Sentenza n. 128 del 2022

SENTENZA N. 128

ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giuliano AMATO;

Giudici: Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, in combinato disposto con l’art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, promosso dal Consiglio di Stato, sezione quinta, nel procedimento vertente tra F. V. e il Presidente del Consiglio dei ministri e altri, con sentenza non definitiva del 26 agosto 2020, iscritta al n. 172 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Visti l’atto di costituzione di F. V., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 26 aprile 2022 il Giudice relatore Augusto Antonio Barbera;

uditi l’avvocato Felice Laudadio per F. V. e l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 26 aprile 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con sentenza non definitiva del 26 agosto 2020 (r.o. n. 172 del 2020), il Consiglio di Stato, sezione quinta, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 23, 36, 53 e 81 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, in combinato disposto con l’art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214.

2.– Il giudice rimettente espone che, con ricorso proposto davanti al Tribunale amministrativo regionale per la Campania, F. V., avvocato dello Stato in servizio presso l’Avvocatura distrettuale di Napoli, ha impugnato il provvedimento con cui è stata effettuata – ai sensi dell’art. 13 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89, e dell’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, per il superamento del limite retributivo previsto dall’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, come convertito – la trattenuta sui compensi professionali di cui all’art. 21 del regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611 (Approvazione del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato), relativamente al primo quadrimestre del 2015, nella misura di euro 7.799,64 lordi.

Il ricorrente ha chiesto l’accertamento del proprio diritto alla liquidazione, «integrale e senza decurtazioni», degli emolumenti dovuti ai sensi dell’art. 21 del r.d. n. 1611 del 1933, dell’art. 61 del regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1612 (Approvazione del regolamento per l’esecuzione del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato) e dell’art. 1 della legge 23 dicembre 1993, n. 559 (Disciplina della soppressione delle gestioni fuori bilancio nell’ambito delle Amministrazioni dello Stato), relativi al primo quadrimestre del 2015, «nonché di tutti i successivi percipiendi, sia per quanto concerne i 3/10 che i 7/10, di cui alle modalità legali e regolamentari di riparto, ed in particolare senza che ne venga operata la trattenuta di cui all’art. 23-ter del decreto-legge n. 201/2011 cit., né alcuna altra ritenuta, oltre interessi e rivalutazione monetaria del credito».

In via subordinata, il ricorrente ha chiesto la condanna dell’amministrazione resistente al risarcimento del danno «da inadempimento dell’obbligo di pagamento, ovvero dal ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo».

Con sentenza del 17 giugno 2019, n. 3338, il TAR Campania ha respinto il ricorso e, avverso questa pronuncia, il ricorrente ha proposto appello davanti all’odierno rimettente.

3.– Il Consiglio di Stato esamina, preliminarmente, il secondo motivo di appello, con cui il ricorrente ha lamentato l’incompatibilità di tutti gli avvocati e i procuratori dello Stato a difendere l’amministrazione, perché «necessariamente ed indistintamente portatori – nell’attualità o in prospettiva futura – di un interesse personale contrapposto a quello dell’ente patrocinato», ritenendolo inammissibile. In capo all’appellante, infatti, non sussiste «un interesse rilevante e giuridicamente tutelabile a dolersi dell’attribuzione, ad un determinato organo o soggetto, del patrocinio legale delle proprie controparti processuali».

Ad avviso del giudice rimettente, il motivo di appello è comunque non fondato nel merito, in quanto, per espressa volontà normativa, il patrocinio delle amministrazioni statali è assunto dall’Avvocatura dello Stato in via impersonale, non rilevando la persona fisica dell’avvocato o del procuratore incaricata di svolgere la difesa in giudizio, «tale che è da escludersi in radice la configurabilità di una situazione di incompatibilità, fattispecie che riguarda le persone fisiche e non gli uffici dello Stato».

4.– Con riferimento al primo motivo di appello, il Consiglio di Stato osserva che la decurtazione dei compensi professionali relativi al primo quadrimestre del 2015 e agli anni successivi, lamentata dal ricorrente, discende, «in modo automatico e vincolato», dall’applicazione dell’art. 9, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, in combinato disposto con l’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, come convertito.

Il censurato art. 9, infatti, riconduce espressamente all’oggetto dell’art. 23-ter «una particolare tipologia di attribuzione economiche, ossia i “compensi professionali corrisposti dalle amministrazioni pubbliche” […] agli avvocati e ai procuratori dello Stato (le cosiddette propine)», così giustificando «una lettura onnicomprensiva dell’inciso “a carico delle finanze pubbliche” […], che vi faccia ricadere ogni importo a qualunque titolo corrisposto […] da un’amministrazione pubblica».

Ne seguirebbe la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale delle norme censurate.

5.– Con riferimento alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente premette una ricostruzione del quadro normativo nel quale si collocano le disposizioni censurate.

La disciplina del limite massimo alle retribuzioni pubbliche, dettata dall’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, e dall’art. 13, comma 1, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, si iscrive in un contesto generale di risorse finanziarie pubbliche limitate, che devono essere ripartite in modo congruo e trasparente, messo in relazione all’obiettivo politico-economico del contenimento della spesa pubblica.

La disciplina in esame, pur essendo dettata da una difficile congiuntura economica, non è volta a conseguire risparmi immediati, inquadrandosi in una prospettiva di lungo periodo, il cui impatto è quantificabile solo a consuntivo.

Il fine di contenimento della spesa pubblica, inoltre, è coerente con «altri obiettivi intesi a valorizzare la conoscenza della gestione delle risorse pubbliche», come gli obblighi di pubblicità degli incarichi.

Sul piano sistematico, va altresì considerato il vincolo di destinazione che la legge assegna alle risorse derivanti dall’applicazione delle norme censurate, destinate appunto al fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato, ai sensi degli artt. 23-ter, comma 4, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, e 1, comma 474, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)».

Come chiarito dalla sentenza n. 124 del 2017 di questa Corte – conclude il giudice rimettente – la scelta legislativa di fissare un limite massimo alle retribuzioni pubbliche non è irragionevole, perché idonea a garantire un adeguato e proporzionato contemperamento degli interessi contrapposti, «senza svilire il lavoro prestato da chi esprime professionalità elevate», anche in considerazione della sua valenza generale.

6.– Il Consiglio di Stato ricorda, poi, che i compensi professionali corrisposti agli avvocati e ai procuratori dello Stato a cui fa riferimento il censurato art. 9 comprendono, a seguito della novella introdotta dalla medesima disposizione, solamente le somme per onorari e diritti liquidate dal giudice in sentenza e corrisposte dalle controparti soccombenti, che vengono ripartite secondo le modalità stabilite dal d.P.C.m. del 29 febbraio 1972 (Regolamento per la riscossione, da parte dell’Avvocatura dello Stato, degli onorari e delle competenze di spettanza e per la relativa ripartizione) alla fine di ogni quadrimestre dell’esercizio finanziario.

Ai sensi dell’art. 21 del r.d. n. 1611 del 1933, spetta all’Avvocatura generale e alle Avvocature distrettuali, nei giudizi rispettivamente trattati, curare l’esazione dei compensi professionali, una volta che il titolo giudiziale che li prevede è divenuto irrevocabile. Questi andranno poi ripartiti per sette decimi tra gli avvocati e i procuratori dell’ufficio interessato e per i restanti tre decimi in misura uguale tra tutti gli avvocati e procuratori dello Stato.

Ad avviso del giudice rimettente, i compensi in esame hanno sì natura retributiva, ma «la loro provvista non [sarebbe] a carico sostanziale del bilancio dello Stato, ma dei soggetti soccombenti in giustizia verso lo Stato», con la conseguenza che essi sarebbero estranei a obiettivi di contenimento della finanza pubblica. Lo Stato, infatti, è solamente «il soggetto che li riscuote dai terzi e li redistribuisce, ma non ne è l’avente diritto né ne è gravato».

Le cosiddette propine, però, «non sono dovute per il sol fatto dell’attività lavorativa svolta, bensì hanno una funzione per così dire di remunerazione “premiale”», essendo ripartite in base al rendimento individuale, secondo i criteri oggi previsti dal decreto dell’Avvocato generale dello Stato 28 ottobre 2014 (Criteri di determinazione del rendimento individuale ai sensi dell’articolo 9 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114).

Non trattandosi di «importi prelevati dai bilanci di previsione delle amministrazioni patrocinate (e, per tali, “a loro carico”), ma [di] somme versate per lo più da soggetti privati (riscossi dall’Avvocatura dello Stato nella sua qualità di distrattaria ex lege)», la loro corresponsione ai destinatari non rifletterebbe «una spesa pubblica, cioè un prelievo retributivo a carico delle finanze pubbliche, ma un semplice passaggio di valuta proveniente ab extra e dalla legge delegato all’ufficio dell’Avvocatura erariale».

Infatti, come previsto dall’art. 1 della legge n. 559 del 1993, le competenze di cui all’art. 21 del r.d. n. 1611 del 1933 sono versate «nell’apposito capitolo dello stato di previsione dell’entrata del bilancio dello Stato […] al solo scopo del successivo riparto quadrimestrale». Questi emolumenti sarebbero, quindi, vincolati ex lege «in favore delle persone degli Avvocati e dei Procuratori dello Stato, cui consegue l’obbligo per il Ministero dell’economia e delle finanze di riassegna[r]le nel competente capitolo (parimenti vincolato) del proprio stato di previsione della spesa (capitolo 4439) e di emettere i relativi ordini di pagamento».

L’Avvocatura dello Stato, peraltro, riscuote le spese di lite «non per conto dell’amministrazione, bensì nella sua qualità di distrattaria ex lege».

L’art. 9, comma 6, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, invece, ha eliminato la possibilità, per gli avvocati e i procuratori dello Stato, di percepire compensi professionali nei «casi di pronunciata compensazione integrale delle spese, ivi compresi quelli di transazione dopo sentenza favorevole alle amministrazioni», che sono «a carico» delle amministrazioni patrocinate.

7.– In base a queste premesse, il giudice rimettente ritiene non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, «nella parte in cui, non escludendoli espressamente, riconduce, in modo automatico, [gli onorari e diritti liquidati dal giudice in sentenza e corrisposti dalle controparti soccombenti] tra i compensi professionali corrisposti [al] personale dell’Avvocatura di Stato, […] ai fini del raggiungimento del limite retributivo di cui all’articolo 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201», nonché di quest’ultima norma «limitatamente alla lettura omnicomprensiva della previsione “a carico delle finanze pubbliche” ivi contenuta».

Una «lettura onnicomprensiva [dell’] art. 23-ter, non incentrata sul contenimento della spesa pubblica ma indistintamente comprensiva di qualsiasi attribuzione retributiva a carico di un soggetto pubblico formalmente proveniente dalla pubblica amministrazione», si porrebbe, in primo luogo, in contrasto con gli artt. 3 e 36 Cost.

Si assegnerebbe, infatti, alla norma la «funzione, di ordine strettamente politico e sociale, di mera equiordinazione delle retribuzioni pubbliche di tutti i pubblici dipendenti», contravvenendo alla ratio giustificatrice della novella legislativa delineata dalla sentenza n. 124 del 2017 di questa Corte.

In tal modo si lederebbe il principio generale di «proporzionalità tra lavoro e retribuzione, alla luce della quantità e qualità del primo» e si creerebbe una «manifesta disparità di trattamento con i livelli elevati della dirigenza privata, non sottoposta ad analogo limite».

8.– Ad avviso del Consiglio di Stato, inoltre, le norme censurate introdurrebbero «uno speciale prelievo tributario ad personam», sussistendo, nella fattispecie al suo esame, tutti i requisiti individuati dalla giurisprudenza di questa Corte per ritenerla di natura tributaria (ex multis, sentenze n. 236 del 2017, n. 96 del 2016, n. 178 e n. 70 del 2015, n. 154 del 2014, n. 310 e n. 304 del 2013 e n. 233 del 2012).

In primo luogo, il limite retributivo fissato dal censurato art. 23-ter, a cui rinvia, inserendovi i compensi professionali, l’art. 9, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, integrerebbe una decurtazione patrimoniale di carattere permanente e definitivo.

Inoltre, questa decurtazione non sarebbe «espressione e conseguenza di una modifica [del] rapporto sinallagmatico», in quanto il censurato art. 9, comma 1, lasciando immutato il regime di calcolo dei compensi professionali degli avvocati e dei procuratori dello Stato, si limita a includere questi compensi, «costituiti solo da somme “non a carico” delle amministrazioni patrocinate», «nella base di calcolo del c.d. “tetto stipendiale”», senza alcuna ponderazione del rendimento degli avvocati.

Infine, le somme prelevate sarebbero destinate al finanziamento della spesa pubblica, alla luce di quanto previsto dal comma 4 dell’art. 23-ter del d.l. n. 201 del 2011, come convertito.

«La natura intrinsecamente tributaria della decurtazione disposta […] dalle disposizioni censurate» comporterebbe, secondo il giudice rimettente, la violazione dell’art. 3 Cost., «per l’evidente bis in idem del prelievo tributario e la disparità con altri lavoratori, sia pubblici che privati», in quanto inciderebbe su una voce remunerativa del «reddito lavorativo complessivo» che però è già «sottoposto a prelievo tributario, in condizioni di parità con tutti gli altri percettori di reddito di lavoro».

9.– Le questioni sarebbero non manifestamente infondate anche con riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., perché, introducendo «un elemento di discriminazione […] in danno di una particolare categoria di dipendenti statali non contrattualizzati», le norme censurate colpirebbero «più gravemente, a parità di capacità contributiva per redditi di lavoro, la categoria cui appartiene l’appellante», ledendo così il principio di uguaglianza tributaria e creando una discriminazione qualitativa che «aggrava […] gli effetti della progressione tributaria».

10.– Inoltre, la definitività del prelievo fiscale operato dalle norme censurate, nonché la sua forma «anomala e implicita», contraddirebbe il principio per cui nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.

11.– L’art. 3 Cost. sarebbe altresì violato, perché «la scelta del legislatore di computare i compensi di cui trattasi […] ai fini del raggiungimento del c.d. “tetto stipendiale” [sarebbe] incoerente con la natura premiale (sulla base del “rendimento individuale”) impressa a tali compensi dal successivo comma 5 del medesimo art. 9, con ciò contraddicendo il principio di ragionevolezza».

Infatti, «con l’avanzare dell’anzianità di servizio – cui è notoriamente correlata la progressione stipendiale – il diritto alla […] percezione [degli onorari] progressivamente si riduce sino a venir meno, all’apice della carriera», nonostante in questo momento l’avvocato e il procuratore dello Stato maturino «una maggiore esperienza in campo lavorativo». Ciò sarebbe contradditorio rispetto alla «dichiarata volontà legislativa di ricondurre tale attribuzione economica alla “bravura” ed efficienza del singolo avvocato o procuratore dello Stato nello svolgimento del suo servizio».

12.– Le norme censurate si porrebbero, infine, in contrasto con l’art. 81 Cost.

Si tratterebbe, infatti, di entrate prelevate ai debitori, «ma poi incamerate dallo Stato, non venendo più distribuite una volta raggiunto il “tetto” individuale: sicché ci si troverebbe di fronte ad un ulteriore prelievo dissimulatamente tributario [che] prescinde, nel modus operandi, da adeguamenti alle mutate condizioni del ciclo economico».

13.– È intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale, con atto depositato il 29 dicembre 2020, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate.

Ad avviso della difesa dello Stato, il presupposto interpretativo da cui muove il giudice rimettente, secondo cui i compensi spettanti agli avvocati e ai procuratori dello Stato ai sensi dell’art. 21, comma 1, del r.d. n. 1611 del 1933, nonostante abbiano natura retributiva, non sono «a carico sostanziale del bilancio dello Stato, ma dei soggetti soccombenti in giustizia verso lo Stato», sarebbe erroneo.

Trattandosi di «emolumenti pubblici accessori alla retribuzione principale», infatti, gli avvocati e i procuratori dello Stato possono far valere il diritto al relativo pagamento nei confronti non delle parti private soccombenti in giudizio, ma dello Stato che, quale datore di lavoro, è obbligato ad erogarli.

Una volta che l’Avvocatura dello Stato ha riscosso le spese di lite liquidate in sentenza, le relative somme entrerebbero a far parte del bilancio dello Stato, senza che il vincolo di destinazione su di esse impresso dall’art. 1 della legge n. 559 del 1993 ne modifichi la natura. Da ciò conseguirebbe la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice rimettente, in quanto su di esse si è già pronunciata questa Corte con la sentenza n. 124 del 2017, che ha ritenuto conforme a Costituzione «l’applicazione di un tetto massimo a tutte le retribuzioni del settore pubblico».

Qualificati i compensi di cui al censurato art. 9, comma 1, come retribuzione accessoria a carico del bilancio dello Stato e non come prelievo tributario, risulterebbero infondate anche le censure di violazione degli artt. 3 e 53 Cost. La scelta di ricomprendere nel tetto stipendiale anche il compenso variabile in questione rientrerebbe, infatti, nella discrezionalità legislativa, rispetto a cui non è configurabile alcun vincolo costituzionale.

L’Avvocatura conclude, infine, per l’inammissibilità della censura relativa all’art. 81 Cost., per carenza di motivazione.

14.– Con atto depositato il 29 dicembre 2020, si è costituito in giudizio F. V., ricorrente nel giudizio principale, chiedendo che le questioni siano accolte, alla luce delle «ragioni puntualmente e […] condivisibilmente illustrate nell’Ordinanza di rimessione».

15.– L’Associazione unitaria degli avvocati e procuratori dello Stato (AUAPS) ha presentato un’opinione scritta in qualità di amicus curiae – ammessa con decreto presidenziale del 14 marzo 2022 – argomentando a sostegno dell’ammissibilità e della fondatezza nel merito delle questioni sollevate.

L’opinione evidenza in particolare «l’elemento differenziale tra l’oggetto del giudizio scrutinato con la sentenza n. 236 del 2017 (la rimodulazione degli onorari professionali) e quello che ne occupa (la decurtazione degli onorari professionali in caso di superamento del “tetto massimo”)», rilevando come «in questo caso le “trattenute” sono effettivamente riconducibili a una forma di prelievo tributario».

Ancorché questa Corte escludesse la natura tributaria della fattispecie, sussisterebbe il vulnus ai parametri costituzionali evocati dal giudice rimettente, perché sarebbe «palese [l’]irragionevolezza di una trattenuta che è stata istituita per conseguire effetti di contenimento e governo della spesa pubblica, ma che illogicamente ha a oggetto anche gli onorari professionali derivanti dalla riscossione delle spese di lite liquidate a carico della controparte processuale della pubblica Amministrazione patrocinata».

Questi sarebbero diversi da ogni altra forma di remunerazione degli avvocati e dei procuratori dello Stato, essendo «previsti allo scopo di remunerare […] quella peculiarissima parte di attività che concerne specificamente […] la difesa in giudizio […], che nel trattamento retributivo non può trovare la sua integrale compensazione». Essi, infatti, sono estranei alle progressioni stipendiali e sono esclusi dall’assoggettamento al trattamento previdenziale; ma soprattutto non hanno «alcun nesso col conseguimento della finalità sottesa all’imposizione del tetto», derivando «dalle somme liquidate a carico delle controparti in sede giudiziale o stragiudiziale».

I compensi professionali in questione, quindi, non gravano sull’erario, entrando «direttamente nella disponibilità dell’Avvocatura, senza mai confondersi con il patrimonio dell’Amministrazione patrocinata», con la conseguenza che non dovrebbero essere sottoposti al tetto retributivo. Né a diversa soluzione potrebbe giungersi considerando le spese di lite liquidate in favore di avvocati e procuratori dello Stato come potenziali entrate, anche perché la loro «imprevedibilità» impedirebbe di iscriverle come «attività in bilancio e di impiegarle ai fini della programmazione dell’attività economico-finanziaria dello stato».

In conclusione, l’amicus curiae osserva che non vi sarebbe «alcuna ragione giustificatrice per sottrarre quelle somme alla loro naturale destinazione, che è quella dell’incentivazione premiale alla migliore performance del particolarissimo plesso amministrativo qui in esame». Proprio perché il riparto del cosiddetto riscosso integrerebbe una «misura premiale incentivante», non potrebbe essergli riconosciuta «una finalità perequativa».

Considerato in diritto

1.– Il Consiglio di Stato, sezione quinta, dubita, in riferimento agli artt. 3, 23, 36, 53 e 81 della Costituzione, della legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 9, comma 1, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, e dell’art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui computa i compensi professionali corrisposti al personale dell’Avvocatura dello Stato – costituiti dagli onorari e dalle spese di lite liquidati in sentenza a carico delle controparti – ai fini del raggiungimento del tetto retributivo previsto dalla legislazione vigente.

L’art. 9, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, prevede che «[i] compensi professionali corrisposti dalle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, [al] personale dell’Avvocatura dello Stato, sono computati ai fini del raggiungimento del limite retributivo di cui all’articolo 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e successive modificazioni».

Quest’ultima disposizione definisce il trattamento economico annuo onnicomprensivo di chiunque riceva, a carico delle finanze pubbliche, retribuzioni o emolumenti comunque denominati nell’ambito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali, ivi incluso il personale in regime di diritto pubblico (cosiddetto personale non contrattualizzato), stabilendo come parametro massimo di riferimento il trattamento economico spettante al primo presidente della Corte di cassazione (art. 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, recante «Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale», convertito, con modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89).

Il combinato disposto delle due norme violerebbe, ad avviso del giudice rimettente, gli artt. 3 e 36 Cost., in quanto, fornendo una «lettura onnicomprensiva [dell’]art. 23-ter, non incentrata sul contenimento della spesa pubblica ma indistintamente comprensiva di qualsiasi attribuzione retributiva a carico di un soggetto pubblico formalmente proveniente dalla pubblica amministrazione», lederebbe il principio generale di «proporzionalità tra lavoro e retribuzione, alla luce della quantità e qualità del primo» e creerebbe una «manifesta disparità di trattamento con i livelli elevati della dirigenza privata, non sottoposta ad analogo limite».

Le questioni sarebbero, poi, non manifestamente infondate con riferimento all’art. 3 Cost., in quanto le norme censurate – colpendo i compensi professionali costituiti dalle somme effettivamente versate dalle controparti soccombenti in giudizio, che non comportano alcun onere economico a carico dello Stato – introdurrebbero «uno speciale prelievo tributario ad personam», che inciderebbe su una voce remunerativa del «reddito lavorativo complessivo», che però è già «sottoposto a prelievo tributario, in condizioni di parità con tutti gli altri percettori di reddito di lavoro».

Le norme censurate sarebbero, inoltre, in contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost., perché, introducendo «un elemento di discriminazione […] in danno di una particolare categoria di dipendenti statali non contrattualizzati», colpirebbero «più gravemente, a parità di capacità contributiva per redditi di lavoro, la categoria cui appartiene l’appellante» nel giudizio a quo, ledendo così il principio di uguaglianza tributaria e creando una discriminazione qualitativa che «aggrava […] gli effetti della progressione tributaria».

Le questioni sarebbero non manifestamente infondate anche con riferimento agli artt. 3, 23 e 53 Cost., perché la definitività del prelievo fiscale operato dalle norme censurate, nonché la sua forma «anomala ed implicita», contraddirebbe il principio per cui nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.

L’art. 3 Cost. sarebbe violato, inoltre, perché «la scelta del legislatore di computare i compensi di cui trattasi […] ai fini del raggiungimento del c.d. “tetto stipendiale” [sarebbe] incoerente con la natura premiale (sulla base del “rendimento individuale”) impressa a tali compensi dal successivo comma 5 del medesimo art. 9, con ciò contraddicendo il principio di ragionevolezza».

Le norme censurate sarebbero, infine, in contrasto con l’art. 81 Cost., perché «ci si troverebbe di fronte ad un ulteriore prelievo dissimulatamente tributario [che] prescinde, nel modus operandi, da adeguamenti alle mutate condizioni del ciclo economico».

2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, ha eccepito l’inammissibilità della questione sollevata in riferimento all’art. 81 Cost., per difetto di motivazione.

L’eccezione è fondata, in quanto la censura è carente di un’adeguata e autonoma illustrazione delle ragioni per le quali le norme oggetto del giudizio integrerebbero una violazione del parametro costituzionale evocato (ex plurimis, sentenze n. 87 e 30 del 2021, n. 54 del 2020, n. 33 del 2019 e n. 240 del 2017).

Per costante giurisprudenza costituzionale, l’insufficiente motivazione in punto di non manifesta infondatezza determina l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale (ex multis, sentenze n. 114, n. 87 e n. 39 del 2021).

3.– Le questioni sollevate in riferimento agli altri parametri costituzionali sono ammissibili, nonostante l’atto di promovimento abbia la veste formale della sentenza (non definitiva).

Respinto il secondo motivo di appello, il Consiglio di Stato – dopo la positiva valutazione concernente la rilevanza e la non manifesta infondatezza delle questioni in relazione al primo motivo di impugnazione – ha disposto la sospensione del procedimento principale e la trasmissione del fascicolo alla cancelleria di questa Corte.

Sicché all’atto di promovimento, anche se assunto con la forma di sentenza, deve essere riconosciuta sostanzialmente natura di ordinanza, in conformità a quanto previsto dall’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) (ex multis, sentenze n. 153 del 2020; n. 208 del 2019, n. 86 del 2017, n. 256 del 2010, n. 151 e 94 del 2009 e n. 452 del 1997).

4.– Questa Corte ritiene opportuno ricostruire il quadro normativo di riferimento.

L’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, ha modificato la disciplina relativa alla percezione dei compensi variabili (cosiddette propine) del personale dell’Avvocatura dello Stato e, in genere, degli avvocati dipendenti della pubblica amministrazione in conseguenza delle prestazioni professionali rese nel difendere in giudizio le amministrazioni di riferimento

Il trattamento economico degli avvocati e dei procuratori dello Stato si compone, infatti, di due diverse voci. Una prima voce è quella retributiva fissa, costituita dallo stipendio tabellare, rapportato a quello goduto dai magistrati (art. 12 della legge 24 maggio 1951, n. 392, recante «Distinzione dei magistrati secondo le funzioni. Trattamento economico della Magistratura nonché dei magistrati del Consiglio di Stato, della Corte dei conti, della Giustizia militare e degli avvocati e procuratori dello Stato»). Un’altra componente di detto trattamento è quella modificata dal citato art. 9 e attiene ai compensi maturati in ragione dell’attività difensiva svolta in giudizio, di natura variabile perché dipendenti dalla sorte del contenzioso.

Con riferimento agli avvocati e ai procuratori dello Stato, la novella legislativa ha proceduto ad una decurtazione del pregresso trattamento economico legato alla voce retributiva variabile, oggi limitato alla sola ipotesi della condanna della controparte al pagamento delle spese del giudizio (il cosiddetto “riscosso”, perché legato all’effettiva esazione delle somme in questione). È stato inoltre delimitato il relativo perimetro quantitativo, riconosciuto dalla novella solo in misura pari al 50 per cento degli importi recuperati dal soccombente (a seguito della modifica introdotta dall’art. 1, comma 486, lettere a) e b), della legge 27 dicembre 2017, n. 205, recante «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020» il suddetto limite è stato aumentato al 75 per cento). Per il personale dell’Avvocatura dello Stato è stato poi espunto dal sistema il diritto ad ottenere la liquidazione di emolumenti in caso di compensazione delle spese o di lite transatta senza spese (il cosiddetto “compensato”).

Questa Corte, con la sentenza n. 236 del 2017, ha escluso la difformità a Costituzione della disciplina dettata dall’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito; mentre ha dichiarato inammissibile la questione relativa al comma 1 del medesimo art. 9, perché «[n]ell’ordinanza di rimessione, il rimettente non ha dedotto ed esplicitato se nel giudizio principale veniva in questione il superamento del limite di cui al citato art. 23-ter».

Tale disposizione – censurata nuovamente con le odierne questioni di legittimità costituzionale – stabilisce che i compensi professionali corrisposti al personale dell’Avvocatura dello Stato – costituiti dagli onorari e dalle spese di lite liquidati in sentenza a carico delle controparti – debbano essere computati «ai fini del raggiungimento del limite retributivo di cui all’articolo 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, e successive modificazioni».

5.– Quest’ultima norma – anch’essa oggetto delle censure di legittimità costituzionale prospettate dal Consiglio di Stato – si inserisce nella serie di interventi normativi che hanno introdotto limitazioni agli emolumenti a carico delle finanze pubbliche, demandando a un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previo parere delle commissioni parlamentari competenti, la definizione del trattamento economico annuo onnicomprensivo di chiunque riceva a carico delle finanze pubbliche emolumenti o retribuzioni nell’àmbito di rapporti di lavoro dipendente o autonomo con pubbliche amministrazioni statali, ivi incluso il personale in regime di diritto pubblico. Il «parametro massimo di riferimento» è identificato nel «trattamento economico del primo presidente della Corte di cassazione» (art. 13, comma 1, del d.l. n. 66, del 2014, come convertito).

Con riferimento all’art. 23-ter, comma 1, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, questa Corte ha già evidenziato che «[l]a disciplina del limite massimo, sia alle retribuzioni nel settore pubblico sia al cumulo tra retribuzioni e pensioni, si iscrive in un contesto di risorse limitate, che devono essere ripartite in maniera congrua e trasparente […]. Il limite delle risorse disponibili, immanente al settore pubblico, vincola il legislatore a scelte coerenti, preordinate a bilanciare molteplici valori di rango costituzionale, come la parità di trattamento (art. 3 Cost.), il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto e comunque idonea a garantire un’esistenza libera e dignitosa (art. 36, primo comma, Cost.), il diritto a un’adeguata tutela previdenziale (art. 38, secondo comma, Cost.), il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.)» (sentenza n. 124 del 2017).

Questa Corte ha, dunque, «valutato il bilanciamento tra i richiamati valori confliggenti effettuato dal legislatore, escludendo che il limite massimo alle retribuzioni, dettato nel settore pubblico sulla base di criteri non uniformi a quelli relativi al settore privato, ispirati alle leggi di mercato, sia manifestamente irragionevole (si veda anche, con riguardo alla riduzione delle tariffe professionali riguardanti incarichi di natura pubblicistica rispetto a quelle relative ad attività libero-professionali, sentenze n. 89 del 2020, n. 178 del 2017 e n. 192 del 2015)» (sentenza n. 27 del 2022).

Questa Corte ha, infine, ritenuto che «il sacrificio economico imposto dalla previsione di un limite massimo alle retribuzioni e al cumulo tra retribuzioni e pensioni sia “tale da non sacrificare in misura arbitraria e sproporzionata il diritto al lavoro […] libero di esplicarsi nelle forme più convenienti” (sentenza n.124 del 2017)» (ancora sentenza n. 27 del 2022). Del resto, è stato anche ribadito che «la soglia retributiva fissata, commisurata alla retribuzione, e, quindi, alle funzioni di una carica di rilievo e prestigio indiscussi, qual è il primo presidente della Corte di cassazione, è da considerare adeguata» (sentenza n. 27 del 2022).

6.– Ai fini della completa ricostruzione del quadro normativo, occorre rilevare che, dopo l’ordinanza di rimessione, il parametro cui ragguagliare la soglia del trattamento economico complessivo di cui al censurato art. 23-ter è parzialmente mutato, con decorrenza dall’anno 2022.

Infatti, l’art. 1, comma 68, della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 31 dicembre 2021, n. 310, ed entrata in vigore il 1° gennaio 2022, ha stabilito che «A decorrere dall’anno 2022, per il personale di cui all’articolo 1, comma 471, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, il limite retributivo di cui all’articolo 13, comma 1, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, è rideterminato sulla base della percentuale stabilita ai sensi dell’articolo 24, comma 2, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, in relazione agli incrementi medi conseguiti nell’anno precedente dalle categorie di pubblici dipendenti contrattualizzati, come calcolati dall’ISTAT ai sensi del comma 1 del medesimo articolo 24».

Il richiamato art. 24 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), ai commi 1 e 2, prevede che «1. A decorrere dal 1 gennaio 1998 gli stipendi, l’indennità integrativa speciale e gli assegni fissi e continuativi dei docenti e dei ricercatori universitari, del personale dirigente della Polizia di Stato e gradi di qualifiche corrispondenti, dei Corpi di polizia civili e militari, dei colonnelli e generali delle Forze armate, del personale dirigente della carriera prefettizia, nonché del personale della carriera diplomatica, sono adeguati di diritto annualmente in ragione degli incrementi medi, calcolati dall’ISTAT, conseguiti nell’anno precedente dalle categorie di pubblici dipendenti contrattualizzati sulle voci retributive, ivi compresa l’indennità integrativa speciale, utilizzate dal medesimo Istituto per l’elaborazione degli indici delle retribuzioni contrattuali. 2. La percentuale dell’adeguamento annuale prevista dal comma 1 è determinata entro il 30 aprile di ciascun anno con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta dei Ministri per la funzione pubblica e del tesoro, del bilancio e della programmazione economica. A tal fine, entro il mese di marzo, l’ISTAT comunica la variazione percentuale di cui al comma 1. Qualora i dati necessari non siano disponibili entro i termini previsti, l’adeguamento è effettuato nella stessa misura percentuale dell’anno precedente, salvo successivo conguaglio».

Come già chiarito da questa Corte, «la portata dello ius superveniens richiamato non determina la necessità di disporre la restituzione degli atti al giudice a quo affinché sia rinnovato l’esame della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, la quale persiste in quanto la nuova disposizione non esclude l’applicazione, medio tempore, della normativa censurata (ex plurimis, sentenze n. 213 del 2021 e n. 257 del 2017)» (sentenza n. 27 del 2022).

Inoltre, la nuova disposizione non altera le norme impugnate nella parte oggetto delle censure di legittimità costituzionale. Infatti, ciò di cui si duole il giudice rimettente è che, ai sensi del combinato disposto delle norme censurate, «[i] compensi professionali corrisposti dalle amministrazioni pubbliche [al] personale dell’Avvocatura dello Stato, sono computati ai fini del raggiungimento» del tetto retributivo, su cui non ha inciso lo ius superveniens, se non sul piano quantitativo.

7.– Nel merito, le questioni non sono fondate.

Le censure sollevate dal giudice a quo, in riferimento agli artt. 3, 23 e 53 Cost., sono state già decise da questa Corte che, con la sentenza n. 27 del 2022, ha escluso che la previsione di un tetto retributivo costituisca «un prelievo di natura tributaria», ovvero una prestazione patrimoniale imposta.

Secondo la giurisprudenza costituzionale, una fattispecie deve ritenersi di natura tributaria, indipendentemente dalla qualificazione offerta dal legislatore, laddove si riscontrino più requisiti: la disciplina legale deve essere diretta, in via prevalente, a procurare una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve integrare una modifica di un rapporto sinallagmatico; le risorse, connesse ad un presupposto economicamente rilevante e derivanti dalla suddetta decurtazione, debbono essere destinate a sovvenire pubbliche spese (sentenze n. 27 del 2022; n. 236 del 2017; n. 96 del 2016; n. 178 e n. 70 del 2015; n. 154 del 2014; n. 310 e n. 304 del 2013 e n. 223 del 2012).

«Si deve comunque trattare di un prelievo coattivo, finalizzato al concorso alle pubbliche spese e posto a carico di un soggetto passivo in base ad uno specifico indice di capacità contributiva. Tale indice, inoltre, deve esprimere l’idoneità di ciascun soggetto all’obbligazione tributaria (sentenze n. 263 del 2020, n. 240 del 2019, n. 89 del 2018, n. 269 e n. 236 del 2017, n. 70 del 2015, n. 219 del 2014, n. 154 del 2014, n. 102 del 2008, n. 91 del 1972, n. 97 del 1968, n. 89 del 1966, n. 16 del 1965 e n. 45 del 1964)» (sentenza n. 27 del 2022).

Nel caso di specie non si tratta di un prelievo tributario, perché non sussistono i requisiti dell’effettiva decurtazione patrimoniale e della mancanza di una modifica del rapporto sinallagmatico.

La pretesa patrimoniale dell’avvocato o del procuratore dello Stato alla partecipazione al “riscosso” «è quantomeno subordinata alla condanna della controparte alle spese ovvero alla presenza di una transazione che ponga su quest’ultima il costo del giudizio: sino a quando non viene a concretarsi tale presupposto, l’avvocato dipendente può dirsi titolare solo di una aspettativa con riguardo alla possibilità di percepire tali emolumenti, sino a quel momento solo eventuale […]. La revisione quantitativa del diritto alla ripartizione del “riscosso” […] incide, dunque, su situazioni giuridiche soggettive non ancora maturate […]. È pertanto da escludere che nel caso possa riscontrarsi una effettiva decurtazione, la quale, invece, presuppone l’incidenza della novità normativa su situazioni soggettive di matrice patrimoniale compiutamente formate» (sentenza n. 236 del 2017).

Inoltre, il comma 5 dell’art. 9 «ha introdotto nel sistema verifiche di rendimento destinate ad incidere sul quantum del diritto a godere degli emolumenti in questione in ragione di alcuni filtri valutativi definiti dalla normazione secondaria» (ancora sentenza n. 236 del 2017).

Le modifiche introdotte dalla novella in tema di partecipazione degli avvocati e dei procuratori dello Stato al cosiddetto “riscosso”, soprattutto, «incidono, modificandolo, sul sinallagma contrattuale, perché il diritto alle propine viene modulato differentemente in ragione del rendimento degli avvocati dipendenti: non si risolvono, dunque, esclusivamente in una decurtazione patrimoniale, così da condurre la fattispecie al di fuori dei casi di imposizione tributaria anomala e implicita, in altre occasioni riscontrati da questa Corte» (sentenza n. 236 del 2017).

Si ricade quindi, nella specie, «in una regola conformativa delle medesime retribuzioni (sentenza n. 200 del 2018)» (sentenza n. 27 del 2022).

8.– Esclusa la natura tributaria della fattispecie, le censure di violazione degli artt. 3, 23 e 53 Cost. sono dunque non fondate.

9.– Le censure sollevate dal giudice a quo, in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., si fondano su un erroneo presupposto interpretativo.

Il Consiglio di Stato prende atto che i compensi professionali a cui fa riferimento l’impugnato art. 9, a seguito della novella dallo stesso introdotta, sono corrisposti agli avvocati e ai procuratori dello Stato solamente «[n]elle ipotesi di sentenza favorevole con recupero delle spese legali a carico delle controparti». È stato invece espunto dal sistema, per il personale dell’Avvocatura dello Stato, il diritto ad ottenere la liquidazione di emolumenti in caso di compensazione delle spese o di lite transatta senza spese.

Pertanto, la provvista di questi compensi, nonostante la loro natura retributiva, «non [sarebbe] a carico sostanziale del bilancio dello Stato, ma dei soggetti soccombenti in giustizia verso lo Stato», con la conseguenza che essi sarebbero estranei a obiettivi di contenimento della finanza pubblica.

Non trattandosi di «importi prelevati dai bilanci di previsione delle amministrazioni patrocinate (e, per tali, “a loro carico”), ma [di] somme versate per lo più da soggetti privati», la loro corresponsione ai destinatari non rifletterebbe «una spesa pubblica, cioè un prelievo retributivo a carico delle finanze pubbliche, ma un semplice passaggio di valuta proveniente ab extra e dalla legge delegato all’ufficio dell’Avvocatura erariale».

10.– Il giudice rimettente muove dall’assunto che le spese di lite siano riscosse dall’Avvocatura dello Stato «non per conto dell’amministrazione, bensì nella sua qualità di distrattaria ex lege» e che le somme così recuperate siano vincolate ex lege «in favore delle persone degli avvocati e dei procuratori dello Stato».

In senso contrario, va invece osservato che la condanna al pagamento delle spese di lite è fatta dal «giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui» a favore della parte (art. 91, primo comma, cod. proc. civ.) – che è quindi titolare del diritto di credito al relativo pagamento nei confronti della controparte soccombente – e non, salvo il caso di distrazione ex art. 93 cod. proc. civ., del suo difensore.

Nella specie, la parte non è l’Avvocatura dello Stato, bensì l’amministrazione pubblica da essa patrocinata, che, se vittoriosa, ha diritto al rimborso delle spese legali nei confronti del soccombente. Una parte di queste (il 75 per cento) è poi ripartita tra gli avvocati e i procuratori dello Stato, come «componente retributiva aggiuntiva legata agli emolumenti per il “riscosso”» (sentenza n. 236 del 2017). Questi emolumenti, quindi, sono indubbiamente «a carico delle finanze pubbliche, senza che il vincolo di destinazione su di essi imposto dall’art. 21 del regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611 (Approvazione del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato) e dall’art. 9, comma 4, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, possa mutarne la natura.

11.– L’incidenza della corresponsione di questi emolumenti sulle finanze pubbliche è dimostrata dalla circostanza che le somme riscosse dall’Avvocatura dello Stato confluiscono, in entrata, sul capitolo 3518 capo X art. 1 del bilancio dello Stato, «per essere riassegnate, con decreti del Ministro del tesoro, ad apposito capitolo di spesa [il 4439], da iscrivere nello stato di previsione della Presidenza del Consiglio dei ministri, rubrica 41 - Avvocatura dello Stato, al quale sono imputati i relativi pagamenti» (art. 1, comma 1, della legge 23 dicembre 1993, n. 559, recante «Disciplina della soppressione delle gestioni fuori bilancio nell’ambito delle Amministrazioni dello Stato»).

La circostanza stessa che le somme riscosse dall’Avvocatura dello Stato a titolo di competenze e spese legali siano accertate in entrata nel bilancio dello Stato comporta che debbano essere considerate risorse pubbliche e che, una volta erogate, integrino una spesa a carico delle finanze pubbliche.

12.– Infine, l’Avvocatura dello Stato è titolare di un mero potere di esazione delle spese di lite, conferitole dall’art. 21, comma 1, del r.d. n 1611 del 1933, non ricorrendo la fattispecie disciplinata dall’art. 93 cod. proc. civ., in cui il giudice pronuncia la condanna al pagamento di spese e onorari in favore del difensore. Ciò si desume, oltre che dal chiaro tenore letterale della disposizione, dalla circostanza che, nella specie, non ricorre la ratio dell’istituto della distrazione delle spese.

Con esso, infatti, «[l]a legge ha inteso offrire al difensore un mezzo agevolato di tutela per conseguire gli onorari spettantigli ed il rimborso delle spese anticipate» (sentenza n. 31 del 1973). Esigenza che, nella specie, non sussiste, trattandosi di avvocati dipendenti dall’amministrazione, ancorché esclusi «dall’area del lavoro pubblico contrattualizzato» (sentenza n. 236 del 2017), che percepiscono una retribuzione per la loro attività professionale composta, oltre che dallo stipendio tabellare, da un compenso variabile «in ragione dell’attività difensiva svolta in giudizio» (sentenza n. 236 del 2017) e non anticipano le spese processuali.

13.– Alla luce delle considerazioni che precedono, le questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost. vanno dichiarate non fondate.

14.– È, infine, non fondata la censura di violazione dell’art. 3 Cost. sollevata, sotto un ulteriore profilo, dal giudice a quo. Ad avviso del collegio rimettente, «la scelta del legislatore di computare i compensi di cui trattasi […] ai fini del raggiungimento del c.d. “tetto stipendiale” [sarebbe] incoerente con la natura premiale (sulla base del “rendimento individuale”) impressa a tali compensi dal successivo comma 5 del medesimo art. 9, con ciò contraddicendo il principio di ragionevolezza».

La computabilità, ai fini del raggiungimento del tetto retributivo, anche dei compensi professionali costituenti la parte variabile del trattamento economico degli avvocati e dei procuratori dello Stato non contraddice la loro dedotta natura premiale sul piano normativo. Questa riguarda, infatti, i criteri di distribuzione degli stessi, sulla base del rendimento individuale, mentre la fissazione di un limite massimo alle retribuzioni pubbliche si pone quale misura di contenimento della spesa pubblica che colpisce tutte le voci retributive, anche quelle variabili.

Questa Corte, peraltro, ha già avuto modo di escludere che le limitazioni e decurtazioni imposte dalla normativa dettata dall’art. 9 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, siano arbitrarie e non proporzionate, trovando «una incontroversa ratio nelle […] esigenze di bilancio e di contenimento della spesa pubblica» (sentenza n. 236 del 2017).

Ciò posto, è «coerente sul piano sistematico che il “tetto” colpisca le categorie professionali che godono dei trattamenti economici più elevati» (sentenza n. 27 del 2022), avendo l’intervento normativo denunciato lo scopo di porre un limite proprio ai redditi più alti «salvaguardando comunque l’adeguatezza professionale e retributiva della soglia contemplata» (sentenza n. 124 del 2017).

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, in combinato disposto con l’art. 23-ter, comma 1, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, sollevata, in riferimento all’art. 81 della Costituzione, dal Consiglio di Stato, sezione quinta, con la sentenza non definitiva in epigrafe indicata;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, in combinato disposto con l’art. 23-ter, comma 1, del d.l. n. 201 del 2011, come convertito, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 23, 36 e 53 Cost., dal Consiglio di Stato, sezione quinta, con la sentenza non definitiva in epigrafe indicata.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 aprile 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Augusto Antonio BARBERA, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 26 maggio 2022.