SENTENZA N. 244
ANNO 2020
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Mario Rosario MORELLI;
Giudici: Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 8 della legge della Regione Emilia-Romagna 14 dicembre 1982, n. 58 (Omogeneizzazione del trattamento di previdenza del personale regionale), dell’art. 15, comma 3, della legge della Regione Emilia-Romagna 30 aprile 2015, n. 2 (Disposizioni collegate alla legge finanziaria per il 2015), e dell’art. 8 della legge della Regione Emilia-Romagna 29 luglio 2016, n. 13 (Disposizioni collegate alla legge di assestamento e seconda variazione generale al bilancio di previsione della Regione Emilia-Romagna 2016-2018), promosso dalla Corte dei conti, sezione regionale di controllo per l’Emilia-Romagna, nel giudizio di parificazione del rendiconto generale della Regione Emilia-Romagna, per l’esercizio finanziario 2018, con ordinanza del 2 agosto 2019, iscritta al n. 192 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visto l’atto di costituzione della Regione Emilia-Romagna;
udito nell’udienza pubblica del 21 ottobre 2020 il Giudice relatore Silvana Sciarra;
uditi gli avvocati Giandomenico Falcon e Andrea Manzi per la Regione Emilia-Romagna;
deliberato nella camera di consiglio del 22 ottobre 2020.
1.‒ Con ordinanza del 2 agosto 2019, la Corte dei conti, sezione regionale di controllo della per l’Emilia Romagna, nel corso del giudizio di parificazione del rendiconto della Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2018, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 8 della legge della Regione Emilia-Romagna 14 dicembre 1982, n. 58 (Omogeneizzazione del trattamento di previdenza del personale regionale), dell’art. 15, comma 3, della legge della Regione Emilia-Romagna 30 aprile 2015, n. 2 (Disposizioni collegate alla legge finanziaria per il 2015), nonché dell’art. 8 della legge della Regione Emilia-Romagna 29 luglio 2016, n. 13 (Disposizioni collegate alla legge di assestamento e seconda variazione generale al bilancio di previsione della Regione Emilia-Romagna 2016-2018), in riferimento agli artt. 3, 36, 81, 97, 117, commi secondo, lettere l) e o) e terzo, e 119 della Costituzione.
1.1.‒ La Sezione regionale di controllo premette in fatto che, nel rendiconto relativo all’esercizio finanziario 2018, compare un capitolo di bilancio (capitolo U89360), relativo al «Fondo di accantonamento per l’integrazione regionale all’indennità di fine servizio», costituito dalla Regione, nell’ambito della facoltà di accantonamento di fondi per passività potenziali, attribuita dall’art. 46, comma 3, del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118 (Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42), per le spese inerenti all’integrazione regionale al trattamento di fine servizio (TFS). Tale integrazione – cui affluiscono anche le risorse individuate nel capitolo U04150 (denominato «Oneri dipendenti dalla integrazione regionale delle indennità premio di servizio al personale per il quale non opera la ricongiunzione dei servizi») ‒ è stata introdotta dall’amministrazione regionale a favore dei propri dipendenti, ponendola a carico del proprio bilancio, sulla base dell’art. 1 della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982, fino all’entrata in vigore di una diversa disciplina generale dell’indennità di fine servizio per tutto il settore del pubblico impiego (art. 1, comma 1). La citata legge regionale è stata abrogata dall’art. 15, comma 3, della legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015 che, tuttavia, ne ha fatto salva l’applicazione limitatamente ai dipendenti che avessero maturato, prima della sua entrata in vigore, il requisito di un anno di servizio presso la Regione. Tale ultima previsione è stata, poi, oggetto di una norma di interpretazione autentica, contenuta nell’art. 8 della legge reg. Emilia-Romagna n. 13 del 2016, in cui si dispone che «[i]l secondo periodo del comma 3 dell’articolo 15» della legge regionale n. 2 del 2015 «si interpreta nel senso che la salvaguardia si applica ai dipendenti in servizio presso l’amministrazione regionale alla data di entrata in vigore della norma stessa».
La Sezione rimettente ritiene che la Regione, dettando l’art. 15, comma 3 della legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015, sia intervenuta in materie riservate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, così determinando un illegittimo aumento della spesa del personale regionale. Pertanto, dichiara di non poter parificare i relativi capitoli del bilancio senza prima sollevare questione di legittimità costituzionale. Infatti, se tali norme – di autorizzazione di quelle spese – fossero dichiarate costituzionalmente illegittime, le spese stesse sarebbero prive di copertura finanziaria e quindi lesive dell’art. 81, terzo comma, Cost. La Sezione si troverebbe, così, a validare un risultato di amministrazione non corretto, in quanto relativo a una spesa conseguente all’adozione di un istituto illegittimo.
Pertanto, il Collegio rimettente solleva questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982, 15, comma 3 della legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015 e 8 della legge reg. Emilia-Romagna n. 13 del 2016, che dispongono che venga erogata un’integrazione al trattamento di fine servizio ai dipendenti regionali in servizio presso la Regione che abbiano maturato, entro l’entrata in vigore della citata legge regionale n. 2 del 2015, il requisito di almeno un anno di servizio prestato a favore della stessa Regione.
1.2.‒ Con tali norme, la Regione, pur avendo disposto l’abrogazione della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982, istitutiva della citata integrazione, sarebbe intervenuta nelle materie di competenza statale esclusiva della previdenza sociale e dell’ordinamento civile (art. 117, secondo comma, lettere o ed l, Cost.), nella parte in cui le citate norme hanno comunque fatto salva tale integrazione per i dipendenti con almeno un anno di anzianità e in servizio presso la Regione al momento dell’entrata in vigore della medesima legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015.
La disciplina del TFS dei dipendenti regionali sarebbe, infatti, secondo la Sezione rimettente, riconducibile alle già menzionate materie di competenza esclusiva statale, per la sua natura di retribuzione differita con funzione previdenziale.
La spesa per il personale regionale relativa a tale integrazione, pertanto, sarebbe stata effettuata sine titulo e avrebbe inciso sulle risorse iscritte a bilancio. L’amministrazione regionale, infatti, avrebbe individuato apposite risorse volte a compensare tale migliore trattamento, determinando la riduzione di altre poste del risultato di amministrazione, in contrasto con la legislazione statale e in violazione degli artt. 81 e 97 Cost.
Le medesime norme regionali si porrebbero anche in contrasto con le norme statali che contengono principi fondamentali e norme fondamentali di riforma economico sociale, determinando un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai dipendenti pubblici del restante territorio nazionale. Esse, peraltro, configurerebbero una voce retributiva non corrispondente a una specifica prestazione del dipendente, in quanto tale non proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato e dunque in violazione dell’art. 36 Cost.
Incrementando la spesa pubblica in tema di personale regionale, fondamentale aggregato della spesa corrente, le norme in questione si porrebbero anche in contrasto con i principi di coordinamento della finanza pubblica di cui agli artt. 117 e 119 Cost.
La Sezione rimettente dubita, infine, della legittimità costituzionale degli artt. 1 e 8 della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982 ? che, rispettivamente, istituiscono l’integrazione regionale al TFS dei dipendenti regionali (art.1) e ne individuano la copertura finanziaria (art. 8) ? e dell’art. 15, comma 3 della legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015, là dove fa salva l’applicazione dell’integrazione regionale al TFS ai dipendenti regionali in servizio presso la Regione e con almeno un anno di anzianità.
Tali norme violerebbero l’obbligo di copertura finanziaria di cui all’art. 81, terzo comma, Cost.
Per un verso, esse non indicherebbero alcun mezzo di copertura della spesa prevista (art. 1 legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982 e art. 15, comma 3, legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015), limitandosi a rinviare la provvista alle successive previsioni di bilancio (art. 8 legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982), secondo una modalità non compresa fra quelle tipicamente indicate nell’art. 17 della legge 31 dicembre 2009 n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica), applicabile alle regioni in base all'art. 19, comma 2, della stessa legge. Il collegio rimettente ricorda che, secondo la legislazione statale (in specie, secondo gli artt. 30 della legge n. 196 del 2009 di contabilità generale e 38 del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118 (Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42), inerente all’armonizzazione dei sistemi contabili e dei bilanci di regioni ed enti locali, la possibilità di far riferimento ai bilanci futuri per individuare l’onere e dunque la copertura sarebbe ammissibile alla sola condizione della piena flessibilità dell’onere medesimo, che non sussisterebbe nel caso di specie.
Per altro verso, con riferimento al primo anno di applicazione dell’integrazione regionale, la normativa regionale denunciata presenterebbe un’insufficiente quantificazione dell’onere (art. 8, comma 1, legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982), poiché non supportata da alcuna documentazione tecnica a corredo.
2.‒ Si è costituita in giudizio la Regione Emilia-Romagna che, sia nell’atto di costituzione che nelle memorie depositate nell’imminenza dell’udienza pubblica, chiede che le questioni di legittimità costituzionale vengano dichiarate inammissibili e, in subordine, non fondate.
Anzitutto, tutte le questioni sarebbero inammissibili per difetto di rilevanza a seguito dell’approvazione, con legge della Regione Emilia-Romagna 30 luglio 2019 n. 12 (Rendiconto generale della Regione Emilia-Romagna per l'esercizio finanziario 2018), del rendiconto consuntivo 2018, che, all’indomani dell’adozione dell’ordinanza di rimessione, avrebbe reso il procedimento pendente dinanzi alla Sezione regionale di controllo della Corte dei conti privo di oggetto.
Tutte le questioni sarebbero inammissibili anche per la preclusione derivante dalle precedenti parifiche della medesima spesa. Essa, evidenziata nel rendiconto 2018, sarebbe stata sempre presente nei rendiconti regionali degli anni precedenti e sempre parificata. Sarebbe, pertanto, venuto meno il potere di intervenire su un sindacato già svolto, esaminando un rapporto che, anche in forza delle precedenti pronunce, avrebbe acquisito, mediante il giudicato della stessa Corte dei conti, certezza e stabilità.
La difesa regionale solleva, poi, diverse eccezioni di inammissibilità in relazione alla questione prospettata in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere l) e o), Cost.
Anzitutto la questione sarebbe inammissibile per difetto di rilevanza, in quanto la Sezione regionale di controllo della Corte dei conti, in sede di parificazione, sarebbe chiamata, nell’esercizio di una funzione ausiliaria degli organi di decisione politica, solo a verificare la corrispondenza fra i fatti gestionali esposti nelle scritture contabili e il rendiconto generale e, dunque, tale giudizio riguarderebbe la veridicità di quest’ultimo e non la legittimità delle leggi di spesa. In ogni caso la questione avrebbe dovuto essere sollevata con riguardo alla norma della legge regionale del bilancio preventivo, con cui è stato approvato l’accantonamento delle risorse, non con riguardo alle norme sostanziali.
Un’ulteriore causa di inammissibilità della medesima questione deriverebbe dall’errata individuazione del parametro. Quello invocato sarebbe infatti manifestamente non pertinente, ratione temporis, rispetto alla legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982, essendo vigente all’epoca un diverso riparto di competenza.
Egualmente inammissibile sarebbe la questione sollevata in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., in quanto la loro eventuale violazione non inciderebbe sull’an della spesa e, quindi, sugli equilibri finanziari dell’ente autonomo.
Infine, anche la censura di violazione dei principi di coordinamento della finanza pubblica sarebbe inammissibile per l’assenza di qualsiasi richiamo alle disposizioni interposte.
Nel merito, la questione di violazione della sfera di competenza statale sarebbe infondata. La Regione avrebbe titolo a conservare quella specifica indennità per i dipendenti in regime di TFS, fintanto che la legge statale non prescriva in modo preciso e vincolante il passaggio al trattamento di fine rapporto (TFR). La disciplina di tale integrazione – identica a quella adottata in molte altre Regioni nel medesimo periodo – sarebbe riconducibile alla competenza regionale in materia di ordinamento degli uffici, secondo il riparto di competenze di cui al "vecchio” Titolo V.
Anche la questione relativa alla violazione dell’art. 81, terzo comma, Cost. sarebbe inammissibile e, nel merito, non fondata.
La questione sarebbe inammissibile per erronea individuazione del parametro ratione temporis e, comunque, per omesso esame del contesto normativo di riferimento all’epoca dell’approvazione delle disposizioni contestate, in specie della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982 che ha introdotto l’integrazione regionale al TFS, laddove la legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015 ha solo delimitato la platea dei destinatari della stessa. In ogni caso, la questione sarebbe inammissibile perché non sarebbe stata correttamente identificata la norma di copertura finanziaria. Quest’ultima avrebbe dovuto essere individuata, per l’anno inerente all’esercizio finanziario 2018, nella legge regionale di approvazione del bilancio preventivo 2018, conforme alle indicazioni di cui al d.lgs. n. 118 del 2011.
Nel merito, la questione sarebbe priva di fondamento. L’assunto secondo cui la quantificazione degli oneri potrebbe essere rinviata alla legge di bilancio solo in caso di oneri di natura non obbligatoria non sarebbe, infatti, applicabile con riguardo a una normativa regionale risalente al 1982, ben precedente all’entrata in vigore delle richiamate disposizioni statali che su tale materia intervengono. Lo stanziamento effettuato per il primo anno di applicazione della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982 si sarebbe poi rivelato, in sede applicativa, più che capiente, a conferma della esattezza della prognosi effettuata dall’assemblea legislativa.
3.‒ All’udienza pubblica la difesa regionale ha insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulate nelle memorie scritte.
1.‒ La Corte dei conti, sezione regionale di controllo della per l’Emilia Romagna, nel corso del giudizio di parificazione del rendiconto della Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2018, dubita, sotto vari profili, della legittimità costituzionale di alcune disposizioni di leggi della Regione Emilia-Romagna sulla cui base sono state autorizzate spese, iscritte in due capitoli del citato rendiconto, necessarie al pagamento dell’integrazione regionale al trattamento di fine servizio (TFS) dei dipendenti regionali.
1.1.‒ Più precisamente, il Collegio rimettente, motivando sulla rilevanza delle questioni, premette che, dall’esame dei capitoli di bilancio, risulta che le risorse destinate alla integrazione regionale sono state accantonate in uno specifico fondo (il «Fondo di accantonamento per l’integrazione regionale all’indennità di fine servizio»), iscritto in un apposito capitolo di bilancio (il capitolo U89360), introdotto in attuazione di quanto previsto dalla legge regionale di approvazione del bilancio regionale preventivo 2018/2020 (legge della Regione Emilia-Romagna 27 dicembre 2017, n. 27 recante «Bilancio di previsione della Regione Emilia-Romagna 2018-2020»). Tali risorse sono da considerare congiuntamente a quelle già iscritte – come nei rendiconti relativi ai precedenti esercizi finanziari – nel capitolo U04150 (denominato «Oneri dipendenti dalla integrazione regionale delle indennità premio di servizio al personale per il quale non opera la ricongiunzione dei servizi»), inerenti alla concreta "movimentazione” degli impegni di spesa relativi alla medesima integrazione. La normativa di autorizzazione della spesa prevista nei due capitoli è individuata: nella legge della Regione Emilia-Romagna 14 dicembre 1982, n. 58 (Omogeneizzazione del trattamento di previdenza del personale regionale), che, all’art. 1, ha istituito la richiamata integrazione regionale al TFS; nell’art. 15, comma 3, della legge della Regione Emilia-Romagna 30 aprile 2015, n. 2 (Disposizioni collegate alla legge finanziaria per il 2015), che, pur abrogandola, l’ha fatta salva per i dipendenti che avessero almeno un anno di anzianità di servizio presso la Regione; infine, nell’art. 8 della legge della Regione Emilia-Romagna 29 luglio 2016, n. 13 (Disposizioni collegate alla legge di assestamento e seconda variazione generale al bilancio di previsione della Regione Emilia-Romagna 2016-2018) che, con norma di interpretazione autentica, ha precisato che essa può essere riconosciuta solo ai dipendenti regionali in servizio presso la Regione al momento dell’entrata in vigore della citata legge regionale n. 2 del 2015.
Il Collegio rimettente ritiene che le citate disposizioni regionali siano illegittime, anzitutto, in quanto invasive di sfere di competenza statale esclusiva. Esse avrebbero determinato un illegittimo aumento della spesa per il personale regionale. Non sarebbe, pertanto, possibile procedere alla parificazione dei due capitoli inerenti a tale spesa, senza prima sollevare questione di legittimità costituzionale. Ove, infatti, tali norme di autorizzazione della spesa fossero dichiarate costituzionalmente illegittime, la spesa sarebbe priva di copertura finanziaria e quindi lesiva dell’art. 81, terzo comma, della Costituzione. Pertanto, la Sezione si troverebbe a validare un risultato di amministrazione non corretto.
1.2.‒ Tanto premesso, la Sezione regionale di controllo sospende la parificazione dei due capitoli e formula le questioni di legittimità costituzionale delle richiamate disposizioni regionali.
Queste ultime violerebbero, in primo luogo, la sfera di competenza legislativa statale esclusiva nelle materie «previdenza sociale» e «ordinamento civile» (art. 117, secondo comma, lettere o e l, Cost.), con conseguente ridondanza sui parametri finanziari di cui agli artt. 81 e 97 Cost. L’amministrazione regionale, infatti, avrebbe individuato apposite risorse volte a compensare un trattamento illegittimo in favore dei dipendenti regionali, determinando la riduzione di altre poste del risultato di amministrazione.
Le medesime disposizioni si porrebbero, inoltre, in contrasto con i principi fondamentali e con le norme fondamentali di riforma economico sociale, determinando un’ingiustificata disparità di trattamento dei dipendenti regionali rispetto ai dipendenti pubblici del restante territorio nazionale. Esse violerebbero anche il principio di proporzionalità della retribuzione di cui all’art. 36 Cost., che vieta, nel rapporto di lavoro pubblico, di erogare incrementi retributivi sulla base di meri meccanismi automatici, privi di correlazione con l’attività prestata, nonché il connesso principio di effettività delle prestazioni, che crea un nesso inscindibile fra prestazioni rese e retribuzione delle stesse (art. 7, comma 5, decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, recante «Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche»). Infine, le medesime disposizioni entrerebbero in collisione con i principi di coordinamento della finanza pubblica, in quanto incrementerebbero la spesa regionale in tema di personale, che è fondamentale aggregato della spesa corrente.
La Sezione rimettente ritiene, inoltre, che gli artt. 1 e 8 della legge reg-Emilia-Romagna n 58 del 1982 e l’art. 15, comma 3, della legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015, vìolino l’obbligo di copertura finanziaria di cui all’art. 81, terzo comma, Cost.
Tali disposizioni non indicherebbero alcun mezzo di copertura della spesa prevista per l’erogazione dell’integrazione regionale al TFS, limitandosi, con esclusivo riferimento al primo anno di applicazione dell’integrazione regionale, a prevedere un’insufficiente quantificazione dell’onere, e, per gli anni successivi, a rinviare la provvista alle successive previsioni di bilancio (così, l’art. 8 della citata legge reg. n. 58 del 1982), secondo una modalità che non rientra, trattandosi di un onere inderogabile, tra le modalità di copertura tipicamente indicate nell’art. 17 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica), applicabile alle regioni in base all’art. 19, comma 2, della stessa legge.
2.‒ Preliminarmente, occorre esaminare le eccezioni di inammissibilità proposte dalla difesa regionale in via generale.
2.1.‒ Anzitutto, tutte le questioni sollevate dalla sezione regionale di controllo della Corte dei conti per l’Emilia-Romagna sarebbero inammissibili per difetto di rilevanza, a seguito dell’approvazione, all’indomani dell’adozione dell’ordinanza di rimessione, della legge della Regione Emilia-Romagna 30 luglio 2019, n. 12 (Rendiconto generale della Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2018). L’approvazione, senza riserve né eccezioni, da parte del Consiglio regionale, del rendiconto consuntivo inerente all’esercizio finanziario 2018 avrebbe reso il procedimento pendente dinanzi alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti privo di oggetto. Secondo la difesa regionale, tale conclusione deriverebbe dalla circostanza che, una volta deliberata la legge di approvazione del rendiconto, non vi sarebbe più alcun residuo interesse a una pronuncia della Sezione sulla decisione di parifica, in considerazione del carattere meramente ausiliario del giudizio di parifica rispetto alla decisione dell’assemblea legislativa regionale.
2.1.1.‒ L’eccezione è priva di fondamento.
L’assunto da cui muove la difesa regionale è che la asserita sopravvenuta carenza di interesse alla pronuncia della Sezione rimettente in tema di parifica – che discenderebbe dall’approvazione del rendiconto consuntivo relativo all’esercizio finanziario 2018 da parte del Consiglio regionale – incida sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale, facendone venir meno la rilevanza. Tale assunto si pone in contrasto con quanto disposto dall’art. 18 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, in cui espressamente si statuisce che, nell’ambito del giudizio in via incidentale, «[l]a sospensione, l’interruzione e l’estinzione del processo principale non producono effetti sul giudizio davanti alla Corte costituzionale». Questa Corte ha ripetutamente affermato che il giudizio di legittimità costituzionale instaurato in via incidentale «non risente delle vicende di fatto successive all’ordinanza di rimessione che concernono il rapporto dedotto nel processo principale, come previsto dall’art. 18 delle Norme integrative […]. Pertanto, la rilevanza della questione deve essere valutata alla luce delle circostanze sussistenti al momento dell’ordinanza di rimessione, senza che assumano rilievo eventi sopravvenuti […], tra i quali sono comprese anche la definizione stragiudiziale della controversia o comunque la cessazione, per qualsiasi causa, del giudizio rimasto sospeso davanti al giudice a quo» (sentenza n. 264 del 2017; fra le altre, sentenze n. 180 del 2018, n. 242 e n. 162 del 2014 e n. 120 del 2013).
Nel caso di specie, quindi, quali che siano gli effetti, sul giudizio di parificazione, dell’approvazione – successiva all’ordinanza di rimessione – del rendiconto consuntivo relativo all’esercizio finanziario 2018, da parte del Consiglio regionale, essi non si riverberano in alcun modo sul giudizio di legittimità costituzionale instaurato davanti a questa Corte, a seguito dell’ordinanza di rimessione della Sezione regionale di controllo. La parifica – che per effetto dell’evoluzione normativa costituisce «esercizio di funzioni giudicanti per l’obiettiva applicazione della legge» (sentenza n 138 del 2019) – si qualifica quale giudizio, sia pure «ai limitati fini dell’art. 1 della legge cost. n. 1 del 1948 e dell’art. 23 della legge n. 87 del 1953» (sentenza n. 89 del 2017). Nell’ambito di tale peculiare giudizio ben possono essere sollevate questioni di legittimità costituzionale avverso «"le disposizioni di legge che determinano, nell’articolazione e nella gestione del bilancio stesso, effetti non consentiti dai principi posti a tutela degli equilibri economico-finanziari" e da tutti gli "altri precetti costituzionali, che custodiscono la sana gestione finanziaria"» (sentenze n. 196 del 2018 e n. 181 del 2015). Sono queste le ragioni, ripetutamente chiarite da questa Corte, che giustificano l’applicazione dell’art. 18 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale e del principio di ininfluenza delle vicende sopravvenute all’ordinanza di rimessione, che in tale norma è esplicitato.
2.2. ‒ La difesa regionale eccepisce, inoltre, l’inammissibilità di tutte le questioni sollevate per la preclusione derivante dalle precedenti parifiche. Si deve premettere che il capitolo di bilancio inerente agli «Oneri dipendenti dalla integrazione regionale della indennità premio di servizio INADEL» (U04150) era presente nei rendiconti regionali degli anni precedenti, che la spesa in esso evidenziata è sempre stata parificata, e che il capitolo inerente al «Fondo di accantonamento per l’integrazione regionale all’indennità di fine servizio» (U89360) serve a dare evidenza contabile alla stessa spesa per gli anni a venire. Muovendo da queste premesse, la Regione ritiene non più esercitabile il potere di sindacare un rapporto che, in forza delle precedenti pronunce di parifica rese dalla stessa Sezione regionale di controllo e convalidate dal Consiglio regionale con le leggi annuali di approvazione del rendiconto deliberate dal 2013 al 2017, avrebbe acquisito certezza e stabilità.
Poiché le spese sono state autorizzate in base alla stessa legge da parte della stessa Regione, si configurerebbe anche un medesimo rapporto giuridico, definitivamente concluso per effetto delle precedenti decisioni di parificazione.
2.2.1. ‒ Anche tale eccezione è priva di fondamento.
Il giudizio di parificazione, affidato alle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti dall’art. 1, comma 5, del decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174 (Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012), convertito, con modificazioni, nella legge 7 dicembre 2012, n. 213, ha come oggetto il rendiconto generale annuale della Regione. In esso si procede alla verifica che le spese effettuate nell’esercizio finanziario dell’anno trascorso, indicate nei vari capitoli, siano conformi alle leggi di bilancio (annuali e pluriennali) e rispettose delle autorizzazioni di spesa e dei vincoli di bilancio, di competenza e di cassa inerenti a quello specifico esercizio finanziario.
Ciascun rendiconto – è utile evidenziare – è redatto alla luce dello specifico contesto normativo inerente all’esercizio finanziario cui fa riferimento. Per tale motivo, in sede di giudizio di parificazione, le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti valutano, ogni anno, il rendiconto generale dell’esercizio finanziario trascorso, rendiconto che può essere strutturato in modo differente da un anno all’altro, in sintonia con l’evoluzione del quadro normativo di riferimento in tema di spesa.
Nella specie, le questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate nell’ambito del giudizio di parificazione del rendiconto relativo all’esercizio finanziario regionale 2018, con particolare riguardo a due capitoli di spesa inerenti all’integrazione regionale al TFS, uno dei quali (il capitolo U89360) era di nuova istituzione perché riferito alla creazione del Fondo per l’integrazione regionale. Esso era stato iscritto prudenzialmente nel bilancio di previsione 2018/2020, in armonia con le indicazioni di cui all’art. 46, comma 3, del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118 (Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42), al fine di «assicurare la copertura finanziaria integrale nel triennio 2018-2020 […] alle spese incomprimibili» (così la Nota integrativa di cui all’Allegato 11 alla legge reg. Emilia-Romagna n. 27 del 2017) fra cui rientra la spesa inerente alla citata integrazione regionale. Quanto, poi, al capitolo U04150 (relativo agli «Oneri dipendenti dalla integrazione regionale delle indennità premio di servizio al personale per il quale non opera la ricongiunzione dei servizi»), la spesa in esso iscritta è stata autorizzata dall’art. 1 della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982, ma poi ridotta a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 15, comma 3, della legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015 e dell’art. 8 della legge reg. Emilia-Romagna n. 13 del 2016, che hanno delimitato la platea degli aventi diritto ai dipendenti assunti prima del 2001, destinatari del TFS, con almeno un anno di anzianità e in servizio presso la Regione al momento dell’entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015.
Considerata la particolarità dei contenuti dei rendiconti generali annuali, risulta evidente che la decisione di parificazione – resa con le forme della giurisdizione contenziosa di cui agli artt. 39-41 del regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214 (Approvazione del testo unico delle leggi sulla Corte dei conti) – conferisce certezza solo al rendiconto parificato, quello relativo allo specifico esercizio finanziario e che attesta, a tal fine, che non sono più modificabili i relativi risultati (fra le altre, di recente, Corte dei conti, sez. regionale di controllo per la Regione Campania, decisione 27 dicembre 2019, n. 217/2019/PARI).
Non può, pertanto, ritenersi precluso il giudizio di parificazione inerente a capitoli di spesa contenuti nel rendiconto relativo all’esercizio finanziario 2018 per effetto delle decisioni di parifica relative ad esercizi finanziari diversi, come quelli 2013-2017, richiamati dalla difesa regionale. I precedenti giudizi attengono infatti a spese temporalmente modulate, sulla base di disposizioni che sono state gradualmente modificate.
3.‒ Occorre, a questo punto, esaminare le eccezioni preliminari di inammissibilità proposte in relazione alle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982, 15, comma 3, della legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015, nonché 8 della legge reg. Emilia-Romagna n. 13 del 2016.
3.1 ‒ In primo luogo, la difesa regionale eccepisce l’inammissibilità delle questioni sollevate nei confronti delle citate norme regionali per difetto di rilevanza.
La sezione regionale di controllo della Corte dei conti, nell’ambito del giudizio di parificazione, non sarebbe chiamata a dare applicazione alle norme sull’integrazione del trattamento di fine servizio dei dipendenti regionali, quanto piuttosto a verificare la «corrispondenza fra fatti gestionali esposti nelle scritture contabili e il rendiconto generale». Accertare l’esistenza della copertura legislativa della spesa non significherebbe dare applicazione alla legge di spesa, ma solo prendere atto della sua esistenza, quale «antecedente storico-giuridico» della spesa stessa, nell’esercizio di una funzione generale di controllo che non consentirebbe, peraltro, di configurare il giudizio di parificazione come un giudizio in via incidentale.
3.1.1. ‒ L’eccezione non è fondata.
Questa Corte ha già avuto modo di rilevare che l’evoluzione normativa ha progressivamente delineato un «percorso di espansione» del procedimento di parificazione quale «giudizio di legittimità del rendiconto dello Stato» (sentenza n. 196 del 2018). I caratteri di tale procedimento «sono stabiliti dall’art. 39 del regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214, recante "Approvazione del testo unico delle leggi sulla Corte dei conti” e ulteriormente specificati dall’art. 1 (Rafforzamento della partecipazione della Corte dei conti al controllo sulla gestione finanziaria delle regioni) del decreto-legge 10 ottobre 2012, n. 174 (Disposizioni urgenti in materia di finanza e funzionamento degli enti territoriali, nonché ulteriori disposizioni in favore delle zone terremotate nel maggio 2012), convertito, con modificazioni, nella legge 7 dicembre 2012, n. 213» (sentenza n. 189 del 2020).
Si deve a quest’ultima fonte l’estensione del giudizio di parifica alle Regioni ad autonomia ordinaria, con l’introduzione di «disposizioni volte a assicurare effettività al rispetto di più vincolanti parametri finanziari, integrati da principi enucleabili dal diritto europeo» (sentenza n. 196 del 2018), in corrispondenza con l’entrata in vigore della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale).
Tali caratteri – l’applicazione di parametri normativi, la giustiziabilità del provvedimento in relazione a situazioni soggettive dell’ente territoriale eventualmente coinvolte e la garanzia del pieno contraddittorio (sentenza n. 196 del 2018) – corrispondono alle «condizioni necessarie per promuovere questioni di legittimità costituzionale in via incidentale» (sentenza n. 189 del 2020). Essi rendono il procedimento in esame «ascrivibile al novero dei "controlli di legittimità-regolarità delle sezioni regionali della Corte dei conti sui bilanci consuntivi degli enti territoriali” (sentenza n. 101 del 2018)» (sentenza n. 189 del 2020). Le Sezioni si trovano, pertanto, in una situazione «"analoga a quella in cui si trova un qualsiasi giudice (ordinario o speciale), allorché procede a raffrontare i fatti e gli atti dei quali deve giudicare alle leggi che li concernono" (sentenza n. 226 del 1976)» e quindi a «valutare la conformità degli atti che ne formano oggetto alle norme del diritto oggettivo» (sentenza n. 89 del 2017). Ove queste ultime siano state adottate in violazione della competenza legislativa statale ovvero dei parametri costituzionali attinenti all’equilibrio di bilancio, il giudizio di conformità non può condurre alla «parificazione degli specifici capitoli del rendiconto regionale, dunque delle spese che su di essi gravano» (sentenza n. 146 del 2019).
Nella specie, la Sezione rimettente sostiene che la spesa per l’integrazione regionale al TFS, sottesa ai due capitoli oggetto della parifica, sia stata autorizzata da una legge regionale adottata in violazione della competenza legislativa statale e priva di una valida copertura finanziaria, mancandone i presupposti legittimanti, con conseguente incidenza sull’equilibrio finanziario dell’ente. Tuttavia, la vigenza della normativa regionale imporrebbe alla medesima Sezione di validare il risultato di amministrazione, salva la possibilità di sollevare la questione di costituzionalità. Le questioni sono, pertanto, rilevanti.
3.2. ‒ Un’ulteriore causa di inammissibilità delle questioni sollevate nei confronti delle citate disposizioni è ravvisata dalla difesa regionale nell’erronea identificazione delle norme da applicare nel giudizio a quo.
Secondo la Regione, i dubbi di legittimità costituzionale prospettati dalla Sezione regionale di controllo della Corte dei conti avrebbero dovuto essere riferiti alla norma del bilancio preventivo (art. 2, comma 1, lettera k, della legge reg. Emilia-Romagna n. 27 del 2017) con cui è stato disposto l’accantonamento per passività potenziali, descritto nella nota integrativa (Allegato 11), corrispondente al «Fondo per l’integrazione regionale all’indennità di fine servizio», e non alle norme sostanziali.
3.2.1.‒ L’eccezione non è fondata.
Secondo l’indirizzo ormai costante di questa Corte, «le sezioni regionali di controllo della Corte dei conti sono legittimate a sollevare questione di legittimità costituzionale avverso tutte "le disposizioni di legge che determinano, nell’articolazione e nella gestione del bilancio stesso, effetti non consentiti dai principi posti a tutela degli equilibri economico-finanziari” e da tutti gli "altri precetti costituzionali, che custodiscono la sana gestione finanziaria» (sentenza n. 196 del 2018; nello stesso senso, sentenze n. 146 e n. 138 del 2019; ordinanza n. 181 del 2020). In questa prospettiva, in diverse occasioni sono state scrutinate questioni di legittimità costituzionale, sollevate nell’ambito del giudizio di parifica dei rendiconti regionali, inerenti a norme regionali sulla cui base sono state disposte e autorizzate le spese iscritte nei medesimi rendiconti, in quanto incidevano «sull’articolazione della spesa del bilancio consuntivo» e «sul quantum della stessa» (sentenza n. 138 del 2019).
Nel caso qui in discussione, ai fini della parificazione del rendiconto relativo all’esercizio finanziario 2018 della Regione Emilia-Romagna, le disposizioni regionali rilevanti sono quelle che impongono di validare, per la determinazione del risultato di amministrazione e del sindacato di legittimità della spesa, i due capitoli in cui sono iscritte le somme inerenti all’integrazione regionale al TFS erogata in favore dei dipendenti regionali che godano del citato TFS, in quanto assunti prima del 2001.
In concreto le norme che rivestono tali caratteristiche logicamente pregiudiziali sono proprio le leggi sostanziali di spesa e cioè l’art. 1 della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982, che ha previsto l’erogazione della citata integrazione regionale e l’art. 15, comma 3, della legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015, come interpretato dall’art. 8 della legge reg. Emilia-Romagna n. 13 del 2016, che l’ha delimitata ai dipendenti con almeno un anno di anzianità e in servizio presso la Regione al momento dell’entrata in vigore della citata legge reg. n. 2 del 2015.
Infatti, quanto al capitolo U89360 inerente al «Fondo per l’integrazione regionale al trattamento di fine servizio», «spettante ai sensi dell’art. 15, comma 3, della legge regionale 30 aprile 2015, n. 2, secondo i termini e le modalità già previste dalla legge regionale 14 dicembre 1982, n. 58», esso è stato istituito nell’esercizio della facoltà accordata alle regioni dall’art. 46, comma 3, del d.lgs. n. 118 del 2011, di «stanziare nella missione "Fondi e accantonamenti”, all’interno del programma "Altri fondi”, ulteriori accantonamenti riguardanti passività potenziali, sui quali non è possibile impegnare e pagare», in vista dell’obiettivo di «assicurare la copertura finanziaria integrale nel triennio 2018-2020 alle spese […] incomprimibili» (Allegato 11). Fra queste rientra anche la spesa inerente all’integrazione regionale al TFS.
L’art. 2, comma 1, lettera k), della legge reg. Emilia-Romagna n. 27 del 2017 di approvazione del bilancio regionale preventivo 2018/2020, invocato dalla difesa regionale – e che rinvia alla nota integrativa di cui all’Allegato 11 – si limita a dare conto dell’iscrizione prudenziale di tale fondo in attuazione di quanto prescritto dalla legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982. È, quindi, da quest’ultima legge che scaturisce l’«obbligo in capo alla Regione […] esigibile a seguito dell’erogazione ai dipendenti cessati, da parte dell’INPS, del trattamento di fine servizio» (così nella Nota integrativa).
Come si rileva nell’ordinanza di rimessione, anche in base alle risultanze dell’istruttoria, le risorse destinate alla integrazione regionale sono ascrivibili, nell’ambito del rendiconto annuale 2018, non solo al già citato capitolo U89360, in cui è iscritto il Fondo prudenziale, ma anche al capitolo U04150, presente anche nei rendiconti regionali degli esercizi finanziari precedenti. Esso è denominato «Oneri dipendenti dalla integrazione regionale delle indennità premio di servizio al personale per il quale non opera la ricongiunzione dei servizi» e inerisce alla concreta movimentazione degli impegni di spesa relativi al pagamento dell’indennità prevista dalla legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982 e ridefinita dall’art. 15, comma 3, della legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015. È a tali articoli, cui espressamente si rinvia, che occorre, quindi, fare riferimento per valutare la legittimità delle richiamate "appostazioni contabili". I due capitoli, seppure distinti, appaiono funzionalmente connessi e tali da giustificare di anno in anno l’avvicendarsi delle spese sostanziali relative all’integrazione regionale rese obbligatorie dall’art. 1 della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982. Il riferimento al solo bilancio preventivo, peraltro, non varrebbe a individuare le risorse necessarie a coprire le spese per l’anno corrente.
Questa constatazione serve a chiarire ulteriormente che il riferimento a una legge assai risalente, com’è la legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982, si giustifica per la concatenazione delle norme e delle relative spese, ciascuna in sé distinta quanto alla validazione e tuttavia collegata alle precedenti.
Da quanto esposto risulta dunque evidente che il collegio rimettente, nel sollevare questione di legittimità costituzionale, non è incorso in errore nell’individuare le norme rilevanti ai fini del giudizio di parificazione.
3.3.‒ Una specifica eccezione di inammissibilità è, poi, rivolta dalla difesa regionale alle questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti dei richiamati artt. 1 della legge regionale n. 58 del 1982, 15, comma 3, della legge regionale n. 2 del 2015 e 8 della legge regionale n. 13 del 2016, in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost.
La sezione regionale di controllo della Corte dei conti per l’Emilia-Romagna dubita della legittimità costituzionale delle norme citate, in quanto, da un lato, sostiene che la previsione dell’integrazione regionale al TFS dia luogo a un trattamento privilegiato per i dipendenti della Regione Emilia-Romagna rispetto ai dipendenti pubblici del restante territorio nazionale (art. 3 Cost.). Dall’altro, assume che tale misura configuri una voce retributiva non corrispondente a una specifica prestazione del dipendente e che per questo non sia proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato (art. 36 Cost.). La Regione ritiene che entrambe le questioni siano inammissibili, in quanto i parametri invocati non inciderebbero sull’an della spesa e, quindi, sugli equilibri finanziari dell’ente autonomo.
3.3.1.‒ L’eccezione è fondata.
Sin dalla sentenza n. 196 del 2018 questa Corte ha riconosciuto, come si è già ricordato, la legittimazione delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti a sollevare, in sede di parificazione dei rendiconti, questioni di legittimità costituzionale in riferimento a parametri diversi da quelli finanziari, solo se evocati in correlazione funzionale con questi ultimi, quindi nelle circostanze in cui la loro violazione sia tale da determinare l’alterazione dei criteri dettati dall’ordinamento ai fini della sana gestione della finanza pubblica allargata (fra le altre; sentenze n. 146 e n. 138 del 2019; ordinanza n. 181 del 2020).
Nel caso di specie, il Collegio rimettente non ha espressamente evocato i parametri finanziari, né ha fornito alcun argomento che dimostri in che modo dalla pretesa violazione dei precetti di cui agli artt. 3 e 36 Cost. possa farsi derivare la lesione degli equilibri finanziari della Regione.
Le questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost. devono, pertanto, essere dichiarate inammissibili.
3.4. ‒ La difesa regionale eccepisce, inoltre, l’inammissibilità della questione, sollevata in riferimento all’art. 119 Cost., «letto in combinato disposto con l’art. 117, terzo comma, della Costituzione», muovendo dall’assunto che le norme regionali citate, incrementando la spesa pubblica in tema di personale regionale, che è fondamentale aggregato della spesa corrente, si pongano in contrasto con i principi di coordinamento della finanza pubblica.
Tale questione sarebbe inammissibile, in quanto non sostenuta, né circostanziata con il richiamo alle disposizioni interposte che impedirebbero alla Regione di erogare l’integrazione regionale al TFS.
3.4.1. ‒ L’eccezione è fondata.
Nell’ordinanza di rimessione non sono chiaramente individuati i principi di coordinamento della finanza pubblica che sarebbero violati.
Tanto basta per ritenere inammissibile la questione.
3.5. ‒ Ancora in linea preliminare, occorre esaminare l’eccezione di inammissibilità proposta dalla difesa della Regione in relazione alla questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere l) e o), Cost. per erronea individuazione del parametro.
La Sezione rimettente assume che le disposizioni regionali in esame, nel disciplinare l’integrazione regionale al TFS, invadano la sfera di competenza statale esclusiva in materia di «previdenza sociale» e «ordinamento civile», con conseguente ridondanza sui parametri finanziari di cui agli artt. 81 e 97 Cost., poiché la spesa regionale sarebbe effettuata ed effettuabile sine titulo.
La difesa regionale eccepisce che il parametro invocato (art. 117, secondo comma, lettere l e o, Cost.) non sia pertinente, ratione temporis, rispetto alla legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982, adottata in un periodo in cui vigeva un diverso riparto di competenza. In base a tale riparto, peraltro, la disciplina contenuta nelle norme regionali censurate sarebbe stata riconducibile alla competenza regionale in materia di ordinamento degli uffici e del personale. In applicazione del principio di continuità, il parametro pertinente ai fini del giudizio sui vizi di competenza – secondo la Regione – avrebbe dovuto essere ravvisato dal Collegio rimettente in quello vigente al momento di approvazione della legge. Non avrebbe rilievo, a tal proposito, né il successivo mutamento delle competenze, né la sopravvenienza delle leggi reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015 e n. 13 del 2016, che avrebbero avuto solo l’effetto di restringere l’ambito di efficacia della citata legge reg. n. 58 del 1982, alla quale hanno fatto rinvio.
3.5.1. ‒ L’eccezione è priva di fondamento.
A seguito dell’entrata in vigore del nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione, questa Corte ha affermato che «la modifica del titolo V della parte seconda della Costituzione non [ha] determinato l'automatica illegittimità costituzionale delle norme emanate nel vigore dei vecchi parametri costituzionali cosicché «tali norme […] adottate in conformità al preesistente quadro costituzionale, mantengono, in applicazione del principio di continuità, la loro validità fino al momento in cui non vengano sostituite da nuove norme dettate dall’autorità dotata di competenza nel nuovo sistema» (sentenza n. 401 del 2007; nello stesso senso sentenza n. 376 del 2002).
Si è anche rilevato che il «problema della correttezza del parametro applicabile, se può, astrattamente, incidere sul merito della questione, non ne condiziona invece […] l’ammissibilità» (sentenza n. 282 del 2004), specialmente quando la modifica del parametro non abbia determinato un mutamento sull’attribuzione della competenza.
Come già affermato in una recente pronuncia, in replica a un’analoga eccezione, deve ritenersi «irrilevante la mancata evocazione dell’art. 117 Cost. nel testo precedente alla modifica del Titolo V», in considerazione del fatto che «"[l]’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. ha codificato il limite del "diritto privato”, consolidatosi già nella giurisprudenza anteriore alla riforma costituzionale del 2001" (ex plurimis, sentenza n. 159 del 2013), limite "rimasto fondamentalmente invariato nel passaggio dal vecchio al nuovo testo dell’art. 117 […] (ed oggi espresso nella riserva alla potestà esclusiva dello Stato della materia "ordinamento civile”, ai sensi del nuovo art. 117, secondo comma, lettera l, della Costituzione), consistente nel divieto di alterare le regole fondamentali che disciplinano i rapporti privati" [ …] (sentenza n. 282 del 2004"» (sentenza n.189 del 2020). Analogo ragionamento deve farsi con riguardo alla materia «previdenza sociale», oggi riservata alla competenza esclusiva statale dall’art. 117, secondo comma, lettera o), Cost., così come avveniva nel precedente assetto.
4. ‒ Si può, ora, passare all’esame del merito delle richiamate questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni regionali inerenti all’integrazione regionale al TFS sollevate per violazione di materie di competenza legislativa statale esclusiva.
La sezione regionale di controllo della Corte dei conti per l’Emilia-Romagna censura l’art. 15, comma 3, della legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015, nella parte in cui, pur abrogando la legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982, istitutiva dell’integrazione regionale al TFS (art.1), ne ha fatta salva l’applicazione ai dipendenti pubblici che, al momento dell’entrata in vigore della citata legge reg. n. 2 del 2015, erano in servizio e avevano maturato almeno un anno di servizio presso la Regione, come precisato dalla norma di interpretazione autentica di cui all’art. 8 della legge reg. Emilia-Romagna n. 13 del 2016, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere l) e o), Cost.
Tali norme, con il prevedere, in favore dei dipendenti regionali, una "maggiorazione” del TFS – che ha carattere di retribuzione differita e natura previdenziale – invaderebbero, a un tempo, la competenza esclusiva statale nella materia «ordinamento civile», disciplinando un aspetto della retribuzione dei dipendenti regionali, e quella nella materia «previdenza sociale», in ragione della natura anche previdenziale del trattamento.
4.1. ‒ Le questioni non sono fondate.
4.1.1. ‒ Occorre premettere un cenno al complesso quadro normativo di riferimento.
Com’è noto, il trattamento di fine servizio trova la sua disciplina nella legge 8 marzo 1968, n. 152 (Nuove norme in materia previdenziale per il personale degli Enti locali), che ha previsto l’erogazione dell’indennità premio di fine servizio per i dipendenti del comparto locale, laddove il d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato) ha disciplinato l’indennità di buonuscita per i dipendenti statali. Si tratta di un’indennità introdotta «per porre il dipendente cessato dal servizio ed in attesa di pensione in condizione di far fronte alle difficoltà economiche insorgenti al momento e per effetto della fine del rapporto di impiego» (sentenza n. 763 del 1988).
La prestazione è calcolata su 1/quindicesimo dell’80 per cento dell’ultima retribuzione annua utile, moltiplicata per gli anni di servizio, laddove l’indennità di buonuscita corrisponde ad 1/dodicesimo dell’80 per cento dell’ultima retribuzione annua utile, moltiplicata per gli anni di servizio.
In tale contesto storico, caratterizzato dalla contemporanea vigenza di regimi diversi per dipendenti statali e regionali, si colloca la legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982 . Tale legge – al pari di altre adottate dalle Regioni ad autonomia ordinaria nello stesso periodo, con analogo, se non talvolta identico tenore – si propone di equiparare il trattamento di fine servizio, spettante ai dipendenti regionali, con l’indennità di buonuscita erogata agli altri dipendenti pubblici, compensando la differenza economica con l’istituto dell’integrazione regionale a carico dei bilanci delle Regioni.
Tale esigenza era emersa in seguito al massiccio trasferimento di funzioni operato con il d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616 (Attuazione della delega di cui all'art. 1 della L. 22 luglio 1975, n. 382), accompagnato dal trasferimento di personale dai ruoli dello Stato a quello delle regioni, in linea con l’VIII disposizione transitoria e finale della Costituzione. L’esigenza, allora avvertita, era evitare disparità di trattamento tra impiegati già occupati presso le regioni e quelli trasferiti da altre amministrazioni statali, chiamati, nonostante la diversa provenienza, a svolgere i medesimi compiti. L’urgenza di non introdurre disparità di trattamento nella gestione del personale era direttamente ascrivibile alla competenza legislativa concorrente delle regioni nella materia dell’«ordinamento degli uffici» (sentenze n. 179 e n. 10 del 1980; ordinanza n. 520 del 1988).
Successivamente il quadro normativo statale di riferimento è mutato. Nell’ambito della generale riforma del trattamento pensionistico obbligatorio e complementare di cui alla legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), l’art. 2, comma 5, ha previsto il transito dal regime pubblicistico del trattamento di fine servizio (TFS) al regime privatistico del trattamento di fine rapporto (TFR) di cui all’art. 2120 del codice civile per tutti i lavoratori assunti alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, a far data dal 1° gennaio 1996. Tale previsione è stata poi "temperata” dall’art. 59, comma 56, della legge 27 dicembre 1997 n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), che ha riconosciuto la possibilità di esprimere un’opzione in favore del passaggio al regime di TFR, purché «nei modi e con la gradualità da definirsi in sede di specifica trattativa con le organizzazioni sindacali dei lavoratori». Il d.P.C.m. del 20 dicembre 1999 ha quindi recepito l’Accordo quadro sottoscritto dall’ Agenzia della rappresentanza negoziale (ARAN) e dalle organizzazioni sindacali il 29 luglio 1999 e si è così giunti a stabilire il definitivo passaggio al regime del trattamento di fine rapporto, di cui all’art. 2120 cod. civ., nei confronti del personale delle pubbliche amministrazioni assunto a tempo indeterminato successivamente al 31 dicembre 2000.
Si è così delineato un duplice regime, di tipo pubblicistico per i dipendenti assunti prima del 2001, corrispondente al TFS, e di tipo privatistico per i dipendenti assunti a partire dal 1° gennaio di tale anno, costituito dal TFR. Tale duplice regime, nonostante alcuni mutamenti normativi successivi, è stato confermato dapprima con il decreto-legge 29 ottobre 2012, n. 185 (Disposizioni urgenti in materia di trattamento di fine servizio dei dipendenti pubblici) non convertito, poi con la legge 24 dicembre 2012, n. 228, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2013)» ed è tuttora vigente.
La permanenza di questa disciplina che affianca regimi diversi ha comportato che, in ambito regionale, la previsione dell’integrazione regionale al TFS sia rimasta inalterata per i dipendenti assunti prima del 2001 – che non avevano optato per il nuovo regime del TFR e che, quindi, continuano a fruire del trattamento di fine servizio di tipo pubblicistico – e che i dipendenti statali, assunti alla medesima data, continuano a godere della più consistente indennità di buonuscita.
Con la legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015, la Regione è intervenuta, disponendo l’abrogazione della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982 e la salvaguardia della stessa in favore dei soli dipendenti, assunti prima del 2001 e con almeno un anno di anzianità presso la medesima Regione alla data dell’entrata in vigore della medesima legge. Come si desume anche dai lavori preparatori, essa ha inteso procedere «alla revisione di tale indennità al fine di contenere la relativa spesa, in attesa dell’estinzione del regime di Trattamento di Fine Servizio a seguito dell’introduzione del Trattamento di Fine Rapporto nel settore del Pubblico Impiego, e conseguentemente del venir meno della quota integrativa erogata dalla Regione». Sempre dai lavori preparatori si apprende che la salvaguardia dei dipendenti «il cui rapporto di lavoro si è sviluppato nell’arco di tempo in cui era vigente il testo originario della legge», è stata disposta «in considerazione del fatto che in sede di valutazione di riscatti di periodi utili ai fini del TFS i dipendenti hanno sostenuto oneri in ragione anche del riconoscimento di detti periodi ai fini anche dell’integrazione regionale».
L’intento di contenimento della spesa relativa al personale regionale, che ispira in modo inequivocabile la disciplina regionale, emerge ancor più chiaramente dalla norma di interpretazione autentica contenuta nell’art. 8 della legge reg. Emilia-Romagna n. 13 del 2016. Tale disposizione, adottata a seguito del transito nei ruoli regionali di circa un migliaio di dipendenti delle Province, a seguito del processo di riordino imposto dal legislatore statale con la legge 7 aprile 2014, n. 56 (Disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni), nel delimitare ulteriormente l’integrazione regionale al TFS ai soli dipendenti in servizio presso la Regione alla data di entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015, mirava a escludere da simile prestazione il nuovo personale proveniente dai ruoli delle Province, in buona parte rientrante nel regime di trattamento di fine servizio.
4.1.2. ‒ È’ dunque l’evoluzione del quadro normativo di riferimento che fa emergere con chiarezza la peculiarità della normativa regionale censurata inerente all’integrazione regionale al TFS e le sue precipue finalità. Si tratta di una disciplina che si innesta e si definisce all’interno della «complessa transizione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni "da un regime di diritto pubblico ad un regime di diritto privato” (sentenza n. 244 del 2014)» (sentenza n. 213 del 2018) e «della gradualità che, con specifico riguardo agli istituti in questione, il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto di imprimervi» (sentenza n. 244 del 2014).
Questa Corte ha ribadito di recente che «il legislatore, nel prudente esercizio della sua discrezionalità, ha scandito la descritta transizione secondo un percorso graduale, che investe anche la disciplina delle indennità di fine rapporto spettanti ai dipendenti pubblici» (sentenza n. 213 del 2018). Nel dispiegarsi di questo percorso, destinato a concludersi con la riconduzione delle indennità «all’unitaria matrice civilistica del trattamento di fine rapporto» (sentenza n. 213 del 2018) di cui all’art. 2120 cod. civ., si assiste alla sopravvivenza di un istituto – il TFS – tuttora ritagliato all’interno del medesimo regime pubblicistico che connotava il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni prima della privatizzazione dello stesso.
Su questo regime si innesta l’integrazione regionale istituita dall’art. 1 della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982. Ed è proprio a tale fonte che risale l’art. 15, comma 3, della legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015, come interpretato dall’art. 8 della legge reg. Emilia-Romagna n. 13 del 2016, per ridurre la platea dei beneficiari. L’obiettivo, come si è già ricordato, è contenere la spesa per il personale, in attesa dell’estinzione del regime di TFS a seguito dell’introduzione del TFR nel settore del lavoro pubblico, che condurrà alla scomparsa dell’integrazione erogata dalla Regione. Tale integrazione, nell’arco temporale residuo e nei limiti in cui continua ad applicarsi, non può non conservare il suo inquadramento originario e, lungi dal violare la competenza esclusiva statale in materia di «ordinamento civile» e di «previdenza sociale», costituisce espressione della competenza regionale nella materia che, nel vigore del precedente Titolo V, era denominata «ordinamento degli uffici» e oggi corrisponde all’organizzazione amministrativa regionale. Si tratta, a ben vedere, di una integrazione destinata a cessare parallelamente all’estinguersi del TFS. Essa, pertanto, rispecchia l’esigenza di provvedere a un’autonoma organizzazione degli uffici e del personale regionale, rimanendo immutato il suo riferimento al TFS così come disciplinato prima della privatizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
Devono, pertanto, essere dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti dell’art. 1 della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982, dell’art. 15, comma 3, della legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015 e dell’art.8 della legge reg. Emilia-Romagna n. 13 del 2016, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere l) e o), Cost.
5.‒ La sezione regionale di controllo della Corte di conti per l’Emilia-Romagna solleva, infine, questione di legittimità costituzionale nei confronti degli artt. 1 e 8 della legge regionale n. 58 del 1982 e dell’art. 15, comma 3, della legge regionale n. 2 del 2015, per violazione diretta dell’art. 81, terzo comma, Cost.
Secondo il Collegio rimettente le citate disposizioni non rispetterebbero il principio di copertura finanziaria della spesa inerente all’integrazione regionale al TFS.
Non indicherebbero alcun mezzo di copertura di tale spesa (artt. 1 della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982 e 15, comma 3, della legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015), limitandosi, con esclusivo riferimento al primo anno di applicazione dell’integrazione regionale, a prevedere un’insufficiente quantificazione dell’onere, e, per gli anni successivi, a rinviare la provvista alle successive previsioni di bilancio (in specie, art. 8, comma 2, della citata legge reg. n. 58 del 1982), secondo criteri che non rientrano tra le modalità di copertura tipicamente indicate nell’art. 17 della legge di contabilità n. 196 del 2009, applicabile alle regioni in base all’art. 19, comma 2, della stessa legge, e specificamente disciplinate nell’art. 30 della medesima legge e nell’art. 38 del d.lgs. n. 118 del 2011.
5.1.‒ In via preliminare, occorre esaminare le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa regionale.
5.1.1.‒ Anzitutto, la Regione sostiene che la questione sia inammissibile per erronea individuazione del parametro ratione temporis e per omesso o carente esame del contesto normativo di riferimento all’epoca dell’approvazione delle disposizioni contestate.
La Sezione rimettente valuterebbe la normativa regionale di cui alla legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982 in riferimento a parametri costituzionali e a norme interposte non correttamente individuati sul piano temporale. Ciò avverrebbe sia con riferimento all’art. 81, terzo comma, Cost. e al principio di copertura finanziaria delle spese ivi contemplato – che, prima della riforma di cui alla legge cost. n. 1 del 2012 , (Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale), era contenuto nel quarto comma e, solo dopo, è stato "spostato” nel terzo comma – sia con riferimento alla normativa invocata come interposta di cui alla legge generale di contabilità e finanza n. 196 del 2009 e al d.lgs. n. 118 del 2011, di gran lunga successiva all’entrata in vigore delle citate norme regionali.
5.1.2. ‒ L’eccezione è priva di fondamento.
Come si è già ricordato (punto 3.5.1.), questa Corte, con riguardo al sopravvenuto mutamento dei parametri, ha affermato che il «problema della correttezza del parametro applicabile, se può, astrattamente, incidere sul merito della questione, non ne condiziona invece […] l’ammissibilità» (sentenza n. 282 del 2004), specie quando la modifica del parametro non abbia determinato un mutamento sostanziale del significato precettivo dello stesso.
A questo proposito occorre sottolineare che il principio di copertura finanziaria delle leggi che importino nuovi o maggiori oneri, a seguito della riforma costituzionale del 2012, è stato "spostato” dal quarto al terzo comma, ma anche collocato in un mutato contesto, contraddistinto, in particolare, dall’esplicita proclamazione, al primo comma, del principio dell’equilibrio di bilancio e dalla scomparsa del riferimento, collocato nel precedente testo al terzo comma, all’impossibilità di istituire nuove spese con la legge di bilancio.
Nonostante i cambiamenti ora descritti, questa Corte ha affermato in modo incisivo che l’«art. 81, quarto [oggi terzo] comma, Cost.» mostra una immutata «forza espansiva» e conserva il carattere di «presidio degli equilibri di finanza pubblica», di «clausola generale in grado di colpire tutti gli enunciati normativi causa di effetti perturbanti la sana gestione finanziaria e contabile (sentenza n. 192 del 2012) (sentenza n. 184 del 2016)» (sentenza n. 274 del 2017). Esso, pertanto, ha conservato una portata precettiva sostanzialmente immutata, che non lo rende in alcun modo parametro inconferente.
Quanto, poi, alla denunciata carente ricostruzione del quadro di riferimento all’epoca dell’approvazione delle disposizioni contestate, si deve osservare che il pur apodittico richiamo alla normativa interposta sopravvenuta non impedisce, comunque, a questa Corte di cogliere i termini della questione sollevata e di scendere, quindi, all’esame del merito.
5.2. ‒ La difesa regionale eccepisce, inoltre, l’inammissibilità della questione perché non sarebbe stata correttamente identificata la norma di copertura finanziaria. Quest’ultima andrebbe individuata, per gli anni futuri, nella legge reg. Emilia-Romagna n. 27 del 2017 di approvazione del bilancio preventivo 2018/2020.
5.2.1 .‒ Anche tale eccezione è priva di fondamento.
Il dubbio di costituzionalità attiene alla mancata o non adeguata copertura finanziaria della spesa inerente all’erogazione dell’integrazione regionale al TFS. Quest’ultima è stata istituita, come più volte ricordato, dall’art. 1 della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982, che ha individuato all’art. 8, comma 1, la copertura finanziaria per il primo anno di attuazione (il 1983), con l’istituzione di un apposito capitolo nello stato di previsione della spesa per il bilancio per l’esercizio finanziario 1983 e la quantificazione delle risorse. Per gli anni successivi al 1983 si è fatto rinvio, al comma 2, per la determinazione dello stanziamento di spesa alla legge regionale annuale di bilancio. L’art. 15, comma 3, della legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015, è intervenuto a delimitare la platea dei beneficiari della citata integrazione ai soli dipendenti che fossero in servizio da almeno un anno presso la Regione al momento dell’entrata in vigore della medesima legge regionale, in una prospettiva di contenimento della spesa in vista dell’estinzione del TFS e della correlata integrazione regionale. Una simile previsione, pertanto, lungi dall’istituire nuovi o maggiori oneri, come risulta anche dall’apposita scheda tecnico-finanziaria allegata alla legge regionale in esame, riduce l’onere già esistente. Non si deve dunque identificare alcuna nuova e diversa copertura finanziaria, rispetto a quella già individuata dal citato art. 8 della legge reg. n. 58 del 1982, poiché il legislatore regionale ha invertito la rotta, per orientarsi verso diversi obiettivi.
In questa prospettiva deve essere collocata la legge reg. Emilia-Romagna n. 27 del 2017, di approvazione del bilancio di previsione relativo agli anni 2018/2020, che iscrive, prudenzialmente, in un apposito capitolo (U89360) le spese per uno specifico fondo (Fondo integrazione regionale), con l’intento di accantonare risorse per assicurare la copertura degli oneri residui della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982 per gli anni 2018/2020. Tali risorse – è bene evidenziare – si aggiungono a quelle indicate in altro capitolo (U04150) del medesimo bilancio, destinate alla concreta movimentazione della spesa per la medesima integrazione regionale, in modo da dare attuazione a quanto stabilito dal medesimo art. 8, comma 2, della citata legge reg. n. 58 del 1982.
Non erra, pertanto, il rimettente, là dove individua proprio in quest’ultima disposizione la norma di copertura finanziaria da applicare nella specie.
5.3.‒ Ancora in linea preliminare, deve dichiararsi l’inammissibilità della questione proposta con riguardo al comma 1 dell’art. 8 legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982.
5.3.1.‒ La Sezione rimettente contesta infatti la legittimità costituzionale di tale disposizione, nella parte in cui quantifica l’onere derivante dall’applicazione della medesima legge per l’esercizio finanziario 1983 in maniera insufficiente, poiché non sostenuta da alcuna documentazione tecnica.
Tale previsione è palesemente volta a definire la copertura finanziaria della spesa per l’integrazione regionale al TFS per il solo anno 1983 e fuoriesce, pertanto, dal raggio di valutazione e applicazione della Sezione rimettente, chiamata a pronunciarsi sulla parificazione del rendiconto relativo all’esercizio 2018.
La questione sollevata nei suoi confronti, pertanto, è priva di rilevanza ai fini della risoluzione del giudizio principale.
5.4. ‒ Sgombrato il campo dalle eccezioni di inammissibilità, occorre procedere all’esame della questione di legittimità costituzionale sollevata nei confronti degli artt. 1 e 8, comma 2, della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982 e 15, comma 3, della legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015, per violazione del principio di copertura finanziaria.
Secondo il Collegio rimettente, infatti, l’art. 15, comma 3, della citata legge regionale non indicherebbe alcun mezzo di copertura di tale spesa, laddove gli artt. 1 e 8, comma 2, della richiamata legge reg. n. 58 del 1982 si limiterebbero a rinviare la provvista alle successive previsioni di bilancio, in contrasto con quanto prescritto dall’art. 17 della legge di contabilità n. 196 del 2009, applicabile alle Regioni in base all’art. 19, comma 2, della stessa legge, nonché con il successivo art. 30 e con l’art. 38 del d.lgs. n. 118 del 2011.
5.4.1. - La questione non è fondata.
Si è appena ricordato che l’art. 15, comma 3, della legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015, nel disporre l’abrogazione della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982, ne ha salvato gli effetti con esclusivo riferimento ai dipendenti che, in regime di TFS in base alla normativa statale, fossero in servizio da almeno un anno presso la Regione al momento dell’entrata in vigore della medesima legge reg. n. 2 del 2015. Tale misura – di delimitazione della platea dei beneficiari dell’integrazione regionale al TFS – è stata adottata in vista dell’obiettivo di contenere la spesa relativa alla medesima integrazione regionale, in attesa della definitiva estinzione del regime di trattamento di fine servizio, a seguito della sua piena sostituzione con il trattamento di fine rapporto nel settore del pubblico impiego, e della conseguente estinzione del trattamento integrativo erogato dalla Regione.
Alla luce di tale considerazione, risulta palese che la norma in questione non rientra fra quelle indicate nell’art. 81 Cost. quali norme che importano «nuovi o maggiori oneri», per cui occorre indicare la copertura finanziaria. Questa constatazione è confermata, come già rilevato, sia nei lavori preparatori, sia nella scheda tecnico-finanziaria allegata alla legge regionale in esame, documentazione che – come di recente ribadito da questa Corte – contribuisce alla corretta interpretazione delle disposizioni censurate (sentenza n. 143 del 2020).
Né vi è contraddizione con il fatto che sia stato istituito il «Fondo per l’integrazione regionale al trattamento di fine servizio», iscritto in un nuovo capitolo (U89360) del bilancio relativo all’esercizio finanziario 2018 – e nel relativo rendiconto consuntivo, così da sollecitare l’attenzione del collegio rimettente – e poi approvato all’interno del bilancio di previsione 2018/2020. Il fondo in questione, come già evidenziato, è stato istituito, non già in relazione a quanto stabilito dal citato art. 15, comma 3, della legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015, quanto piuttosto, in coerenza con il principio della competenza finanziaria potenziata, nell’esercizio della facoltà accordata alle Regioni dall’art. 46, comma 3, del d.lgs. n. 118 del 2011, di stanziare ulteriori accantonamenti riguardanti passività potenziali, in vista dell’obiettivo di «assicurare la copertura finanziaria integrale nel triennio 2018/2020 alle spese […] incomprimibili» (Allegato 11), fra cui rientra anche la spesa inerente all’integrazione regionale al TFS, espressamente ricondotta alla legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982.
Quanto, invece, alla copertura finanziaria prevista dall’art. 8 di quest’ultima legge regionale, costituita dal rinvio alla legge regionale annuale di bilancio e contestata dal collegio rimettente, occorre rilevare che essa era in armonia con le indicazioni contenute nella legge 9 maggio 1976, n. 335 (Principi fondamentali e norme di coordinamento in materia di bilancio e di contabilità delle regioni), in attuazione dell’art. 81, quarto comma, Cost. (nel testo precedente alla riforma costituzionale). Tale legge, oltre a prevedere che la regione, insieme al bilancio annuale, con un contenuto puntualmente individuato, redigesse un bilancio pluriennale, «sede per il riscontro della copertura finanziaria di nuove o maggiori spese stabilite da leggi della regione a carico di esercizi futuri», in vista dell’obiettivo dell’«equilibrio», (art. 1, quarto comma) all’art. 2, primo comma, disponeva che «Le leggi regionali che prevedono attività o interventi a carattere continuativo o ricorrente determinano di norma solo gli obiettivi da raggiungere e le procedure da seguire, rinviando alla legge di bilancio la determinazione dell’entità della relativa spesa».
A queste prescrizioni si sono attenute le Regioni. La Regione Emilia-Romagna le ha recepite, in particolare, nella legge della Regione Emilia-Romagna 6 luglio 1977, n. 31 (Norme per la disciplina della contabilità della Regione Emilia-Romagna), cui si conforma il censurato art. 8 della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982.
Anche il successivo decreto legislativo 28 marzo 2000, n. 76 (Principi fondamentali e norme di coordinamento in materia di bilancio e di contabilità delle regioni, in attuazione dell’articolo 1, comma 4, della legge 25 giugno 1999, n. 208), nel definire i principi fondamentali in materia di bilancio e contabilità, ha confermato tali previsioni.
A tale proposito questa Corte, nel ribadire che le leggi istitutive di nuove spese devono contenere un’esplicita indicazione del relativo mezzo di copertura e che a tale obbligo non sfuggono le norme regionali, ha affermato che «solo per le spese continuative e ricorrenti è consentita l’individuazione dei relativi mezzi di copertura al momento della redazione e dell’approvazione del bilancio annuale» (così punto 4.1. del Considerato in diritto della sentenza n. 26 del 2013).
Successivamente, la disciplina statale è stata più volte modificata, come è accaduto, ad esempio, con l’introduzione dell’obbligo della relazione tecnica sugli oneri finanziari implicati dai disegni di legge di spesa, nonché della clausola finanziaria per effetto dell’art. 11-ter della legge 5 agosto 1978, n. 468 (Riforma di alcune norme di contabilità generale dello Stato in materia di bilancio), come modificato dalla legge 23 agosto 1988, n. 362 (Nuove norme in materia di bilancio e di contabilità dello Stato), in vista della più puntuale e dettagliata applicazione del principio di copertura finanziaria, funzionale a garantire l’equilibrio di bilancio.
Per assicurare la più puntuale applicazione del principio di copertura finanziaria, funzionale a garantire l’equilibrio di bilancio, tenendo conto della crescente complessità della finanza pubblica e della sempre maggiore incidenza dei vincoli derivanti dalla integrazione europea, è stata poi adottata la nuova legge di contabilità e finanza pubblica (legge n. 196 del 2009). Quest’ultima, in particolare, agli artt. 17 e 19, ha dettato le nuove regole inerenti alle modalità di copertura finanziaria delle leggi statali e regionali, in risposta all’esigenza di armonizzazione dei bilanci pubblici e di garanzia del miglior uso delle risorse pubbliche anche da parte degli enti territoriali. Tale esigenza è stata, in particolare, recepita anche dal d.lgs. n. 118 del 2011, che ha dettato norme di «armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi».
Entrambi tali testi normativi sono stati successivamente modificati, in specie a seguito della riforma introdotta dalla legge cost. n. 1 del 2012, sempre in vista dell’obiettivo di assicurare nella maniera più adeguata il rispetto del principio di copertura finanziaria e quindi l’equilibrio di bilancio, che costituiscono «due facce della stessa medaglia» (sentenza n. 227 del 2019).
È in questa prospettiva che devono essere lette le norme di cui all’art. 30 della legge n. 196 del 2009 e all’art. 38 del d.lgs n. 118 del 2011, che il rimettente invoca a integrazione dell’art. 81, terzo comma, Cost., secondo cui le leggi di spesa a carattere continuativo o permanente possono rinviare le quantificazioni dell’onere annuo alla legge di bilancio, ma solo nel caso in cui non si tratti di spese obbligatorie.
Con riguardo al giudizio di idoneità delle modalità di copertura delle diverse tipologie di spesa, questa Corte ha già avuto occasione di affermare che «il principio dell’equilibrio di bilancio [...] opera direttamente, a prescindere dall’esistenza di norme interposte» e che «[g]li artt. 17 e 19 della legge n. 196 del 2009 costituiscono una mera specificazione del principio in questione» (sentenza n. 26 del 2013). Tale principio non è mutato e «si sostanzia in una vera e propria clausola generale in grado di colpire tutti gli enunciati normativi causa di effetti perturbanti la sana gestione finanziaria e contabile» (sentenza n. 227 del 2019). Pertanto, il sindacato di costituzionalità sulle modalità di copertura finanziaria delle spese coinvolge direttamente il precetto costituzionale, a prescindere dalle varie declinazioni dello stesso, nel volgere del tempo.
Nel caso di specie, le norme regionali censurate delineano una modalità "procedurale” di copertura finanziaria della spesa prevista che, come si è visto, è coerente con quanto stabilito dal legislatore statale (nella legge n. 335 del 1977) al momento della loro adozione e che questa Corte ha riconosciuto, nella sentenza n. 26 del 2013, conforme al precetto costituzionale. Tale giudizio non muta a causa della successiva adozione di norme statali di attuazione del medesimo precetto, quali sono da considerare gli artt. 30 della legge n. 196 del 2009 e 38 del d.lgs n. 118 del 2011, che si sono sostituite a quelle allora vigenti. Queste ultime hanno individuato modalità procedurali più penetranti di garanzia del precetto costituzionale, il cui rispetto, tuttavia, non può costituire parametro di valutazione della legittimità della copertura finanziaria di una spesa molto risalente nel tempo e in via di estinzione.
Per tale spesa, peraltro, è stata assicurata la copertura finanziaria non solo tramite le leggi annuali di bilancio (ivi compresa quella relativa all’esercizio finanziario 2018 in contestazione), in linea con le modalità prescritte dal censurato art. 8 della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982, ma anche mediante l’accantonamento di risorse, puntualmente quantificate (tenendo conto degli oneri residui della citata legge reg. n. 58 del 1982 e valutando quanto maturato alla data del 31 dicembre 2017) nel bilancio di previsione 2018/2020, proprio al fine di assicurare la copertura degli oneri residui per gli stessi anni, in sostanziale conformità con quanto prescritto dalla norme generali di contabilità e di bilancio che il collegio rimettente assume violate.
Deve, pertanto, dichiararsi non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 8, comma 2, della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982 e 15, comma 3, della legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015, sollevata in riferimento all’art. 81, terzo comma, Cost.
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Emilia-Romagna 14 dicembre 1982, n. 58 (Omogeneizzazione del trattamento di previdenza del personale regionale), dell’art. 15, comma 3, della legge della Regione Emilia-Romagna 30 aprile 2015, n. 2 (Disposizioni collegate alla legge finanziaria per il 2015), e dell’art. 8 della legge della Regione Emilia-Romagna 29 luglio 2016, n. 13 (Disposizioni collegate alla legge di assestamento e seconda variazione generale al bilancio di previsione della Regione Emilia-Romagna 2016-2018), sollevate, dalla Corte dei conti, sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, in riferimento agli artt. 3, 36, 117, terzo comma, e 119 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982, sollevata dalla Corte dei conti, sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, in riferimento all’art. 81, terzo comma, Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982, dell’art. 15, comma 3, della legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015 e dell’art. 8 della legge reg. Emilia-Romagna n. 13 del 2016, sollevata dalla Corte dei conti, sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere l) e o), Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe;
4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli art. 1 e 8, comma 2, della legge reg. Emilia-Romagna n. 58 del 1982 e dell’art. 15, comma 3, della legge reg. Emilia-Romagna n. 2 del 2015, sollevata dalla Corte dei conti, sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, in riferimento all’art. 81, terzo comma, Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2020.
F.to:
Mario Rosario MORELLI, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 24 novembre 2020.