SENTENZA N. 108
ANNO 2023
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Silvana SCIARRA
Giudici: Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 6, del decreto-legge 30 novembre 2013, n. 133 (Disposizioni urgenti concernenti l’IMU, l’alienazione di immobili pubblici e la Banca d’Italia), convertito, con modificazioni, nella legge 29 gennaio 2014, n. 5, in combinato disposto con l’art. 1, comma 148, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014)», nella versione originaria e come modificato dall’art. 4, comma 12, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89, promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Trieste, sezione seconda, nel procedimento vertente tra Generali Italia spa e l’Agenzia delle entrate – Direzione regionale Friuli-Venezia Giulia, con ordinanza del 27 maggio 2022, iscritta al n. 74 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2022.
Visti l’atto di costituzione di Generali Italia spa, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e di Banca Carige spa – Cassa di Risparmio di Genova e Imperia;
udita nell’udienza pubblica del 4 aprile 2023 la Giudice relatrice Daria de Pretis;
uditi l’avvocato Roberto Tieghi per Banca Carige spa – Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, l’avvocato dello Stato Alessandro Maddalo per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Nicola Mazza per Generali Italia spa;
deliberato nella camera di consiglio del 5 aprile 2023.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 27 maggio 2022, iscritta al n. 74 reg. ord. 2022, la Commissione tributaria provinciale di Trieste, sezione seconda, ha sollevato distinte questioni di legittimità costituzionale delle seguenti norme:
– l’art. 6, comma 6, del decreto-legge 30 novembre 2013, n. 133 (Disposizioni urgenti concernenti l’IMU, l’alienazione di immobili pubblici e la Banca d’Italia), convertito, con modificazioni, nella legge 29 gennaio 2014, n. 5, in combinato disposto con l’art. 1, comma 148, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)», come sostituito dall’art. 4, comma 12, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89;
– lo stesso art. 6, comma 6, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito, in combinato disposto con l’art. 1, comma 148, della legge n. 147 del 2013 nella versione originaria.
Le norme censurate violerebbero gli artt. 3, 41, 42 e 53 della Costituzione.
1.1.– Le questioni sono sorte nel corso di un giudizio promosso da Generali Italia spa avverso il silenzio-rifiuto dell’Agenzia delle entrate – Direzione regionale Friuli- Venezia Giulia sull’istanza di rimborso della somma di euro 75.552.471,23, versata a titolo di imposta sostitutiva delle imposte sui redditi delle società (IRES), dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) e di eventuali addizionali, in applicazione di quanto previsto dall’art. 1, comma 148, della legge n. 147 del 2013, nel testo introdotto dall’art. 4, comma 12, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito.
Il rimettente riferisce che:
– Generali Italia spa nel 2013 deteneva n. 19.000 quote del capitale della Banca d’Italia (d’ora in avanti, anche: Banca);
– a seguito dell’aumento del capitale della Banca d’Italia all’importo di euro 7.500.000.000 mediante utilizzo delle riserve, autorizzato dall’art. 4, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito, il valore nominale di tali quote è stato determinato in euro 25.000 ciascuna, per un importo complessivo di euro 475.000.000;
– l’art. 6, comma 6, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito, ha previsto che, a partire dall’esercizio in corso al 30 novembre 2013, i partecipanti al capitale della Banca d’Italia iscrivano a bilancio le quote di nuova emissione nel comparto delle attività finanziarie destinate alla negoziazione ai medesimi valori, ferma l’applicazione dei principi contabili internazionali;
– in seguito, l’art. 1, comma 148, della legge n. 147 del 2013, al fine di attribuire alla rivalutazione delle quote rilievo fiscale, avrebbe «imposto un riallineamento obbligatorio del valore fiscale al valore contabile-civilistico», prevedendo che ai maggiori valori – iscritti dai partecipanti nel bilancio relativo all’esercizio in corso al 31 dicembre 2013 per effetto dell’art. 6, comma 6, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito – fosse applicata un’imposta sostitutiva dell’IRES, dell’IRAP e di eventuali addizionali pari, nella versione originaria della norma, al 12 per cento, da versare in tre rate di uguale importo; successivamente, nel testo introdotto dall’art. 4, comma 12, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, l’imposta è stata fissata nel 26 per cento del valore nominale delle quote al netto del precedente valore fiscalmente riconosciuto e ne è stato previsto il versamento in unica soluzione;
– Generali Italia spa, dopo avere imputato a conto economico una plusvalenza di euro 290.586.428 – derivante dalla differenza tra il valore nominale delle quote di nuova emissione e il valore fiscale anteriormente riconosciuto –, ha versato il 16 giugno 2014 euro 75.552.471,23, corrispondente al 26 per cento della plusvalenza, e ne ha poi chiesto il rimborso all’Agenzia delle entrate;
– contro il silenzio-rifiuto su tale istanza, la società ha proposto ricorso, con cui ha chiesto la condanna dell’amministrazione finanziaria al rimborso dell’imposta sostitutiva versata, sollevando in particolare eccezione di illegittimità costituzionale delle norme che l’hanno istituita.
1.2.– Sulla rilevanza, il rimettente osserva che il giudizio a quo non può essere definito senza fare applicazione del combinato disposto dell’art. 6, comma 6, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito, e dell’art. 1, comma 148, della legge di stabilità 2014, quest’ultimo sia nel testo sostituito dall’art. 4, comma 12, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito (che ha elevato l’aliquota dell’imposta al 26 per cento ed eliminato il pagamento rateizzato), sia nel testo originario (che prevedeva l’aliquota del 12 per cento e il pagamento rateale).
Ciò, in particolare, sull’assunto che l’eventuale «caducazione dell’art. 4, co. 12, DL 66/2014, verso cui il [...] ricorso muove, potendo dare luogo alla r[e]viviscenza del co. 148, dell’art. 1, L. 147/2013 nel testo originale, rende[rebbe] necessario chiarire come anche la norma sostituita sia in contrasto con la Costituzione». Norma che sarebbe a sua volta, anche nel testo originario – che pure prevedeva un’aliquota inferiore e più favorevoli modalità di pagamento – costituzionalmente illegittima per vizi analoghi a quelli che inficiano l’imposta nella sua configurazione finale, che si limita ad «acui[re] e incrementa[re] i punti di contrasto ed inconciliabilità con la fonte sovraordinata».
1.3.– Sulla non manifesta infondatezza, il giudice a quo, dopo avere ricostruito il quadro normativo, dubita che le norme censurate violino, in primo luogo, l’art. 53 Cost., per mancanza dell’elemento della «capacità contributiva effettiva». Nel caso di specie non ricorrerebbe infatti «materiale apprendimento della ricchezza», che, solo, potrebbe essere «oggetto di incisione».
I maggiori valori soggetti all’imposta sostitutiva deriverebbero, inoltre, da un aumento del capitale della Banca d’Italia realizzato – ai sensi dell’art. 4, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito – mediante l’utilizzo di riserve statutarie costituite da utili già tassati presso la stessa Banca d’Italia, come emerge dai bilanci di tale istituto, che nel 2013, ad esempio, ha versato imposte pari a oltre il 35 per cento degli utili lordi. L’imposta sostitutiva censurata realizzerebbe pertanto una «doppia tassazione della medesima ricchezza», una prima volta degli utili prodotti dalla Banca d’Italia, e una seconda volta assoggettando i partecipanti al suo capitale a una nuova imposta sui maggiori valori nominali delle loro partecipazioni.
Verrebbe così «spezzato il rapporto di razionalità e coerenza sistematica che deve sussistere tra imposizione (anche sostitutiva) e capacità contributiva» e si sottoporrebbero i detentori di partecipazioni al capitale della Banca d’Italia a una «inaccettabile svantaggiosa discriminazione», sottraendo loro «una ricchezza che l’erario ha già inciso».
1.4.– La norma si porrebbe in contrasto con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza sanciti all’art. 3 Cost.
L’«obbligo di riclassificazione solo fiscale» delle partecipazioni al capitale della Banca d’Italia nel comparto, non corrispondente alle loro caratteristiche, delle «attività finanziarie detenute per la negoziazione» (cosiddetto “portafoglio di trading”) determinerebbe l’ingiustificato assoggettamento di tali partecipazioni a un regime fiscale deteriore rispetto a quello delle partecipazioni non detenute per la negoziazione, «sfavorendone l’acquisto e la detenzione».
Il rimettente ricorda che, in base a quanto previsto dall’art. 87 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, recante «Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi», le partecipazioni non detenute per la negoziazione beneficiano del regime di esenzione nella misura del 95 per cento delle plusvalenze realizzate (cosiddetta “participation exemption” o “PEX”).
L’imposta sostitutiva censurata comporterebbe dunque «un aggravio e non un risparmio d’imposta» a carico dei partecipanti al capitale della Banca d’Italia, che sarebbero «chiamati a contribuire in misura di gran lunga maggiore» rispetto agli altri contribuenti detentori di partecipazioni societarie iscritte tra le «immobilizzazioni finanziarie».
1.5.– Sarebbe violato anche l’art. 41 Cost., per grave lesione della libertà di iniziativa economica privata.
Il rimettente ripropone sul punto considerazioni già svolte, osservando che sarebbe «sottoposta a tassazione immediata, ad aliquota appena inferiore a quella piena, una ricchezza che, secondo le regole applicabili alla generalità dei contribuenti e necessarie al corretto funzionamento dei principi su cui poggia l’ordinamento tributario, sarebbe rilevata solo al (suo) realizzo effettivo e nella limitata misura del 5%».
1.6.– Sarebbe violato, inoltre, il principio del legittimo affidamento nella certezza dell’ordinamento giuridico, in relazione al quale il rimettente invoca gli artt. 3, 41 e 53 Cost.
Rileverebbero in tale senso, sia la «forzosa esclusione» dal regime fiscale PEX di una ricchezza, pari al maggior valore delle partecipazioni al capitale della Banca d’Italia, «insorta/maturata» prima dell’introduzione del «censurato intervento normativo»; sia la «immotivata ridefinizione sostanziale» dell’imposta sostitutiva a opera dell’art. 4, comma 12, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, che ha innalzato l’aliquota dal 12 al 26 per cento e ha eliminato la rateazione.
La «disattivazione» della PEX avrebbe comportato la «inaspettata introduzione di un trattamento fiscale deleterio, del tutto inverso e irrispettoso del regime che l’ordinamento aveva razionalmente stabilito per l’incremento di valore conseguito sino al 31.12.2013 dalle partecipazioni» in esame. L’illegittimità dell’intervento legislativo risulterebbe evidente considerando l’irrazionale diversità di trattamento fra il partecipante al capitale della Banca d’Italia che avesse realizzato la plusvalenza entro il 31 dicembre 2013, potendo così beneficiare della PEX, e quello che, avendo conservato la partecipazione per realizzare la medesima ricchezza successivamente, è per ciò solo gravato da un’imposizione del 26 per cento.
La tutela del legittimo affidamento del contribuente a vedersi applicato il regime fiscale originario si desumerebbe da quanto previsto all’art. 4 del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 8 giugno 2011, recante «Disposizioni di coordinamento tra i principi contabili internazionali, di cui al regolamento (CE) n. 1606/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 luglio 2002, adottati con regolamento UE entrato in vigore nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2009 e il 31 dicembre 2010, e le regole di determinazione della base imponibile dell’IRES e dell’IRAP, previste dall’articolo 4, comma 7-quater, del decreto legislativo 28 febbraio 2005, n. 38», che, nel disciplinare la riclassificazione degli strumenti finanziari per i soggetti che redigono i propri bilanci in conformità ai principi contabili internazionali (cosiddetti “IAS adopters”), stabilisce che tali riclassificazioni, pur potendo comportare il passaggio da un regime (PEX) a un altro (tassazione ordinaria), attribuiscono rilievo fiscale alle plusvalenze secondo la disciplina fiscale applicabile allo strumento finanziario prima della riclassificazione.
1.7.– Infine, il giudice a quo lamenta la violazione del principio di «inviolabilità» della proprietà privata, sancito all’art. 42 Cost., per il «sostanziale effetto ablatorio» prodotto dalle norme censurate attraverso «una mera spoliazione patrimoniale». Questo sarebbe il loro scopo, non di incidere su una nuova ricchezza (cioè una ricchezza «non già rilevata ai fini dell’imposizione»), ma di acquisire all’erario, per far fronte a indefinite esigenze finanziarie dello Stato, parte del patrimonio dei partecipanti al capitale della Banca d’Italia alla data del 31 dicembre 2013.
2.– Con atto depositato il 16 luglio 2022 si è costituita in giudizio Generali Italia spa, parte del giudizio a quo, che ha concluso per l’accoglimento delle questioni.
2.1.– La parte riassume i termini della vicenda oggetto del giudizio a quo e ricostruisce diffusamente il regime contabile e fiscale a essa applicabile, in quanto impresa assicurativa che, non essendo tenuta ex lege all’adozione dei principi contabili internazionali, redige i bilanci secondo i principi contabili nazionali (cosiddetti “OIC”).
Dopo aver precisato che la Banca d’Italia è soggetta a IRES e IRAP, Generali Italia spa si sofferma sui temi: dell’irrilevanza dei plusvalori non realizzati, dei regimi fiscali dipendenti dalle classificazioni di bilancio e della immodificabilità del regime fiscale a seguito delle riclassificazioni.
La regola dell’«[i]rrilevanza dei plusvalori non realizzati», applicabile ai cosiddetti “OIC adopters”, si ricaverebbe dagli artt. 85, 86 e 87 t.u. imposte redditi, che disciplinano le sorti fiscali delle partecipazioni detenute, sia durevolmente che per la negoziazione, dai soggetti IRES. Essa consisterebbe nella irrilevanza fiscale delle plusvalenze iscritte (quindi di tipo esclusivamente valutativo) e non ancora realizzate, collegandosi «al principio generale del “possesso” del reddito, ossia di rilevanza della ricchezza in sede di sua effettiva apprensione da parte del contribuente». Un’eccezione alla regola sarebbe rappresentata dalla rivalutazione opzionale dei beni d’impresa avente rilievo fiscale, accordata in alcuni casi dal legislatore dietro pagamento di un’imposta sostitutiva ad aliquota ridotta rispetto all’ordinaria; la razionalità di tale particolare istituto, peraltro, riposerebbe sul carattere facoltativo della rivalutazione fiscale, affidata alla libera scelta del contribuente di sottoporsi a un’imposta sostitutiva nonostante manchi, senza la realizzazione di plusvalenze, una base imponibile cui applicare l’imposta sostituita.
I «[r]egimi fiscali dipendenti dalle classificazioni di bilancio» si “biforcherebbero” nel modo seguente:
– le partecipazioni iscritte come destinate alla negoziazione (non immobilizzate) o iscritte tra le immobilizzazioni, ma non aventi i «requisiti di accesso» alla PEX, sarebbero soggette al regime della tassazione piena in caso di “realizzo”, considerando il differenziale positivo come un ricavo (per le prime: art. 85, comma 1, lettera c, t.u. imposte redditi) o come una plusvalenza patrimoniale (corrispettivo meno valore fiscale) che concorre alla formazione del reddito (per le seconde: art. 86 t.u. imposte redditi);
– le partecipazioni iscritte tra le immobilizzazioni e aventi i «requisiti di accesso» alla PEX sarebbero invece soggette al regime di esenzione delle plusvalenze realizzate nei limiti del 95 per cento (art. 87 t.u. imposte redditi).
La razionalità intrinseca e il carattere necessario del sistema – e di conseguenza la irragionevolezza e arbitrarietà di interventi legislativi che, come quello censurato, ne disattivano il funzionamento – si coglierebbero considerando che il regime di esenzione deriva dall’esigenza di evitare la doppia tassazione della medesima ricchezza, in quanto il plusvalore realizzato in occasione della cessione di una partecipazione è costituito da utili che, già conseguiti o conseguibili in futuro dalla partecipata, hanno scontato o sconteranno in via definitiva le imposte presso il soggetto che li ha prodotti.
Quanto all’IRAP, la plusvalenza in questione, anche se iscritta nel conto economico tra i proventi, per effetto della classificazione nel portafoglio di trading imposta dalla normativa censurata, non avrebbe comunque concorso alla formazione della relativa base imponibile, essendo inserita in una voce dello stesso conto economico diversa da quelle che rilevano ai fini IRAP, ai sensi dell’art. 7 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 (Istituzione dell’imposta regionale sulle attività produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell’Irpef e istituzione di una addizionale regionale a tale imposta, nonché riordino della disciplina dei tributi locali).
In base alla regola dell’«[i]mmodificabilità del regime fiscale a seguito delle riclassificazioni» – funzionale al corretto funzionamento del sistema di tassazione, in quanto diretta a impedire decisioni arbitrarie del contribuente sul trattamento applicabile – le eventuali riclassificazioni delle partecipazioni, operate nel bilancio dopo l’ingresso in un determinato regime fiscale, non sarebbero idonee a modificare tale regime. In applicazione di tale regola, l’art. 87 t.u. imposte redditi cristallizza nel regime PEX le partecipazioni iscritte nel primo bilancio tra le immobilizzazioni finanziarie, anche se successivamente riclassificate tra quelle destinate alla negoziazione. E d’altro canto, dipendendo, secondo i principi contabili, la classificazione delle partecipazioni in bilancio dalla loro effettiva e concreta destinazione, una corretta classificazione ha un ruolo decisivo nell’individuazione del regime fiscale applicabile.
2.2.– Generali Italia spa illustra di seguito il contenuto delle disposizioni censurate, richiamando anche l’interpretazione che ne ha dato l’Agenzia delle entrate – secondo cui la collocazione delle quote di nuova emissione nel portafoglio di trading avrebbe una valenza solo fiscale, indipendente dall’impostazione di bilancio, e comporterebbe un disallineamento tra il maggior valore nominale della partecipazione e quello fiscalmente riconosciuto, che l’applicazione dell’imposta sostituiva provvede a riallineare – e passa quindi a trattare delle singole questioni.
2.3.– Quanto alla violazione degli artt. 3, 41 e 53 Cost., la parte aderisce ai motivi di censura esposti dal rimettente con riguardo sia all’ipotizzata doppia tassazione della medesima ricchezza, sia al carattere discriminatorio del trattamento riservato ai partecipanti al capitale della Banca d’Italia rispetto a quello previsto per gli «omologhi partecipanti al capitale sociale della generalità degli enti economici e delle società commerciali».
A vantaggio di questi ultimi, infatti, non solo è mantenuto il regime PEX, ma è offerto, dalla stessa legge n. 147 del 2013 (ai commi da 140 a 147 dell’art. 1), un regime opzionale di rivalutazione delle partecipazioni ai fini fiscali, con un’imposta sostitutiva del 12 per cento da versare in tre rate annuali.
Tra le due categorie di partecipazioni non esisterebbero elementi di disomogeneità idonei a giustificare il diverso trattamento censurato. Il regime PEX è riconosciuto, infatti, dall’art. 87 t.u. imposte redditi, sulle plusvalenze da “realizzo” di ogni partecipazione in enti economici soggetti (come la Banca d’Italia) a IRES. Inoltre, la detenzione di partecipazioni immobilizzate “plusvalenti”, in quanto tale inidonea a rivelare una capacità contributiva, non costituirebbe un fatto specifico dei partecipanti al capitale della Banca d’Italia.
Il trattamento denunciato dal rimettente sconfinerebbe nell’arbitrio e nell’irragionevolezza, apparendo unicamente finalizzato a soddisfare straordinarie esigenze finanziarie dello Stato, a cui si sarebbe dovuto far fronte con il ricorso all’incremento temporaneo dell’aliquota IRES o agli acconti d’imposta, strumenti entrambi rispettosi del principio della «universalità contributiva».
Nell’attuare un «prelievo multiplo» sulla medesima ricchezza, le norme censurate violerebbero anche il principio di ragionevolezza intrinseca della legge. Sarebbe manifestamente irragionevole, infatti, incidere più volte sugli utili prodotti dalla Banca d’Italia, in una misura complessiva che finirebbe per essere ampiamente superiore al 50 per cento, a fronte di aliquote ordinarie sulle società che si aggirano intorno al 33 per cento (27,5 per cento IRES e 5-6 per cento IRAP).
Tali ragioni di illegittimità costituzionale varrebbero anche per l’art. 1, comma 148, della legge n. 147 del 2013, nel testo originario. L’unica differenza sostanziale tra i due «complessi normativi» consisterebbe solo nel «più elevato grado di iniquità» dell’assetto definitivo, che prevede un’aliquota aumentata al 26 per cento e termini di pagamento inferiori a sessanta giorni, sotto quest’ultimo profilo in contrasto anche con l’art. 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente).
2.4.– Anche per quanto riguarda la violazione dei principi del legittimo affidamento e della tutela della proprietà privata (artt. 3, 41 e 42 Cost.), Generali Italia spa aderisce alle ragioni esposte dal rimettente, riproponendone e sviluppandone le argomentazioni.
Sulla lamentata retroattività, in particolare, è censurato l’improvviso mutamento dell’aliquota dal 12 al 26 per cento, attuato dall’art. 4, comma 12, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, in relazione a «un imponibile già insorto» e in spregio al principio che esige la conoscenza anticipata da parte del contribuente dell’entità dell’imposizione. Sarebbe stata così «frustrata» la prudenziale condotta di Generali Italia spa, che aveva accantonato, nel bilancio al 31 dicembre 2013, le risorse necessarie ad assolvere all’imposta sostitutiva nella misura del 12 per cento in tre rate annuali, e messa in crisi la programmazione delle uscite di cassa, necessaria per un’equilibrata gestione delle attività della società.
A sostegno delle sue censure, la parte richiama di nuovo l’art. 3 della legge n. 212 del 2000, secondo il cui comma 1 «le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo».
3.– Con atto depositato il 19 luglio 2022 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la manifesta infondatezza delle questioni.
3.1.– Dopo avere ricostruito il quadro normativo, mettendo in evidenza le finalità della riforma dell’assetto partecipativo al capitale della Banca d’Italia, e avere illustrato l’evoluzione del regime fiscale delle partecipazioni in esame, la difesa erariale si sofferma sui caratteri del tutto peculiari di tali partecipazioni. Peculiarità che non consentirebbero di assumere gli istituti fiscali richiamati dal rimettente, e segnatamente la PEX, a parametri di riferimento nel presente giudizio di legittimità costituzionale, se non altro perché, per effetto della classificazione fiscale delle quote del capitale della Banca d’Italia come titoli non immobilizzati disposta dall’art. 6, comma 6, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito, il regime a essi applicabile sarebbe quello di tassazione ordinaria dei ricavi, e non quello di esenzione delle plusvalenze da “realizzo” di partecipazioni immobilizzate.
Le censure muoverebbero dall’erroneo presupposto che la Banca d’Italia sia una normale società di capitali e che la posizione dei partecipanti al suo capitale sia assimilabile a quella dei soci di diritto comune, anche sotto il profilo del regime fiscale applicabile. Mentre si sarebbe qui in presenza di particolari quote di partecipazione (non riconducibili alle categorie delle azioni, delle obbligazioni o di altri strumenti finanziari), di cui l’intervento legislativo – pur senza risolvere i dubbi sulla loro effettiva natura giuridica – innova il regime fiscale, modificando i diritti dei partecipanti.
L’Avvocatura sottolinea che le quote di nuova emissione, da iscrivere ex novo in bilancio ai sensi dell’art. 6, comma 6, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito, sarebbero state acquisite in sostituzione delle precedenti e non per effetto di un comune aumento gratuito di capitale.
Anche i poteri dei soci delle società di capitali e quelli dei partecipanti al capitale della Banca d’Italia sarebbero radicalmente diversi, come emergerebbe dal confronto, su cui l’interveniente si diffonde, tra le norme civilistiche e quelle che regolano la struttura della Banca d’Italia, con particolare riferimento all’atto costitutivo, allo statuto, all’oggetto sociale, all’estinzione della società, al rischio d’impresa e ai poteri dei soci in sede di approvazione del bilancio e di ripartizione degli utili.
A fronte di tali profonde differenze, secondo l’Avvocatura non è corretto ricondurre le vicende relative al capitale della Banca d’Italia (ente pubblico a struttura partecipativa) allo schema ordinario del rapporto tra soci e società di capitali, e pretendere che le relative partecipazioni siano assoggettate al trattamento fiscale delle ordinarie partecipazioni societarie.
Sarebbe decisiva, in particolare, la considerazione che gli utili della Banca d’Italia, con i quali sono alimentate le riserve nel rispetto delle previsioni statutarie, traggono origine dall’esercizio delle attività di interesse pubblico svolte dalla Banca in base alla legge e in regime di esclusività. La peculiare natura degli utili e la loro stretta connessione con le funzioni pubblicistiche della Banca d’Italia giustificherebbero il riconoscimento al legislatore di un’ampia discrezionalità nella definizione del loro regime fiscale.
Nel legittimo esercizio di tale discrezionalità, il legislatore avrebbe dunque assimilato il regime fiscale delle quote di partecipazione alla Banca d’Italia, emesse a seguito di un aumento di capitale realizzato con l’utilizzo di riserve che partecipano della stessa natura degli utili, a quello dei titoli iscritti nel portafoglio di trading.
La sottrazione delle quote al regime PEX non sarebbe irragionevole, tenuto conto che tale regime, sia pure diretto a evitare la doppia tassazione, non si applica indistintamente a tutte le partecipazioni, ma solo a quelle che presuppongono un legame tra il socio e la società tale da far ritenere che il primo abbia investito nella seconda per ritrarne redditi assumendosi il rischio d’impresa. Ciò che si desumerebbe da alcuni dei requisiti richiesti dall’art. 87 t.u. imposte redditi, quali l’ininterrotto possesso delle partecipazioni per almeno dodici mesi prima della cessione e la loro iscrizione nel primo bilancio tra le immobilizzazioni.
Queste conclusioni sarebbero confermate dalla ratio dell’esenzione delle plusvalenze che ispira la PEX, che è quella di consentire i riassetti delle partecipazioni di gruppi societari e di holding, resi così liberi di gestire i propri portafogli senza generare carichi fiscali. Finalità, questa, non rilevante nel caso delle partecipazioni al capitale della Banca d’Italia.
3.2.– L’imposta sostitutiva in esame non appare comunque, secondo l’interveniente, priva di collegamenti con un presupposto economico, onde non violerebbe il principio della capacità contributiva.
La genesi dell’imposta sarebbe connessa alla riforma dei criteri di remunerazione delle quote di partecipazione alla Banca d’Italia e al loro nuovo regime di circolazione, ora tendenzialmente libero. Le quote stesse, come visto, sono iscritte nei bilanci dei partecipanti come nuovi titoli, il cui maggior valore comporta per la ricorrente nel giudizio a quo l’iscrizione a conto economico di un utile da “realizzo” pari a circa 290 milioni di euro, idoneo a concorrere a determinare l’utile di esercizio distribuibile ai soci.
Dai maggiori valori iscritti a bilancio emergerebbe perciò un indice di capacità contributiva a cui commisurare il carico d’imposta. La soluzione sarebbe in linea con il costante orientamento di questa Corte secondo cui l’ampia discrezionalità riservata al legislatore in relazione alle varie finalità cui, di volta in volta, si ispira l’attività di imposizione fiscale consente, sia pure con il limite della non arbitrarietà, di determinare i singoli fatti espressivi della capacità contributiva (è citata la sentenza di questa Corte n. 10 del 2015).
La difesa erariale ricorda altresì che, sempre secondo la costante giurisprudenza costituzionale, il legislatore, nell’assumere un determinato presupposto economicamente valutabile quale indice di nuova capacità contributiva in riferimento solo a determinati soggetti, deve considerare l’insieme degli interventi legislativi che hanno complessivamente accompagnato quello censurato (è citata la sentenza n. 288 del 2019, relativa all’addizionale IRES disposta a carico delle imprese bancarie e assicurative dall’art. 2, comma 2, dello stesso d.l. n. 133 del 2013, come convertito).
La possibilità di istituire un’imposta sostitutiva dell’IRES, dell’IRAP e di eventuali addizionali, con la conseguente “disattivazione” della PEX, non sarebbe dunque preclusa a priori, potendo trovare giustificazione nel quadro di scelte “compensative” operate non irragionevolmente dal legislatore. Scelte individuabili, come visto, per un verso nel mutamento dei diritti economici dei partecipanti, prima limitati a una quota irrisoria degli utili e a un importo aggiuntivo commisurato ai frutti delle riserve, comunque destinati in gran parte ad alimentare le riserve stesse; per altro verso, nella creazione di un mercato delle quote, attraverso l’ampliamento della platea dei potenziali acquirenti e la riduzione della concentrazione delle quote in capo a pochi partecipanti.
Si dovrebbe inoltre considerare che l’aumento di capitale è stato eseguito con l’utilizzo di riserve che non sono nella disponibilità dei partecipanti. Non irragionevolmente, dunque, il legislatore avrebbe escluso la PEX e previsto un’imposta sostitutiva straordinaria, «in contropartita dell’aumento, egualmente straordinario, del capitale della Banca, realizzato con l’impiego di riserve accumulate con utili netti su cui i partecipanti non avrebbero potuto vantare diritti economici».
In altri termini, l’aumento di capitale avrebbe rappresentato un modo per far transitare le riserve nel capitale e da lì, in termini economici, nella sfera dei partecipanti. Tale esito giustificherebbe il trattamento fiscale prescelto, tenuto conto delle «innegabili ripercussioni in termini di maggiore solidità patrimoniale dei soggetti che di tale istituto detengono le quote, ciò comportando un miglioramento del loro rating nei confronti degli investitori, nazionali ed esteri».
Inoltre, l’aumento di capitale, e il conseguente aumento di valore delle singole quote, avrebbe utilizzato una ricchezza che, per quanto preesistente e già tassata presso la Banca d’Italia, non si potrebbe ritenere già esistente in capo ai partecipanti neppure in termini economici, a differenza delle riserve costituite nei bilanci delle società commerciali, che possono sempre essere distribuite ai soci. Ciò, sotto il profilo sostanziale, escluderebbe la violazione del divieto di doppia imposizione lamentata dal rimettente. Tale divieto, peraltro, esprimerebbe un mero «valore orientativo», rilevante soltanto nell’ambito del reddito d’impresa e anche in tale ambito non in tutte le fattispecie, come dimostra l’ipotesi della doppia tassazione dei dividendi percepiti dai soggetti IAS adopters su titoli detenuti in un portafoglio non immobilizzato.
3.3.– Le stesse considerazioni varrebbero a escludere anche la violazione dell’art. 41 Cost. La peculiare natura dell’investimento in quote di capitale della Banca d’Italia potrebbe giustificare un trattamento fiscale che non lede, per il solo fatto di essere differenziato, la libertà di iniziativa economica.
Quanto alla pretesa violazione dell’art. 42 Cost., il lamentato effetto ablatorio della proprietà privata dovrebbe parimenti essere escluso, una volta riconosciuto legittimo l’esercizio della discrezionalità legislativa.
3.4.– Quanto alla lesione del legittimo affidamento, l’Avvocatura ritiene che le norme censurate non siano retroattive, giacché, pur applicandosi a presupposti d’imposta sorti prima della loro entrata in vigore, nell’anno 2013, sarebbero state introdotte in epoca anteriore sia al «momento di liquidazione dell’imposta» (da identificare con quello di presentazione della dichiarazione dei redditi: 30 settembre 2014), sia alla data fissata per il suo versamento (16 giugno 2014), dunque in pendenza del rapporto tributario, senza che dunque si possa ritenere che si sia formato un legittimo affidamento in capo al contribuente.
In ogni caso, nemmeno un’eventuale retroattività – comunque non preclusa alle leggi tributarie – avrebbe determinato una lesione della capacità contributiva, non essendosi spezzato il rapporto che deve sussistere tra imposizione e capacità stessa.
3.5.– La difesa erariale si sofferma infine sulle «ripercussioni economiche» di un’eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale. Le somme versate a titolo di imposta sostitutiva oggetto della richiesta di rimborso ammonterebbero all’incirca a euro 1.300.000.000. In caso di rimborso resterebbe da versare l’imposta sulle plusvalenze da “realizzo”, con importi notevolmente variabili a seconda che, sulla base della sentenza di questa Corte, sia applicabile o meno il regime PEX.
Una pronuncia di accoglimento potrebbe inoltre indirettamente incidere sul trattamento fiscale dei dividendi percepiti dai partecipanti IAS adopters, come le banche, che non sarebbero più soggetti a IRES sull’intero, ma solo sul cinque per cento.
4.– Nel giudizio è intervenuta ad adiuvandum, con atto depositato il 18 luglio 2022, Banca Carige spa – Cassa di Risparmio di Genova e Imperia (di seguito: Banca Carige), società incorporante Cassa di Risparmio di Carrara spa, già titolare di quote del capitale della Banca d’Italia.
Banca Carige si afferma legittimata a intervenire per il fatto di avere instaurato un diverso giudizio tributario avente analogo oggetto, al fine di ottenere il rimborso del prelievo della cui legittimità costituzionale si controverte in questa sede.
Secondo la interveniente, la completa assimilazione della sua posizione a quella di Generali Italia spa, parte del giudizio a quo, la renderebbe titolare di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio, giacché la definizione della questione di legittimità costituzionale risolverebbe direttamente e immediatamente anche la controversia di cui essa è parte.
4.1.– Nel merito, l’interveniente ricostruisce il quadro normativo di riferimento e svolge diffuse considerazioni adesive delle ragioni esposte dal rimettente, aggiungendo, sulla lamentata violazione dell’art. 42 Cost., che l’incremento dell’aliquota dal 12 al 26 per cento e l’eliminazione del pagamento rateale, disposti dall’art. 4, comma 12, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, violerebbero anche l’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in assenza di motivi imperativi di interesse generale idonei a giustificare l’imposizione.
5.– Banca Carige ha depositato il 6 marzo 2023 una memoria illustrativa, nella quale precisa di avere medio tempore proposto appello avverso la sentenza di primo grado di rigetto della sua istanza, e, nel merito, replica alle difese svolte dal Presidente del Consiglio dei ministri.
6.– Anche Generali Italia spa ha depositato, il 14 marzo 2023, una memoria illustrativa, in cui replica alle difese del Presidente del Consiglio dei ministri.
Queste non si confronterebbero con il vincolo di coerenza sistematica che limita la discrezionalità del legislatore. Una volta individuato discrezionalmente il presupposto economico dell’imposizione e il modello di tassazione della ricchezza, il prelievo dovrebbe comunque essere coerente con tali scelte, e non potrebbe «svantaggiare» i contribuenti che soddisfino tutti i presupposti applicativi del modello di tassazione adottato, pena la violazione dei parametri costituzionali invocati dal rimettente.
Il sistema di tassazione della ricchezza prodotta dagli enti commerciali prescelto dal legislatore individuerebbe nel regime di participation exemption dall’IRES un «portato fondamentale dell’ordinamento tributario». Tale regime, pacificamente applicabile, in assenza della novella censurata, anche alle partecipazioni al capitale della Banca d’Italia, prescinderebbe dalla possibile diversa natura degli enti partecipati (purché essi svolgano, come la Banca d’Italia, attività commerciale) e dalle peculiari regole di formazione della loro base imponibile ai fini IRES (che per la Banca d’Italia sono contenute nell’art. 114 t.u. imposte redditi) e interesserebbe tutte le partecipazioni di qualsiasi natura detenute durevolmente da soggetti IRES, purché esse garantiscano una remunerazione derivata esclusivamente dalla partecipazione ai risultati economici dell’emittente.
Si tratterebbe dunque di una regola di «imprescindibile razionalità», in base alla quale la ricchezza prodotta da un soggetto IRES rappresenta una capacità economica unitaria anche quando fluisce in capo al partecipante, e su tale flusso unico di capacità economica non devono gravare più livelli impositivi a titolo di IRES.
La PEX costituirebbe pertanto il regime appropriato per le partecipazioni in Banca d’Italia, né le peculiarità descritte dal Presidente del Consiglio dei ministri (attinenti alle funzioni dell’istituto e ai caratteri dei diritti economici e amministrativi dei partecipanti al capitale) sono idonee a giustificare una distinzione tra la vasta schiera di enti partecipati (soggetti a IRES) e l’altrettanto ampia gamma di strumenti partecipativi.
Quanto all’argomento dell’assenza di un «rischio d’impresa» da parte dei partecipanti al capitale della Banca d’Italia, la parte osserva che il regime PEX non sarebbe un «premio» per chi rischia, ma un istituto confacente alle variegate ipotesi in cui il reddito, che ha già «scontato» l’IRES, «venga nuovamente ad esprimersi sul partecipante (di lungo corso)».
Il trattamento delle partecipazioni in esame come destinate al trading, con esclusione della PEX – e la doppia tassazione della stessa ricchezza –, non sarebbe giustificato dalle modifiche statutarie introdotte a seguito della riforma del capitale. Tali modifiche non avrebbero inciso sugli elementi da cui dipende l’applicazione del regime di esenzione ex art. 87 t.u. imposte redditi, sicché sarebbe irragionevole sottoporre i partecipanti al capitale della Banca d’Italia a un prelievo straordinario che non colpisce coloro che partecipano ad altri soggetti IRES.
Non sussisterebbero neppure gli indici di una nuova capacità contributiva individuati dal Presidente del Consiglio dei ministri. A nulla rileverebbe, infatti, l’iscrizione della plusvalenza a conto economico tra i ricavi, dovuta alla discontinuità fra nuove e vecchie partecipazioni, in quanto ai fini fiscali il provento da “realizzo” avrebbe dovuto sottostare al regime di esenzione, in assenza delle disposizioni censurate.
Quanto all’argomento secondo cui l’aumento di capitale sarebbe stato attuato mediante utilizzo di riserve sulle quali i partecipanti non potevano vantare diritti, la parte osserva che, da un lato, le riserve non apparterrebbero comunque allo Stato, ma al patrimonio della Banca d’Italia, e che, dall’altro lato, l’operazione non avrebbe portato nella sfera economica dei partecipanti alcuna ricchezza ad essi prima non spettante, in quanto «in ogni caso (stante l’attuale od il vecchio Statuto), i partecipanti non possono apprendere le riserve ne´ tanto meno il capitale sociale di Banca d’Italia». All’epoca dei fatti, peraltro, la stessa Banca d’Italia avrebbe smentito che la riforma comportasse un arricchimento dei partecipanti (è citato il documento intitolato «Conseguenze per la Banca d’Italia della legge 29 gennaio 2014, n. 5»). Sicché il miglioramento di un indice patrimoniale non sarebbe espressione di nuova ricchezza, ma si limiterebbe a «rappresentare i valori effettivi della situazione di fatto esistente ante novella».
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 74 del 2022), la Commissione tributaria provinciale di Trieste, sezione seconda, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 6, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito, in combinato disposto con l’art. 1, comma 148, della legge n. 147 del 2013, quest’ultimo sia come sostituito dall’art. 4, comma 12, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, sia nella versione originaria, in riferimento agli artt. 3, 41, 42 e 53 Cost.
Le questioni sono sorte nel corso di un giudizio promosso da Generali Italia spa contro il silenzio-rifiuto dell’Agenzia delle entrate – Direzione regionale Friuli-Venezia Giulia all’istanza di rimborso della somma versata, a seguito dell’aumento del capitale della Banca d’Italia, e per effetto della conseguente rivalutazione delle relative quote, a titolo di imposta sostitutiva delle imposte sui redditi delle società (IRES), dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) e di eventuali addizionali, in base a quanto previsto dall’art. 1, comma 148, della legge n. 147 del 2013, nel testo introdotto dall’art. 4, comma 12, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito.
1.1.– Sulla rilevanza, il rimettente osserva che il giudizio a quo non potrebbe essere definito senza fare applicazione del combinato disposto dell’art. 6, comma 6, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito, e dell’art. 1, comma 148, della legge di stabilità 2014, quest’ultimo sia nel testo sostituito dall’art. 4, comma 12, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito (che ha elevato l’aliquota dell’imposta al 26 per cento ed eliminato il pagamento rateizzato), sia nel testo originario (che prevedeva l’aliquota del 12 per cento e il pagamento rateale).
A quest’ultimo riguardo, assume, in particolare, che la previsione dell’imposta sostitutiva sarebbe costituzionalmente illegittima anche nel testo originario – per quanto in esso presentasse un’aliquota inferiore e più favorevoli modalità di pagamento – per vizi analoghi a quelli che inficiano l’imposta stessa nella sua configurazione finale, che semplicemente ne acuirebbe e incrementerebbe i profili di illegittimità costituzionale. Con la conseguenza che l’eventuale «caducazione dell’art. 4, co. 12, DL 66/2014, verso cui il [...] ricorso muove, potendo dare luogo alla r[e]viviscenza del co. 148 dell’art. 1, L. 147/2013 nel testo originale, rende[rebbe] necessario chiarire come anche la norma sostituita sia in contrasto con la Costituzione».
1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo ritiene che le norme censurate violino, in primo luogo, l’art. 53 Cost., per mancanza dell’elemento della «capacità contributiva effettiva».
Non solo, infatti, nessuna capacità contributiva potrebbe sussistere «in assenza del materiale apprendimento della ricchezza oggetto di incisione», ma i maggiori valori soggetti all’imposta sostitutiva deriverebbero da un aumento del capitale della Banca d’Italia (di seguito, anche: Banca) realizzato – ai sensi dell’art. 4, comma 2, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito – mediante l’utilizzo di riserve statutarie costituite da utili già tassati presso la stessa Banca, con la conseguenza di una «doppia tassazione della medesima ricchezza».
Sarebbe altresì violato l’art. 3 Cost., per lesione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, in quanto la «previsione di un obbligo di riclassificazione solo fiscale» delle partecipazioni al capitale della Banca d’Italia nel comparto delle attività finanziarie detenute per la negoziazione determinerebbe l’ingiustificato assoggettamento di tali partecipazioni a un regime fiscale deteriore rispetto a quello delle partecipazioni finanziarie non detenute per la negoziazione, che beneficiano del regime di esenzione, nei limiti del 95 per cento delle plusvalenze realizzate, previsto dall’art. 87 t.u. imposte redditi (cosiddetta “participation exemption” o “PEX”). In conseguenza di ciò, i partecipanti al capitale della Banca sarebbero «chiamati a contribuire in misura di gran lunga maggiore» di quanto non siano gli altri detentori di partecipazioni societarie iscritte tra le «immobilizzazioni finanziarie», subendo «un trattamento svantaggioso e gravemente discriminatorio rispetto a quello riservato agli omologhi partecipanti al capitale sociale della generalità degli enti e società commerciali».
Sussisterebbe anche una grave lesione della libertà di iniziativa economica privata garantita dall’art. 41 Cost., in quanto sarebbe «sottoposta a tassazione immediata, ad aliquota appena inferiore a quella piena, una ricchezza che, secondo le regole applicabili alla generalità dei contribuenti e necessarie al corretto funzionamento dei principi su cui poggia l’ordinamento tributario, sarebbe rilevata solo al (suo) realizzo effettivo e nella limitata misura del 5%».
La normativa censurata contrasterebbe ancora con il principio del legittimo affidamento nella certezza dell’ordinamento giuridico, in relazione al quale il rimettente invoca gli artt. 3, 41 e 53 Cost. Rileverebbero in tal senso:
a) la «forzosa esclusione» dal regime PEX di una ricchezza, pari al maggior valore delle partecipazioni al capitale della Banca d’Italia, «insorta/maturata» prima dell’introduzione del «censurato intervento normativo»;
b) la «immotivata ridefinizione sostanziale» dell’imposta sostitutiva a opera dell’art. 4, comma 12, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, sotto il profilo del «grave innalzamento dell’aliquota» dal 12 al 26 per cento e dell’eliminazione della rateazione triennale, con conseguente produzione di «effetti spregiudicatamente retroattivi».
Infine, secondo il giudice a quo sarebbe leso anche il principio di «inviolabilità» della proprietà privata di cui all’art. 42 Cost., in quanto le norme censurate causerebbero «un sostanziale effetto ablatorio» attraverso «una mera spoliazione patrimoniale». Esse non sarebbero dirette a incidere su una nuova ricchezza (cioè una ricchezza «non già rilevata ai fini dell’imposizione»), ma a far acquisire all’erario parte del patrimonio dei partecipanti al capitale della Banca d’Italia alla data del 31 dicembre 2013, senza riguardo alle esigenze di contemperamento delle indefinite esigenze finanziarie dello Stato con la tutela del patrimonio di tali contribuenti.
1.3.– Nel giudizio costituzionale si è costituita Generali Italia spa, argomentando a sostegno della fondatezza delle questioni, ed è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la loro manifesta infondatezza.
È altresì intervenuta ad adiuvandum Banca Carige spa, società incorporante Cassa di Risparmio di Carrara spa, già titolare di quote del capitale della Banca d’Italia, che afferma di essere legittimata a intervenire per avere instaurato un diverso giudizio tributario di analogo oggetto al fine di ottenere il rimborso di un prelievo imposto sulla base delle stesse norme della cui legittimità costituzionale si controverte in questa sede.
2.– Prima di affrontare il merito delle questioni, occorre risolvere alcuni profili preliminari.
2.1.– Innanzitutto deve essere confermata l’inammissibilità dell’intervento di Banca Carige, per le ragioni esposte nell’ordinanza emessa all’udienza del 4 aprile 2023, allegata alla presente sentenza.
2.2.– Un secondo profilo attiene alla rilevanza della censura che investe il combinato disposto dell’art. 6, comma 6, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito, e dell’art. 1, comma 148, della legge n. 147 del 2013 nella sua versione originaria, ossia anteriore alla sua integrale sostituzione a opera dell’art. 4, comma 12, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito. Il rimettente fonda la sua censura sul duplice assunto che l’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione più recente farebbe rivivere la disposizione da essa sostituita, e che quest’ultima – sebbene preveda un’aliquota inferiore e più favorevoli modalità di pagamento – sarebbe comunque a sua volta inficiata nella sostanza dagli stessi vizi.
Il giudice a quo evoca dunque il tema della reviviscenza delle norme, rispetto al quale questa Corte ha chiarito con giurisprudenza costante che si tratta di fenomeno circoscritto a casi tassativi, corrispondenti alle ipotesi di annullamento di norme meramente abrogatrici di altre disposizioni (ex plurimis, sentenze n. 220 del 2021, n. 10 del 2018 e n. 218 del 2015), di annullamento di una disposizione legislativa per vizio procedurale (sentenze n. 95 del 2020, n. 148 e n. 23 del 2016 e n. 32 del 2014; ordinanza n. 184 del 2017) e di declaratoria di illegittimità costituzionale di singole parole di una disposizione (sentenze n. 8 del 2022, n. 106 del 2018 e n. 58 del 2006). A nessuna di queste ipotesi può essere tuttavia ricondotto il caso di specie, nel quale l’art. 4, comma 12, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, non ha disposto la mera abrogazione del comma 148, ma ne ha integralmente sostituito il contenuto, sicché l’eventuale annullamento della disposizione risultante dalla sostituzione (che neppure sarebbe limitato a singole parole, né deriverebbe da un vizio procedurale) non produrrebbe l’effetto di far tornare in vita quella precedente.
Le questioni aventi per oggetto il combinato disposto dell’art. 6, comma 6, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito, e dell’art. 1, comma 148, della legge n. 147 del 2013 nella versione originaria sono dunque inammissibili per difetto di rilevanza, posto che il giudice a quo non sarebbe comunque chiamato a farne applicazione.
2.3.– Sempre in via preliminare va dichiarata l’inammissibilità di alcune delle questioni sollevate per difetto di adeguata motivazione sulla non manifesta infondatezza.
2.3.1.– Non risulta motivata, innanzitutto, la lamentata violazione dell’art. 41 Cost. Il ricorrente assume che sarebbe lesa la libertà di iniziativa economica, in quanto verrebbe «sottoposta a tassazione immediata, ad aliquota appena inferiore a quella piena, una ricchezza che, secondo le regole applicabili alla generalità dei contribuenti e necessarie al corretto funzionamento dei principi su cui poggia l’ordinamento tributario, sarebbe rilevata solo al (suo) realizzo effettivo e nella limitata misura del 5%».
L’argomento speso, tuttavia, incentrato sul meccanismo della tassazione e sulla sua misura, non dà conto in alcun modo delle ragioni per cui la lamentata immediatezza della tassazione, con un’aliquota comunque inferiore a quella ordinaria (del 26 a fronte di quella ordinaria del 27,5 per cento), inciderebbe sulla libertà di iniziativa economica. Né tale conseguenza sarebbe, in alcun altro modo, nemmeno implicitamente desumibile dal tenore della censura.
La questione risulta dunque inammissibile alla luce dalla costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui l’ordinanza di rimessione deve contenere una «autonoma illustrazione delle ragioni per le quali la normativa censurata integrerebbe una violazione del parametro costituzionale evocato» (ex plurimis, sentenze n. 237 del 2021 e n. 54 del 2020).
2.3.2.– Alle stesse conclusioni si deve pervenire per la censura attinente alla pretesa retroattività delle disposizioni contestate, formulata nell’ambito delle più ampie questioni sollevate in riferimento agli artt. 3, 41 e 53 Cost. in tema di legittimo affidamento.
Il giudice a quo lamenta che le modifiche relative all’innalzamento dell’aliquota e alle meno favorevoli modalità di pagamento dell’imposta, apportate dall’art. 4, comma 12, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, avrebbero prodotto «effetti spregiudicatamente retroattivi», ma non chiarisce le ragioni per cui tale supposta retroattività della normativa censurata violerebbe i parametri invocati. Né, del resto, stante il principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione, è possibile colmare tali lacune facendo ricorso alle integrazioni al riguardo ricavabili dalle memorie delle parti costituite (ex plurimis, sentenze n. 237 del 2021 e n. 239 del 2019), e segnatamente alle considerazioni svolte sul tema, nel presente giudizio, da Generali Italia spa.
Sempre con riguardo alla censura attinente al principio del legittimo affidamento (per la parte residua), l’invocato parametro dell’art. 41 Cost. risulta inconferente e comunque di esso non è indicata la pertinenza, sicché la questione è in parte qua inammissibile anche sotto questo ulteriore profilo.
3.– Passando all’esame del merito delle restanti censure, è necessario dare innanzitutto brevemente conto del contesto normativo nel quale il d.l. n. 133 del 2013, come convertito, si innesta, introducendo, al Titolo II, composto dagli artt. 4, 5 e 6, una nuova disciplina del capitale della Banca d’Italia.
3.1.– A partire dalla qualificazione della Banca d’Italia come istituto di diritto pubblico, operata dall’art. 20, primo comma, del regio decreto-legge 12 marzo 1936, n. 375, recante «Disposizioni per la difesa del risparmio e per la disciplina della funzione creditizia» (in precedenza essa aveva lo status di società di diritto privato), la struttura del suo capitale, le condizioni della partecipazione ad esso nonché i diritti di natura patrimoniale e amministrativa dei partecipanti sono disciplinati dalla legge e dallo statuto della Banca stessa, secondo regole derogatorie rispetto al regime ordinario delle società di capitali.
Il valore nominale del capitale della Banca – rimasto inalterato fino all’emanazione del d.l. n. 133 del 2013, come convertito – era fissato in «trecento milioni di lire» (pari a 156.000 euro), suddiviso in «trecentomila quote di mille lire ciascuna» (0,52 euro ciascuna) (art. 20, secondo comma). Era inoltre previsto che, a fini di tutela del pubblico credito e di continuità di indirizzo dell’Istituto di emissione, le quote potessero appartenere solo a casse di risparmio, istituti di credito di diritto pubblico e banche di interesse nazionale, nonché a istituti di previdenza o di assicurazione (art. 20, terzo comma). Lo statuto della Banca stabiliva ancora che la circolazione delle quote non fosse libera, nemmeno tra i soggetti legittimati a detenerle, e che esse potessero essere trasferite solo previo consenso del Consiglio superiore della Banca, su proposta del suo Direttorio, «nel rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza dell’Istituto e della equilibrata distribuzione delle quote» (art. 3 dello statuto ante 2013).
Gli artt. 39 e 40 dello statuto prevedevano poi che ai partecipanti potessero essere distribuiti dividendi per un importo fino al 10 per cento del capitale (dunque, per un importo complessivo non superiore a 15.600 euro), oltre a una somma aggiuntiva prelevata dai frutti annualmente percepiti sugli investimenti delle riserve, non superiore al 4 per cento dell’importo delle riserve medesime.
Va ricordato infine – in quanto rilevante per la soluzione della questione – che la disciplina della Banca d’Italia assoggetta a limitazioni il diritto di voto dei partecipanti al suo capitale ed esclude che questi ultimi possano influenzare le attività istituzionali della Banca, quali la vigilanza bancaria e l’attuazione della politica monetaria.
3.2.– La riforma del 2013 – qui in esame per il trattamento fiscale riservato al disposto aumento di capitale – è intervenuta sul descritto quadro normativo, incidendo sull’assetto partecipativo al capitale della Banca come si era venuto definendo in concreto nel corso del tempo. Un assetto che, per effetto dei processi di concentrazione bancaria verificatisi già a partire dagli anni Novanta del Novecento, aveva visto crescere la percentuale detenuta dai gruppi bancari di maggiori dimensioni.
Il legislatore ha così, innanzitutto, autorizzato la Banca d’Italia ad «aumentare il proprio capitale mediante utilizzo delle riserve statutarie all’importo di euro 7.500.000.000», prevedendo altresì che «a seguito dell’aumento il capitale è rappresentato da quote nominative di partecipazione di nuova emissione, di euro 25.000 ciascuna» (art. 4, comma 2). Ha inoltre riconfigurato i diritti patrimoniali, nel senso che «[a]i partecipanti possono essere distribuiti esclusivamente dividendi annuali, a valere sugli utili netti, per un importo non superiore al 6 per cento del capitale» (art. 4, comma 3).
L’obiettivo di ridurre la concentrazione dei partecipanti al capitale della Banca è stato perseguito attraverso un triplice ordine di misure: l’ampliamento della platea dei potenziali detentori di partecipazioni, la previsione di un limite massimo di quote detenibili, una facilitazione del trasferimento delle quote.
Le quote di partecipazione al capitale possono ora essere detenute da banche aventi sede legale e amministrazione centrale in Italia, da imprese di assicurazione e riassicurazione aventi sede legale e amministrazione centrale in Italia, da fondazioni bancarie, da enti e istituti di previdenza e assicurazione aventi sede legale in Italia e da fondi pensione (art. 4, comma 4).
È stata notevolmente diluita la base partecipativa, con la previsione che «[c]iascun partecipante non può possedere, direttamente o indirettamente, una quota del capitale superiore al 3 per cento»» (limite innalzato al 5 per cento, con effetto dal 1° gennaio 2022, ai sensi dell’art. 1, commi 715 e 717, della legge 30 dicembre 2021, n. 234, recante «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024»), e che inoltre «[p]er le quote possedute in eccesso non spetta il diritto di voto ed i relativi dividendi sono imputati alle riserve statutarie della Banca d’Italia» (art. 4, comma 5).
Al fine di favorire il rispetto di tali limiti, alla Banca d’Italia è consentito di acquistare temporaneamente le proprie quote di partecipazione e stipulare contratti aventi ad oggetto le medesime, assicurando trasparenza, parità di trattamento e salvaguardia del patrimonio della Banca, con riferimento al presumibile valore di realizzo (art. 4, comma 6). Per il periodo in cui le quote restano nella disponibilità della Banca d’Italia, è previsto inoltre che il relativo diritto di voto sia sospeso e che i dividendi siano imputati alle riserve statutarie della stessa.
La riforma ha così creato un mercato secondario delle quote, favorito sia dalla possibilità di una sollecita ricollocazione attraverso la stessa Banca d’Italia, sia dalla prevista soppressione della clausola statutaria di gradimento (art. 6, comma 5, lettera d).
È stata poi espressamente abrogata la disposizione (art. 19, comma 10, della legge 28 dicembre 2005, n. 262, recante «Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari») che aveva affidato a un regolamento governativo il compito di ridefinire l’assetto proprietario della Banca d’Italia e di stabilire le modalità di trasferimento delle quote di partecipazione al suo capitale in possesso di soggetti diversi dallo Stato o da altri enti pubblici (art. 6, comma 4).
3.3.– Le disposizioni censurate disciplinano le conseguenze contabili e fiscali, per i partecipanti, dell’aumento di capitale della Banca d’Italia e sono il risultato di una complessa evoluzione legislativa.
Nel testo anteriore alla conversione in legge, l’art. 6, comma 6, del d.l. n. 133 del 2013 prevedeva che, a partire dall’esercizio in corso alla data di entrata in vigore del decreto stesso, e quindi dall’esercizio in corso al 30 novembre 2013, «i partecipanti al capitale della Banca d’Italia trasferiscono le quote, ove già non incluse, nel comparto delle attività finanziarie detenute per la negoziazione, ai medesimi valori di iscrizione del comparto di provenienza», aggiungendo che, salvo quanto appena riferito, «restano ferme le disposizioni di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 28 febbraio 2005, n. 38».
Collegandosi a tale previsione, e mentre era ancora in corso l’iter di conversione, l’art. 1, comma 148, della legge n. 147 del 2013 aveva previsto che «[a]l trasferimento previsto dal comma 6 dell’articolo 6 del decreto-legge 30 novembre 2013, n. 133, si applica l’articolo 4 del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 8 giugno 2011, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 135 del 13 giugno 2011, qualunque sia la categoria di provenienza; ai maggiori valori iscritti in bilancio per effetto del comma 6, primo periodo, dello stesso articolo 6 del citato decreto-legge n. 133 del 2013 si applica un’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive e di eventuali addizionali, con l’aliquota di cui al comma 143, da versarsi nei modi e nei termini previsti dal comma 145».
Con tali rinvii, il legislatore richiamava l’aliquota, le modalità e i termini di versamento dell’imposta sostitutiva prevista nel regime di rivalutazione facoltativa dei beni d’impresa ai fini fiscali, disciplinato ai commi da 140 a 147 dello stesso art. 1.
Per parte sua, il comma 145 prevede che «[l]e imposte sostitutive di cui ai commi 142 e 143 sono versate nel periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2013 in tre rate di pari importo, senza pagamento di interessi, di cui la prima entro il giorno 16 del sesto mese dalla fine del periodo d’imposta, la seconda entro il giorno 16 del nono mese dalla fine del periodo d’imposta e la terza entro il giorno 16 del dodicesimo mese dalla fine del periodo d’imposta». Modalità e termini analoghi (tre rate di pari importo da versare entro il 16 giugno, il 16 settembre e il 16 dicembre 2014) valevano pertanto anche per l’imposta sostitutiva in esame.
La soluzione normativa espressa negli artt. 6, comma 6, del d.l. n. 133 del 2013 e 1, comma 148, della legge n. 147 del 2013, nella versione appena riferita, muoveva dunque dall’assunto che i destinatari delle partecipazioni derivanti dall’aumento di capitale della Banca d’Italia dovessero operare una riclassificazione delle quote che già avevano iscritto nei propri bilanci. In particolare, le quote già iscritte tra le partecipazioni immobilizzate (id est, nelle “immobilizzazioni finanziarie” o in comparti assimilabili, come la categoria available for sale, a seconda dei principi contabili seguiti dai partecipanti, diversi per banche e per assicurazioni) dovevano essere riclassificate come attività finanziarie destinate alla negoziazione (cosiddetto “portafoglio di trading”).
Questa impostazione aveva manifestato criticità di varia natura, sul piano contabile e fiscale, cui si è fatto fronte in sede di conversione. L’art. 6, comma 6, del d.l. n. 133 del 2013 e` stato così riformulato: «[a] partire dall’esercizio in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto [id est, l’esercizio in corso al 30 novembre 2013], i partecipanti al capitale della Banca d’Italia iscrivono le quote di cui all’articolo 4, comma 2, nel comparto delle attività finanziarie detenute per la negoziazione, ai medesimi valori. Restano in ogni caso ferme le disposizioni di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 28 febbraio 2005, n. 38».
È questa la versione dell’art. 6, comma 6, oggetto di censura da parte del giudice a quo nel suo combinato disposto con il comma 148 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013, il quale a sua volta viene qui in considerazione – non nella versione originaria, della cui censura si è esclusa la rilevanza (vedi supra, punto 2.2. del Considerato in diritto) – ma nella sua versione definitiva.
Tale ultima versione è frutto dell’intervento legislativo operato con l’art. 4, comma 12, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, che ha sostituito il comma 148 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013 nei termini seguenti: «[a]i maggiori valori iscritti nel bilancio relativo all’esercizio in corso al 31 dicembre 2013, per effetto dell’articolo 6, comma 6, del decreto-legge 30 novembre 2013, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 gennaio 2014, n. 5, si applica un’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive e di eventuali addizionali, da versarsi in unica soluzione entro il termine di versamento del saldo delle imposte sui redditi dovute per il periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2013. Gli importi da versare possono essere compensati ai sensi del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241. L’imposta e` pari al 26 per cento del valore nominale delle quote alla suddetta data, al netto del valore fiscalmente riconosciuto. Il valore fiscale delle quote si considera riallineato al maggior valore iscritto in bilancio, fino a concorrenza del valore nominale, a partire dal periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione. Se il valore iscritto in bilancio e` minore del valore nominale, quest’ultimo valore rileva comunque ai fini fiscali a partire dallo stesso periodo d’imposta».
Rispetto alla versione precedente i profili di novità possono essere così sintetizzati: a) l’aliquota dell’imposta sostitutiva è aumentata dal 12 al 26 per cento; b) il suo versamento deve avvenire in unica soluzione (entro il 16 giugno 2014) e non più in tre rate; c) è scomparso il riferimento all’art. 4 del d.m. 8 giugno 2021; d) l’imposta sostitutiva è dovuta, a partire dal periodo d’imposta 2014, sul valore nominale delle quote di nuova emissione (25.000 euro ciascuna), al netto del precedente valore fiscale riconosciuto, a prescindere dal valore effettivamente iscritto a bilancio, se minore del primo.
3.4.– Così ripercorso l’iter della sua formazione, l’art. 6, comma 6, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito, va interpretato – in linea con la tesi sostenuta dall’Agenzia delle entrate nella circolare n. 4/E del 24 febbraio 2014 (Rivalutazione quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia – Articolo 6, comma 6, del decreto legge 30 novembre 2013, n. 133 e articolo 1, comma 148, della legge 27 dicembre 2013, n. 147) e fatta sostanzialmente propria dal rimettente – nel senso che la collocazione delle quote di nuova emissione nel portafoglio di trading in esso prevista ha una valenza solo fiscale, indipendente dall’impostazione di bilancio, e dunque a prescindere da valutazioni di carattere contabile.
Da un punto di vista esclusivamente fiscale, la disciplina inquadra le quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia nel comparto delle attività finanziarie detenute per la negoziazione e determina un disallineamento tra il maggior valore nominale della partecipazione e quello fiscalmente riconosciuto. La stessa disciplina prevede inoltre che la differenza tra i due valori venga “riallineata” con l’applicazione di un’imposta sostitutiva, caratterizzata da un’aliquota inferiore, anche se di poco, a quella applicabile in caso di tassazione ordinaria.
Occorre precisare, a questo proposito, che l’istituzione dell’imposta sostitutiva comporta la radicale inapplicabilità all’aumento di valore delle quote di capitale della Banca d’Italia del regime PEX, previsto dal citato art. 87 t.u. imposte redditi. In base ad esso sono esentate dall’imposta sul reddito nella misura del 95 per cento le plusvalenze determinate dal realizzo di «azioni o quote di partecipazioni», quando ricorrano alcune condizioni che garantiscono la natura non speculativa dell’operazione. Se tali condizioni non ricorrono, all’intera plusvalenza realizzata – pari alla differenza tra il corrispettivo conseguito e il costo fiscale riconosciuto – si continua invece ad applicare il regime di tassazione ordinaria stabilito dall’art. 86 t.u. imposte redditi.
La (parziale) esenzione assicura alle plusvalenze realizzate un trattamento fiscale simmetrico a quello dei dividendi, che non concorrono a formare il reddito della società o dell’ente ricevente, «in quanto esclusi [...] per il 95 per cento del loro ammontare» (art. 89, comma 2, t.u. imposte redditi). In entrambi i casi, la soluzione prescelta è dunque improntata, al fine di evitare la doppia imposizione, al criterio di tassazione del reddito al momento della produzione e non al momento della sua distribuzione.
L’imposta oggetto di censura colpisce per intero il maggior valore derivante dalla mera iscrizione a bilancio della rivalutazione delle quote di capitale della Banca d’Italia, mentre l’applicazione del regime ordinario – del quale il partecipante a tale capitale non può più beneficiare – comporterebbe, al momento del realizzo (eventuale) della plusvalenza, l’esenzione nella misura del 95 per cento.
3.5.– Così chiarita la portata della normativa contestata, è possibile passare all’esame delle singole censure.
3.5.1.– Le questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., per violazione del principio di capacità contributiva e dei principi di eguaglianza e ragionevolezza, sono strettamente connesse e si prestano a una trattazione unitaria, risolvendosi in sostanza in un’unica questione, con cui il rimettente lamenta:
a) l’assenza del presupposto economico dell’imposta, in quanto quest’ultima non inciderebbe su una ricchezza realmente acquisita dai partecipanti al capitale della Banca d’Italia, ricchezza che potrebbe derivare solo dalla effettiva realizzazione della plusvalenza;
b) la sottrazione delle partecipazioni in esame al regime PEX, di cui i detentori avrebbero altrimenti potuto fruire al momento del realizzo della plusvalenza;
c) la conseguente doppia tassazione economica della stessa ricchezza, che il regime PEX mira a evitare, in quanto il maggior valore delle partecipazioni corrisponderebbe a utili già tassati una prima volta presso la Banca d’Italia, che verrebbero assoggettati a imposizione una seconda volta presso i partecipanti al suo capitale;
d) l’ingiustificata disparità di trattamento fra questi ultimi e i detentori di partecipazioni durevoli in altri «enti e società commerciali» a cui si applicherebbe la PEX, trattandosi di situazioni omogenee.
Dei vari profili di quella che risulta essere, nella sostanza, un’unica censura è opportuno un esame unitario anche per la stretta connessione dei due parametri invocati: l’art. 53 Cost. costituisce infatti, per costante giurisprudenza costituzionale, espressione specifica in materia tributaria del più generale principio di eguaglianza e di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. (ex plurimis, sentenze n. 149 del 2021, n. 142 del 2014, n. 116 del 2013 e n. 111 del 1997; ordinanza n. 341 del 2000).
3.5.2.– Sempre secondo la giurisprudenza di questa Corte, per «capacità contributiva» ai sensi dell’art. 53 Cost., si deve intendere l’idoneità del soggetto all’obbligazione d’imposta, desumibile dal presupposto economico cui l’imposizione è collegata, presupposto che consiste in qualsiasi indice rivelatore di ricchezza, secondo valutazioni riservate al legislatore, salvo il controllo di legittimità costituzionale sotto il profilo della loro arbitrarietà o irrazionalità (ex plurimis, sentenza n. 42 del 1992).
In questo contesto, «al legislatore spetta un’ampia discrezionalità in relazione alle varie finalità alle quali s’ispira l’attività di imposizione fiscale, essendogli consentito, “[…] sia pure con il limite della non arbitrarietà, di determinare i singoli fatti espressivi della capacità contributiva che, quale idoneità del soggetto all’obbligazione di imposta, può essere desunta da qualsiasi indice rivelatore di ricchezza […]” (sentenza n. 111 del 1997)» (ex plurimis, sentenza n. 240 del 2017). Sicché il controllo di questa Corte sul rispetto dei menzionati principi costituzionali di cui agli artt. 3 e 53 Cost. si risolve in un giudizio sull’uso ragionevole o meno che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, diretto a verificare la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico, come pure la non arbitrarietà dell’entità dell’imposizione (ex plurimis, sentenze n. 10 del 2015, n. 142 del 2014, n. 116 del 2013, n. 223 del 2012 e n. 111 del 1997; ordinanza n. 341 del 2000).
La possibilità di imposizioni differenziate, dunque, anche se non vietata dagli artt. 3 e 53 Cost., deve pur sempre ancorarsi a una adeguata giustificazione obiettiva, la quale deve essere coerentemente, proporzionalmente e non irragionevolmente tradotta nella struttura dell’imposta (sentenze n. 10 del 2015, n. 142 del 2014 e n. 21 del 2005), e in particolare «ogni diversificazione del regime tributario, per aree economiche o per tipologia di contribuenti, deve essere supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione» (sentenza n. 10 del 2015).
In applicazione di tali principi, questa Corte aveva in precedenza affermato che, così come «l’ampia discrezionalità riservata al legislatore in relazione alle varie finalità cui, di volta in volta, si ispira l’attività di imposizione fiscale [...] consente al legislatore stesso, sia pure con il limite della non arbitrarietà, di determinare i singoli fatti espressivi della capacità contributiva», allo stesso modo «non è di per sé lesivo del principio di uguaglianza e di capacità contributiva il fatto che il legislatore individui, di volta in volta, quali indici rivelatori di capacità contributiva, le varie specie di beni patrimoniali sia di natura mobiliare che immobiliare» (sentenza n. 111 del 1997).
Lo specifico tema dell’ammissibilità delle cosiddette discriminazioni qualitative dei redditi è stato affrontato in tempi più recenti nella sentenza n. 288 del 2019, sull’imposta introdotta con l’art. 2, comma 2, dello stesso d.l. n. 133 del 2013, come convertito, che, in via straordinaria e temporanea, ha gravato di una «addizionale» IRES le imprese creditizie, finanziarie e assicurative.
Nella pronuncia si ribadisce che la pur ampia discrezionalità di cui gode in astratto il legislatore nell’identificare gli indici di capacità contributiva «si riduce laddove sul piano comparativo vengano in evidenza, in concreto, altre situazioni in cui lo stesso legislatore, in difetto di coerenza nell’esercizio della stessa, ha effettuato scelte impositive differenziate a parità di presupposti», dal momento che «[i]n questi casi [...] viene in causa il principio dell’eguaglianza tributaria». Si riconosce, nondimeno, che, ricorrendo determinate condizioni, nelle peculiari caratteristiche del mercato finanziario può essere non irragionevolmente individuato uno specifico e autonomo indice di capacità contributiva, idoneo a giustificare una regola differenziata di determinazione della base imponibile, occorrendo considerare «l’insieme degli interventi legislativi che hanno complessivamente accompagnato quello censurato», ove quest’ultimo «[si collochi] nel contesto di una riforma [...] che ha prodotto significativi effetti compensativi in riferimento ai soggetti passivi della nuova imposta».
Di conseguenza, nella citata sentenza questa Corte ha ritenuto non censurabile l’individuazione del presupposto della «addizionale» IRES nell’appartenenza dei soggetti passivi al mercato finanziario, ravvisando in tale dato uno specifico indice di capacità contributiva, anche in ragione del vantaggio derivante a tali soggetti dalla più favorevole disciplina sulla deducibilità delle svalutazioni e delle perdite su crediti verso la clientela, introdotta dall’art. 1, comma 160, della stessa legge n. 147 del 2013 prima della conversione del d.l. n. 133 del 2013.
Come si ricorda nella stessa sentenza, d’altra parte, «su un piano più generale, questa Corte già in altre occasioni ha giudicato infondate, in presenza di oggettive giustificazioni, censure riferite a tributi istituiti solo per alcuni soggetti passivi all’interno di una determinata categoria: nella sentenza n. 201 del 2014 ha ritenuto, infatti, che non fosse ingiustificata la limitazione al solo “settore finanziario” della platea dei soggetti passivi sottoposti al prelievo “addizionale” sulle remunerazioni in forma di bonus e stock options; in senso analogo, nella sentenza n. 269 del 2017 si è affermato che “non è irragionevole che le spese di funzionamento dell’autorità preposta al corretto funzionamento del mercato [AGCM] gravino sulle imprese caratterizzate da una presenza significativa nei mercati di riferimento [con fatturato superiore a 50 milioni di euro] e dotate di considerevole capacità di incidenza sui movimenti delle relative attività economiche”».
3.5.3.– Non diversamente dal caso appena citato, anche nella vicenda in esame questa Corte è chiamata a verificare se, alla luce dei principi ricordati, esistano adeguate giustificazioni a fondamento di un’imposta che, come quella introdotta dall’art. 1, comma 148, della legge n. 147 del 2013, ha colpito un’unica, ristretta, cerchia di soggetti, ossia i partecipanti al capitale della Banca d’Italia, in relazione ai maggiori valori delle quote da essi iscritti in bilancio per effetto dell’art. 6, comma 6, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito.
La verifica conduce a conclusioni affermative, con la conseguenza che le censure prospettate sotto tale profilo in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost. non sono fondate.
3.5.4.– La riforma del 2013 del capitale della Banca d’Italia, di cui si sono delineati sopra contenuti e finalità, presenta carattere sistemico ed è diretta a salvaguardare lo svolgimento delle funzioni dell’autorità nazionale di vigilanza, «anche in relazione al livello di rischio emergente dalla natura delle attività istituzionali, rappresentando l’adeguatezza patrimoniale un canone ordinatorio dell’ordinamento finanziario europeo» (parere della Banca centrale europea CON/2013/96 del 27 dicembre 2013). Per quanto riguarda in particolare la capitalizzazione e l’assetto partecipativo al detto capitale, l’ampliamento della platea dei partecipanti e la riduzione della concentrazione delle quote perseguono l’obiettivo di eliminare ogni potenziale rischio di influenza (anche solo apparente) nella gestione della Banca.
Se le misure assunte sono dirette al perseguimento di tali finalità di tipo specificamente pubblicistico, nondimeno esse comportano effetti sicuramente benefici per i detentori di quote del capitale della Banca d’Italia, derivanti sia direttamente dalla definizione del nuovo, enormemente più elevato, valore del capitale, sia da una serie di modifiche attinenti al regime delle partecipazioni, che si risolvono in un sensibile miglioramento della condizione dei partecipanti.
Innanzitutto, dunque, viene in evidenza il nuovo valore delle quote di 25.000 euro ciascuna (rispetto al precedente valore di euro 0,52), conseguente all’aumento complessivo del capitale a ben 7 miliardi e mezzo di euro (dalla precedente simbolica cifra di euro 156.000). Alla rivalutazione delle quote è conseguito un oggettivo, notevole rafforzamento della struttura patrimoniale dei partecipanti, con effetti positivi per tutti, considerando il loro migliore apprezzamento da parte del mercato, e in special modo a favore delle banche, per le quali tale rafforzamento è particolarmente significativo ai fini del rispetto dei requisiti prudenziali di vigilanza (come è sottolineato nei lavori preparatori della legge di conversione del d.l. n. 133 del 2013 e come rileva la stessa Banca d’Italia nel documento intitolato «Conseguenze per la Banca d’Italia della legge 29 gennaio 2014, n. 5»).
Tale maggiore solidità patrimoniale – pur frutto di un’operazione contabile e non implicando di per sé materiale apprensione di ricchezza – consegue alla “straordinaria” imputazione a capitale, per la prima volta dopo settantasette anni dall’istituzione della Banca d’Italia come ente di diritto pubblico, delle riserve statutarie.
Occorre sottolineare a questo proposito che – diversamente da quanto avviene nelle società commerciali – su tali riserve i partecipanti non vantavano (come non vantano tuttora) alcun diritto, data la peculiarità del loro status, non equiparabile a quello dei titolari di partecipazioni in società di diritto ordinario. In nessun caso, infatti, i detentori di quote del capitale della Banca d’Italia possono disporre delle riserve, deliberandone la destinazione a capitale, o anche solo nutrire affidamento sulla loro distribuzione, come è consentito invece dalle norme civilistiche in tema di società di capitali, sia manente societate, sia in sede di liquidazione; ipotesi, queste, radicalmente incompatibili con le regole che presiedono ai compiti, alla struttura e al funzionamento della Banca d’Italia.
Rileva poi, in secondo luogo, la modifica radicale dei diritti economici connessi alle quote e la parametrazione al capitale rivalutato dei dividendi, ora liquidabili nel massimo del 6 per cento (rispetto al precedente 10 per cento) del capitale stesso, con notevolissimo innalzamento (non comparabile con la situazione precedente) del prevedibile flusso dei dividendi annuali. Innalzamento che va ben al di là della mera compensazione della menzionata riduzione percentuale e dell’eliminazione della possibile remunerazione aggiuntiva sui frutti delle riserve (nei limiti del 4 per cento).
Ancora, la riforma ha rimosso le caratteristiche di immobilizzo permanente delle quote (come ha parimenti rilevato la Banca d’Italia nel citato documento), ponendo i presupposti per la creazione di un mercato secondario delle quote stesse, di cui fra l’altro il legislatore ha favorito la sollecita ricollocazione prevedendo sia un ruolo di intermediazione della Banca, sia la soppressione della clausola statutaria di gradimento. Non è dubitabile che tali misure, collegate all’onere per i partecipanti di ridurre le quote eccedenti il limite massimo detenibile (oggi fissato al 5 per cento), pena la non spettanza dei diritti di voto ed economici, abbiano accelerato gli scambi ai maggiori valori, altrimenti difficilmente realizzabili, facendo acquistare alle partecipazioni, grazie alla riforma, una più accentuata potenzialità economica.
I descritti, plurimi, effetti positivi della riforma sulla posizione dei titolari delle quote si risolvono in un indubitabile nuovo valore economico della partecipazione detenuta, valore cui può e deve essere riconosciuto il connotato di elemento rivelatore di nuova ricchezza.
La considerazione che le “plusvalenze” derivanti dall’iscrizione a bilancio dei maggiori valori delle quote hanno carattere solo valutativo (e risultano per questo fiscalmente irrilevanti ai fini dell’IRES, sulla base delle regole desumibili dagli artt. 85, 86 e 87 t.u. imposte redditi), e che il miglioramento dell’indice patrimoniale si limita a rappresentare gli effettivi valori della situazione di fatto, non esclude – come invece sostiene la parte – che nel caso di specie si sia nondimeno in presenza di un fenomeno di nuova ricchezza e dunque di un indice espressivo di capacità contributiva.
L’argomento della natura meramente valutativa della consistenza del capitale non considera invero in tutte le sue implicazioni né il dato, decisivo nella fattispecie, dell’inesistenza di qualsiasi diritto dei partecipanti sulle riserve, imputate a capitale sulla base di una scelta che solo il legislatore avrebbe potuto adottare, né il prodotto della scelta stessa in termini di maggiore solidità patrimoniale dei partecipanti e di prevedibile rilevante aumento dei loro flussi di dividendi, né i vantaggi economici derivanti dalla migliore circolazione delle quote nel mercato.
Se dunque, come visto, rientra nella discrezionalità legislativa desumere la capacità contributiva di un soggetto da qualsiasi indice rivelatore di ricchezza, non appare in sé censurabile che, nell’esercizio di tale ampia discrezionalità, il legislatore della complessiva riforma di cui al Titolo II del d.l. n. 133 del 2013, come convertito, abbia assunto come presupposto dell’imposizione in capo ai detentori di partecipazioni al capitale della Banca d’Italia il maggior valore delle quote da essi iscritto in bilancio all’esito del disposto aumento del capitale stesso, ravvisando nella descritta vicenda della rivalutazione del capitale della Banca uno specifico indice di capacità contributiva dei detentori della sue quote.
In conclusione, si deve escludere che la scelta impositiva sia arbitraria – come ritiene il rimettente – per il fatto che i maggiori valori iscritti non costituissero plusvalenze realizzate. Come chiarito, infatti, alla luce della complessiva operazione di riforma del capitale della Banca d’Italia, l’iscrizione dei nuovi valori si è comunque risolta nella evidente creazione di un nuovo valore per i titolari delle quote. In questi termini, anche la vicenda in esame può essere ricondotta a quel novero di nuovi fenomeni che questa Corte ha ricondotto alla più generale categoria degli indici di capacità contributiva, osservando che «in un contesto complesso come quello contemporaneo, dove si sviluppano nuove e multiformi creazioni di valore, il concetto di capacità contributiva non necessariamente deve rimanere legato solo a indici tradizionali come il patrimonio e il reddito, potendo rilevare anche altre e più evolute forme di capacità, che ben possono denotare una forza o una potenzialità economica» (sentenza n. 288 del 2019).
3.5.5.– Per le stesse ragioni appena esposte, si deve anche escludere che l’imposta contestata dia luogo a una doppia tassazione della medesima ricchezza, come prospetta il rimettente, secondo il quale il maggior valore delle partecipazioni corrisponderebbe a utili già tassati una prima volta presso la Banca d’Italia, che verrebbero assoggettati a imposizione sul reddito una seconda volta presso i partecipanti al suo capitale.
La capacità contributiva a base dell’imposta censurata – che il legislatore impropriamente, in effetti, qualifica come «sostitutiva» di IRES, IRAP ed eventuali addizionali – è ricollegabile invero a un presupposto diverso dal possesso di un reddito, in relazione al quale soltanto potrebbe assumere rilievo la tassazione degli utili già avvenuta presso la Banca d’Italia.
Tale diversità di presupposto trova la sua causa non nella mera partecipazione al capitale della Banca d’Italia – circostanza, questa, di per sé inidonea a giustificare l’imposta in esame – ma, in linea con le considerazioni svolte sulla scia della citata sentenza n. 288 del 2019, nella descritta specificità del regime normativo in cui l’intervento fiscale è collocato, e tiene conto dei descritti effetti compensativi determinati dalla riforma del capitale della Banca d’Italia.
3.5.6.– Per ragioni non diverse, si deve altresì ritenere che non sussista la lamentata disparità di trattamento rispetto ai detentori di partecipazioni durevoli in altri «enti e società commerciali», alle quali, ricorrendone le condizioni, si applicherebbe il regime di esenzione PEX sulle plusvalenze realizzate, proprio con la finalità di evitare la doppia tassazione economica della stessa ricchezza.
Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, la violazione del principio di eguaglianza sussiste qualora situazioni omogenee siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili (ex plurimis, sentenze n. 270 del 2022 e n. 172 del 2021).
Trattandosi, nel caso in esame, di una vicenda del tutto particolare, legata alle peculiari condizioni del capitale partecipato e delle stesse modalità di partecipazione ad esso, il riferimento al regime di esenzione PEX non è pertinente, e la invocata omogeneità è da escludere, in ragione dell’inidoneità del regime riservato ai titolari di partecipazioni ordinarie nelle società e enti commerciali a costituire termine di raffronto, per l’evidente diversità dei presupposti delle due situazioni comparate.
Di conseguenza non sono rilevanti nemmeno le considerazioni svolte da Generali Italia spa sul carattere strutturale di tale istituto tributario.
Per completezza di esame della lamentata disparità di trattamento, si osserva che, nel diverso contesto della censura di violazione del legittimo affidamento (su cui infra, punto 3.6.), il rimettente si duole ulteriormente della disparità di trattamento di coloro che sono colpiti dalla nuova imposta rispetto ai partecipanti al capitale della Banca d’Italia che avessero realizzato la stessa plusvalenza entro il 31 dicembre 2013, potendo così beneficiare della PEX. E ciò sull’assunto che il regime di esenzione sarebbe stato “disattivato” dall’art. 1, comma 148, della legge n. 147 del 2013 solo a decorrere dal periodo d’imposta 2014, in cui si considera avvenuto il riallineamento del valore fiscale a quello iscritto in bilancio.
Nemmeno sotto tale profilo, tuttavia, la censura è fondata, alla luce del costante orientamento di questa Corte (espresso anche in materia tributaria) secondo cui, in generale, il fatto che alla stessa categoria di soggetti si applichi, per effetto di un sopravvenuto mutamento di disciplina, un trattamento differenziato non contrasta con il principio di eguaglianza, poiché il trascorrere del tempo costituisce già di per sé un elemento idoneo a giustificare un diverso trattamento (ex plurimis, sentenze n. 240 del 2019, n. 104 del 2018 e n. 18 del 1994).
3.5.7.– Si deve ritenere rispettato, infine, anche il requisito della coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo specifico presupposto economico.
Considerata la rilevanza che nel caso di specie assume, quale indice di capacità contributiva, il rafforzamento patrimoniale dei partecipanti, la scelta del legislatore di determinare la base imponibile nei maggiori valori nominali delle quote, al netto del valore fiscalmente riconosciuto in precedenza, risulta plausibile e comunque non arbitraria.
Come visto, all’individuazione della base imponibile si è pervenuti generando, con la previsione di cui all’art. 6, comma 6, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito, un disallineamento tra il valore nominale e quello fiscale della partecipazione, e prescrivendo, con il comma 148 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013, di riallineare il valore disallineato con l’applicazione di un’imposta «sostitutiva», a un’aliquota comunque inferiore, seppur di poco, a quella ordinaria.
Il meccanismo impositivo adottato è dunque parzialmente analogo a quello, già conosciuto dall’ordinamento tributario, per la rivalutazione a fini fiscali dei beni d’impresa, prevista tra l’altro nella stessa legge n. 147 del 2013, all’art. 1, commi da 140 a 147, e consistente nella facoltà per il contribuente di rafforzare la struttura patrimoniale dell’impresa, acquisendo maggiori valori fiscali dietro pagamento proprio di una «imposta sostitutiva delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive e di eventuali addizionali» (comma 143).
È vero che per l’imposta sostitutiva qui in esame è esclusa la facoltatività della scelta in capo al contribuente, ma il carattere obbligatorio del riallineamento fiscale è giustificato dalla descritta fisionomia dell’aumento del capitale della Banca d’Italia (costituente la causa economica della rivalutazione), sottratto alla volontà dei partecipanti/beneficiari e rimesso del tutto alla discrezionalità del legislatore.
Nei termini illustrati, l’imposta censurata supera quindi il vaglio della connessione razionale, non avendo il legislatore travalicato il limite dell’arbitrarietà.
3.6.– Le questioni concernenti la violazione del legittimo affidamento prospettano, nella parte in cui restano ammissibili (vedi supra, punto 2.3.2. del Considerato in diritto), la «forzosa esclusione» dal regime PEX di una ricchezza, pari al maggior valore delle partecipazioni al capitale della Banca d’Italia, «insorta/maturata» prima dell’introduzione del «censurato intervento normativo». In particolare, la «disattivazione» della PEX avrebbe comportato la «inaspettata introduzione di un trattamento fiscale deleterio, del tutto inverso e irrispettoso del regime che l’ordinamento aveva razionalmente stabilito per l’incremento di valore conseguito sino al 31.12.2013 dalle partecipazioni» in esame.
Quanto già osservato sulla non irragionevolezza dell’imposizione in esame comporta la radicale insussistenza dei presupposti del legittimo affidamento sull’applicazione dell’invocato regime di esenzione.
Ne consegue che, per le stesse ragioni già esposte, nemmeno tali questioni sono fondate.
3.7.– Infine, anche la censura di violazione dell’art. 42 Cost. non è fondata.
Il rimettente assume che, mancando il presupposto dell’imposizione – ossia una nuova ricchezza diversa da quella già incisa dalla tassazione presso la Banca d’Italia – la normativa censurata determini un illegittimo effetto ablatorio della proprietà. Quanto già ampiamente osservato sul collegamento dell’imposta in esame a un diverso indice di capacità contributiva smentisce l’assunto e porta anche in questo caso a escludere la fondatezza della censura.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 6, del decreto-legge 30 novembre 2013, n. 133 (Disposizioni urgenti concernenti l’IMU, l’alienazione di immobili pubblici e la Banca d’Italia), convertito, con modificazioni, nella legge 29 gennaio 2014, n. 5, in combinato disposto con l’art. 1, comma 148, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)», nella versione originaria, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 41, 42 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Trieste, sezione seconda, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 6, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito, in combinato disposto con l’art. 1, comma 148, della legge n. 147 del 2013, come sostituito dall’art. 4, comma 12, del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (Misure urgenti per la competitività e la giustizia sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 23 giugno 2014, n. 89, sollevate, in riferimento all’art. 41 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Trieste, sezione seconda, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 6, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito, in combinato disposto con l’art. 1, comma 148, della legge n. 147 del 2013, come sostituito dall’art. 4, comma 12, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 41 e 53 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Trieste, sezione seconda, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 6, del d.l. n. 133 del 2013, come convertito, in combinato disposto con l’art. 1, comma 148, della legge n. 147 del 2013, come sostituito dall’art. 4, comma 12, del d.l. n. 66 del 2014, come convertito, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 42 e 53 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Trieste, sezione seconda, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 aprile 2023.
F.to:
Silvana SCIARRA, Presidente
Daria de PRETIS, Redattrice
Igor DI BERNARDINI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'1 giugno 2023.