Sentenza n. 420/98

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SENTENZA N.420

ANNO 1998

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI           

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Guido NEPPI MODONA    

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), promosso con ordinanza emessa il 20 febbraio 1998 dal Pretore di Modica, Sezione distaccata di Scicli, nel procedimento civile vertente tra Trovato Giuseppe e la Plasticontenitor s.r.l. iscritta al n. 264 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell’anno 1998.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 30 settembre 1998 il Giudice relatore Fernando Santosuosso.

Ritenuto in fatto

1.— Nel corso di una controversia individuale di lavoro, sorta in conseguenza dell’impugnazione di un licenziamento per presunta inidoneità alle mansioni, il Pretore di Modica, Sezione distaccata di Scicli, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), in riferimento agli artt. 3 e 27 (recte: 24) della Costituzione.

Rileva il giudice a quo che nel procedimento sottoposto al suo giudizio la domanda principale proposta dal lavoratore é già stata accolta, con conseguente ordine di reintegrazione dello stesso, e che deve ora decidersi la sola domanda conseguenziale di risarcimento dei danni. Tale risarcimento, che tendenzialmente é commisurato alle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione, non può essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto, potendo però il lavoratore optare, in alternativa alla reintegrazione, per un’indennità sostitutiva pari a quindici mensilità di retribuzione.

Questi principi, ad avviso del Pretore, non sembrano poter valere nel caso di specie, nel quale il datore di lavoro ha disposto il licenziamento "per effetto di verifica d’inidoneità al lavoro accertata in esito alla procedura di cui all’art. 5 dello Statuto", situazione che dovrebbe legittimare l’applicazione degli artt. 1256 e 1463 del codice civile. Ad avviso del rimettente, in altre parole, l’avvenuto espletamento della procedura di controllo di cui al menzionato art. 5, portando ad una pronuncia di carattere tecnico che il datore di lavoro non può contestare ed alla quale, anzi, ha il dovere di attenersi, dovrebbe implicare che nessuna responsabilità possa essere posta a suo carico in caso di successiva verifica dell’erroneità dell’accertamento medico in precedenza compiuto. E’ pacifico, infatti, che il giudizio espresso dall’organo medico di controllo rimane soggetto a verifica in sede giurisdizionale, come più volte ribadito dalla giurisprudenza della Cassazione; ciò non toglie, peraltro, che dovrebbe ritenersi sussistente, quanto meno sotto l’aspetto putativo, il giustificato motivo di licenziamento di cui all’art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, con conseguente inesistenza di ogni pretesa risarcitoria.

La norma impugnata, invece, pare riconoscere automaticamente al lavoratore la misura minima risarcitoria delle cinque mensilità di retribuzione. Ne consegue che, ad avviso del rimettente, a meno che questa Corte "non ritenga praticabile un’interpretazione costituzionale della norma", l’art. 18 in esame viola l’art. 3 Cost. perchè, senz’alcuna ragionevolezza, pone a carico del datore di lavoro una sorta di responsabilità oggettiva del tutto ingiustificata, nonchè l’art. 27 Cost., perchè impedisce al medesimo "di far valere in giudizio, in via di eccezione, l’insussistenza dell’obbligo risarcitorio posto a suo carico".

In punto di rilevanza il Pretore nota che l’eventuale accoglimento della presente questione potrebbe portare al rigetto della domanda risarcitoria nel giudizio a quo, domanda che sarebbe comunque da accogliere in caso contrario.

2.— Nel giudizio davanti a questa Corte é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.

Rileva innanzitutto la difesa erariale che, pur essendo predominante l’orientamento della Cassazione secondo cui l’obbligazione risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo prescinde dalla sussistenza di un comportamento "colposo" da parte del datore di lavoro, alcune pronunce vanno di contrario avviso, sicchè al rimettente non sarebbe totalmente preclusa la possibilità di una diversa interpretazione della norma impugnata.

Nel merito, poi, la questione non é fondata, poichè questa Corte ha già riconosciuto che la predeterminazione di un danno minimo risarcibile in ogni caso rientra nel legittimo esercizio della discrezionalità legislativa, sicchè non c’é violazione del principio di ragionevolezza. L’alternativa, del resto, sarebbe ancora peggiore, perchè negare il diritto al risarcimento del danno in un caso del genere equivarrebbe a porre a carico del lavoratore il rischio di un errato accertamento dell’inabilità da parte di un ente pubblico, il che certamente non é ammissibile.

Considerato in diritto

1.— Il Pretore di Modica, Sezione distaccata di Scicli, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione.

Il giudice a quo ritiene che la norma impugnata appare in palese contrasto: a) con l’art. 3 della Costituzione, laddove essa, "in violazione di ogni elementare principio di uguaglianza e ragionevolezza, addossa la responsabilità risarcitoria a un soggetto al quale non é addebitabile l’evento da cui tale responsabilità trae origine, in forza di una sorta di responsabilità oggettiva ingiustificata e incompatibile con i principi del nostro ordinamento; b) con l’art. 27 (recte: 24) della Costituzione, laddove nella sostanza impedisce al datore di lavoro incolpevole di far valere in giudizio, in via di eccezione, l’insussistenza dell’obbligo risarcitorio posto a suo carico".

2.— Occorre innanzitutto rilevare che l’Avvocatura dello Stato ha eccepito l’inammissibilità della questione, sostenendo che in qualche recente sentenza la Corte di cassazione avrebbe diversamente interpretato la norma impugnata, nel senso che la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro debba essere esclusa qualora il rifiuto della sua prestazione sia giustificato da un motivo legittimo; sicchè il presente giudizio si risolverebbe nella decisione di una questione di mera interpretazione, potendo il Pretore seguire quella ritenuta conforme a Costituzione.

L’eccezione é infondata. Dal testo dell’art. 18, così come interpretato dalla costante giurisprudenza, emerge con chiarezza, infatti, che la misura risarcitoria costituita dalle cinque mensilità di retribuzione globale di fatto costituisce un minimum, predeterminato ex lege e connesso alla riconosciuta illegittimità del licenziamento, da corrispondersi "in ogni caso". Il Pretore, pur esprimendo dubbi di legittimità costituzionale, non ha inteso discostarsi da un tale orientamento.

3.— Nel merito, la questione é infondata.

Questa Corte, in una non recente sentenza (n. 178 del 1975), ebbe già occasione di affermare che i due parametri costituzionali oggi invocati non risultano violati per il fatto che la norma in esame prevede una misura di risarcimento del danno che va comunque riconosciuta al lavoratore ingiustamente licenziato. In quell’occasione si osservò, scrutinando il testo dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori nella versione precedente a quella introdotta dall’art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, che la predeterminazione di un risarcimento minimo, spettante in ogni caso, "risponde ad una presunzione legale che, per essere configurata in una misura realistica (…), non contrasta con l’art. 3 della Costituzione, ma costituisce legittimo esercizio di discrezionalità politica da parte del legislatore". Tale conclusione va qui riaffermata per le seguenti ulteriori considerazioni.

E’ pacifico in giurisprudenza che la dichiarazione di inidoneità fisica in esito alle procedure di cui all’art. 5 dello Statuto non ha carattere di definitività, potendo il giudice della controversia pervenire a diverse conclusioni sulla base della consulenza tecnica d’ufficio disposta nel giudizio di merito. Da ciò consegue che il datore di lavoro, nel momento in cui opta per l’immediato licenziamento del dipendente anzichè chiedere, secondo le normali regole contrattuali, la risoluzione giudiziaria del rapporto di lavoro per sopravvenuta impossibilità della prestazione, agisce evidentemente a suo rischio, perchè non può ignorare che l’esito della procedura di cui al citato art. 5 non é incontrovertibile. D’altra parte questa Corte ha già riconosciuto, sia pure in fattispecie diverse, la generica sussistenza del principio del "rischio d’impresa" (sentenze n. 30 del 1996 e n. 7 del 1993), che viene oggettivamente a gravare su chi intraprende una simile attività; e la stessa Corte di cassazione (sentenza n. 9464 del 1998), in un caso simile a quello attuale, ha recentemente sottolineato che il risarcimento nella misura minima delle cinque mensilità costituisce un’indennità "quasi a titolo di penale avente la sua radice nel rischio d’impresa". E’ indubbio, del resto, che gli effetti economici della situazione di incertezza – necessariamente conseguente alla possibilità che l’inabilità accertata con la procedura di cui all’art. 5 dello Statuto venga successivamente ritenuta dal giudice insussistente – devono gravare o sul datore di lavoro o sul lavoratore; la scelta del legislatore, chiaramente rivolta a tutela del soggetto più debole, si presenta immune dalle lamentate censure.

4.— Può solo aggiungersi che la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro per l’illegittimo licenziamento intimato in regime di tutela c.d. reale non si discosta dalla disciplina ordinaria perchè implica comunque, per il danno eccedente la suddetta misura minima, la sussistenza della colpa dello stesso, in mancanza della quale non c’é danno ulteriore risarcibile. Per altro verso, quanto alla presunzione assoluta di danno minimo pari a cinque mensilità di retribuzione, il legislatore ha operato un non irragionevole bilanciamento complessivo per il fatto di aver simmetricamente riconosciuto al datore di lavoro l’esercizio della facoltà di recesso, idonea ad incidere unilateralmente ed immediatamente nella sfera degli interessi del lavoratore.

La previsione (di carattere eccezionale) di una presunzione iuris et de iure di danno in caso di esercizio oggettivamente illegittimo di tale facoltà non fa che riequilibrare siffatto potere privato, a fronte del quale il lavoratore versa in una situazione di soggezione.

5.— Per le esposte considerazioni, dunque, la denunziata norma – che con l’accertata illegittimità del licenziamento presume che il lavoratore abbia subìto un danno predeterminato in una misura base aumentabile quando si dia prova di un ulteriore pregiudizio – non viola il principio costituzionale di ragionevolezza; e, quanto al parametro di cui all’art. 24 della Costituzione (erroneamente indicato nell’art. 27), nessuna lesione sussiste, perchè "la garanzia costituzionale della difesa opera entro i limiti del diritto sostanziale" (sentenza n. 178 del 1975).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27 (recte: 24) della Costituzione, dal Pretore di Modica, Sezione distaccata di Scicli, con l’ordinanza di cui in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 dicembre 1998.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Fernando SANTOSUOSSO

Depositata in cancelleria il 23 dicembre 1998.