal Consiglio di
Stato, sezione quarta, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione
agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, con l’ordinanza indicata in
epigrafe;
3) dichiara non fondate le questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000, sollevate
dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, primo comma,
Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
il 10 gennaio 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 9 febbraio 2018.