Sentenza n. 24 del 2018

 CONSULTA ONLINE 

 

SENTENZA N. 24

ANNO 2018

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Giorgio                        LATTANZI                                  Presidente

-           Aldo                            CAROSI                                         Giudice

-           Marta                           CARTABIA                                         

-           Mario Rosario              MORELLI                                            

-           Giancarlo                     CORAGGIO                                        

-           Giuliano                       AMATO                                               

-           Silvana                         SCIARRA                                            

-           Daria                            de PRETIS                                           

-           Nicolò                          ZANON                                               

-           Augusto Antonio       BARBERA                                          

-           Giulio                          PROSPERETTI                                    

-           Giovanni                      AMOROSO                                         

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 4, penultimo e ultimo periodo, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», promossi dal Consiglio di Stato, adunanza plenaria, con ordinanza del 14 luglio 2015 e dal Consiglio di Stato, sezione quarta, con ordinanza dell’8 febbraio 2017, iscritte, rispettivamente, al n. 231 del registro ordinanze 2015 e al n. 52 del registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2015 e n. 16, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visti gli atti di costituzione di G. S. e altri (fuori termine, nel giudizio promosso con l’ordinanza iscritta al n. 52 del registro ordinanze 2017), nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella udienza pubblica del 9 gennaio e nella camera di consiglio del 10 gennaio 2018 il Giudice relatore Daria de Pretis;

uditi l’avvocato Pietro Quinto per G. S. e altri e l’avvocato dello Stato Chiarina Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 14 luglio 2015 (reg. ord. n. 231 del 2015), l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 4, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», in riferimento agli articoli 3, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

La norma è censurata nella parte in cui prevede che «[i]l nono comma dell’articolo 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425, si intende abrogato dalla data di entrata in vigore del […] decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, e perdono ogni efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorità giurisdizionali comunque adottati difformemente dalla predetta interpretazione dopo la data suindicata» (penultimo periodo), e che «[i]n ogni caso non sono dovuti e non possono essere eseguiti pagamenti sulla base dei predetti decisioni o provvedimenti» (ultimo periodo).

L’abrogato art. 4, nono comma, della legge 6 agosto 1984, n. 425 (Disposizioni relative al trattamento economico dei magistrati) stabiliva che: «[…] per il personale che ha conseguito la nomina a magistrato di corte d’appello o a magistrato di corte di cassazione a seguito del concorso per esami previsto dalla legge 4 gennaio 1963, n. 1, e successive modificazioni e integrazioni, l’anzianità viene determinata in misura pari a quella riconosciuta al magistrato di pari qualifica con maggiore anzianità effettiva che lo segue nel ruolo».

1.1.– Le questioni sono sorte nel corso del giudizio d’appello avverso la sentenza con la quale il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha respinto il ricorso proposto da nove consiglieri di Stato – vincitori di concorso – per l’annullamento della nota emessa il 3 febbraio 2003 dal Presidente del Consiglio dei ministri.

Con tale nota erano state respinte le istanze di esecuzione delle decisioni adottate dal Presidente della Repubblica il 27 settembre 1999, di accoglimento dei ricorsi straordinari presentati dagli stessi consiglieri di Stato per ottenere, a titolo di adeguamento stipendiale ai sensi dell’art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984, il maggiore trattamento economico riconosciuto ai magistrati di pari qualifica che li seguono nel ruolo.

Il rimettente ricorda che in precedenza gli interessati avevano presentato ricorso in ottemperanza allo stesso Consiglio di Stato per l’esecuzione delle decisioni del Presidente della Repubblica, ma la sentenza di accoglimento era stata successivamente annullata dalle sezioni unite della Corte di cassazione per difetto di giurisdizione.

Riferisce inoltre che il TAR Lazio, nel corso del giudizio di primo grado, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000, in relazione agli artt. 3, 24, 100, 103 e 113 Cost., in quanto, nello stabilire l’abrogazione retroattiva dell’art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984, la disposizione avrebbe inciso sulle posizioni individuali già riconosciute da decisioni definitive di accoglimento di ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica. Con la sentenza n. 282 del 2005, questa Corte ha dichiarato non fondata la questione, sul presupposto che le decisioni adottate con decreto del Presidente della Repubblica in sede di ricorso straordinario non hanno la natura né gli effetti degli atti di tipo giurisdizionale e che, pertanto, non vale per esse la salvezza del giudicato che costituisce il limite invalicabile all’efficacia retroattiva delle norme di interpretazione autentica.

1.2.– Premessa un’ampia trattazione dei principi che regolano il controllo di legittimità costituzionale delle norme interne in contrasto con la CEDU, il giudice a quo deduce che la questione è rilevante, in quanto l’effetto preclusivo prodotto dalla norma censurata costituisce l’unica ragione del diniego opposto dall’amministrazione alle richieste dei ricorrenti e l’unico motivo posto a fondamento della decisione sfavorevole resa dal TAR Lazio.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo deduce che le sopravvenute modifiche legislative introdotte dall’art. 69 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile) – sulla legittimazione del Consiglio di Stato a sollevare questioni incidentali di costituzionalità in sede di parere sul ricorso straordinario e sulla soppressione del potere del Governo di discostarsi da tale parere – e dall’art. 7, comma 8, del codice del processo amministrativo (Allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante «Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo») – in forza del quale il ricorso straordinario è ammissibile solo per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa – hanno attribuito al decreto presidenziale la natura sostanziale di decisione di giustizia caratterizzata dall’intangibilità propria del giudicato, in quanto il provvedimento finale sul ricorso straordinario sarebbe meramente dichiarativo di un giudizio formulato in modo compiuto e definitivo da un organo giurisdizionale operante nel rispetto delle regole del contraddittorio, in posizione di terzietà e di indipendenza.

Lo ius superveniens, tuttavia, non varrebbe ad attribuire la stessa natura sostanziale di giudicato alle decisioni rese in precedenza, in un contesto normativo in cui esse, pur esibendo nel loro nucleo essenziale la connotazione di statuizioni di carattere giustiziale, non potevano ancora considerarsi espressione della funzione giurisdizionale, nel significato pregnante degli artt. 102, primo comma, e 103, primo comma, Cost. La decisione invero non era riconducibile in via esclusiva ad un’autorità giurisdizionale, essendo prevista la concorrente paternità dell’autorità amministrativa, sia pure attraverso l’aggravamento procedurale della sottoposizione all’approvazione del Consiglio dei ministri, da parte del ministro competente, della eventuale proposta difforme dal parere del Consiglio di Stato. Né rileverebbe che, nel caso concreto, tale parere non sia stato disatteso dal Governo, in quanto la natura giurisdizionale o non di una decisione deve essere valutata in astratto, secondo il «paradigma normativo di riferimento», che in epoca anteriore alle menzionate riforme non attribuiva al giudice amministrativo il potere di decidere in via esclusiva la controversia. Neppure gioverebbe a sostegno della tesi della portata di giudicato delle decisioni rese sui ricorsi straordinari prima della riforma l’orientamento giurisprudenziale che ammette anche per esse il giudizio di ottemperanza ex art. 112 cod. proc. amm., in quanto l’equiparazione di tali decisioni alle sentenze passate in giudicato opera ai soli fini dell’esperibilità del giudizio di ottemperanza, in applicazione del principio tempus regit actum sotteso al disposto dell’art. 5 del codice di procedura civile.

1.3.– Dopo avere riassunto le motivazioni della citata sentenza n. 282 del 2005 e avere escluso, per le ragioni appena esposte, che l’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000 possa essere interpretato nel senso di escludere dalla sua sfera di applicazione retroattiva le precedenti decisioni rese sui ricorsi straordinari, il rimettente osserva che secondo gli artt. 6 e 13 della CEDU, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, le decisioni amministrative irrevocabili espressione di «judicial review» sono «equated to a Court decision» e, in quanto tali, non solo devono essere suscettibili di attuazione coattiva, ma sono anche «caratterizzate dall’intangibilità» da parte di norme retroattive, a tutela dell’affidamento legittimo dei singoli.

La norma in esame, avente natura di legge provvedimento diretta a vanificare decisioni definitive, anche se non stricto sensu giurisdizionali, sarebbe pertanto in contrasto con parametri diversi da quelli invocati dal giudice di primo grado – la cui lesione è stata esclusa dalla sentenza n. 282 del 2005 – e segnatamente con l’art. 117, primo comma, Cost., per il tramite degli artt. 6 e 13 della CEDU, in quanto la decisione sul ricorso straordinario, anche nella conformazione anteriore alle novelle del 2009 e del 2010, è caratterizzata dalla irrevocabilità, dall’immodificabilità e dall’insindacabilità a opera di ogni altra autorità amministrativa e giurisdizionale, come ha riconosciuto anche la Corte di giustizia dell’Unione europea, chiamata a esaminare il diverso profilo della legittimazione del Consiglio di Stato a chiedere, nella procedura di ricorso straordinario, una pronuncia pregiudiziale interpretativa (è citata la sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, sezione quinta, 16 ottobre 1997, nelle cause riunite da C-69/96 a C-79/96, Garofoli e altri).

Risulterebbero dunque non manifestamente infondati i dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 4, penultimo e ultimo periodo, della legge n. 388 del 2000, nella parte in cui tali disposizioni prevedono «la vanificazione degli effetti della decisione definitiva di giustizia che, secondo i parametri convenzionali, va equiparata a una decisione giurisdizionale dal punto di vista dell’effettività e della pienezza della tutela oltre che dell’intangibilità dell’affidamento ragionevole e legittimo assicurato dall’esito del giudizio».

1.4.– Ad avviso del giudice a quo, la norma in esame contrasta inoltre con gli artt. 3 e 97 Cost., in quanto si tratterebbe di una legge-provvedimento che incide in via retroattiva e in senso sfavorevole sulle posizioni consolidatesi per effetto di decisioni irreversibili, così arrecando un vulnus ai danni dei ricorrenti nel processo principale, in mancanza di idonee ragioni di interesse generale che giustifichino tale sacrificio.

2.– Con atti depositati in cancelleria il 20 e il 30 novembre 2015, si sono costituiti otto dei nove ricorrenti nel giudizio a quo.

In via principale, le parti chiedono che questa Corte adotti una sentenza interpretativa di rigetto, nel senso che le denunciate disposizioni dell’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000 non si applicherebbero alle «decisioni irrevocabili insuscettibili di impugnazione presso qualsiasi autorità giurisdizionale o amministrativa», e quindi anche alle decisioni del 27 settembre 1999 rese sui ricorsi straordinari da essi proposti al Presidente della Repubblica.

La richiesta si fonda sulla tesi della "revisione” retroattiva che il legislatore, in attuazione della VI disposizione transitoria della Costituzione, avrebbe operato con gli artt. 69 della legge n. 69 del 2009 e 7, comma 8, cod. proc. amm., riconoscendo al decreto decisorio dei ricorsi straordinari la natura di rimedio giurisdizionale che esso già possedeva. Tale "revisione” ex tunc dell’istituto, secondo le parti, si desumerebbe dal "diritto vivente” espresso in numerosissime sentenze pronunciate sia dalla Corte di cassazione che dal Consiglio di Stato tra il 2011 e il 2015, le quali, riconoscendo il rimedio dell’ottemperanza per l’esecuzione di decisioni di ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica o al Presidente della Regione Siciliana rese prima delle riforme degli anni 2009-2010 su conformi pareri del Consiglio di Stato o del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, renderebbero non più contestabile la natura giurisdizionale del rimedio e l’esistenza di un «giudicato» anche con riguardo alle predette decisioni.

Ad avviso delle parti, pertanto, la precedente sentenza n. 282 del 2005 sarebbe «superata», alla luce delle riforme degli anni 2009-2010, mentre l’impostazione assunta dal giudice a quo nell’ordinanza di rimessione, oltre a essere in conflitto con il menzionato orientamento giurisprudenziale, contrasterebbe con il divieto di costituire nuovi giudici speciali ex art. 102 Cost. e con la VI disposizione transitoria della Costituzione (è citata la sentenza n. 287 del 1974, sul riconoscimento ex tunc della natura giurisdizionale delle commissioni tributarie dopo la riforma del contenzioso tributario del 1972).

Inoltre, questa Corte, anche se in diversa materia, avrebbe già qualificato come giudicato una decisione resa prima delle riforme su conforme parere del Consiglio di Stato (è citata l’ordinanza n. 57 del 2015) e avrebbe ancora ritenuto ammissibile la questione sollevata dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana in sede di parere su un ricorso straordinario al Presidente della Regione Siciliana (è citata la sentenza n. 265 del 2013).

Qualora questa Corte non ritenesse di interpretare la norma censurata nel senso di fare salvi, per effetto delle riforme degli anni 2009-2010, anche i decreti decisori dei ricorsi straordinari, in quanto dotati ex tunc di una forza equiparabile al giudicato, le parti chiedono che essa sollevi davanti a se stessa questioni di legittimità costituzionale dell’art. 112 cod. proc. amm. e dell’art. 15 del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199 (Semplificazione dei procedimenti in materia di ricorsi amministrativi) in rapporto all’art. 395, numero 5), cod. proc. civ., per contrasto, il primo, con gli artt. 3, 102 e 117 Cost. e con la VI disposizione transitoria della Costituzione e, il secondo, per contrasto con gli artt. 2, 3, 24 e 117 Cost.

In via subordinata, le medesime parti chiedono che siano accolte le questioni sollevate dal giudice a quo, aderendo alle ragioni esposte nell’ordinanza di rimessione con riferimento alla giurisprudenza della Corte EDU in tema di intangibilità delle decisioni amministrative irrevocabili espressione di «judicial review» e osservando, tra l’altro, che la stessa Corte di Strasburgo, con la sentenza 1° luglio 2014, Guadagno e altri contro Italia, in un caso di cosiddetto "galleggiamento” di magistrati amministrativi, avrebbe già dichiarato che l’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000 ha violato l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, avendo influito sull’esito di giudizi pendenti nei quali era parte lo Stato, in assenza di motivi imperativi di interesse generale. Infine, sarebbero condivisibili anche le censure ex artt. 3 e 97 Cost., trattandosi di una legge-provvedimento retroattiva, che avrebbe introdotto una discriminazione ai soli danni dei ricorrenti nel processo principale, destinati a subire l’inefficacia delle decisioni definitive assunte a loro favore.

3.– Con atto depositato il 1° dicembre 2015 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità o l’infondatezza, anche manifesta, delle questioni.

In primo luogo, i precedenti della Corte di Strasburgo evocati dal giudice a quo non sarebbero pertinenti, sicché mancherebbe una consolidata interpretazione dell’art. 6 della CEDU nel senso prospettato nell’ordinanza di rimessione, di insanabile contrasto tra la norma interna e la Convenzione dei diritti dell’uomo. Da qui, ad avviso dell’intervenuto, l’insufficiente motivazione sulla non manifesta infondatezza o, comunque, la manifesta infondatezza della questione riferita all’art. 117, primo comma, Cost.

In ogni caso, non sussisterebbe violazione dei diritti riconosciuti dalla CEDU, in quanto gli interessati avrebbero scelto liberamente un mezzo di tutela alternativo alla tutela giurisdizionale, così esponendosi a interventi normativi incidenti sull’eseguibilità della decisione sul ricorso straordinario. La retroattività della norma deriverebbe dalla sua natura di legge di interpretazione autentica, la cui legittimità si dovrebbe rinvenire nel fine perseguito dal legislatore di ribadire una incompatibilità sistematica già realizzatasi, in ordine alla vigenza dell’art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984, per effetto dell’abrogazione dell’istituto dell’allineamento stipendiale, già disposto dall’art. 2, comma 4, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359.

L’Avvocatura generale dello Stato ricorda, altresì, che un precedente intervento retroattivo su quest’ultima disposizione, operato con l’art. 7, comma 7, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438, è già stato considerato da questa Corte immune da censure attinenti a profili analoghi a quelli ora proposti dal giudice a quo, con la sentenza n. 6 del 1994, della quale riporta ampi stralci. Le considerazioni svolte nella sentenza, dovrebbero valere con più forza con riferimento alla norma censurata, che sarebbe nuovamente intervenuta a interpretare il complesso delle norme relative al superamento dell’allineamento stipendiale «a fronte delle persistenti disapplicazioni di cui tali chiare previsioni continuavano talvolta ad essere oggetto nella prassi […], con grave pregiudizio dell’eguaglianza e della finanza pubblica».

Il divieto di dare esecuzione a sentenze, purché non passate in giudicato, o a provvedimenti amministrativi, comprese le decisioni sui ricorsi straordinari, che avessero comunque attribuito allineamenti stipendiali, sarebbe pertanto diretto a evitare il perpetuarsi delle diseguaglianze insite nel meccanismo, già censurate da questa Corte nella citata sentenza n. 6 del 1994, e costituirebbe un coerente e razionale completamento dell’intervento normativo del 1992, che il legislatore sarebbe stato «costretto» a reiterare nel 2000.

Pertanto, la norma censurata non avrebbe leso l’affidamento dei ricorrenti nel processo principale, i quali nel 1992 non avevano ancora intrapreso alcun procedimento inteso a rivendicare il maggiore trattamento stipendiale. In ogni caso, non vi sarebbe lesione del loro diritto a un giusto processo, avendo essi già goduto di un primo giudizio di legittimità costituzionale, che secondo la stessa giurisprudenza della Corte EDU rappresenterebbe una circostanza di per sé sufficiente a escludere la privazione di garanzie processuali ad opera di una legge sopravvenuta.

Infine, non sussisterebbe la lesione degli artt. 3 e 97 Cost., non potendosi parlare di legge-provvedimento, in quanto la norma censurata detterebbe una disciplina generale relativa a tutti i provvedimenti che avessero fatto applicazione dell’art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984 in senso difforme dall’interpretazione voluta dal legislatore, prevedendo la loro non eseguibilità per incensurabili ragioni di finanza pubblica.

4.– Con successiva memoria, depositata il 22 novembre 2016, le parti costituite hanno replicato alle deduzioni difensive del Presidente del Consiglio dei ministri.

Sull’asserita irrilevanza delle sentenze della Corte di Strasburgo indicate nell’ordinanza di rimessione, si precisa che con quei richiami giurisprudenziali (ai quali la memoria aggiunge la citazione di ulteriori decisioni) l’adunanza plenaria avrebbe evidenziato che in molti Paesi europei le controversie sono decise da autorità che, anche se non fanno parte degli ordini giurisdizionali, dirimono per legge controversie, con decisioni aventi «piena equiparazione» al giudicato.

Si ribadisce altresì il rilievo, ritenuto decisivo dalle parti, della sentenza resa dalla Corte EDU nel caso Guadagno e altri, che avrebbe già statuito in ordine al contrasto tra la norma censurata e l’art. 6 della CEDU, nonché la richiesta di una sentenza interpretativa di rigetto che, riconoscendo che la "revisione” del ricorso straordinario ha avuto natura dichiarativa-ricognitiva, ravvisi la non applicabilità della norma censurata in danno dei ricorrenti nel processo principale.

Viene poi contestata l’assimilazione del caso riguardante i ricorrenti a quello di un ordinario allineamento (o "galleggiamento”) stipendiale, trattandosi invece dell’applicazione di una disposizione legislativa basata sul "merito” dei consiglieri di Stato vincitori di concorso, avente funzione premiale. E ancora si contesta la tesi secondo cui l’art. 50, comma 4, costituirebbe un completamento sistematico della previsione del 1992, soppressiva dell’istituto del "galleggiamento”, in quanto la scelta del legislatore del 2000 era nel senso di ridurre i vantaggi economici dei consiglieri di Stato – pur conservando il relativo concorso – salvo il rispetto delle posizioni consolidate da decisioni irrevocabili.

Infine, le parti costituite contestano l’assunto secondo cui nessuno, tranne i beneficiari di sentenze passate in giudicato, avrebbe potuto vantare "diritti quesiti” all’allineamento stipendiale, in quanto, in assenza di oscillazioni interpretative della norma interpretata, le uniche decisioni irrevocabili «equated to a Court decision» e fondate sull’art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984 erano quelle riguardanti i nove consiglieri di Stato interessati, che la disposizione interpretativa censurata, operando quale legge provvedimento, avrebbe inteso privare di efficacia.

5.– Con ulteriore memoria, depositata il 21 novembre 2017, le parti hanno nuovamente illustrato le proprie difese e ribadito le richieste già presentate nei precedenti atti.

6.– Con ordinanza dell’8 febbraio 2017 (reg. ord. n. 52 del 2017), il Consiglio di Stato, sezione quarta, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 4, penultimo e ultimo periodo, della legge n. 388 del 2000, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU. Il rimettente dubita della conformità a Costituzione delle stesse disposizioni oggetto del giudizio promosso con l’ordinanza iscritta al n. 231 reg. ord. del 2015.

Le questioni sono sorte nel corso del giudizio di ottemperanza promosso dagli stessi consiglieri di Stato vincitori di concorso per ottenere l’esecuzione delle medesime decisioni adottate a loro favore dal Presidente della Repubblica il 27 settembre 1999 sui ricorsi straordinari.

Il giudice a quo riassume la complessa vicenda processuale, nella quale gli interessati avevano già proposto ricorso in ottemperanza, accolto dal Consiglio di Stato con sentenza poi annullata per difetto di giurisdizione dalle sezioni unite della Corte di cassazione, e ricorda che con una precedente ordinanza l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha sollevato questioni relative alle medesime disposizioni nel diverso giudizio attinente all’impugnazione del diniego di esecuzione dei decreti del 27 settembre 1999.

Ad avviso del rimettente, il ricorso in ottemperanza è ammissibile, ex art. 112 cod. proc. amm., anche per le decisioni rese su ricorsi straordinari prima della riforma del 2009, sulla base dell’indirizzo manifestato dall’adunanza plenaria nella menzionata ordinanza di rimessione, ma tale ammissibilità, secondo lo stesso condivisibile indirizzo, non comporterebbe l’attribuzione ex tunc a quelle decisioni del carattere giurisdizionale, come sostengono i ricorrenti, perché «l’ottemperabilità di una decisione è una qualitas non sovrapponibile a quella diversa della sussistenza di un giudicato resistente al potere della legge».

6.1.– Dopo avere respinto le eccezioni di illegittimità costituzionale proposte dai ricorrenti in riferimento a parametri o a censure diversi da quelli poi indicati, il giudice a quo ritiene rilevante e non manifestamente infondato il dubbio concernente la violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. e ripropone, altresì, le questioni già sollevate dall’adunanza plenaria con l’ordinanza citata, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU.

Le questioni sarebbero rilevanti, in quanto «[i]l soddisfacimento della pretesa dell’odierna parte ricorrente […] trova ostacolo nella permanente vigenza degli ultimi due periodi del comma 4 dell’art. 50 della legge 388/2000».

6.2.– Secondo il rimettente, la norma censurata violerebbe gli artt. 3, 24 e 111 Cost. «nella parte in cui», stabilendo l’abrogazione retroattiva dell’art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984 e prevedendo che tale abrogazione possa travolgere anche posizioni individuali già riconosciute da decisioni definitive di accoglimento di ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica, avrebbe inciso, in assenza di motivi imperativi di interesse generale, sulle controversie pendenti che erano state intraprese per ottenere l’esecuzione delle suddette decisioni definitive, con conseguente lesione del diritto di difesa e del principio di parità delle parti.

Il giudice a quo osserva che le decisioni del Presidente della Repubblica avevano definito in senso favorevole ai ricorrenti la lite concernente la spettanza del bene della vita a cui essi aspiravano e che al momento della pubblicazione dell’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000 la controversia relativa alla «cogenza ed eseguibilità dei detti decreti era ancora in corso, in quanto, nel permanente rifiuto dell’Amministrazione di conformarvisi, gli originari ricorrenti avevano proposto un ricorso per l’esecuzione del giudicato, accolto dal Consiglio di Stato (Cons. Stato Sez. IV, 15-12-2000, n. 6697) e soltanto successivamente la decisione favorevole da quest’ultimo adottata era stata annullata da parte della Suprema Corte di Cassazione per difetto di giurisdizione (Cass. civ. Sez. Unite, 18 dicembre 2001, n. 15978)».

La norma censurata violerebbe il principio di parità delle parti di cui all’art. 111 Cost., perché avrebbe immesso nell’ordinamento una fattispecie di ius singolare, dettando una disposizione di tenore coincidente con la tesi propugnata da una delle parti (l’amministrazione), con il conseguente sbilanciamento fra le due posizioni in gioco (è citata la sentenza n. 186 del 2013).

Il denunciato contrasto deriverebbe anche dall’applicazione dei principi previsti all’art. 6 della CEDU, in materia di equo processo. Il rimettente richiama al riguardo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia ad opera di leggi retroattive al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia, invocando in particolare la citata sentenza 1° luglio 2014, Guadagno e altri contro Italia.

6.3.– Quanto alla violazione degli artt. 3, 97 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU, il giudice a quo richiama, dichiarando di condividerle, le considerazioni espresse dall’adunanza plenaria, aggiungendo che per effetto dell’introduzione della norma censurata si sarebbe «inverata», sia pure solo con riferimento al trattamento stipendiale, una condizione analoga a quella già reputata in contrasto con l’art. 97 Cost. dalla sentenza n. 269 del 1988, sulla «posposizione in ruolo degli avvocati dello Stato vincitori di concorso rispetto agli ex Procuratori capo dello Stato inseriti tra gli avvocati alla seconda classe di stipendio».

7.– Con atto depositato il 17 maggio 2017, fuori termine, si sono costituiti otto dei nove ricorrenti nel processo principale, i quali il 21 novembre 2017 hanno altresì depositato una memoria illustrativa.

8.– Con atto depositato il 9 maggio 2017 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità o, comunque, per l’infondatezza delle questioni.

In via preliminare, l’interveniente eccepisce l’inammissibilità per difetto di motivazione sulla rilevanza, osservando che un’analoga azione di ottemperanza, diretta a ottenere l’esecuzione degli stessi decreti decisori dei ricorsi straordinari, è stata dichiarata inammissibile dalle sezioni unite della Corte di cassazione per difetto di giurisdizione. Il rimettente non svolge sul punto alcuna considerazione, mentre avrebbe invece dovuto giustificare in modo adeguato la rilevanza della questione. La medesima azione di ottemperanza sarebbe invero preclusa dal giudicato sussistente inter partes, sorto per effetto delle sentenze delle sezioni unite, come era già stato eccepito nel corso del giudizio a quo.

Nel merito, l’interveniente ripropone argomentazioni difensive analoghe a quelle dedotte nel giudizio promosso dall’adunanza plenaria e, sulle censure specificamente sollevate dalla quarta sezione del Consiglio di Stato, osserva che il giudizio di ottemperanza non potrebbe «ambire alla illustrata intangibilità da interventi legislativi in corso di procedimento», qualora abbia ad oggetto l’esecuzione di una decisione emessa all’esito di un procedimento amministrativo come quello che sfocia nei decreti decisori dei ricorsi straordinari, che non tende alla formazione di un giudicato. Ciò dimostrerebbe la non pertinenza del richiamo alla sentenza resa dalla Corte EDU nel caso Guadagno, in cui si discuteva dell’applicazione dell’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000 a sentenze di organi giurisdizionali passate in giudicato, ricognitive del diritto all’allineamento stipendiale. Da qui, l’asserita contraddittorietà dell’ordinanza di rimessione, nella quale sarebbe più volte affermato che nella fattispecie non si verte in materia di procedimenti giurisdizionali.

Inoltre, l’Avvocatura ribadisce che la norma censurata non costituirebbe una disposizione isolata, estemporanea e imprevedibile, reiterando il precedente intervento retroattivo di cui all’art. 7, comma 7, del d.l. n. 384 del 1992, come convertito, al fine di ristabilire l’uguaglianza del trattamento retributivo tra i magistrati e l’incompatibilità sistemica dei meccanismi di allineamento stipendiale con la disciplina di tale trattamento, a fronte dell’insorgenza di prassi disapplicative dello stesso art. 7, comma 7.

La norma censurata, pertanto, non avrebbe pregiudicato il principio di parità delle armi, parità che semmai avrebbe contribuito a ristabilire, e non lederebbe alcun affidamento, che il chiaro disposto del citato art. 7, comma 7, avrebbe escluso sin dal 1992.

Infine, l’intervento retroattivo sarebbe sorretto da valide ragioni di interesse pubblico, vale a dire «la tutela degli equilibri di finanza pubblica rispetto a meccanismi retributivi suscettibili di innescare processi di incremento retributivo casuali, non prevedibili e non controllabili […] e la tutela dell’eguaglianza retributiva tra dipendenti pubblici preposti a mansioni analoghe e in possesso di anzianità paragonabili».

Considerato in diritto

1.– L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato dubita della legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 4, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

La norma è censurata nella parte in cui prevede che «[i]l nono comma dell’articolo 4 della legge 6 agosto 1984, n. 425, si intende abrogato dalla data di entrata in vigore del […] decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, e perdono ogni efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorità giurisdizionali comunque adottati difformemente dalla predetta interpretazione dopo la data suindicata» (penultimo periodo), e che «[i]n ogni caso non sono dovuti e non possono essere eseguiti pagamenti sulla base dei predetti decisioni o provvedimenti» (ultimo periodo).

L’abrogato art. 4, nono comma, della legge 6 agosto 1984, n. 425 (Disposizioni relative al trattamento economico dei magistrati) stabiliva che: «[…] per il personale che ha conseguito la nomina a magistrato di corte d’appello o a magistrato di corte di cassazione a seguito del concorso per esami previsto dalla legge 4 gennaio 1963, n. 1, e successive modificazioni e integrazioni, l’anzianità viene determinata in misura pari a quella riconosciuta al magistrato di pari qualifica con maggiore anzianità effettiva che lo segue nel ruolo».

Le questioni sono sorte nel corso del giudizio d’appello avverso la sentenza con la quale il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha respinto il ricorso proposto da alcuni consiglieri di Stato – vincitori di concorso – per l’annullamento della nota emessa il 3 febbraio 2003 dal Presidente del Consiglio dei ministri.

Con tale nota erano state respinte le istanze di esecuzione delle decisioni adottate dal Presidente della Repubblica il 27 settembre 1999, di accoglimento dei ricorsi straordinari presentati dagli stessi consiglieri di Stato per ottenere, a titolo di adeguamento stipendiale ai sensi dell’art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984, il maggiore trattamento economico riconosciuto ai magistrati di pari qualifica che li seguono nel ruolo.

Il rimettente riferisce che nel corso del giudizio di primo grado il TAR Lazio aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000, in relazione agli artt. 3, 24, 100, 103 e 113 Cost., in quanto, nello stabilire l’abrogazione retroattiva dell’art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984, la disposizione avrebbe inciso sulle posizioni individuali già riconosciute da decisioni definitive di accoglimento di ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica. Con la sentenza n. 282 del 2005, questa Corte ha dichiarato non fondata la questione sul presupposto che le decisioni adottate con decreto del Presidente della Repubblica in sede di ricorso straordinario non hanno la natura né gli effetti degli atti di tipo giurisdizionale e che, pertanto, non vale per esse la salvezza del giudicato costituente il limite invalicabile all’efficacia retroattiva delle norme di interpretazione autentica.

Le questioni sarebbero rilevanti, in quanto l’effetto preclusivo prodotto dalla norma censurata costituirebbe l’unica ragione del diniego opposto dall’amministrazione alle richieste dei ricorrenti e l’unico motivo posto a fondamento della decisione sfavorevole resa dal TAR Lazio.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo deduce che le sopravvenute modifiche legislative introdotte dall’art. 69 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile) – sulla legittimazione del Consiglio di Stato a sollevare questioni incidentali di costituzionalità in sede di parere sul ricorso straordinario e sulla soppressione del potere del Governo di discostarsi da tale parere – e dall’art. 7, comma 8, del codice del processo amministrativo (Allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante «Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo») – in forza del quale il ricorso straordinario è ammissibile solo per le controversie devolute alla giurisdizione amministrativa – hanno attribuito al decreto presidenziale la natura sostanziale di decisione di giustizia caratterizzata dall’intangibilità propria del giudicato, in quanto il provvedimento finale sul ricorso straordinario sarebbe meramente dichiarativo di un giudizio formulato in modo compiuto e definitivo da un organo giurisdizionale, operante nel rispetto delle regole del contraddittorio e in posizione di terzietà e di indipendenza.

Lo ius superveniens, tuttavia, non varrebbe ad attribuire la stessa natura sostanziale di giudicato alle decisioni rese in precedenza, in un contesto normativo in cui esse, pur esibendo nel loro nucleo essenziale la connotazione di statuizioni di carattere giustiziale, non potevano ancora essere considerate espressione della funzione giurisdizionale nel significato pregnante degli artt. 102, primo comma, e 103, primo comma, Cost. La decisione invero non era riconducibile in via esclusiva ad un’autorità giurisdizionale, essendo prevista la concorrente paternità dell’autorità amministrativa, sia pure attraverso l’aggravamento procedurale della sottoposizione all’approvazione del Consiglio dei ministri, da parte del ministro competente, della eventuale proposta difforme dal parere del Consiglio di Stato.

Il rimettente osserva che, tuttavia, secondo gli artt. 6 e 13 della CEDU, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, le decisioni amministrative irrevocabili espressione di «judicial review» sono «equated to a Court decision» e, in quanto tali, non solo devono essere suscettibili di attuazione coattiva, ma sono anche «caratterizzate dall’intangibilità» da parte di norme retroattive a tutela dell’affidamento legittimo dei singoli.

La norma in esame sarebbe pertanto in contrasto con parametri diversi da quelli invocati dal giudice di primo grado – la cui lesione è stata esclusa dalla sentenza di questa Corte n. 282 del 2005 – e segnatamente con l’art. 117, primo comma, Cost., per il tramite degli artt. 6 e 13 della CEDU, in quanto la decisione sul ricorso straordinario, anche nella conformazione anteriore alle novelle del 2009 e del 2010, è caratterizzata dalla irrevocabilità, dall’immodificabilità e dall’insindacabilità a opera di ogni altra autorità amministrativa e giurisdizionale.

Risulterebbero dunque non manifestamente infondati i dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 4, penultimo e ultimo periodo, della legge n. 388 del 2000, nella parte in cui le disposizioni in esso contenute prevedono «la vanificazione degli effetti della decisione definitiva di giustizia che, secondo i parametri convenzionali, va equiparata a una decisione giurisdizionale dal punto di vista dell’effettività e della pienezza della tutela oltre che dell’intangibilità dell’affidamento ragionevole e legittimo assicurato dall’esito del giudizio».

Ad avviso del giudice a quo, la norma in esame contrasterebbe inoltre con gli artt. 3 e 97 Cost., in quanto si tratterebbe di una legge provvedimento che incide in via retroattiva e in senso sfavorevole sulle posizioni consolidatesi per effetto di decisioni irreversibili, così arrecando un vulnus ai danni dei ricorrenti nel processo principale in mancanza di idonee ragioni di interesse generale che giustifichino tale sacrificio.

2.– La quarta sezione del Consiglio di Stato dubita a sua volta della legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 4, penultimo e ultimo periodo, della legge n. 388 del 2000, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU.

Le questioni sono sorte nel corso di un giudizio di ottemperanza promosso dagli stessi consiglieri di Stato per ottenere l’esecuzione delle medesime decisioni adottate a loro favore dal Presidente della Repubblica il 27 settembre 1999 sui ricorsi straordinari.

Secondo il rimettente, la norma censurata violerebbe gli artt. 3, 24 e 111 Cost. «nella parte in cui», stabilendo l’abrogazione retroattiva dell’art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984 e prevedendo che tale abrogazione possa travolgere anche posizioni individuali già riconosciute da decisioni definitive di accoglimento di ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica, avrebbe inciso, in assenza di motivi imperativi di interesse generale, sulle controversie pendenti che erano state intraprese per ottenere l’esecuzione delle ricordate decisioni definitive, con conseguente lesione del diritto di difesa e del principio di parità delle parti.

Il giudice a quo osserva che le decisioni del Presidente della Repubblica avevano definito la lite in senso favorevole ai ricorrenti e che al momento della pubblicazione dell’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000 la controversia relativa alla «cogenza ed eseguibilità dei detti decreti era ancora in corso, in quanto, nel permanente rifiuto dell’Amministrazione di conformarvisi, gli originari ricorrenti avevano proposto un ricorso per l’esecuzione del giudicato, accolto dal Consiglio di Stato (Cons. Stato Sez. IV, 15-12-2000, n. 6697), e soltanto successivamente la decisione favorevole da quest’ultimo adottata era stata annullata da parte della Suprema Corte di Cassazione per difetto di giurisdizione (Cass. civ. Sez. Unite, 18 dicembre 2001, n. 15978)».

La norma censurata violerebbe dunque il principio di parità delle parti di cui all’art. 111 Cost., perché avrebbe immesso nell’ordinamento una fattispecie di ius singolare, dettando una disposizione di tenore coincidente con la tesi propugnata da una delle parti (l’amministrazione), con il conseguente sbilanciamento fra le due posizioni in gioco.

Il denunciato contrasto deriverebbe anche dall’applicazione dei principi previsti all’art. 6 della CEDU in materia di equo processo. Il rimettente richiama in proposito la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia a opera di leggi retroattive al fine di influenzare l’esito giudiziario di una controversia, e invoca in particolare la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo 1° luglio 2004, Guadagno e altri contro Italia.

Quanto alla violazione degli artt. 3, 97 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU, il giudice a quo richiama le considerazioni espresse dall’adunanza plenaria, aggiungendo che per effetto dell’introduzione della norma censurata si sarebbe «inverata», sia pure solo con riferimento al trattamento stipendiale, una condizione analoga a quella già reputata in contrasto con l’art. 97 Cost. dalla sentenza n. 269 del 1988.

3.– I giudizi vanno riuniti per essere definiti con un’unica pronuncia, avendo a oggetto questioni relative alla medesima norma, censurata in riferimento a parametri in larga parte coincidenti.

4.– L’eccezione di inammissibilità proposta dall’Avvocatura generale dello Stato per insufficiente motivazione sulla non manifesta infondatezza della questione sollevata dall’adunanza plenaria in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., non è accoglibile.

Il rimettente ha esposto in modo adeguato le ragioni del lamentato contrasto fra la norma denunciata e i parametri convenzionali evocati, mentre la eccepita non pertinenza dei precedenti della Corte di Strasburgo citati a sostegno della censura può riguardare semmai solo il merito della questione.

4.1.– Nel merito, tuttavia, le questioni sollevate dall’adunanza plenaria non sono fondate.

4.1.1.– Va disatteso, in primo luogo, l’assunto delle parti secondo il quale la norma censurata dovrebbe essere interpretata nel senso che essa farebbe salve, oltre alle sentenze passate in giudicato, anche le decisioni rese anteriormente alla sua entrata in vigore sui ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica.

Questa Corte ha costantemente ritenuto che, nel regime anteriore alle riforme introdotte dalla legge n. 69 del 2009 e dal codice del processo amministrativo approvato con il d.lgs. n. 104 del 2010, il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica avesse natura amministrativa, anche se peculiare, trattandosi di un rimedio diretto ad assicurare la risoluzione non giurisdizionale di una controversia in sede amministrativa. In quel contesto era dunque da escludere che la conclusione del relativo procedimento amministrativo presentasse la natura o gli effetti degli atti di tipo giurisdizionale (ex plurimis, sentenze n. 254 del 2004 e n. 298 del 1986, ordinanze n. 357 del 2004, n. 301 e n. 56 del 2001).

L’orientamento è confermato anche dalla sentenza n. 282 del 2005, resa sulla questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000, che era stata sollevata dal giudice di primo grado nella controversia ora pendente in appello davanti al rimettente. In essa questa Corte, dopo avere qualificato la norma censurata come legge retroattiva di interpretazione autentica, ha escluso che tale portata retroattiva possa riguardare gli effetti di sentenze passate in giudicato basate su un’interpretazione in ordine alla vigenza del nono comma dell’art. 4 della legge n. 425 del 1984 difforme da quella imposta dal legislatore. Ha tuttavia parimenti escluso, sul presupposto della natura amministrativa del ricorso straordinario, che la sua decisione avesse natura ed effetti equivalenti a un giudicato, con la conseguenza che «[l]a salvezza del giudicato formatosi anteriormente alla data di entrata in vigore della legge di interpretazione autentica non è anche la salvezza delle decisioni adottate, nel regime dell’alternatività, con decreto del Presidente della Repubblica in sede di ricorso straordinario».

D’altro canto, la trasformazione dell’istituto del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica in conseguenza delle modifiche introdotte dalla legge n. 69 del 2009 – che hanno reso vincolante il parere del Consiglio di Stato e hanno consentito che in quella sede vengano sollevate questioni di legittimità costituzionale – non costituisce una ragione sufficiente per discostarsi qui dalle conclusioni della sentenza n. 282 del 2005 sulla natura delle decisioni rese sui ricorsi amministrativi prima dell’entrata in vigore della norma censurata.

Le ricordate modifiche hanno trasformato il ricorso straordinario da antico ricorso amministrativo «in un rimedio giustiziale […] sostanzialmente assimilabile ad un "giudizio”, quantomeno ai fini dell’applicazione dell’art. 1 della legge cost. n. 1 del 1948 e dell’art. 23 della legge n. 87 del 1953», sicché l’istituto ha perso la propria «connotazione puramente amministrativa ed ha assunto la qualità di rimedio giustiziale amministrativo, con caratteristiche strutturali e funzionali in parte assimilabili a quelle tipiche del processo amministrativo» (sentenza n. 73 del 2014). Non si può tuttavia ritenere che tale trasformazione abbia efficacia retroattiva, nel senso di incidere sulla natura e sulla portata delle decisioni di ricorsi straordinari già prese in precedenza, le quali continuano a presentare la natura e la forza (non di giudicato) che l’ordinamento conferiva ad esse nel momento in cui furono assunte, come hanno conformemente concluso sia l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (nell’ordinanza che ha sollevato la presente questione) che le sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 6 settembre 2013, n. 20569). Né depongono nel senso sostenuto dalle parti i numerosi precedenti che hanno ammesso il giudizio di ottemperanza anche per l’esecuzione di decisioni su ricorsi straordinari rese prima delle riforme legislative. In casi siffatti, invero, l’operatività delle riforme non riguarda la portata delle decisioni, ma è affermata ai soli fini del riconoscimento, in forza di una legge sopravvenuta, della giurisdizione del giudice amministrativo adito in sede di ottemperanza, e ciò in piena applicazione del principio tempus regit actum sotteso all’art. 5 del codice di procedura civile (ex plurimis, Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 28 gennaio 2011, n. 2065). Il punto è esattamente colto anche dall’adunanza plenaria nell’ordinanza di rimessione, là dove, negando l’effetto retroattivo di «giurisdizionalizzazione» delle decisioni già adottate in vigenza del precedente regime, afferma che «[…] l’ottemperabilità di una decisione è una qualitas non sovrapponibile a quella diversa della sussistenza di un giudicato resistente al potere della legge».

4.1.2.– Neppure può essere accolta la richiesta delle parti che questa Corte sollevi davanti a se stessa questioni di legittimità costituzionale dell’art. 112 cod. proc. amm. e dell’art. 15 del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199 (Semplificazione dei procedimenti in materia di ricorsi amministrativi), in rapporto all’art. 395, numero 5), cod. proc. civ., per contrasto, il primo, con gli artt. 3, 102 e 117 Cost. e con la VI disposizione transitoria della Costituzione, e, il secondo, con gli artt. 2, 3, 24 e 117 Cost.

La possibilità che questa Corte sollevi in via incidentale una questione davanti a sé si dà solo allorché dubiti della legittimità costituzionale di una norma, diversa da quella impugnata, che sia chiamata necessariamente ad applicare nell’iter logico per arrivare alla decisione sulla questione che le è stata sottoposta: in altri termini, si deve trattare di una questione che si presenti pregiudiziale alla definizione della questione principale e strumentale rispetto alla decisione da emanare (sentenze n. 122 del 1976, n. 195 del 1972 e n. 68 del 1961). Tali presupposti non sussistono nel caso in esame, giacché, per definire la questione sollevata dal rimettente attinente alla violazione, da parte della norma di interpretazione autentica censurata, dei parametri convenzionali in tema di equo processo, non si deve fare applicazione di nessuna delle due norme sulle quali le parti chiedono a questa Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale, ossia la disposizione sul giudizio di ottemperanza e la disposizione sulla revocazione dei decreti che decidono i ricorsi straordinari per i motivi previsti all’art. 395, n. 5), cod. proc. civ.

4.2.– Pur negando, come visto, che alla decisione sul ricorso straordinario al Presidente della Repubblica assunta prima delle modifiche normative introdotte negli anni 2009-2010 possa essere riconosciuto valore di pronuncia giurisdizionale, l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ritiene nondimeno che a tale tipo di pronuncia essa sia equiparabile, anche nel regime anteriore a tali modifiche, ciò che consentirebbe di ricondurla alla sfera di applicazione degli artt. 6 e 13 della CEDU come interpretati dalla Corte di Strasburgo.

In altri termini, il rimettente sostiene che quella che nel diritto interno resta pur sempre una decisione amministrativa non giurisdizionale presenterebbe purtuttavia, nella prospettiva convenzionale, i caratteri di una decisione giudiziale, in quanto tale equiparabile alla decisione di un giudice, con la conseguenza che, non diversamente dal giudicato, anch’essa sarebbe «intangibile» da parte di leggi retroattive, pena la violazione dei richiamati parametri convenzionali come interpretati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

4.2.1.– A sostegno del proprio assunto il giudice a quo richiama innanzitutto, come precedenti rilevanti della Corte EDU, le sentenze 16 novembre 2006, Mužević contro Croazia; 27 aprile 2004, Gorraiz Lizarraga e altri contro Spagna; 27 luglio 2004, Romashov contro Ucraina; 28 ottobre 1999, Zielinski e Pradal & Gonzalez e altri contro Francia (grande camera); 19 marzo 1997, Hornsby contro Grecia.

Si tratta tuttavia di sentenze che – con l’eccezione di una, Romashov contro Ucraina, su cui si ritornerà fra poco – non risultano pertinenti, in quanto, pur attenendo all’applicazione della tutela convenzionale in materia di equo processo, non riguardano ipotesi di decisioni amministrative che la Corte di Strasburgo abbia equiparato, in virtù di loro particolari caratteri, a pronunce giurisdizionali, e fanno riferimento a ipotesi nelle quali non era in discussione la natura giurisdizionale, per provenienza giudiziale o per espressa assegnazione di tale carattere da parte dell’ordinamento interno, della decisione, ma solo i suoi effetti o la sua esecuzione. Così è nei casi: Mužević contro Croazia, ove si fa riferimento a un titolo esecutivo di formazione giudiziale, i cui effetti sono espressamente equiparati dalla legislazione dello Stato contraente a quelli di una sentenza passata in giudicato; Hornsby contro Grecia, riguardante il giudicato di una corte amministrativa la cui natura di decisione giurisdizionale non era in discussione; Zielinsky e Pradal & Gonzalez e altri contro Francia, in tema decisioni autorità giurisdizionali, passate in giudicato, fatte salve dall’intervento legislativo; Gorraiz Lizarraga e altri contro Spagna, riguardante una legge che, pur influendo sull’esito di una controversia pendente, non aveva tuttavia impedito successivi interventi giurisdizionali.

L’unico caso, fra quelli citati dal rimettente, in cui si fa questione dell’applicabilità a un atto emesso da un organo non giurisdizionale delle regole convenzionali in tema di equo processo è quello deciso con la sentenza Romashov contro Ucraina. La pronuncia, al pari di altre rese su casi analoghi (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 8 novembre 2005, Bukhovets contro Ucraina; sentenza 20 settembre 2005, Trykhlib contro Ucraina; sentenza 19 aprile 2005, Dolgov contro Ucraina), può effettivamente avere rilievo in questa sede, giacché in essa la Corte EDU affronta il problema della riconducibilità alla sfera di applicazione dell’art. 6 della CEDU di una decisione proveniente da un organo denominato «labour disputes commission», di natura non giurisdizionale, problema che si era posto in relazione al ritardo, giudicato eccessivo, nella sua esecuzione (si trattava della pronuncia di condanna di una società mineraria sotto il controllo statale al pagamento di retribuzioni arretrate in favore di un ex dipendente). La Corte EDU perviene alla conclusione dell’equiparabilità della decisione in questione a una pronuncia giurisdizionale (con la conseguenza che lo Stato viene giudicato responsabile per la sua mancata esecuzione: paragrafo 41) in considerazione dei tre seguenti caratteri del suo regime nella normativa nazionale ucraina: il ricorso alla «labour disputes commission» è obbligatorio per la soluzione di controversie in materia di rapporti di lavoro (art. 224 del codice del lavoro ucraino); la decisione della commissione può essere appellata davanti a una corte (art. 228); per la sua esecuzione è comunque possibile procedere giudizialmente (art. 230).

Il caso appena esposto (così come gli altri analoghi oggetto delle sentenze della Corte EDU menzionate da ultimo) si differenzia tuttavia da quello oggetto del presente giudizio quantomeno per un aspetto decisivo ai fini della vicenda in esame. Mentre il ricorso alla commissione ucraina è obbligatorio per la risoluzione di una controversia in materia di rapporto di lavoro, il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica è, come noto, rimedio alternativo al ricorso giurisdizionale al giudice amministrativo, spettando al ricorrente di scegliere liberamente fra l’una e l’altra via, con l’unica conseguenza che una volta scelta una non è più possibile intraprendere l’altra, e salva restando naturalmente la facoltà dei controinteressati di chiedere la trasposizione in sede giurisdizionale del ricorso straordinario eventualmente prescelto dal ricorrente.

4.2.2.– Del resto, che dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo si traggano conclusioni negative sulla riferibilità alla decisione del ricorso straordinario delle garanzie convenzionali in tema di equo processo – e più precisamente sul riconoscimento ad essa del valore di giudicato ai fini della sua salvezza di fronte a sopravvenute previsioni retroattive – è confermato dalle pronunce nelle quali la stessa Corte si è direttamente occupata di questo particolare rimedio. Ciò è avvenuto in tre occasioni, e in due in particolare proprio con specifico riferimento alla previsione dell’art. 6 della CEDU.

Nella decisione 28 settembre 1999, Nardella contro Italia, la Corte EDU ricostruisce la disciplina dell’istituto del ricorso straordinario come rimedio speciale ed esclude che esso – del ritardo nella cui decisione il ricorrente si doleva nel caso di specie – ricada nell’ambito di applicazione della Convenzione. Per la stessa ragione osserva che il ricorso al Presidente della Repubblica non rientra fra quelli che devono essere esperiti previamente al ricorso ex art. 35 della Convenzione stessa. Ciò premesso, nella pronuncia è sottolineato come, optando per il gravame speciale del ricorso straordinario, il ricorrente (che pure è stato informato della possibilità di proporre il ricorso giurisdizionale), sceglie esso stesso di esperire un rimedio che si pone fuori dall’ambito di applicazione dell’art. 6 della Convenzione.

Sulla base dei medesimi argomenti e richiamando il caso Nardella, nella decisione 31 marzo 2005, Nasalli Rocca contro Italia, la Corte EDU ha dichiarato irricevibile un ricorso proposto a essa dal ricorrente che aveva preventivamente esposto le sue ragioni in lettere al Presidente della Repubblica. La Corte osserva che tali lettere, anche a volerle considerare equivalenti a un rimedio straordinario, non ricadono comunque nella sfera di applicazione dell’art. 35 della Convenzione.

Particolarmente significativo è che alle stesse conclusioni la Corte di Strasburgo pervenga nella sentenza 2 aprile 2013, Tarantino e altri contro Italia, successiva quindi alla riforma del 2009, dove ribadisce che la parte ricorrente, «presentando un appello speciale al Presidente della Repubblica nel 2007, non ha avviato un procedimento contenzioso del tipo descritto all’articolo 6 della Convenzione (si veda Nardella c. Italia (dec.), n. 45814/99, CEDU 1999-VII, e Nasalli Rocca (dec.), sopra citata), e che, pertanto, la disposizione non è applicabile» (paragrafo 62).

4.2.3.– Conviene sottolineare, infine, che non è pertinente il riferimento operato dalle parti costituite alla sentenza 1° luglio 2014, Guadagno e altri contro Italia, con cui la Corte EDU ha ritenuto che vi sia stata violazione dell’art. 6 della CEDU in conseguenza dell’intervento del legislatore con la legge n. 388 del 2000, e in particolare con l’art. 50 qui censurato, nel corso di una controversia promossa da alcuni consiglieri di Stato che, anch’essi, chiedevano il riconoscimento del medesimo diritto al trattamento stipendiale più elevato assegnato ad altri consiglieri di Stato aventi minore anzianità.

La rilevanza della pronuncia ai fini che qui interessano è solo apparente. Sebbene infatti si trattasse anche in quel caso della richiesta di applicazione dello stesso meccanismo di adeguamento stipendiale poi eliminato con la normativa oggetto della disposizione di interpretazione autentica qui censurata, la controversia si svolgeva davanti all’autorità giudiziaria nell’ambito di un processo amministrativo.

Per questa ragione, nella sua sentenza la Corte di Strasburgo pone giustamente la questione nei termini della possibile ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influenzare la conclusione giudiziaria di una controversia, e conclude osservando che a tale ingerenza si oppongono «il principio della preminenza del diritto e la nozione di processo equo sanciti dall’articolo 6 […], salvo imperiosi motivi di interesse generale […]» (paragrafo 28; nello stesso senso, ex plurimis, Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 24 giugno 2014, Azienda agricola Silverfunghi sas e altri contro Italia; sentenza 15 aprile 2014, Stefanetti e altri contro Italia; sentenza 11 dicembre 2012, De Rosa contro Italia; sentenza 14 febbraio 2012, Arras contro Italia; sentenza 7 giugno 2011, Agrati contro Italia; sentenza 31 maggio 2011, Maggio contro Italia).

Diverso è invece il caso in esame, nel quale gli interessati hanno proposto la loro richiesta non mediante un’azione giudiziaria, ma attraverso un rimedio di carattere amministrativo, con la conseguenza che, come visto, la controversia che ne è sorta non presenta natura tale da poter essere ricondotta alla sfera di applicazione della tutela convenzionale in materia di equo processo ex art. 6 della CEDU.

Ciò chiarito, è comunque il caso di segnalare, con riguardo alla possibile esistenza di motivi imperativi di interesse generale idonei a giustificare la retroattività della norma qui censurata, che nella stessa pronuncia la Corte EDU non ne ha escluso la possibile sussistenza, ma si è limitata a notare come il Governo non avesse «neanche tentato di spiegar[li]» e avesse indicato soltanto la necessità di eliminare la disparità di trattamento nelle retribuzioni dei magistrati.

Più precisamente, davanti alla Corte di Strasburgo a giustificazione dell’intervento legislativo non è stato prospettato – come invece si sarebbe potuto – l’intento del legislatore di chiarire che, come questa Corte ha già avuto modo di affermare nella più volte citata sentenza n. 282 del 2005, l’abrogazione dell’istituto dell’allineamento stipendiale disposta dal decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, rendeva sistematicamente incompatibile la vigenza dell’art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984 sul conseguimento, da parte dei magistrati ordinari vincitori del concorso per la nomina a magistrato di corte d’appello o di cassazione, della maggiore anzianità dei colleghi posposti nel ruolo. Sarebbe così emerso lo scopo perseguito dal legislatore, di ristabilire, mediante l’intervento retroattivo, un’interpretazione più aderente alla sua originaria volontà, ponendo rimedio a una possibile imperfezione tecnica della norma che aveva abrogato l’istituto dell’allineamento stipendiale (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society contro Regno Unito; sentenza 27 maggio 2004, Ogis-Institut Stanislas, Ogec St. Pie X e Blanche De Castille e altri contro Francia), e perseguendo dunque finalità perequative e a tutela della certezza del diritto e dell’eguaglianza dei cittadini, cioè di principi di preminente interesse costituzionale, che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale secondo la Corte EDU.

4.2.4.– In conclusione la questione sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. non è fondata.

4.3.– Secondo il giudice rimettente l’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000 si porrebbe in contrasto anche con gli artt. 3 e 97 Cost., trattandosi di legge-provvedimento diretta a incidere in via retroattiva su posizioni consolidatesi a seguito di decisioni irreversibili, i cui effetti sarebbero stati cancellati in assenza di idonee ragioni di interesse generale, con la conseguenza che sarebbero così violati il principio di eguaglianza e il canone della ragionevolezza.

La dedotta violazione degli artt. 3 e 97 Cost. può essere considerata una censura unica: la previsione tratterebbe in modo discriminatorio i suoi destinatari (art. 3 Cost.) e, al contempo, lederebbe il canone di imparzialità della pubblica amministrazione, che, nell’applicarla, sarebbe chiamata a perseguire un interesse di parte e non generale (art. 97 Cost.).

Il rimettente, affermando la natura di legge provvedimento della disposizione censurata, prende le mosse da un erroneo presupposto ricostruttivo.

La fattispecie della legge-provvedimento ricorre quando con una previsione di contenuto particolare e concreto si incide su un numero limitato di destinatari, attraendo alla sfera legislativa quanto è normalmente affidato all’autorità amministrativa (ex plurimis, sentenze n. 114 del 2017 e n. 214 del 2016). La portata e il contenuto specifico della disposizione censurata, tuttavia, escludono che nel caso in esame si ricada nell’ambito di questa definizione.

Come già affermato da questa Corte con la sentenza n. 282 del 2005, l’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000 contiene una norma di interpretazione autentica, consistente nel riconoscimento di un’incompatibilità sistematica tra due leggi che si sono succedute nel tempo. Più precisamente essa dà conto del fatto che «il venir meno, a partire dalla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 333 del 1992, dell’istituto del riallineamento stipendiale, riguarda anche la norma dell’art. 4, nono comma, della legge n. 425 del 1984, che prevedeva una particolare forma di allineamento stipendiale per i magistrati (di appello e) di cassazione vincitori di concorso per esami, stabilendo che l’anzianità di questi ultimi fosse determinata "in misura pari a quella riconosciuta al magistrato di pari qualifica con maggiore anzianità effettiva che lo segue nel ruolo”».

A corollario dell’interpretazione così fornita, viene altresì stabilito che, per effetto del riconoscimento dell’intervenuta abrogazione dell’allineamento stipendiale, «perdono ogni efficacia i provvedimenti e le decisioni di autorità giurisdizionali» comunque adottati difformemente dalla predetta interpretazione dopo la data di entrata in vigore del d.l. n. 333 del 1992, come convertito, e non sono dovuti né possono essere eseguiti pagamenti «sulla base dei predetti decisioni o provvedimenti».

Ne consegue che, sul piano soggettivo, i destinatari della disposizione appena citata non sono affatto «determinati o di numero limitato», se non altro perché la norma offre un’interpretazione destinata a valere non solo nei riguardi di coloro che, al momento della sua entrata in vigore, avevano rapporti controversi con l’amministrazione, ma nei confronti di tutti coloro che, anche in futuro, si trovassero nella stessa situazione. L’esistenza di una lite in corso – in particolare di quella che coinvolge i ricorrenti nel giudizio a quo – e il rilievo della disposizione in questione nella sua definizione costituiscono in questo contesto «evenienze di mero fatto, non influenti per circoscrivere la produzione di effetti esclusivamente nei confronti dei ricorrenti nel giudizio a quo» (sentenza n. 214 del 2016). Per le stesse ragioni, sul piano oggettivo, l’impugnata disposizione non presenta contenuto particolare e concreto, ma detta, al contrario, una regola di carattere astratto, destinata a risolvere in via generale l’antinomia tra corpi disciplinari succedutesi nel tempo.

Sotto un diverso profilo, la semplice considerazione che la legge di interpretazione autentica si muove esclusivamente sul piano delle fonti normative ‒ con l’imposizione di uno dei significati compresi fra le possibilità di senso ragionevolmente ascrivibili al testo della disposizione interpretata ‒ conduce a negare che, adottandola, il legislatore abbia avocato a sé una determinazione normalmente affidata all’autorità amministrativa.

Esclusa dunque la natura di legge-provvedimento della norma impugnata – e con essa la necessità del vaglio di costituzionalità riservato a questi atti – si deve concludere per l’infondatezza di tutte le censure basate su tale erroneo assunto.

5.– Passando all’esame dell’ordinanza della quarta sezione del Consiglio di Stato, va preliminarmente dichiarata l’inammissibilità della costituzione delle parti, in quanto avvenuta fuori termine.

L’ordinanza di rimessione, la cui ultima notifica risale all’8 febbraio 2017, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 16 del 19 aprile 2017, sicché il termine di venti giorni per la costituzione in giudizio delle parti ex art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), computato ai sensi dell’art. 3 delle Norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte costituzionale, scadeva il 9 maggio 2017, mentre i ricorrenti nel processo principale si sono costituiti in giudizio solo il 17 maggio 2017.

Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, «il termine fissato dall’art. 3 delle norme integrative con riguardo alla costituzione delle parti del giudizio a quo ha natura perentoria e dalla sua violazione consegue, in via preliminare e assorbente, l’inammissibilità degli atti di costituzione depositati oltre la sua scadenza (ex plurimis, sentenze n. 236 e 27 del 2015, n. 364 e n. 303 del 2010, n. 263 e n. 215 del 2009; ordinanze n. 11 del 2010, n. 100 del 2009 e n. 124 del 2008)» (sentenza n. 219 del 2016).

5.1.– Le questioni sollevate dalla quarta sezione del Consiglio di Stato, nell’ambito del giudizio di ottemperanza proposto davanti ad essa per l’esecuzione delle decisioni dei ricorsi straordinari, sono inammissibili.

Come visto, lo stesso rimettente riferisce che i ricorrenti nel giudizio a quo avevano in precedenza già presentato ricorso in ottemperanza al Consiglio di Stato per l’esecuzione delle stesse decisioni del Presidente della Repubblica, ottenendo a suo tempo una sentenza favorevole, e che tale sentenza è stata poi annullata dalle sezioni unite della Corte di cassazione per difetto di giurisdizione.

Non vi è dubbio, quindi, che la riproposizione in un nuovo giudizio, da parte dei medesimi ricorrenti, della stessa azione di ottemperanza trova un ostacolo insormontabile nella preclusione da giudicato, che il Presidente del Consiglio dei ministri afferma di avere eccepito nel giudizio a quo e che sarebbe comunque rilevabile d’ufficio. L’evidenza di tale preclusione esclude la rilevanza delle questioni.

Deve essere dunque dichiarata la loro inammissibilità per difetto di rilevanza.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara inammissibile la costituzione di G. S. e altri nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 4, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», promosso dal Consiglio di Stato, sezione quarta, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000, sollevate dal Consiglio di Stato, sezione quarta, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 50, comma 4, della legge n. 388 del 2000, sollevate dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 13 della CEDU, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 gennaio 2018.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Daria de PRETIS, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 9 febbraio 2018.