SENTENZA N. 282
ANNO
2016
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio
di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 1, lettere a), b),
c), d), h), l) e m);
6, commi 1, lettere c) e g), e 2; 8, comma 3; 9, commi 1, 2 e 6;
12 e 13, comma 1, lettere a) e b), della legge
della Regione Marche 20 aprile 2015, n. 17 (Riordino e semplificazione della
normativa regionale in materia di edilizia), promosso dal Presidente del
Consiglio dei ministri con ricorso
notificato il 26-30 giugno 2015, depositato in cancelleria il 2 luglio 2015 ed
iscritto al n. 73 del registro ricorsi 2015.
Visto l’atto di costituzione della Regione Marche;
udito nell’udienza pubblica dell’8 novembre 2016 il Giudice relatore Daria de Pretis;
uditi l’avvocato dello Stato Maria Gabriella Mangia per il Presidente del
Consiglio dei ministri e l’avvocato Stefano Grassi per la Regione Marche.
Ritenuto
in fatto
1.– Con ricorso notificato il 26-30 giugno 2015,
depositato il 2 luglio 2015 e iscritto al n. 73 del registro ricorsi 2015, il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, ha impugnato gli artt. 4, comma 1, lettere a), b), c),
d), h), l) e m); 6, commi 1, lettere c) e g), e 2; 8, comma 3; 9, commi 1, 2 e
6; 12 e 13, comma 1, lettere a) e b), della legge della Regione Marche 20
aprile 2015, n. 17 (Riordino e semplificazione della normativa regionale in materia
di edilizia), in riferimento all’art. 117, secondo comma,
lettera l), e terzo comma, della Costituzione.
1.1.– L’art. 4, comma 1, della legge impugnata
individua una serie di interventi edilizi eseguibili senza necessità di
ottenere alcun titolo abilitativo, in quanto ritenuti ricompresi tra quelli
indicati all’art. 6, comma l, del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo
A)», di seguito TUE.
Secondo il ricorrente, la disposizione citata
violerebbe i principi fondamentali in materia di «governo del territorio», in
quanto gli interventi in essa individuati si allontanerebbero dalla ratio sottesa
alla normativa statale che includerebbe tra le attività "libere” soltanto quelle
prive di rilevanza esterna, se non temporanea. Inoltre, per taluni di essi, il
legislatore regionale non avrebbe prescritto l’invio della comunicazione di
inizio dei lavori (cosiddetta cil).
Sulla scorta di questa premessa generale, il
Governo passa in rassegna le singole previsioni di edilizia libera elencate
nella norma censurata, rimarcandone i profili di contrasto con la disciplina
statale.
La lettera a)
‒ relativa ai «movimenti di terra strettamente necessari alla rimodellazione di strade di accesso e aree di pertinenza
degli edifici esistenti, sia pubblici che privati, purché non comportino
realizzazione di opere di contenimento e comunque con riporti o sterri
complessivamente di altezza non superiore a metri 1,00» ‒ contrasterebbe
con l’art. 6, comma l, lettera d),
del TUE, che espressamente limita l’attività libera ai soli movimenti di terra
«strettamente pertinenti all’esercizio dell’attività agricola».
La lettera b)
‒ la quale consente, negli stessi limiti previsti dalla lettera a), la «rimodellazione
del terreno anche per aree di sosta nei limiti indicati alla lettera a), che
siano contenute entro l’indice di permeabilità ove stabilito dallo strumento
urbanistico comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini
interamente interrate» ‒ si porrebbe in contrasto con quanto previsto
dall’art. 6, comma 2, lettera c), del
TUE, in quanto non riproduce il limite della non accessibilità delle medesime e
non prevede l’obbligo di presentare la cil.
La lettera c)
‒ relativa alla «realizzazione di rampe e pedane per l’abbattimento e
superamento delle barriere architettoniche per dislivelli inferiori a metri
1,00» ‒ si porrebbe in contrasto con l’art. 6, comma l, lettera b), del TUE, che esclude espressamente
dall’attività di edilizia libera gli interventi di rimozione delle barriere
architettoniche che «comportino la realizzazione di rampe o di ascensori
esterni».
La lettera d)
‒ nella parte in cui non prevede l’obbligo di presentare la cil per gli interventi consistenti nella realizzazione di
«aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici senza creazione di volumetria e
con esclusione delle piscine ‒ violerebbe l’art. 6, comma 2, lettera e), del TUE.
La lettera h)
‒ che, nel combinato disposto con l’art. 5, commi l e 2, esclude
dall’obbligo di presentare la
comunicazione di inizio dei lavori asseverata da un tecnico abilitato (cosiddetta cila) «le opere interne a singole unità immobiliari, ivi
compresi l’eliminazione, lo spostamento e la realizzazione di aperture e pareti
divisorie interne che non costituiscono elementi strutturali, sempre che non
comportino aumento del numero delle unità immobiliari o implichino incremento
degli standard urbanistici» ‒ violerebbe l’art. 6, comma 2, lettera a), e comma 4, del TUE, che subordina
gli interventi di manutenzione straordinaria a tale adempimento.
La lettera l)
violerebbe i principi fondamentali della materia «governo del territorio», in
quanto ricondurrebbe all’attività edilizia libera una serie di fattispecie che
la normativa statale subordina a permesso di costruire (art. 3, comma l,
lettera e), del TUE), a SCIA, ovvero
a cil (contrastando in quest’ultimo caso con quanto
previsto dall’art. 6, comma 2, lettere b
ed e-bis, del TUE).
La lettera m)
‒ relativa alle «opere necessarie a consentire lavorazioni eseguite
all’interno di locali chiusi, anche comportanti modifiche nell’utilizzo dei
locali adibiti a esercizio d’impresa» ‒ contrasterebbe con l’art. 6,
comma 2, lettera e-bis), del TUE che esclude dall’edilizia
libera gli interventi che riguardino parti strutturali dell’edificio.
1.2.– Viene impugnato anche l’art. 6, commi l,
lettere c) e g), e 2, della legge reg.
Marche n. 17 del 2015. La disposizione regionale, consentendo di
realizzare mediante segnalazione certificata di inizio attività (SCIA), invece
che tramite permesso di costruire, o denuncia di inizio attività (DIA)
alternativa al permesso di costruire, gli interventi «di ristrutturazione
edilizia», «di demolizione parziale e integrale di manufatti edilizi», nonché
quelli «di cui all’articolo 22, comma 3, del d.P.R. n. 380/2001», violerebbe
l’art. 117, terzo comma, Cost., in
riferimento agli artt. 10, comma l, lettera c),
e 22, comma 3, lettera a), del TUE, i
quali devono ritenersi principi fondamentali in materia di «governo del
territorio» afferenti al regime dei titoli edilizi abilitativi.
1.3.– Viene censurato anche l’art. 8, comma 3,
della legge reg. Marche n. 17 del
La disposizione regionale prevede che: «Non
costituiscono inoltre variazioni essenziali rispetto al titolo abilitativo il
mancato completamento degli interventi o la realizzazione di minori superfici o
volumetrie o altezze o parziali riduzioni dell’area di sedime,
di maggiori distacchi, purché gli interventi non comportino difformità dalle
prescrizioni del titolo abilitativo medesimo o da norme o piani urbanistici».
Il ricorrente lamenta che tale previsione
contrasterebbe con il principio fondamentale della materia «governo del
territorio» fissato dall’art. 34, comma 2-ter,
del TUE, secondo cui: «Ai fini dell’applicazione del presente articolo, non si
ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di
altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola
unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali».
1.4.– Anche l’art. 9 della legge reg. Marche n. 17
del 2015 viene impugnato per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. La
disposizione regionale da ultimo citata ‒ nella parte in cui prevede che
il Comune «può autorizzare a titolo temporaneo interventi edilizi» riguardanti
opere pubbliche o di pubblico interesse e attività produttive, «ancorché
difformi dalle previsioni degli strumenti urbanistici comunali adottati o approvati,
destinati al soddisfacimento di documentate esigenze di carattere improrogabile
e transitorio non altrimenti realizzabili» ‒ si
porrebbe, per un verso, in contrasto con l’art. 7, comma 1, lettera b), del TUE, il quale esenta «le opere
pubbliche, da eseguirsi da amministrazioni statali o comunque insistenti su
aree del demanio statale e opere pubbliche di interesse statale» dal rispetto
delle norme del titolo II del TUE, a condizione che ne sia accertata la
«conformità con le prescrizioni urbanistiche ed edilizie ai sensi del decreto
del Presidente della Repubblica 18 aprile 1994, n. 383, e successive
modificazioni». Per altro verso, la disposizione regionale contrasterebbe con
l’art. 14, comma l, del TUE, che non consente il rilascio di permesso di
costruire in deroga per le attività produttive.
Aggiunge il Governo che, attraverso
l’autorizzazione temporanea, la norma censurata avrebbe introdotto un nuovo
titolo abilitativo, non previsto dalla legislazione statale, invadendo anche
sotto questo profilo la competenza legislativa statale in materia di «governo
del territorio», di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.
1.5.– Il ricorrente impugna poi l’art. 12 della
legge reg. Marche n. 17 del
1.6.– Da ultimo, l’art. 13, comma l, lettere a) e b),
della legge reg. Marche n. 17 del
2.‒ In data 5 agosto 2015 la Regione Marche
si è costituita in giudizio, chiedendo sia dichiarata l’inammissibilità o, in
subordine, l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale
proposte dal Governo.
2.1.‒ In riferimento all’art. 4, comma l,
della legge regionale impugnata, la resistente replica a ciascuno dei plurimi
motivi di impugnazione.
La censura di incostituzionalità della lettera a), oltre che inammissibile per
genericità e carenza di motivazione, sarebbe infondata. I movimenti di terra
vengono sì riportati dalla norma statale alle sole attività aventi carattere
agricolo e agro-silvo-pastorale, tuttavia ben
potrebbe il legislatore regionale – nell’esercizio della facoltà
riconosciutagli dall’art. 6, comma 6, lettera a), del TUE – individuare attività di diversa natura rispetto alle
quali "i movimenti di terra” siano parimenti coessenziali.
La lettera b)
dovrebbe interpretarsi come comprensiva dell’obbligo di comunicazione di inizio
lavori previsto dall’art. 6, comma 2, lettera c), del TUE; analogamente, la realizzazione di «intercapedini
interrate» dovrebbe intendersi assoggettata al limite della inaccessibilità
delle medesime. Tale interpretazione conforme a Costituzione della norma
censurata sarebbe giustificata dalla stessa legge reg. Marche n. 17 del 2015,
la quale rimanda alla disciplina statale per tutto quanto da essa non
espressamente disciplinato (art. 1, comma 3).
Quanto alla lettera c), la scelta di ascrivere all’attività di edilizia libera la
realizzazione di rampe e pedane «per dislivelli inferiori a metri 1,00», ovvero
per altezze minime, che non sono idonee ad alterare la sagoma dell’edificio, si
rileverebbe del tutto coerente con l’art. 6, comma l, lettera b), del TUE. Il fondamento della norma
statale, infatti, sarebbe quello di evitare interventi di significativa
rilevanza esterna, come quelli diretti alla realizzazione di ascensori, oppure
di rampe e di altri manufatti, ma soltanto se idonei a modificare la sagoma
dell’edificio: idoneità di cui la norma censurata sarebbe priva.
La questione di legittimità costituzionale della
lettera d) sarebbe manifestamente
inammissibile, contenendo il ricorso una mera asserzione del contrasto tra due
norme, regionale e statale, senza alcuna argomentazione esplicativa. Nel
merito, la previsione regionale, contemplando una fattispecie costruttiva di
rilevanza esterna minima, non sarebbe sovrapponibile a quella prevista
dall’art. 6, comma 2, lettera e), del
TUE. La norma censurata, infatti, riconduce all’edilizia libera le aree ludiche
e gli elementi di arredo delle aree pertinenziali
degli edifici senza «creazione di volumetria» e con esclusione «delle piscine».
Inoltre, anche in questo caso, l’obbligo di comunicazione di inizio lavori, per
quanto non previsto espressamente, potrebbe ricavarsi in via interpretativa.
Quanto alla lettera h), la questione sarebbe innanzitutto inammissibile. Ciò che la
difesa erariale realmente contesterebbe non sarebbe la fattispecie ricondotta
dall’art. 4, comma l, lettera h), tra
le attività di edilizia libera, bensì la diversa previsione, contenuta
nell’art. 5, comma l, che esclude tale ipotesi dall’assoggettamento alla cila. La norma da ultimo citata, tuttavia, come
risulterebbe tanto dal ricorso quanto dalla delibera del Consiglio dei
ministri, non sarebbe stata oggetto di specifica impugnazione. Nel merito, la
questione sarebbe comunque infondata, poiché gli interventi in esame rientrano
nell’attività di edilizia libera solo ove «non comportino aumento del numero
delle unità immobiliari o implichino incremento degli standard urbanistici», e
quindi solo nella misura in cui abbiano un particolare impatto sul territorio.
La questione prospettata in riferimento alla
lettera l) sarebbe anch’essa
inammissibile, non avendo il ricorrente specificato su quali parti della
disposizione regionale impugnata (articolata in diversi sotto numeri) si
appunterebbero le censure di incostituzionalità, né in relazione a quali parti
delle norme statali (evocate a parametro interposto) si determinerebbe
l’asserito contrasto. Nel merito, la questione sarebbe infondata, in quanto: ‒
dovrebbe escludersi la violazione dell’art. 3, comma l, lettera e), del TUE, ricomprendendo la norma
impugnata interventi inidonei ad apportare una «trasformazione permanente del
territorio non priva di rilevanza esterna»; per le medesime ragioni non sarebbe
necessaria la SCIA; ‒ non vi sarebbe contrasto con l’art. 6, comma 2,
lettera b), del TUE, concernente le
opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee, la
quale nulla avrebbe a che vedere con la impugnata lettera l), afferente alle «opere da realizzare nell’ambito di stabilimenti
industriali, intese ad assicurare la funzionalità dell’impianto e il suo
adeguamento tecnologico»; ‒ non sarebbe violato neppure l’art. 6, comma
2, lettera e-bis), del TUE, in relazione a tutte le fattispecie contemplate
dalla norma regionale impugnata che non riguardano «modifiche interne di
carattere edilizio»; per quelle parti della norma regionale che prevedono le
suddette modifiche interne, la lettera l)
andrebbe interpretata in senso conforme al TUE, con conseguente assoggettamento
all’obbligo di comunicazione di inizio lavori.
Anche la questione di costituzionalità della
lettera m) sarebbe manifestamente
infondata, dovendosi, anche in questo caso, interpretare la norma regionale
conformemente al TUE, con riguardo sia all’obbligo di comunicazione di inizio
lavori, sia alla esclusione delle modifiche interne che comportino interventi
su parti strutturali dell’edificio.
2.2.‒ L’impugnazione dell’art. 6, comma l,
della legge reg. Marche n. 17 del 2015 sarebbe infondata, in quanto tale
disposizione premette che sono soggetti alla SCIA soltanto gli interventi «non
riconducibili all’attività edilizia libera di cui all’articolo 4 o alla CIL di
cui all’art. 5 ovvero al permesso di costruire». In secondo luogo,
l’infondatezza della censura statale discenderebbe dalla considerazione che
l’art. 10, comma 2, del TUE, consente alle regioni di stabilire «con legge
quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di
immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a
segnalazione certificata di inizio attività»: sarebbe lo stesso legislatore
statale, dunque, a riconoscere espressamente al legislatore regionale un
margine di azione circa la scelta di quali tra gli interventi che comportino
mutamenti d’uso degli immobili (collegati o meno a trasformazioni fisiche)
debbano essere subordinati al permesso di costruire o alla SCIA.
2.3.‒ La questione di legittimità
costituzionale sollevata dal Governo in relazione all’art. 8, comma 3, sarebbe
innanzitutto inammissibile, poiché non motiverebbe sotto quale profilo due
norme riguardanti oggetti diversi – una (quella impugnata) concernente
l’individuazione delle variazioni essenziali al progetto assentito; l’altra
(quella statale) relativa alla disciplina delle sanzioni per gli «interventi
eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire» – si porrebbero in
conflitto tra loro.
Nel merito, la questione sarebbe comunque
infondata. L’art. 8, comma 3, dopo aver stabilito che «il mancato completamento
degli interventi o la realizzazione di minori superfici o volumetrie o altezze
o parziali riduzioni dell’area di sedime, di maggiori
distacchi» non costituiscono variazioni essenziali al titolo abilitativo, pone
come condizione che «gli interventi non comportino difformità dalle
prescrizioni del titolo abilitativo medesimo o da norme o piani urbanistici».
Ciò significa «che tali variazioni non essenziali devono risultare pur sempre
conformi alla normativa statale e che, pertanto, non saranno sanzionabili ai
sensi dell’art. 34-ter [recte: dell’art.
34, comma 2-ter] solo qualora ne
rispettino il contenuto, ovvero solo se si tratti di variazioni "che non
eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure
progettuali”».
La Regione Marche aggiunge che la censura sollevata
sarebbe «priva di fondamento» laddove si rivolge all’intero comma 3 dell’art.
8. Infatti, l’art. 34, comma 2-ter,
del TUE, che il ricorrente assume essere stato violato dalla norma regionale
impugnata, concerne le difformità del progetto realizzato rispetto al permesso
di costruire e alla SCIA, non anche rispetto alla comunicazione di inizio
lavori.
2.4.‒ La questione di legittimità
costituzionale formulata dal Governo in riferimento all’art. 9, commi l, 2 e 6,
della legge reg. Marche n. 17 del 2015, sarebbe anch’essa infondata. La
disposizione regionale non avrebbe introdotto un ulteriore e nuovo titolo
abilitativo edilizio, bensì si sarebbe limitata a disciplinare alcune ipotesi
in relazione alle quali ragioni di interesse pubblico richiedono un permesso
temporaneo, alla scadenza del quale o deve essere intervenuto il titolo
abilitativo previsto dalla legge per quella determinata fattispecie, oppure
l’opera deve essere rimossa, anche coattivamente. Del resto, per espressa
previsione del comma 3 dell’art. 9, l’autorizzazione temporanea «non
sostituisce le altre autorizzazioni previste dalla legge», ed è circondata da
garanzie intese ad assicurare l’effettiva provvisorietà di tali interventi.
Neppure si tratterebbe di un permesso in deroga, perché in quest’ultimo caso la
deroga autorizzata non è provvisoria.
2.5.‒ In riferimento all’art. 12 della legge
reg. Marche n. 17 del 2015, la questione di legittimità prospettata dal ricorrente
sarebbe inammissibile, in quanto il ricorso non avrebbe chiarito i termini del
contrasto tra la norma censurata e i principi fondamentali della materia,
individuata peraltro indifferentemente nel «governo del territorio» e nella
«protezione civile».
Nel merito, la questione non potrebbe comunque
essere accolta. Nessun contrasto potrebbe ravvisarsi tra la norma regionale
impugnata e l’art. 84 del TUE, il quale riguarda soltanto gli edifici di nuova
costruzione e non già, come la norma censurata, gli interventi volti a
migliorare la tenuta di edifici esistenti rispetto a fenomeni sismici. Sotto
altro profilo, le norme tecniche cui l’art. 84 del TUE fa rinvio, non sarebbero
idonee a costituire principi fondamentali né in materia di «governo del territorio»,
né di «protezione civile», trattandosi di norme adottate con fonte
regolamentare (si cita la sentenza n. 303 del
2003, paragrafo 7, del considerato in diritto).
Quanto, invece, al paventato contrasto con l’art.
88 del TUE, l’art. 12 della legge reg. Marche n. 17 del 2015 non conterrebbe
alcuna deroga alle norme tecniche in materia antisismica. Inoltre, anche l’art.
88 si occuperebbe della sola costruzione di nuovi edifici in zone sismiche e
non di interventi su edifici esistenti.
2.6.‒ L’impugnazione dell’art. 13, comma l,
lettere a) e b), della legge reg. Marche n. 17 del 2015, sarebbe innanzitutto
inammissibile per carenza di motivazione.
Nel merito, il denunciato contrasto tra la norma
regionale e l’art. 2-bis del TUE
sarebbe privo di fondamento, in ragione del fatto che la disposizione impugnata
non autorizzerebbe alcuna deroga alla disciplina statale in materia di
distanze.
Sarebbe priva di fondamento anche la questione di
legittimità costituzionale sollevata in riferimento alla violazione degli artt.
24 e 25 del TUE, in quanto la norma censurata non eliminerebbe la necessità,
ove ne ricorrano i presupposti, di richiedere e ottenere il certificato di
agibilità, limitandosi semplicemente a consentirne l’ottenimento.
2.7.‒ Con memoria depositata il 18 ottobre
2016, la Regione resistente ha ribadito le proprie difese.
Considerato
in diritto
1.– Il Presidente
del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale
degli artt. 4, comma 1, lettere a),
b), c), d), h), l)
e m); 6, commi 1, lettere c) e g),
e 2; 8, comma 3; 9, commi 1, 2 e 6; 12 e 13, comma 1, lettere a) e b), della legge
della Regione Marche 20 aprile 2015, n. 17 (Riordino e semplificazione della normativa
regionale in materia di edilizia).
2.‒ Con un primo ordine di motivi, il ricorrente impugna
l’art. 4, comma 1, lettere a), b), c),
d), h), l) e m), della citata legge regionale. Queste disposizioni violerebbero
l’art. 117, terzo comma, Cost., in riferimento ai principi fondamentali della
legislazione statale in materia di «governo del territorio» contenuti nel
d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)», di seguito TUE. In
particolare, gli interventi assoggettati dal legislatore regionale al regime
dell’edilizia libera non sarebbero omogenei a quelli che possono essere
eseguiti senza titolo abilitativo ai sensi dell’art. 6, commi 1 e 2, del TUE.
2.1.‒ Secondo la giurisprudenza costituzionale, la definizione delle categorie
di interventi edilizi a cui si collega il regime dei titoli abilitativi
costituisce principio fondamentale della materia di competenza legislativa
concorrente fra Stato e regioni del «governo del territorio», vincolando così
la legislazione regionale di dettaglio (sentenza n. 303 del
2003; in seguito, sentenze n. 259 del
2014, n. 171
del 2012, n.
309 del 2011).
L’art. 6, comma 6,
del TUE prevede che le regioni a statuto ordinario possono estendere la
disciplina dell’edilizia libera a «interventi edilizi ulteriori» (lettera a), nonché disciplinare «le modalità di
effettuazione dei controlli» (lettera b).
Nel definire i limiti del potere così assegnato alle regioni, questa Corte ha
escluso «che la disposizione appena citata permetta al legislatore regionale di
sovvertire le "definizioni” di "nuova costruzione” recate dall’art. 3 del
d.P.R. n. 380 del 2001 (sentenza n. 171 del
2012). L’attività demandata alla regione si inserisce pur sempre
nell’ambito derogatorio definito dall’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001,
attraverso la enucleazione di interventi tipici da sottrarre a permesso di
costruire e SCIA (segnalazione certificata di inizio attività). Non è perciò
pensabile che il legislatore statale abbia reso cedevole l’intera disciplina
dei titoli edilizi, spogliandosi del compito, proprio del legislatore dei
principi fondamentali della materia, di determinare quali trasformazioni del
territorio siano così significative, da soggiacere comunque a permesso di
costruire. Lo spazio attribuito alla legge regionale si deve quindi sviluppare
secondo scelte coerenti con le ragioni giustificatrici che sorreggono, secondo
le previsioni dell’art. 6 del d.P.R. n. 380 del 2001, le specifiche ipotesi di
sottrazione al titolo abilitativo» (sentenza n. 139 del
2013). Il limite assegnato al legislatore regionale dall’art. 6, comma 6,
lettera a), del d.P.R. n. 380 del
2001 sta, dunque, nella possibilità di estendere «i casi di attività edilizia
libera ad ipotesi non integralmente nuove, ma "ulteriori”, ovvero coerenti e
logicamente assimilabili agli interventi di cui ai commi 1 e 2 del medesimo
art. 6» (ancora sentenza
n. 139 del 2013).
Su queste basi, va
dunque verificato se, in relazione a ciascuna delle categorie di opere incluse ‒ dalle censurate lettere dell’art. 4, comma 1, della legge reg. Marche n. 17 del 2015 ‒ tra gli interventi edilizi eseguibili senza
necessità di titolo abilitativo, il legislatore regionale si sia mantenuto nei
limiti di quanto gli è consentito.
2.2.‒ La lettera a)
riconduce all’edilizia libera i «movimenti di terra strettamente necessari alla
rimodellazione di strade di accesso e aree di
pertinenza degli edifici esistenti, sia pubblici che privati, purché non
comportino realizzazione di opere di contenimento e comunque con riporti o
sterri complessivamente di altezza non superiore a metri 1,00». Tale
previsione, secondo il Governo, contrasterebbe con l’art. 6, comma 1, lettera d), del TUE.
2.2.1.‒ In via preliminare, va respinta l’eccezione di
inammissibilità della questione prospettata dalla Regione per asserito difetto
di motivazione sulle ragioni del contrasto tra la norma regionale e quella
statale.
I requisiti di
chiarezza e completezza delle ragioni a sostegno della richiesta declaratoria
di incostituzionalità nei giudizi proposti in via principale risultano
soddisfatti nel caso in esame, nella misura richiesta dalla giurisprudenza
costituzionale (ex plurimis,
sentenze n. 251,
n. 233, n. 218, n. 142, n. 82 e n. 32 del 2015).
Nel ricorso infatti si possono individuare gli elementi sufficienti per
ritenere ammissibile la censura, ossia i termini della questione proposta, la
disposizione impugnata, i parametri evocati (ex plurimis, sentenze n. 40 del
2007, n. 139
del 2006, n.
450 e n. 360
del 2005, n.
213 del 2003, n.
384 del 1999) ed esso contiene inoltre una sia pure sintetica
argomentazione di merito a sostegno della richiesta dichiarazione di
illegittimità costituzionale della norma impugnata (ex plurimis, sentenze n. 3 del
2013 e n.
312 del 2010 e ordinanza n. 123
del 2012).
2.2.2.‒ Nel merito, la questione è fondata.
L’art. 6, comma 1,
lettera d), del TUE, prevede che
nessun titolo abilitativo è richiesto per i movimenti di terra, ma soltanto se
essi sono strettamente pertinenti all’esercizio dell’attività agricola e alle
pratiche agro-silvo pastorali. L’esenzione è
giustificata dal fatto che si tratta di modificazioni della forma del
territorio, non accompagnate dalla realizzazione di opere edilizie, inerenti
all’usuale pratica agricola, che verrebbe altrimenti disincentivata con effetti
pregiudizievoli anche per la buona manutenzione del territorio.
Le attività di
sbancamento del terreno finalizzate a usi diversi da quelli agricoli, se
destinate a incidere sul tessuto urbanistico del territorio, sono invece
assoggettate a titolo abilitativo edilizio. Al fine di stabilire se i movimenti
di terreno costituiscano o meno una trasformazione urbanistica del territorio,
occorre valutare l’entità dell’opera che si intende realizzare, potendo gli
stessi costituire, sia spostamenti insignificanti sotto il profilo
dell’insediamento abitativo, per i quali non è necessario alcun titolo
abilitativo, sia rilevanti trasformazioni del territorio, in quanto tali
subordinate al preventivo rilascio del permesso di costruire (Corte di cassazione, terza sezione penale, 24 novembre 2011,
n. 48479; Corte di cassazione, terza sezione penale, 5 marzo 2008, n. 14243).
I movimenti di terra
previsti dalla norma regionale, in quanto «strettamente necessari alla rimodellazione di strade di accesso e aree di pertinenza
degli edifici esistenti, sia pubblici che privati, purché non comportino
realizzazione di opere di contenimento e comunque con riporti o sterri
complessivamente di altezza non superiore a metri 1,00», potenzialmente
includono anche opere di sbancamento che, sebbene non preordinate a una
successiva costruzione, sono idonee ad alterare la morfologia del territorio,
determinando una trasformazione permanente del suolo non edificato. La scelta
del legislatore regionale non è, dunque, coerente con le ragioni
giustificatrici che sorreggono, secondo le previsioni dell’art. 6 del d.P.R. n.
380 del 2001, le corrispondenti ipotesi di sottrazione a permesso di costruire
e SCIA.
2.3.‒ La lettera b)
riguarda «le opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, compresa
l’eventuale necessaria rimodellazione del terreno
anche per aree di sosta nei limiti indicati alla lettera a), che siano contenute entro l’indice di permeabilità ove
stabilito dallo strumento urbanistico comunale, ivi compresa la realizzazione
di intercapedini interamente interrate».
Il Governo lamenta
che, in difformità dall’art. 6, comma, 2, lettera c), del TUE, la norma regionale, da un lato, non prevede l’obbligo
di presentare la comunicazione di inizio lavori (CIL); dall’altro consentirebbe
la realizzazione di intercapedini interamente interrate senza riprodurre il
limite della loro non accessibilità.
2.3.1.‒ La questione è fondata.
Ai fini
dell’accoglimento è dirimente il fatto che, mentre la norma statale subordina
la medesima tipologia di interventi alla previa comunicazione dell’inizio dei
lavori da parte dell’interessato al comune, la previsione regionale non impone
analogo onere formale.
Come questa Corte ha
recentemente statuito, «[l]e regioni possono sì estendere la disciplina statale
dell’edilizia libera ad interventi "ulteriori” rispetto a quelli previsti dai
commi 1 e 2 dell’art. 6 del TUE, ma non anche differenziarne il regime
giuridico, dislocando diversamente gli interventi edilizi tra le attività deformalizzate, soggette a cil e cila. L’omogeneità funzionale della comunicazione
preventiva (asseverata o meno) rispetto alle altre forme di controllo delle
costruzioni (permesso di costruire, DIA, SCIA), deve indurre a riconoscere alla
norma che la prescrive ‒ al pari di quelle che disciplinano i titoli
abilitativi edilizi ‒ la natura di principio fondamentale della materia
del "governo del territorio”, in quanto ispirata alla tutela di interessi
unitari dell’ordinamento e funzionale a garantire un assetto coerente su tutto
il territorio nazionale, limitando le differenziazioni delle legislazioni
regionali» (sentenza
n. 231 del 2016). Ne consegue che è precluso al legislatore regionale di
discostarsi dalla disciplina statale e di rendere talune categorie di opere
totalmente libere da ogni forma di controllo, sia pure indiretto mediante
denuncia.
La rilevata
antinomia non è superabile in via di interpretazione conforme. Il significato
fatto palese dalla lettera dell’art. 4, comma 1, è chiaro nel senso che gli
interventi in essa individuati sono eseguibili senza necessità di comunicazione
preventiva. Solo gli interventi indicati nel successivo art. 5 sono effettuati
previa CIL. È vero che l’art. l, comma 3, della legge regionale impugnata
rinvia alla normativa statale vigente «per quanto da essa non espressamente
previsto», ma tale ultima precisazione non consente di rimodulare in via
interpretativa l’impianto sistematico in cui si colloca la previsione
censurata, connotato da una rigida classificazione delle categorie di opere
edilizie e del loro regime giuridico.
Anche il profilo di
censura relativo alla inclusione nel regime della edilizia libera delle
«intercapedini interamente interrate», senza che sia riprodotto il limite della
loro "non accessibilità”, appare fondato. L’accessibilità dell’intercapedine,
infatti, ne altera la funzione da volume tecnico a vero e proprio "vano”
potenzialmente utilizzabile a diversi fini. Anche in questo caso, dunque, la
Regione ha individuato e liberalizzato un intervento edilizio "nuovo” e non
semplicemente "ulteriore” rispetto alle previsioni dell’art. 6 del d.P.R. n.
380 del 2001.
2.4.‒ La lettera c),
riguardante «la realizzazione di rampe e pedane per l’abbattimento e
superamento delle barriere architettoniche per dislivelli inferiori a metri
1,00», viene impugnata dal Governo per contrasto con l’articolo 6, comma l,
lettera b), del TUE.
2.4.1.‒ Anche questa censura è fondata.
Gli interventi di
rimozione delle barriere architettoniche che «comportino la realizzazione di
rampe o ascensori esterni» sono espressamente esclusi dall’articolo 6, comma l,
lettera b), del TUE dal regime
dell’attività edilizia libera. Le opere necessarie alla loro realizzazione,
compresi i manufatti che alterino la sagoma, rientrano invece nell’ambito
applicativo dell’art. 22 del TUE e sono quindi soggette a SCIA (Consiglio di Stato, sezione sesta, 24 novembre 2010,
n. 7129). Con tali previsioni, da
considerare come principi fondamentali della materia, la norma regionale si
pone quindi in contrasto.
2.5.‒ La lettera d)
– nella parte in cui non prevede l’obbligo di presentare la CIL per gli
interventi consistenti nella realizzazione di «aree ludiche senza fini di
lucro» e di «elementi di arredo delle aree pertinenziali
degli edifici senza creazione di volumetria e con esclusione delle piscine» –
violerebbe, secondo il Governo, l’art. 6, comma 2, lettera e), del TUE, che subordina tale tipologia di intervento a previa
comunicazione.
2.5.1.‒ L’eccezione di inammissibilità per difetto di
motivazione sollevata dalla regione non è fondata. I termini della questione
sollevata dallo Stato sono chiaramente identificabili nel ricorso che offre
anche un’argomentazione di merito, sia pure sintetica, a sostegno della
richiesta declaratoria di incostituzionalità.
2.5.2.‒ Nel merito la questione è fondata.
Mentre la norma
statale subordina la stessa tipologia di interventi alla previa comunicazione
dell’inizio dei lavori da parte dell’interessato, la previsione regionale non
impone analogo onere formale. Il contrasto con la disciplina statale non è
escluso dalla precisazione, contenuta nella norma regionale, che la
realizzazione delle aree ludiche e delle opere di arredo non deve comportare
«creazione di volumetria» e che da esse va esclusa la realizzazione «delle
piscine». Anche l’art. 6, comma 2, lettera e),
del TUE, deve essere interpretato nel senso di escludere dal suo ambito
applicativo, sia gli interventi volti alla creazione di nuove volumetrie (ad
esempio: spogliatoi e docce), sia la costruzione di piscine, in quanto opere
comportanti l’effettuazione di scavi e, come tali, del tutto estranee alla nozione
di edilizia libera; ma questo non rileva quanto alla circostanza che la norma regionale non
subordina a CIL gli interventi in essa previsti, mentre tale subordinazione non
può essere omessa, alla stregua di quanto previsto, come principio, dalla legge
statale.
L’interpretazione
costituzionalmente orientata della previsione della lettera d) non appare
percorribile per gli stessi motivi indicati sopra al paragrafo 2.3.1., con
riferimento alla impossibilità di rimodulare in via interpretativa l’impianto
sistematico in cui si colloca la previsione censurata, connotato da una rigida
classificazione delle categorie di opere edilizie e del loro regime giuridico.
2.6.‒ La
lettera h) – che, nel suo combinato disposto con l’art. 5, commi l e 2, esclude
dall’obbligo di presentare la comunicazione di inizio dei lavori asseverata da
un tecnico abilitato (cila) «le opere interne a
singole unità immobiliari, ivi compresi l’eliminazione, lo spostamento e la
realizzazione di aperture e pareti divisorie interne che non costituiscono
elementi strutturali, sempre che non comportino aumento del numero delle unità
immobiliari o implichino incremento degli standard urbanistici» – si pone,
secondo il Governo, in contrasto con l’art. 6, comma 2, lettera a), e comma 4,
del TUE, che subordina gli interventi di manutenzione straordinaria a tale
adempimento.
2.6.1.‒ In via preliminare, la Regione eccepisce che la
questione sarebbe inammissibile poiché ciò che la difesa erariale realmente
contesta sarebbe la previsione contenuta nell’art. 5, comma l, che esclude
l’ipotesi in esame dall’assoggettamento alla cila e
che non sarebbe stata oggetto di impugnazione, come risulterebbe sia dal
ricorso che dalla delibera di autorizzazione del Consiglio dei ministri.
L’eccezione non è fondata perché
la disciplina pertinente alla censura è esattamente quella risultante dall’art.
4, comma 1, lettera h), in combinato
disposto con l’art. 5, commi 1 e 2, e perché a tali previsioni fanno
concordemente riferimento sia il ricorso, sia la deliberazione della Presidenza
del Consiglio dei ministri.
2.6.2.‒ Nel merito, la questione è fondata.
Ai sensi dell’art.
6, comma 2, lettera a), del TUE, sono
soggetti a CILA «gli interventi di manutenzione straordinaria di cui
all’articolo 3, comma 1, lettera b), ivi
compresa l’apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, sempre
che non riguardino le parti strutturali dell’edificio». La manutenzione
straordinaria è dunque sottoposta a CILA quando interessi la rinnovazione o
sostituzione di parti interne delle singole unità immobiliari e quelle esterne
non strutturali. Le corrispondenti categorie di opere prese in considerazione
dalla impugnata lettera h) non sono
invece assoggettate a comunicazione asseverata (CILA), e neppure a
comunicazione semplice (CIL).
Il contrasto con la
norma statale non è escluso ‒ come sostiene la Regione ‒ dal fatto che si tratta di interventi di minimo
impatto, giacché nella disciplina statale i sopra indicati interventi di
manutenzione straordinaria sono sempre soggetti a previa comunicazione, anche
quando «non comportino aumento del numero delle unità immobiliari o non
implichino incremento degli standard urbanistici».
2.7.‒ La lettera l)
dell’art. 4, comma 1, della legge impugnata riconduce all’attività edilizia
libera le «opere da realizzare nell’ambito di stabilimenti industriali, intese
ad assicurare la funzionalità dell’impianto e il suo adeguamento tecnologico,
purché non modifichino le caratteristiche complessive in rapporto alle
dimensioni dello stabilimento, siano interne al suo perimetro o area di
pertinenza e non incidano sulle sue strutture».
La disposizione regionale precisa che «[t]ali
opere riguardano: 1) le costruzioni che non prevedono e non sono idonee alla
presenza di manodopera, realizzate con lo scopo di proteggere determinati
apparecchi o sistemi, quali cabine per trasformatori o per interruttori
elettrici, cabine per valvole di intercettazione fluidi, site sopra o sotto il
livello di campagna, cabine per stazioni di trasmissione dati e comandi o per
gruppi di riduzione purché al servizio dell’impianto; 2) i sistemi per la
canalizzazione dei fluidi mediante tubazioni, fognature e simili, realizzati
all’interno dello stabilimento stesso; 3) i serbatoi fino a metri cubi tredici
per lo stoccaggio e la movimentazione dei prodotti e le relative opere; 4) le
opere a carattere precario o facilmente amovibili, quali garitte, chioschi per
l’operatore di pese a bilico, per posti telefonici distaccati, per quadri di
comando di apparecchiature non presidiate; 5) le installazioni di pali porta
tubi in metallo e conglomerato armato, semplici e composti; 6) le passerelle
con sostegni in metallo o conglomerato armato per l’attraversamento delle
strade interne con tubazioni di processo e servizi; 7) le trincee a cielo aperto,
destinate a raccogliere tubazioni di processo e servizi, nonché le
canalizzazioni fognanti aperte e le relative vasche di trattamento e
decantazione; 8) i basamenti, le incastellature di sostegno e le
apparecchiature all’aperto per la modifica e il miglioramento di impianti
esistenti; 9) la separazione di aree interne allo stabilimento realizzata
mediante muretti e rete ovvero in muratura; 10) le attrezzature semifisse per
il carico e lo scarico da autobotti e ferro cisterne, come bracci di scarichi e
pensiline, ovvero da navi, come bracci di sostegno delle manichette; 11) le
attrezzature per la movimentazione di materie prime e prodotti alla rinfusa e
in confezione, quali nastri trasportatori ed elevatori a tazze; 12) le
coperture estensibili poste in corrispondenza delle entrate degli stabilimenti
a protezione del carico e dello scarico delle merci; 13) le canne fumarie e
altri sistemi di adduzione e di abbattimento».
Quanto previsto alla
lettera h), lamenta il ricorrente,
violerebbe i principi fondamentali della materia del «governo del territorio»,
in quanto ricondurrebbe all’attività edilizia libera una serie di fattispecie
che la normativa statale subordina a permesso di costruire, a SCIA, ovvero a
CIL.
2.7.1.‒ L’eccezione di inammissibilità proposta dalla
Regione per genericità e difetto di motivazione è fondata.
La censura ha ad
oggetto innanzitutto indistintamente l’intero contenuto normativo della lettera
l), nonostante la disposizione sia
composta da una pluralità di proposizioni normative alquanto articolate e
diverse. Il ricorso, inoltre, non specifica in relazione a quali parti delle
plurime norme statali evocate a parametro interposto si determinerebbe il
lamentato contrasto. L’indiscriminata
impugnazione di previsioni dal contenuto assai eterogeneo determina una
inevitabile genericità e oscurità delle censure. Per le stesse ragioni, le argomentazioni svolte dalla ricorrente a
sostegno dell’impugnazione «non raggiungono quella soglia minima di chiarezza e
completezza cui è subordinata l’ammissibilità delle impugnative in via
principale (cfr. ex plurimis,
sentenza n. 312
del 2013» (sentenza
n. 88 del 2014).
2.8.‒ La lettera m)
– riferita alle «opere necessarie a consentire lavorazioni eseguite all’interno
di locali chiusi, anche comportanti modifiche nell’utilizzo dei locali adibiti a
esercizio d’impresa» – contrasta secondo il Governo con l’art. 6, comma 2,
lettera e-bis, del TUE, che espressamente assoggetta a CILA le «modifiche
interne di carattere edilizio sulla superficie coperta dei fabbricati adibiti
ad esercizio d’impresa, sempre che non riguardino le parti strutturali, ovvero
le modifiche della destinazione d’uso dei locali adibiti ad esercizio
d’impresa». La previsione statale evocata dal Governo a parametro interposto è
stata introdotta dall’art. 13-bis,
comma 1, lettera a), del
decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012,
n. 134, e successivamente modificata dall’art. 17, comma 1, lettera c), numero 1), lettera b), del decreto-legge 12 settembre 2014,
n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle
opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica,
l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività
produttive), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge
11 novembre 2014, n. 164, e ha la finalità di semplificare le trasformazioni
edilizie preordinate allo svolgimento di attività d’impresa.
2.8.1.‒ La questione è fondata sotto un duplice profilo.
In primo luogo, la
norma regionale, a differenza di quella statale, non prescrive alcuna
comunicazione preventiva, neppure semplice, per la realizzazione dei lavori
individuati, mentre alla regione non è consentito di discostarsi dalle scelte
legislative statali attinenti al regime dei titoli edilizi, alla luce di quanto
esposto sopra circa la loro natura di principi fondamentali della materia.
In secondo luogo, il
legislatore statale limita espressamente la possibilità di realizzare mediante
CILA interventi sui fabbricati adibiti a esercizio di impresa ai soli casi in
cui non interessino le parti strutturali ovvero modifichino la destinazione
d’uso dei locali adibiti a esercizio d’impresa. Nessuna delle due limitazioni
ricorre nella disposizione impugnata.
L’interpretazione
riduttiva costituzionalmente orientata prospettata dalla resistente non appare
percorribile per gli stessi motivi sopra indicati al paragrafo 2.3.1., con
riferimento alla impossibilità di rimodulare in via interpretativa l’impianto
sistematico in cui la previsione censurata si colloca, connotato da una rigida
classificazione delle categorie di opere edilizie e del loro regime giuridico.
3.‒ L’art. 6, commi l, lettere c) e g), e comma 2,
consente di realizzare mediante SCIA (invece che tramite permesso di costruire
o DIA alternativa al permesso di costruire), gli interventi di
«ristrutturazione edilizia», di «demolizione parziale e integrale di manufatti
edilizi», nonché quelli di cui «all’articolo 22, comma 3, del D.P.R. n.
380/2001».
Secondo il Governo
tali previsioni contrastano con l’art. 10, comma l, lettera c), e con l’art. 22, comma 3, lettera a), del TUE, che devono ritenersi
principi fondamentali in materia di governo del territorio, afferenti al regime
dei titoli abilitativi, con conseguente violazione dell’art. 117, terzo comma,
Cost.
Ai sensi dell’art.
10, comma l, lettera c), del TUE, le
opere di ristrutturazione edilizia necessitano di permesso di costruire se
consistenti in interventi che portano a un organismo edilizio in tutto o in
parte diverso dal precedente e che comportano modifiche del volume o dei
prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee
A, comportano mutamenti della destinazione d’uso (ristrutturazione edilizia).
In via residuale, sono soggetti invece a SCIA i restanti interventi di
ristrutturazione cosiddetta "leggera” (compresi gli interventi di demolizione e
ricostruzione che non rispettino la sagoma dell’edificio preesistente).
L’art. 22, comma 3,
del TUE, si occupa di tre diverse tipologie di interventi edificatori: la
ristrutturazione di cui all’art. 10, comma 1, lettera c), del TUE; gli interventi di nuova costruzione o di
ristrutturazione urbanistica disciplinati da piani attuativi comunque denominati;
gli interventi di nuova costruzione direttamente esecutivi di strumenti
urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche. Per la
loro realizzazione si consente all’interessato, per ragioni di carattere acceleratorio, di optare, in alternativa al permesso di
costruire, per la presentazione della DIA (cosiddetta "super DIA”). La facoltà
di scelta esaurisce i propri effetti sul piano prettamente procedimentale,
mentre su quelle sostanziale (dei presupposti), penale e contributivo, resta
ferma l’applicazione della disciplina dettata per gli interventi soggetti a
permesso di costruire.
3.1.‒ Ciò premesso, le censure rivolte all’art. 6, comma
l, lettere c) e g), della legge reg. Marche n. 17 del 2015, non sono fondate,
perché le previsioni contestate non contraddicono il regime edilizio dettato
dal TUE. L’art. 6, comma 1, si apre infatti con la precisazione che sono
soggetti alla SCIA gli interventi non riconducibili al permesso di costruire.
Esso va quindi pianamente interpretato nel senso che si riferisce soltanto agli
interventi di ristrutturazione edilizia cosiddetta "leggera”, che, ai sensi
dell’art. 10, comma l, del TUE, non sono subordinati al rilascio del permesso
di costruire.
3.2.‒ Per motivi speculari, il comma 2 dell’art. 6 è invece
costituzionalmente illegittimo, in quanto assoggetta a SCIA gli interventi di
ristrutturazione cosiddetta "pesante”, gli interventi di nuova costruzione o di
ristrutturazione urbanistica disciplinati da piani attuativi, gli interventi di
nuova costruzione direttamente esecutivi di strumenti urbanistici generali. Per
tali categorie di opere, come visto sopra, l’art. 22, comma 3, del TUE,
prescrive invece il permesso di costruire o, alternativamente, la "super DIA”.
4.‒ Il Governo impugna poi l’art. 8, comma 3, della
legge reg. Marche n. 17 del 2015, secondo cui: «Non costituiscono inoltre
variazioni essenziali rispetto al titolo abilitativo il mancato completamento
degli interventi o la realizzazione di minori superfici o volumetrie o altezze
o parziali riduzioni dell’area di sedime, di maggiori
distacchi, purché gli interventi non comportino difformità dalle prescrizioni
del titolo abilitativo medesimo o da norme o piani urbanistici».
Secondo il Governo
la previsione contrasta con la disposizione di principio contenuta all’art. 34,
comma 2-ter, del TUE, secondo cui:
«Ai fini dell’applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità
dal titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi,
cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il
2 per cento delle misure progettuali».
4.1.‒ In
accoglimento dell’eccezione formulata dalla Regione Marche, la questione deve essere dichiarata inammissibile.
Il Governo formula
la questione in termini meramente assertivi, generici e formali, ponendo a
confronto il testo della norma regionale con quella statale avente ad oggetto
la disciplina delle difformità parziali, senza motivare specifici profili di
contraddizione tra le due disposizioni e senza tenere conto del fatto che si
tratta di disposizioni aventi un oggetto diverso: la norma regionale infatti
esemplifica le variazioni essenziali al progetto assentito (in attuazione
peraltro dell’art. 32, comma l, del
TUE), mentre la norma statale evocata a parametro interposto disciplina le
sanzioni per gli «interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di
costruire». La carenza
assoluta di argomenti a sostegno dell’impugnativa e l’impossibilità di
ricostruirne altrimenti il senso ne preclude irrimediabilmente lo scrutinio nel
merito (ex plurimis,
sentenze n. 8
del 2014, n.
272, n. 22
e n. 8 del 2013).
5.‒ Il
Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato anche l’art. 9, commi 1, 2 e
6, della legge reg. Marche n. 17 del 2015, per violazione dell’art. 117, terzo
comma, Cost. In particolare, la
disposizione regionale ‒ nella parte in cui prevede che il Comune «può
autorizzare a titolo temporaneo interventi edilizi» riguardanti opere pubbliche
o di pubblico interesse e attività produttive, «ancorché difformi dalle
previsioni degli strumenti urbanistici comunali adottati o approvati, destinati
al soddisfacimento di documentate esigenze di carattere improrogabile e
transitorio non altrimenti realizzabili» ‒ si porrebbe in contrasto
innanzitutto con l’art. 7, comma 1, lettera b),
del TUE, che esenta le opere pubbliche da eseguirsi da amministrazioni statali
o comunque insistenti su aree del demanio statale e opere pubbliche di
interesse statale dal rispetto delle norme del titolo del TUE, a condizione che
sia accertata la «conformità con le prescrizioni urbanistiche ed edilizie ai
sensi del decreto del Presidente della Repubblica 18 aprile 1994, n. 383, e
successive modificazioni». Per altro verso, la disposizione regionale
contrasterebbe anche con l’art. 14, comma l, del TUE, che non consente il
rilascio di permesso di costruire in deroga per le attività produttive.
Aggiunge ancora il ricorrente che, attraverso il permesso di costruire "temporaneo”,
la norma censurata avrebbe inoltre introdotto un nuovo titolo abilitativo, non
previsto dalla legislazione statale, invadendo così la competenza legislativa
statale in materia di «governo del territorio» di cui all’art. 117, terzo
comma, Cost.
Va premesso che,
sebbene nelle conclusioni del ricorso siano richiamati soltanto i commi 1, 2 e 6, il
tenore delle censure investe l’intero contenuto dell’art. 9, il quale delinea la disciplina unitaria di un medesimo
istituto.
5.1.‒ La questione è fondata.
La disposizione
impugnata contraddice, in primo luogo, le norme statali che disciplinano il
regime edilizio delle opere pubbliche e di interesse pubblico (art. 7 del TUE).
Per le «opere pubbliche, da eseguirsi da amministrazioni statali o comunque
insistenti su aree del demanio statale»
e per le «opere pubbliche di interesse
statale, da realizzarsi dagli enti istituzionalmente competenti, ovvero da
concessionari di servizi pubblici», oltre a non essere dovuto il contributo di
costruzione (art. 17, comma 3, del TUE),
non è necessario acquisire il permesso di costruire, né presentare la denunzia
di inizio attività (art. 7, comma l, lettera b, del TUE), essendo prescritto, in luogo di essi, l’accertamento
della conformità urbanistica ed edilizia delle opere, tramite lo specifico
procedimento disciplinato dal d.P.R. 18 aprile 1994, n. 383 (Regolamento
recante disciplina dei procedimenti di localizzazione delle opere di interesse
statale).
Mentre dunque la
norma statale non prescrive un titolo abilitativo per le opere pubbliche o di
interesse pubblico, ma le sottopone alla osservanza delle prescrizioni edilizie
e urbanistiche tramite un apposito procedimento di controllo, la norma
regionale ha coniato, per le medesime opere, un atto di assenso "precario” non
riconducibile ad alcuno dei "tipi” disciplinati dal testo unico dell’edilizia.
La violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in riferimento all’art. 7 del
TUE non è, sotto questo primo profilo, contestabile.
5.2.‒ L’art. 9
della legge reg. Marche n. 17 del 2015 contraddice anche l’art. 14 del TUE che
consente, a talune condizioni, il rilascio del permesso di costruire in deroga
alla disciplina urbanistica ed edilizia.
Il permesso di
costruire in deroga, ai sensi del comma 1 dell’art. 14 del TUE, può essere rilasciato
solo per edifici ed impianti pubblici o di interesse pubblico, previa
deliberazione del Consiglio comunale, nel rispetto delle norme igieniche,
sanitarie e di sicurezza. Il permesso in deroga può riguardare esclusivamente i
limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza fra i fabbricati di cui
alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi e
può essere disposto solo se sussiste uno specifico interesse pubblico
prevalente rispetto agli interessi che hanno trovato considerazione e
riconoscimento negli atti di pianificazione territoriale (sul punto, Consiglio
di Stato, sezione quinta, 20 dicembre 2013, n. 6136).
La possibilità di
costruire in deroga agli strumenti urbanistici generali, che l’art. 14, comma
1, del TUE riserva agli edifici e agli impianti pubblici e di interesse
pubblico, è stata recentemente integrata da una nuova previsione (comma 1-bis),
introdotta dall’art. 17, comma 1, lettera e), del decreto-legge n. 133 del
2014. In particolare, per gli interventi di ristrutturazione edilizia, attuati
anche in aree industriali dismesse, è prevista la possibilità di costruire
«anche in deroga alle destinazioni d’uso». La previa deliberazione del
Consiglio comunale che ne attesta l’interesse pubblico è peraltro subordinata
alla condizione che il mutamento di destinazione d’uso non comporti un aumento
della superficie coperta esistente prima del programmato intervento di
ristrutturazione.
Alla luce di quanto
esposto, è evidente che l’autorizzazione temporanea introdotta dalla
disposizione regionale censurata contrasta sotto più profili con la disciplina
statale del permesso di costruire in deroga.
Le difformità
concernono: il procedimento, poiché la disciplina statale richiede una previa
deliberazione del Consiglio comunale, mentre l’art. 9 della legge reg. Marche
n. 17 del 2015 stabilisce soltanto che l’autorizzazione temporanea «è
rilasciata secondo le modalità previste nel regolamento edilizio comunale»
(comma 3); i presupposti, in quanto la disciplina statale non prevede, come
invece la norma regionale, alcuna possibilità di deroga per gli interventi
edilizi riguardanti generiche «attività produttive», a meno che non si tratti
di ristrutturazione edilizia (di cui all’art. 14, comma 1-bis, del TUE); le
finalità, in quanto l’istituto statale è volto a soddisfare esigenze
costruttive stabili e non «esigenze di carattere improrogabile e transitorio
non altrimenti realizzabili» (comma 1 dell’art. 9 della legge regionale); gli
effetti, in quanto il permesso disciplinato dall’art. 14 del TUE consente di
derogare (in via definitiva) ai soli limiti di densità edilizia, di altezza e
di distanza fra i fabbricati, mentre la norma regionale sembra autorizzare
qualsivoglia difformità rispetto alle previsioni degli strumenti urbanistici
comunali adottati o approvati.
Ne consegue che,
anche sotto questo profilo, il legislatore regionale ha introdotto una deroga
non consentita al regime statale dei titoli abilitativi, il quale come più
volte ricordato costituisce principio fondamentale della materia concorrente
«governo del territorio».
5.3.‒ Al di là
dei profili sopra esaminati, va rimarcato, quale ulteriore motivo di
accoglimento della questione, che è in ogni caso precluso al legislatore
regionale di introdurre atti di assenso all’esecuzione di opere edilizie del
tutto "atipici” rispetto a quelli disciplinati dal testo unico dell’edilizia.
Il regime dei titoli abilitativi ‒ quanto a presupposti, procedimento ed
effetti ‒ costituisce principio fondamentale della materia concorrente del
«governo del territorio» rimesso alla potestà legislativa dello Stato.
6.‒ Secondo il
Governo l’art. 12 della legge reg. Marche n. 17 del 2015 contrasta con l’art.
117, terzo comma, Cost., in riferimento ai principi fondamentali delle materie
«protezione civile» e «governo del territorio» desunti dagli artt. 84 e 88 del
TUE. Quest’ultimo articolo, in particolare, riconoscerebbe soltanto al Ministro
per le infrastrutture e i trasporti la possibilità di concedere deroghe
all’osservanza delle norme tecniche di costruzione nelle zone considerate
sismiche.
6.1.‒ In via preliminare, va respinta l’eccezione di
inammissibilità prospettata dalla Regione resistente, sul presupposto che il
ricorso non chiarirebbe i termini del contrasto tra la norma censurata e i principi
fondamentali della materia, individuata indifferentemente nel «governo del
territorio» e nella «protezione civile».
Il ricorso, sebbene
molto conciso, rende «ben identificabili i termini delle questioni proposte,
individuando le disposizioni impugnate, i parametri evocati e le ragioni dei
dubbi di legittimità costituzionale (sentenza n. 241 del
2012)» (sentenza
n. 176 del 2015). In particolare, da esso si comprendono agevolmente i termini del contrasto sollevato: il Governo ha evidentemente inteso censurare le difformità, in termini di parametri costruttivi,
tra il contenuto della norma regionale e la disciplina statale recante i
principi fondamentali della materia nel settore delle costruzioni in zone
sismiche.
6.2.‒ Nel merito, la questione è fondata.
La giurisprudenza
costituzionale ha costantemente ricondotto disposizioni di leggi regionali che
incidono sulla disciplina degli interventi edilizi in zone sismiche all’ambito
materiale del «governo del territorio» e a quello relativo alla «protezione
civile» per i profili concernenti «la tutela dell’incolumità pubblica» (sentenza n. 254 del
2010). In entrambe le materie, di potestà legislativa concorrente, spetta
allo Stato fissare i principi fondamentali (tra le tante, sentenze n. 300
e n. 101 del
2013, n. 201
del 2012, n.
254 del 2010, n.
248 del 2009, n.
182 del 2006). La stessa giurisprudenza assegna inoltre valenza di
«principio fondamentale» alle disposizioni contenute nel Capo IV della Parte II
del d.P.R. n. 380 del 2001, intitolato «Provvedimenti per le costruzioni con
particolari prescrizioni per le zone sismiche», che prevedono adempimenti
procedurali, quando questi ultimi rispondano a esigenze unitarie,
particolarmente pregnanti di fronte al rischio sismico.
La disciplina
statale che rimette a decreti del Ministro l’approvazione delle norme tecniche
per le costruzioni la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità,
da realizzarsi in zone dichiarate sismiche (artt. 83 e 84 del TUE), costituisce
chiara espressione di un principio fondamentale, come tale vincolante anche per
le Regioni. Il legislatore statale ha inteso dettare una disciplina unitaria a
tutela dell’incolumità pubblica, con l’obiettivo di garantire, per ragioni di
sussidiarietà e di adeguatezza, un regime unico, valido per tutto il territorio
nazionale, in un settore nel quale entrano in gioco valutazioni altamente
tecniche.
Per le stesse
ragioni, anche l’art. 88 del TUE ‒ il quale riconosce soltanto al
Ministro per le infrastrutture e i trasporti la possibilità di concedere
deroghe all’osservanza delle norme tecniche di costruzione nelle zone
considerate sismiche ‒ esprime, secondo la giurisprudenza della Corte, un
principio fondamentale della materia (sentenza n. 254 del
2010).
La difesa regionale
non coglie poi nel segno affermando che gli artt. 84 e 88 del TUE si
occuperebbero dei parametri costruttivi relativi alla costruzione di edifici in
zone sismiche con esclusivo riferimento agli edifici di nuova costruzione,
mentre la norma regionale riguarderebbe interventi edilizi su edifici
preesistenti.
L’intera normativa
riguardante le opere da realizzarsi in zone dichiarate sismiche ha come punto
di riferimento del proprio ambito applicativo, non il concetto di nuova
costruzione, bensì quello di «tutte le costruzioni la cui sicurezza possa
comunque interessare la pubblica incolumità» (art. 83 del TUE). Il legislatore
applica cioè una nozione trasversale, indifferente e autonoma rispetto a quella
utilizzata ai fini di altre classificazioni operanti nella disciplina edilizia,
e tale da essere tendenzialmente omnicomprensiva di tutte le vicende in cui
venga in questione la realizzazione di una opera edilizia rilevante per la
pubblica incolumità (Consiglio di
Stato, sezione quarta, 12 giugno 2009, n. 3706).
Pertanto, la circostanza che l’opera da realizzare consista in interventi sul
patrimonio edilizio esistente non mette in dubbio il fatto che possa trattarsi
comunque di una costruzione da realizzarsi in zona sismica, e quindi ricompresa
nell’ambito di applicazione degli artt. 84 e 88 del TUE.
Ciò premesso, l’art.
84 TUE non consente che l’art. 12 della legge reg. Marche n. 17 del 2015
introduca deroghe per l’inserimento di (peraltro non meglio precisati)
«elementi strutturali finalizzati, nell’ambito di un progetto complessivo, a
ridurre la vulnerabilità sismica dell’intero edificio». Tanto meno consente che
venga introdotto un complesso rilevante di deroghe come quello previsto nella
legge regionale impugnata, consistenti in: incrementi di altezza; riduzioni
delle distanze dal confine di proprietà; mancato computo ai fini del calcolo
della volumetria delle superfici, delle altezze e delle distanze; possibilità
di rilasciare il titolo abilitativo in difformità rispetto a quanto stabilito
negli strumenti urbanistici e nei regolamenti edilizi comunali (sia pure fatte
salve eventuali limitazioni imposte da specifici vincoli storici, ambientali,
paesaggistici, igienico-sanitari e di sicurezza); inapplicabilità delle
disposizioni in materia di densità edilizia e di altezza per le edificazioni
nelle zone di tipo E di cui agli articoli 7 e 8 del decreto del Ministro dei
lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità
edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi
destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da
osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della
revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della L. 6 agosto 1967, n.
765).
7.‒ L’articolo
13 della legge reg. Marche n. 17 del
La medesima norma
regionale inoltre, «ove prevede di consentire l’agibilità», contrasterebbe con
l’art. 117, terzo comma, Cost., in materia di «governo del territorio», in
relazione agli artt. 24 e 25 del TUE che disciplinano il certificato di
agibilità.
7.1.‒ L’eccezione di inammissibilità per genericità delle
censure è infondata, in quanto le questioni sono adeguatamente motivate con
l’indicazione degli elementi idonei a far comprendere il senso della lamentata
violazione dei parametri invocati.
7.2.‒ Nel
merito, il contrasto tra la
norma regionale e l’art. 2-bis del
TUE, non sussiste.
La norma regionale
si limita a stabilire che «sono consentiti, anche in deroga alle previsioni
degli strumenti urbanistici comunali, il recupero a fini abitativi e
l’agibilità, senza modifica della sagoma dell’edificio, dei sottotetti
esistenti alla data del 30 giugno 2014, legittimamente realizzati o condonati»,
purché siano rispettati una serie di limiti di altezza e di rapporto
"illuminotecnico”.
Non solo dunque la
norma non autorizza alcuna deroga alle distanze minime tra fabbricati e agli
standard urbanistici, ma si deve ritenere che faccia salvo il rispetto di
questi parametri, come è confermato anche dall’art. 1, comma 3, della medesima
legge reg. Marche n. 17 del 2015, in cui l’art. 13 impugnato si inserisce,
secondo il quale: «[p]er quanto non previsto, si
applica la normativa statale vigente».
7.3.‒ Anche la questione di legittimità costituzionale
sollevata in riferimento agli artt. 24 e 25 del TUE non è fondata.
Avuto riguardo al
suo tenore letterale, va escluso che la norma impugnata elimini l’obbligo di
sottoporre a controllo, attraverso la prescrizione del certificato di
agibilità, gli interventi di recupero dei sottotetti che possono comportare un
sensibile rischio di peggioramento delle condizioni igienico-sanitarie
dell’edificio o degli impianti in questione. Essa va quindi logicamente
interpretata nel senso che, dal punto di vista edilizio, il recupero dei
sottotetti ‒ ove ne ricorrano i requisiti di igiene e salubrità ‒
consente di ottenere il certificato di agibilità, ferma restando ovviamente la
necessità di conseguirne in concreto il rilascio.
per questi motivi
LA CORTE
COSTITUZIONALE
1) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art.
4, comma 1, lettere a), b), c),
d), h) e m), della legge
della Regione Marche
20 aprile 2015, n. 17 (Riordino e semplificazione della normativa regionale in
materia di edilizia);
2) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art.
6, comma 2, della legge della Regione Marche
n. 17 del 2015;
3) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art.
9 della legge della Regione Marche
n. 17 del 2015;
4) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 12 della legge della Regione Marche n. 17 del 2015;
5) dichiara inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 4, comma 1, lettera l), della legge
della Regione Marche n. 17 del 2015, promossa, in riferimento
all’art. 117, terzo comma, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri,
con il ricorso indicato in epigrafe;
6) dichiara inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 8,
comma 3, della legge della Regione Marche
n. 17 del 2015, promossa, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost.,
dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe;
7) dichiara non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 6, comma l, lettere c) e g), della legge della Regione Marche n. 17 del 2015, promossa, in riferimento
all’art. 117, terzo comma, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri,
con il ricorso indicato in epigrafe;
8) dichiara non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art.
13, comma l, lettere a) e b), della legge della Regione Marche n. 17 del 2015, promossa, in riferimento
all’art. 117, secondo comma, lettera l), e terzo comma, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il
ricorso indicato in epigrafe.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
il giorno 8 novembre 2016.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Carmelinda MORANO, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 21 dicembre
2016.