SENTENZA
N. 180
ANNO
2018
Commenti alla decisione di
I.
Luigi Scollo, Incostituzionale la norma che
consentiva all’imputato detenuto di opporsi all’astensione del difensore ed
alla sospensione dei termini di custodia: brevi considerazioni a caldo, per g.c. di Giurisprudenza Penale
II.
Ruggero Rudoni, Promovimento
in via incidentale del processo costituzionale e sospensione "parziale” del
processo principale, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
III.
Tommaso F. Giupponi, L’interpretazione
"costituzionalmente orientata” dell’incidentalità: la Corte e il Codice di autoregolamentazione
dell’astensione collettiva degli avvocati, tra riserva di legge e
disapplicazione, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
IV. Gaetano
Pecorella, Una sentenza della Corte costituzionale
(apparentemente) oscura. Può ancora esercitarsi il diritto di astensione nei
processi con imputati detenuti?, per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME
DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI
Presidente
- Aldo CAROSI
Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto
Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANÒ ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale
dell’art. 2-bis della legge
13 giugno 1990, n. 146 (Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei
servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona
costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia
dell’attuazione della legge), promossi dal Tribunale ordinario di Reggio
Emilia, con ordinanze del 23 maggio e del 13 giugno 2017, iscritte
rispettivamente ai nn. 75
e 76
del registro ordinanze 2018 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visti gli atti di
costituzione di P. R., di P. V., di G. B. e di M. V., nonché gli atti di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e dell’Unione delle Camere
Penali Italiane;
udito nella udienza
pubblica del 4 luglio 2018 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;
uditi gli avvocati Gaetano
Pecorella per P. V., per M. V. e per l’Unione delle Camere Penali Italiane,
Luca Andrea Brezigar per P. R., Beniamino Migliucci
per G. B. e l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto
in fatto
1.– Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia, con
ordinanza del 23 maggio 2017 (r.o. n. 75 del 2018),
ha sollevato, in riferimento agli artt. 1, 3, 13, 24, 27, 70, 97, 102 e 111 della Costituzione,
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2-bis della legge 13 giugno 1990,
n. 146 (Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici
essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente
tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della
legge), nella parte in cui consente che il codice di autoregolamentazione delle
astensioni dalle udienze degli avvocati (valutato idoneo dalla Commissione di
garanzia con delibera n. 07/749 del 13 dicembre 2007, pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 3 del 2008) stabilisca (art. 4, comma 1, lettera
b) che nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si
trovi in stato di custodia cautelare o di detenzione, analogamente a quanto
previsto dall’art. 420-ter, comma 5, del codice di procedura penale, si proceda
malgrado l’astensione del difensore solo ove l’imputato lo consenta.
Il rimettente – premesso che innanzi a sé si sta
celebrando un processo con centocinquanta imputati per il reato di associazione
per delinquere «di stampo ’ndranghetistico» e di
molteplici reati fine – riferisce che all’udienza del 23 maggio tutti i
difensori, con il consenso degli imputati in stato di custodia cautelare in
carcere, hanno aderito all’astensione proclamata dall’Organismo Unitario
dell’Avvocatura (OUA).
Il tribunale ordinario dà atto di aver – in una
precedente analoga occasione – investito la Commissione di garanzia per lo
sciopero nei servizi pubblici essenziali (da ora: la Commissione) perché si
pronunciasse su una serie di temi; in particolare, se il rinvio dell’udienza –
sulla base della previsione del codice di autoregolamentazione che consente
agli avvocati di dare corso alla dichiarazione di astensione in un processo con
rilevante numero di imputati detenuti (oltre venti), in qualche caso sottoposti
al regime di cui all’art. 41-bis della legge 26 aprile 1975, n. 354 (Norme
sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e
limitative della libertà), là dove gli imputati prestino il consenso
all’iniziativa dei propri difensori – presenti profili da sottoporre in via
preliminare all’autonoma valutazione della Commissione affinché la stessa possa
rivalutare il consenso dato al codice di autoregolamentazione, sulla base degli
strumenti e delle forme che alla stessa Commissione sono conferiti dalla legge
sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali.
Il rimettente – dopo aver esaminato la normativa
risultante dalla disposizione censurata (art. 2-bis della legge n. 146 del
1990) e dall’art. 4, primo comma, lettera b), del codice di autoregolamentazione
– dà poi conto ampiamente della sentenza della Corte di cassazione, sezioni
unite penali, 27 marzo 2014 ‒ 29 settembre 2014, n. 40187, che, per un
verso, ha ribadito la valenza cogente erga omnes
delle norme del codice di autoregolamentazione aventi forza e valore di
normativa secondaria e regolamentare; per altro verso, ha escluso la
configurabilità nell’attuale assetto normativo di un potere giudiziale di
bilanciamento tra il diritto all’astensione e gli altri diritti e valori di
rilievo costituzionale, essendo tale bilanciamento già stato operato dal
legislatore.
Il Tribunale rimettente, dopo aver precisato che
la legge, integrata dal codice di autoregolamentazione approvato dalla
Commissione, consente ai difensori nei processi penali di astenersi anche in
processi con detenuti in custodia cautelare, a meno che gli imputati non
chiedano espressamente che si proceda nonostante i difensori abbiano aderito
all’astensione collettiva dalle udienze, afferma che la questione di
legittimità costituzionale «è rilevante in relazione alla decisione che il
tribunale deve adottare di disporre il rinvio dell’odierna udienza nella quale
tutti i difensori hanno ritualmente dichiarato di aderire all’astensione
collettiva proclamata dall’associazione delle Camere penali». Pertanto, in
presenza di un’astensione collettiva conforme al codice di
autoregolamentazione, «il tribunale secondo il diritto vivente non ha alcuna
possibilità di valutare autonomamente la legittimità dell’astensione e di
bilanciare il diritto all’astensione con altri beni e valori costituzionalmente
rilevanti ma deve disporre il rinvio, nonostante sia evidente il pregiudizio
per altri fondamentali diritti della persona e del cittadino imputato,
producendo conseguentemente gli effetti che si connettono al rinvio determinato
dall’astensione dei difensori».
Il rimettente reputa illegittima la disciplina
che è chiamato ad applicare in quanto i valori costituzionali – quali la
libertà personale, il diritto di difesa dell’imputato in vinculis,
il giusto processo, la garanzia che il processo con imputati detenuti si svolga
in tempi compatibili con la presunzione di non colpevolezza e quindi il giusto
contemperamento tra esigenze di sicurezza, tempi processuali e tempi della
custodia – risultano considerati come subvalenti
rispetto al diritto di astensione.
Secondo il Collegio rimettente vi sarebbe
violazione dell’art. 13, primo e quinto comma, Cost. in relazione all’art. 27
Cost., nella parte in cui stabilisce l’inviolabilità della libertà personale e
la rigorosa definizione per via legislativa dei casi in cui l’imputato deve
essere sottoposto a misura di custodia cautelare in carcere durante lo
svolgimento del processo. L’imputato non può subire il protrarsi della
restrizione della libertà personale per motivi diversi da quelli considerati
espressamente dalla legge, con riferimento a quegli essenziali interessi
pubblici che giustificano, per l’imputato, presunto non colpevole, il ricorso
alla custodia cautelare in carcere. La presunzione di non colpevolezza che
accompagna l’imputato fino al momento della sentenza definitiva comporta che
non solo i casi di restrizione della libertà per esigenze processuali e di
sicurezza nella fase processuale siano tassativamente definiti dalla legge, ma
anche che la stessa durata della custodia sia fissata dal legislatore
nell’esclusiva considerazione delle esigenze che giustificano un ragionevole
contemperamento del diritto di libertà fino a sentenza irrevocabile. La
tassatività dei casi di restrizione della libertà personale si estende anche
alla durata della stessa, nel senso che le sole ragioni che possono
giustificare per i tempi stabiliti dal legislatore la privazione della libertà
devono essere espressamente considerate da quest’ultimo.
Sotto altro profilo, la disciplina
dell’astensione dalle udienze degli avvocati in processi con imputati detenuti
confliggerebbe con il quinto comma dell’art. 13 Cost., in relazione al
principio di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), nonché al
principio di subordinazione del giudice alla legge (art. 101 Cost.). Solo il
legislatore potrebbe stabilire il tempo massimo assegnato all’autorità
giudiziaria per concludere il processo a carico di imputati detenuti. Il
legislatore ha previsto un termine massimo per la pronuncia di una sentenza
irrevocabile con imputato detenuto, contemperando le esigenze cautelari e
l’esigenza pubblica di perseguire i reati con il diritto alla libertà
personale.
Nei processi con imputati detenuti la custodia
cautelare non può oltrepassare, in relazione a tutti i gradi di giudizio, i
termini di durata complessiva fissati nell’ultimo comma dell’art. 303 cod.
proc. pen. Ciò significa che il rinvio delle udienze
nel primo grado di giudizio, a seguito dell’astensione dei difensori nei
processi con imputati detenuti, non sarebbe affatto neutro, quanto agli effetti
sulla possibilità di definire il giudizio nei diversi gradi entro i termini
massimi complessivi, ma finisce con l’erodere il tempo che il legislatore ha
ritenuto e assegnato come ragionevole per definire tempestivamente il processo
prima della scadenza dell’invalicabile termine cumulativo dei termini massimi
di fase.
L’ordinanza di rimessione mette anche in
evidenza la torsione che la norma sull’astensione dalle udienze con imputati
detenuti produce sul diritto di difesa. Far dipendere dall’imputato detenuto la
scelta di consentire al proprio difensore se astenersi, o meno, metterebbe
sullo stesso piano soggetti che sono su un piano diverso, imponendo
all’imputato detenuto, e quindi in condizioni di minorità, una scelta estranea
al proprio interesse, che sarebbe quello alla definizione più rapida possibile
del processo.
Vi sarebbe poi violazione dell’art. 3 Cost.
sotto il profilo dell’intrinseca irragionevolezza della previsione normativa
che finisce, nel solo caso degli avvocati, con attribuire alla manifestazione
di protesta e alla rivendicazione di categoria un peso abnorme e
sproporzionato, ben diverso e superiore rispetto a quello di altre categorie di
lavoratori autonomi e professionisti.
Ancora sotto il profilo della violazione del
principio di eguaglianza, l’ordinanza considera che la legge sullo sciopero nei
servizi pubblici essenziali prevede una ben più cogente disciplina dello
sciopero dei dipendenti del Ministero della giustizia, addetti al servizio di
assistenza all’udienza penale. Le prestazioni che tali dipendenti sono tenuti
ad assicurare ai sensi degli artt. 1 e 2 della legge n. 146 del 1990, pur in
costanza di astensione, sono sia l’assistenza alle udienze di convalida di arresti
e fermi, sia le udienze con imputati detenuti. Anche il codice di
autoregolamentazione dello sciopero dei magistrati stabilisce che l’astensione
non è consentita nei procedimenti e processi con imputati detenuti.
Un ultimo profilo di intrinseca irragionevolezza
della norma impugnata sta nel fatto che il codice di autoregolamentazione
prevede, alla lettera a) dello stesso art. 4, il divieto di astensione degli
avvocati nei casi di assistenza al compimento degli atti di perquisizione e
sequestro, alle udienze di convalida dell’arresto e del fermo, a quelle
afferenti a misure cautelari, agli interrogatori ex art. 294 cod. proc. pen., all’incidente probatorio ad eccezione dei casi in cui
non si verta in ipotesi di urgenza, come ad esempio di accertamento peritale
complesso, al giudizio direttissimo e al compimento degli atti urgenti di cui
all’art. 467 cod. proc. pen.
Le differenze tra gli istituti sopra indicati e
i processi con imputati detenuti non appaiono, al Tribunale rimettente, tali da
giustificare la disciplina differenziata.
2.‒ Il medesimo Tribunale ordinario di
Reggio Emilia, con successiva ordinanza del 13 giugno 2017 (r.o.
n. 76 del 2018), ha sollevato, in riferimento agli artt. 1, 3, 13, 24, 27, 70,
97, 102 e 111 Cost., questioni di legittimità costituzionale del medesimo art.
2-bis della legge n. 146 del 1990, in termini e per motivi analoghi a quelli
espressi nella precedente ordinanza.
Osserva, in particolare, il Tribunale rimettente
che l’ulteriore proclamazione dell’astensione collettiva – la quinta in cinque
mesi e mezzo – ha riguardato le udienze dal 12 al 16 giugno 2017, nel cui
intervallo cade l’udienza del 13 giugno.
Anche in relazione a tale ordinanza il
rimettente precisa che la questione del citato art. 2-bis della legge n. 146 del
1990 è rilevante in relazione alla decisione che il tribunale deve adottare in
ordine al rinvio dell’udienza del 13 giugno. Al riguardo sono ribadite le
argomentazioni svolte nell’ordinanza r.o. n. 75 del
2018.
Parimenti, il Collegio sottolinea che non si può
valutare il consenso dell’imputato al prolungamento della privazione della
libertà personale oltre il tempo strettamente necessario alla celebrazione del
processo. I tempi della custodia cautelare non possono essere ricondotti alla
logica privatistica del consenso dell’avente diritto, essendo la durata della
custodia cautelare regolata da norme imperative di diritto pubblico, rispetto
alle quali, secondo i rispettivi codici di autoregolamentazione, non è ammessa
alcuna interferenza della volontà dell’imputato.
3.– Con atto del 5 giugno 2018, è intervenuto
nei giudizi di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto
alla Corte di dichiarare inammissibili le questioni di costituzionalità
sollevate dal Tribunale di Reggio Emilia.
In primo luogo, le questioni sarebbero
inammissibili perché non avrebbero ad oggetto una norma di legge primaria,
bensì una disposizione, come l’art. 4, comma 1, lettera b), del codice di
autoregolamentazione, a cui la legge n. 146 del 1990 e la giurisprudenza
(segnatamente la citata sentenza delle Sezioni unite penali n. 40187 del 2014)
attribuiscono natura di fonte subprimaria, sostanzialmente
regolamentare.
Le censure del rimettente, infatti, non
riguarderebbero tanto l’art. 2-bis della legge n. 146 del 1990, nella parte in
cui è rimesso ai codici di autoregolamentazione, valutati idonei, il
contemperamento con i diritti della persona costituzionalmente tutelati; bensì
si appuntano sulla modalità concreta con cui il codice in questione ha
contemperato il diritto del difensore, discendente dalla libertà di
associazione ex art. 18 Cost., di aderire a una protesta collettiva e quindi di
astenersi dalle udienze, con i diritti fondamentali dell’imputato in stato di
detenzione.
Conseguentemente, il giudice stesso avrebbe
potuto procedere alla disapplicazione della disciplina di autoregolamentazione
per contrasto con la legge n. 146 del 1990 e con i principi costituzionali
invocati nell’ordinanza di rimessione.
Nel merito, la difesa dello Stato ritiene che la
questione sia infondata. Ai sensi dell’art. 304, comma 6, cod. proc. pen., il termine di durata massima della custodia cautelare
in una determinata fase è sospeso. Da ciò la difesa statale deduce che ci
sarebbe un’adeguata remora a che l’imputato in stato di custodia cautelare
accetti l’astensione del proprio difensore. La gravità della conseguenza della
sospensione del termine richiederebbe che l’interessato manifesti il proprio
consenso solo dopo attenta ponderazione.
4.– Con atti depositati in data 4 e 5 giugno
2018, si sono costituiti in entrambi i giudizi di legittimità costituzionale
alcuni imputati nel giudizio a quo (V.P., P.R., G.B. e M.V.).
La difesa delle parti private sostiene che le
questioni di costituzionalità sollevate dal Tribunale di Reggio Emilia siano
inammissibili in quanto le censure si dirigono direttamente nei confronti della
disciplina in concreto adottata dal codice di autoregolamentazione, il quale è
un atto di normazione secondaria.
Il rimettente, inoltre, richiederebbe
(inammissibilmente) una sentenza additiva non «a rime obbligate».
La difesa delle parti private pone, altresì, in
rilievo un ulteriore profilo di inammissibilità incentrato sulla avvenuta
sospensione solo delle due udienze del 23 maggio 2017 e del 13 giugno 2017,
anziché di tutto il processo ai sensi dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953,
n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale).
Nel merito, poi, non vi sarebbe la lesione del
diritto dell’imputato detenuto in custodia cautelare, perché la disposizione
censurata contiene un bilanciamento a favore di quest’ultimo, tant’è che se
l’imputato chiede espressamente di procedere malgrado l’astensione del
difensore, il diritto del difensore di astenersi recede. Peraltro, si osserva
che in caso di rinvio per astensione in un processo con imputati sottoposti a
custodia cautelare, si ha la sospensione dei relativi termini massimi di
custodia cautelare e di prescrizione dei reati; ciò risponde all’esigenza di
evitare che la forzata inattività processuale si risolva in un ingiustificato
vantaggio per l’imputato.
5.– Con atto depositato in data 4 giugno 2018, è
intervenuta nei giudizi di legittimità costituzionale l’Unione delle Camere
Penali Italiane (d’ora in avanti: UCPI) chiedendo alla Corte, in primo luogo,
di dichiarare l’ammissibilità dell’intervento e, poi, l’inammissibilità o la
non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale.
In punto di ammissibilità dell’intervento, si
evidenzia innanzi tutto che l’UCPI è l’associazione riconosciuta come
maggiormente rappresentativa dell’avvocatura penale, che promuove la
conoscenza, la diffusione, la concreta realizzazione e la tutela dei valori
fondamentali del diritto penale e del giusto processo. Inoltre, l’UCPI, che ha
sottoscritto il codice di autoregolamentazione, afferma di avere un interesse
specifico e qualificato immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto
in giudizio.
In punto di ammissibilità delle questioni di
legittimità costituzionale e di non fondatezza, l’UCPI formula argomentazioni
analoghe a quelle svolte dalle parti costituite.
Considerato
in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia, con
due ordinanze del 23 maggio 2017 e del 13 giugno 2017, di contenuto
sostanzialmente analogo ed emesse nel corso dello stesso procedimento penale,
ha sollevato, in riferimento a numerosi parametri (artt. 1, 3, 13, 24, 27, 70,
97, 102 e 111 della Costituzione), questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 2-bis della legge 13 giugno 1990, n. 146 (Norme sull’esercizio del
diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei
diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della
Commissione di garanzia dell’attuazione della legge), nella parte in cui
consente che il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze
degli avvocati – adottato in data 4 aprile 2007 dall’Organismo Unitario dell’Avvocatura
(di seguito: OUA) e da altre associazioni categoriali (Unione camere penali
italiane-UCPI, Associazione nazionale forense-ANF, Associazione italiana
giovani avvocati-AIGA, Unione nazionale camere civili-UNCC), valutato idoneo
dalla Commissione di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali
con delibera n. 07/749 del 13 dicembre 2007, pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 3 del 2008 – stabilisca (all’art. 4, comma 1,
lettera b) che nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato
si trovi in stato di custodia cautelare o di detenzione, analogamente a quanto
previsto dall’art. 420-ter, comma 5, del codice di procedura penale, si proceda
malgrado l’astensione del difensore solo ove l’imputato lo consenta.
In particolare, il Tribunale rimettente ritiene
che sia violato l’art. 13, primo e quinto comma, Cost., in relazione all’art.
27 Cost., in quanto, derivando dal rinvio dell’udienza l’effetto della
sospensione dei termini di custodia cautelare ai sensi dell’art. 304 cod. proc.
pen., l’imputato, presunto non colpevole, subisce
restrizioni della libertà personale per motivi diversi da quelli espressamente
considerati dalla legge. La durata della custodia cautelare è fissata
nell’esclusiva considerazione delle esigenze che giustificano una ragionevole
limitazione del diritto della libertà personale fino alla sentenza
irrevocabile. Non è quindi possibile che sia rimessa alla volontà dell’imputato
la scelta in ordine alla restrizione della propria libertà personale, atteso
che la durata della custodia cautelare in carcere può e deve dipendere dalla
legge. Solo le esigenze cautelari e i tempi ragionevoli dell’accertamento
giudiziale possono determinare la durata della custodia cautelare e non anche
il rinvio dell’udienza per consentire al difensore di aderire all’astensione
collettiva, che esprime un valore, pur tutelato a livello costituzionale, subvalente rispetto al diritto di libertà dell’imputato.
Inoltre, secondo il Tribunale rimettente è
violato l’art. 13, quinto comma, Cost., in relazione al principio di
ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), nonché al principio di
subordinazione del giudice alla legge e alla sovranità popolare (art. 101
Cost.), parametro da integrarsi con riferimento agli artt. 1, 70 e 102 Cost.,
in quanto è di esclusiva competenza del legislatore, espressione della
sovranità popolare, stabilire il tempo massimo assegnato all’autorità
giudiziaria per concludere il processo a carico di imputati detenuti, non
potendo rilevare, sulla gestione e sulla durata dei tempi processuali, fattori
diversi da quelli espressamente considerati dal legislatore nella previsione
della ragionevole durata. Il rinvio delle udienze nel primo grado di giudizio,
a seguito dell’astensione dei difensori nei processi con imputati detenuti,
incide sulla definibilità dello stesso prima della
scadenza dell’invalicabile termine complessivo di durata della custodia
cautelare.
Ad avviso del rimettente, è altresì violato
l’art. 24 Cost., sotto il profilo della lesione del diritto di difesa, in
quanto far dipendere dall’assenso dell’imputato l’esercizio del diritto
all’astensione dalle udienze del difensore, nella consapevolezza del "costo”
che tale astensione determina per l’imputato, comporta una marcata alterazione
della relazione tra quest’ultimo e il suo difensore.
Inoltre, sarebbe violato l’art. 3 Cost., sotto
il profilo dell’intrinseca irragionevolezza, in quanto la censurata previsione
normativa attribuisce, alla manifestazione di protesta e alla rivendicazione di
categoria degli avvocati, «un peso abnorme e sproporzionato».
Parimenti, sarebbe violato, secondo il
rimettente, l’art. 3 Cost., sotto il profilo della lesione del principio di
uguaglianza, ponendosi in comparazione l’astensione collettiva degli avvocati
con quella dei dipendenti del Ministero della giustizia addetti al servizio di
assistenza all’udienza penale, nonché con quella dei magistrati, per i quali
l’astensione non è consentita nei procedimenti e nei processi con imputati
detenuti.
Il Tribunale denuncia, poi, la non giustificata
diversità di disciplina prevista rispettivamente alla lettera a) e alla lettera
b) dello stesso art. 4 del codice di autoregolamentazione, nonché la violazione
del principio di buon andamento dell’amministrazione della giustizia (art. 97
Cost.).
2.– Le questioni di legittimità costituzionale,
sollevate dal Tribunale di Reggio Emilia con le due menzionate ordinanze, sono
in larga parte sovrapponibili e quindi si rende opportuna la loro trattazione congiunta
mediante riunione dei giudizi.
3.– In entrambi i giudizi è intervenuta l’Unione
delle Camere Penali Italiane (d’ora in avanti: UCPI), che non è parte in alcuno
dei giudizi a quibus, chiedendo in via preliminare
che il suo intervento sia dichiarato ammissibile.
4.– L’intervento è ammissibile.
È vero che, secondo la costante giurisprudenza
di questa Corte (ex plurimis, ordinanze allegate alle
sentenze n. 16
del 2017, n.
237 e n. 82
del 2013, n.
272 del 2012, n.
349 del 2007, n.
279 del 2006 e n. 291 del 2001),
la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è
circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre che al Presidente
del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della
Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale).
Però a tale disciplina è possibile derogare –
senza venire in contrasto con il carattere incidentale del giudizio di
costituzionalità – quando l’intervento è spiegato da soggetti terzi che siano
titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto
sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni
altro, dalla norma oggetto di censura.
In tal caso, ove l’incidenza sulla posizione
soggettiva dell’interveniente sia conseguenza immediata e diretta dell’effetto
che la pronuncia della Corte costituzionale produce sul rapporto sostanziale
oggetto del giudizio a quo, l’intervento è ammissibile (ex multis,
sentenza n. 345
del 2005).
Nella specie si ha che la posizione
dell’interveniente, pur estranea al giudizio a quo, è suscettibile di restare
direttamente incisa dall’esito del giudizio della Corte. Infatti,
l’interveniente è una delle associazioni che hanno sottoposto alla Commissione
di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici
essenziali il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze
degli avvocati, poi valutato idoneo dalla Commissione stessa con delibera n.
07/749 del 13 dicembre 2007, il cui art. 4, lettera b), è richiamato dal
Tribunale di Reggio Emilia nell’ordinanza di rimessione.
È innegabile che un’eventuale pronuncia di
accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sul giudizio a quo
produrrebbe necessariamente un’immediata incidenza sulla posizione soggettiva
dell’UCPI, ente rappresentativo degli interessi della categoria degli avvocati
penalisti.
Pertanto, l’UCPI è portatore di un interesse
specifico a contrastare le prospettate questioni di legittimità costituzionale
e non già di un interesse solo generico (ex plurimis,
sentenza n. 178
del 2015 e allegata ordinanza letta all’udienza del 23 giugno 2015; sentenza n. 171 del
1996; ordinanza
n. 200 del 2015 e allegata ordinanza letta all’udienza del 22 settembre
2015).
Deve quindi ritenersi ammissibile l’intervento
dell’UCPI.
5.– Preliminarmente, la difesa delle parti
private costituite ha eccepito l’inammissibilità delle questioni di
costituzionalità perché il tribunale ordinario a quo, con ciascuna delle due ordinanze
di rimessione rese nello stesso procedimento penale in sede dibattimentale, ha
sospeso non già l’intero giudizio, ma soltanto l’attività processuale che era
prevista (e che altrimenti sarebbe stata compiuta) nelle udienze alle quali si
riferiva la dichiarazione dei difensori di adesione all’astensione collettiva
proclamata dall’OUA.
La prima ordinanza ha sospeso l’attività
processuale dell’udienza del 23 maggio 2017 e non anche quella calendarizzata
nelle udienze immediatamente successive, già in precedenza fissate. Parimenti,
la seconda ordinanza ha sospeso l’attività processuale dell’udienza del 13
giugno 2017 e non anche quella delle udienze successive.
La questione che quindi si pone è se la
sospensione limitata all’attività processuale − da svolgersi nelle
udienze che hanno visto i difensori aderire all’astensione collettiva,
proclamata dall’OUA ai sensi e con le modalità dell’art. 2-bis della legge n.
146 del 1990, e in occasione delle quali il tribunale ordinario era chiamato ad
applicare la disposizione censurata − abbia inficiato, o no, la ritualità
e quindi l’ammissibilità della (contestualmente) sollevata questione di
costituzionalità in ragione della circostanza che la sospensione stessa non sia
stata estesa anche a tutta l’attività processuale da svolgersi nelle udienze
già fissate in date successive, pur non interessate dall’astensione collettiva.
6.– Questa Corte ha più volte ritenuto
l’irrilevanza di ogni vicenda successiva all’ordinanza di rimessione,
affermando che il giudizio incidentale, «una volta iniziato in seguito ad
ordinanza di rinvio del giudice rimettente, non è suscettibile di essere
influenzato da successive vicende di fatto concernenti il rapporto dedotto nel
processo che lo ha occasionato» (sentenza n. 120 del
2013; nello stesso senso, sentenze n. 264 del
2017, n. 242
e n. 162 del
2014).
Non di meno, nella specie, la vicenda
processuale successiva alle ordinanze di rimessione ha innegabili punti di
contatto con la sollevata eccezione di inammissibilità delle questioni di
costituzionalità, dei quali non può non darsi conto.
Risulta dagli atti che la difesa delle parti
private costituite ha proposto ricorso per cassazione avverso la prima
ordinanza (quella del 23 maggio 2017), lamentando la «abnormità» – vizio di
matrice giurisprudenziale deducibile con ricorso diretto ex art. 111, settimo
comma, Cost. – per non aver il Tribunale rimettente sospeso l’intero giudizio e
quindi sostenendo la nullità dell’attività processuale svolta nelle udienze
successive al 23 maggio 2017.
La Corte di cassazione, sezione quinta penale,
con la sentenza 30 marzo 2018 − 5 giugno 2018, n. 25124, ha accolto il
ricorso argomentando sulla base di un precedente di quella stessa Corte (Corte
di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 aprile 1996 – 3 luglio 1996,
n. 8), che aveva ritenuto che il giudice rimettente (in specie, tribunale per
il riesame), dopo aver sollevato una questione incidentale di costituzionalità
in un procedimento penale a carico di un imputato detenuto in stato di custodia
cautelare sospendendo l’intero giudizio, fosse privo di potestas
decidendi e, quindi, non fosse competente a
provvedere sull’istanza di scarcerazione per asserito, sopravvenuto, spirare di
un termine di decadenza, essendo invece competente il giudice per le indagini
preliminari. La citata sentenza n. 25124 del 2018 ha ritenuto che, parimenti,
il rimettente Tribunale di Reggio Emilia non avesse più potestas
decidendi dopo aver sollevato le questioni
incidentali di legittimità costituzionale e quindi non potesse svolgere le
attività processuali previste nelle udienze successive a quella del 23 maggio
2017 in cui era stato promosso l’incidente di costituzionalità. In questa parte
– e solo in questa parte – l’ordinanza del 23 maggio 2017 è stata annullata
dalla Corte di cassazione, come emerge dalla motivazione della pronuncia,
nonché dalla testuale indicazione finale secondo cui, nell’ipotesi in cui le
sollevate questioni di costituzionalità non fossero accolte da questa Corte, si
avrebbe allora che il vizio dell’attività processuale svoltasi quando il
giudizio avrebbe dovuto invece essere interamente sospeso – ossia nelle udienze
successive a quella del 23 maggio 2017 – comporterebbe la nullità degli atti
posti in essere dal tribunale ordinario con conseguente regressione del
processo penale. È da escludere, quindi, che la Corte di cassazione abbia
inteso annullare l’intera ordinanza di rimessione facendo venir meno l’atto di
promovimento del giudizio incidentale di costituzionalità, che non è
suscettibile di alcuna impugnazione, né può essere annullato da alcun giudice,
spettando solo a questa Corte di verificarne la ritualità e l’idoneità ad
attivare tale giudizio.
È in questo contesto fattuale e normativo che la
difesa delle parti private costituite sostiene l’inammissibilità delle
questioni di costituzionalità sollevate sia con l’ordinanza del 23 maggio 2017,
alla quale si riferisce la recente citata pronuncia della Corte di cassazione,
sia con l’ordinanza del 13 giugno 2017, che invece né le parti costituite, né
le parti intervenute hanno riferito essere stata impugnata con analogo ricorso
per cassazione.
L’Avvocatura generale dello Stato, nella sua
difesa orale, ha avversato tale sollevata eccezione sostenendone
l’infondatezza.
7.– L’eccezione – come correttamente deduce
l’Avvocatura generale – è infondata.
Il giudizio incidentale di costituzionalità ha
necessariamente carattere pregiudiziale nel senso che la relativa questione si
pone come antecedente logico di altra questione che il giudice rimettente deve
decidere (art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, recante «Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale»). Ciò comporta che
il giudice non può definire l’attività processuale fin quando questa Corte non
abbia deciso la questione pregiudicante. Pertanto, il giudice – riservata la
decisione della questione pregiudicata, sulla quale egli delibererà solo dopo
che questa Corte costituzionale avrà deciso l’incidente di costituzionalità –
«sospende il giudizio in corso» (art. 23, secondo comma, citato), nel disporre
l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
Nell’ipotesi, però, in cui il giudizio si svolga
in distinti momenti o segmenti processuali, identificabili in ragione del fatto
che la rilevanza della questione di costituzionalità possa ragionevolmente
circoscriversi solo ad uno di essi, si ha che, pur restando che la pendenza
della questione di costituzionalità condiziona la decisione dell’intero
giudizio, è sufficiente che il giudice rimettente sospenda anche solo quel
distinto momento processuale in cui la questione è rilevante, e che possa
essere effettivamente isolato nella sequenza procedimentale del giudizio a quo.
Il citato art. 23 della legge n. 87 del 1953,
interpretato alla luce del principio della ragionevole durata del processo che
pervade ogni giudizio – civile, penale, o amministrativo che sia –, non esclude
che il giudice rimettente possa limitare il provvedimento di sospensione al
singolo momento o segmento processuale in cui il giudizio si svolge, ove solo
ad esso si applichi la disposizione censurata e la sospensione dell’attività
processuale non richieda di arrestare l’intero processo, che può proseguire con
il compimento di attività rispetto alle quali la questione sia del tutto
irrilevante. Resta fermo il controllo da parte di questa Corte dell’effettiva
possibilità di circoscrivere la rilevanza della questione, che rimane pur
sempre incidentale e che, come tale, è pregiudiziale rispetto ad una decisione
del giudice rimettente.
Nel caso in esame, il giudizio penale pervenuto
alla fase dibattimentale si articola in distinte udienze secondo un fitto
calendario predeterminato tipico dei processi con numerosi imputati (cosiddetti
maxi-processi). In ogni udienza, la presenza del difensore dell’imputato è
necessaria, ma può accadere che specifiche udienze cadano nell’intervallo
temporale dell’astensione collettiva dalle udienze, proclamata da
un’associazione categoriale della professione forense. La questione dello
svolgimento, o no, di attività processuale in quell’udienza in ragione
dell’adesione del difensore all’astensione collettiva si pone solo in
riferimento a tale udienza e non anche nelle molte altre udienze non
interessate da alcuna proclamazione di astensione collettiva. L’attività
processuale in queste successive udienze è del tutto estranea alla questione di
costituzionalità, nel senso che non è influenzata dal suo esito. È, quindi,
possibile isolare – come distinti momenti o segmenti processuali – le udienze
in cui ci sia stata, in concreto, l’adesione del difensore all’astensione
collettiva. Solo con riferimento a queste udienze il giudice è chiamato ad
applicare una normativa – quale appunto nella specie l’art. 2-bis della legge
n. 146 del 1990, integrato dall’art. 4, comma 1, lettera b), del codice di
autoregolamentazione – della cui legittimità costituzionale egli dubita e solo
in queste udienze la pregiudizialità della questione incidentale di
costituzionalità richiede che l’attività processuale sia sospesa. Sicché, il
giudice non si trova di fronte a quella che sarebbe un’estrema alternativa tra
rispettare il principio di legalità costituzionale, sollevando l’incidente di
costituzionalità, al prezzo di determinare un arresto di tutto il processo,
oppure proseguire nell’attività processuale per rispettare il principio della
ragionevole durata del processo, tenendo in non cale un dubbio di legittimità
costituzionale che pure egli nutre in ordine alla norma che va ad applicare.
Il principio di economia degli atti processuali,
che deriva da quello di ragionevole durata del processo, verrebbe in sofferenza
se il dubbio di costituzionalità in ordine ad un determinato atto processuale
da compiere in una singola udienza – quello che dispone o nega il rinvio della
stessa in ragione dell’adesione del difensore all’astensione collettiva –
dovesse comportare una stasi generalizzata di ogni attività processuale anche
nelle udienze su cui il dubbio di costituzionalità non rileva (perché il
difensore può essere regolarmente presente in mancanza della proclamazione di
alcuna astensione collettiva). Sarebbero frustrati sia il diritto dell’imputato
alla rapida verifica processuale della presunzione di non colpevolezza, sia
l’istanza punitiva riconducibile all’esercizio dell’azione penale che tende
anch’essa alla rapida conclusione del processo.
Ciò è tanto più vero se l’imputato – così come
nella specie – sia in stato di custodia cautelare, atteso che, secondo la
giurisprudenza di legittimità (a partire da Corte di cassazione, sezioni unite
penali, sentenza 6 luglio 1990 – 23 ottobre 1990, n. 9), il termine della sua
durata massima, sia di fase che complessiva, non è suscettibile di sospensione
per il solo fatto del promovimento dell’incidente di costituzionalità e della
conseguente sospensione del giudizio.
8.‒ Le considerazioni finora espresse
convergono verso un’interpretazione costituzionalmente adeguata dell’art. 23
della legge n. 87 del 1953 (nella parte in cui prevede che il giudice
rimettente «sospende il giudizio in corso») – disposizione di rango primario,
come tale anch’essa suscettibile di sindacato di costituzionalità (ordinanza n. 130
del 1971) – in sintonia, peraltro, con l’art. 18 delle Norme integrative
per i giudizi davanti alla Corte costituzionale il quale – considerando
l’ipotesi della (sopravvenuta) «sospensione […] del processo principale» come
non produttiva di effetti sul giudizio davanti alla Corte costituzionale –
implica che non possa escludersi un’attività processuale nel giudizio a quo
successiva all’ordinanza di rimessione.
Può aggiungersi che nella giurisprudenza di
questa Corte si rinvengono già affermazioni che possono intendersi in sintonia
con quanto sopra argomentato (sentenza n. 77 del
2018).
Se, invece, manca del tutto la statuizione circa
la sospensione del giudizio a quo, allora viene meno tout court la
pregiudizialità della questione di costituzionalità che, pertanto, è
inammissibile (ordinanze n. 5 del 2012 e n. 285 del 1994).
9.‒ In conclusione, avendo il Collegio
rimettente limitato – come poteva fare sul piano del giudizio incidentale di
costituzionalità (per quanto finora argomentato) – la sospensione dell’attività
processuale alle sole due udienze (del 23 maggio 2017 e del 13 giugno 2017) in
cui i difensori degli imputati detenuti in custodia cautelare, con l’assenso di
questi ultimi, si sono astenuti dal partecipare per aver aderito all’astensione
collettiva di categoria, si ha che la rilevanza delle sollevate questioni va
verificata con riferimento a tali udienze.
Deve allora considerarsi che il Tribunale
rimettente non ha provveduto – e dovrà provvedere (ora per allora) – in ordine
alla richiesta di rinvio dell’udienza presentata dal difensore in ragione
dell’adesione all’astensione collettiva. Ciò di per sé già assicura la
rilevanza della questione perché il tribunale dovrà applicare proprio la
disposizione censurata (sentenza n. 162 del
2014).
Ma vi è anche che la durata temporale tra
ciascuna delle due udienze in cui il difensore ha esercitato il suo diritto di
aderire all’astensione collettiva di categoria e l’udienza rispettivamente
successiva avrà un diverso regime quanto alla sospensione, o no, del termine di
prescrizione dei reati contestati e del termine massimo di custodia cautelare,
perché se il rinvio dell’udienza sarà dal tribunale, seppur ex post, ascritto
al legittimo esercizio del diritto del difensore di aderire all’astensione
collettiva, i due termini suddetti saranno da considerare sospesi; al
contrario, ove l’istanza dovesse essere rigettata, i due termini suddetti non
potrebbero considerarsi sospesi.
10.– Ancora in via preliminare, l’Avvocatura
dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sotto un diverso
profilo.
Sostiene la difesa erariale che le censure di
incostituzionalità, contenute nell’ordinanza del rimettente, ancorché
testualmente indirizzate nei confronti di una norma primaria (art. 2-bis della
legge n. 146 del 1990), in realtà riguardano la disciplina contenuta nell’art.
4, primo comma, lettera b), del citato codice di autoregolamentazione delle
astensioni dalle udienze. Disposizione quest’ultima che, in ragione della sua
natura di norma subprimaria, non è suscettibile di
sindacato di costituzionalità ad opera di questa Corte, ma dà luogo, in caso di
violazione di legge o, a maggior ragione, di violazione di un parametro
costituzionale, alla sua disapplicazione ad opera del giudice comune.
Un’analoga eccezione era stata sollevata
dall’Avvocatura in un precedente giudizio incidentale avente ad oggetto (anche)
la stessa disposizione di legge attualmente censurata (art. 2-bis); eccezione
implicitamente superata da questa Corte (ordinanza n. 116 del 2008) che ha
invece dichiarato manifestamente inammissibile la questione perché in quel
giudizio l’ordinanza di rimessione mirava a una pronuncia additiva a rime non
obbligate.
11.– L’eccezione non è fondata.
Non è condivisibile la tesi dell’Avvocatura
dello Stato che, non dubitando della natura normativa del codice di
autoregolamentazione, sostiene che l’oggetto delle censure del Tribunale rimettente
sia in realtà la disciplina posta dall’art. 4, comma 1, lettera b), del
medesimo codice per l’ipotesi in cui il processo abbia ad oggetto un imputato
in custodia cautelare o detenuto.
Il tenore testuale ed il contenuto sostanziale
delle ordinanze di rimessione smentiscono tale ricostruzione.
Il rimettente ha censurato la norma primaria
(l’art. 2-bis) nella parte in cui consente alla norma subprimaria
(l’art. 4, comma 1, lettera b) di regolare l’esercizio del diritto del
difensore di astenersi dall’udienza, in ipotesi di processo penale con imputato
in custodia cautelare, in adesione all’astensione collettiva proclamata
dall’associazione di categoria, individuando le prestazioni indispensabili in
termini tali che la regolamentazione così posta interferisce con la disciplina
della libertà personale ed entra in conflitto con numerosi parametri
costituzionali.
La censura, pertanto, è diretta proprio alla
norma primaria che non avrebbe dovuto consentire ciò che poi la norma subprimaria ha regolamentato.
12.– Un ulteriore profilo di dedotta
inammissibilità delle questioni di costituzionalità riguarda il petitum del Tribunale rimettente che – secondo la difesa
delle parti costituite, le quali hanno formulato in proposito distinta
eccezione – sarebbe non ben definito e comunque non a rime obbligate.
Anche questa eccezione di inammissibilità non è
fondata.
Dal tenore complessivo della motivazione delle
ordinanze di rimessione emerge con sufficiente chiarezza il verso delle
sollevate questioni, che converge nella censura dell’art. 2-bis citato nella
parte in cui consente al codice di autoregolamentazione di porre il divieto di
astensione dalle udienze solo quando è lo stesso imputato, che si trovi
detenuto in custodia cautelare, a dare l’assenso espresso o tacito (non
formulando la richiesta espressa che si proceda malgrado l’astensione del suo
difensore) in tal modo interferendo con la disciplina della libertà personale.
Secondo il tribunale ordinario rimettente la disposizione censurata, per essere
rispettosa dei parametri evocati, dovrebbe precludere al codice di
autoregolamentazione una tale interferenza.
Il petitum è, quindi,
ben chiaro, mentre solo la sua indeterminatezza o ambiguità comporterebbero
l’inammissibilità della questione (ex pluribus, sentenza n. 32 del
2016; ordinanze
n. 227 e n.
177 del 2016 e n. 269 del 2015).
Né alle parti che hanno eccepito
l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sotto tale
profilo giova l’ordinanza
n. 116 del 2008 di questa Corte, relativa a una precedente questione
incidentale di legittimità (anche) della stessa disposizione attualmente
censurata. Infatti, la fattispecie allora esaminata era ben diversa, perché in
quel giudizio il rimettente lamentava che il difensore, che aderisse
all’astensione collettiva, non sopportava alcun peso economico per la sua
scelta, a differenza del lavoratore subordinato che perde la retribuzione
quando aderisce allo sciopero. Chiedeva, quindi, che fosse introdotto un
contrappeso, una misura di remora, anche per gli avvocati. Ciò che,
all’evidenza, mostrava l’assoluta genericità del petitum.
Nella specie, invece, il petitum
è – come già rilevato – sufficientemente determinato nel suo verso perché mira
a eliminare l’interferenza del codice di autoregolamentazione nella disciplina
della libertà personale.
Non sussiste, pertanto, neppure sotto tale
profilo, una ragione d’inammissibilità delle sollevate questioni di
costituzionalità.
13.– Passando al merito, le due ordinanze, lette
congiuntamente in ragione del loro contenuto sostanzialmente sovrapponibile,
indicano numerosi parametri e pongono plurime questioni. Ma è possibile
ricondurre le censure essenzialmente a tre profili, il primo dei quali attiene
al diritto di libertà dell’imputato sottoposto a custodia cautelare (art. 13
Cost.); il secondo al canone della ragionevole durata del processo, che esprime
una regola di maggior rigore nel caso di imputato detenuto (art. 111 Cost.); il
terzo riguarda la ragionevolezza intrinseca della disciplina censurata e la sua
coerenza con il principio di eguaglianza in riferimento ad altre fattispecie
indicate in comparazione (art. 3 Cost.).
Va precisato che le censure sono circoscritte
alla fattispecie del processo penale con imputato sottoposto a custodia
cautelare. Infatti, tutto lo sviluppo argomentativo delle ordinanze di
rimessione e la fattispecie all’esame del rimettente, in ordine al quale questi
deve pronunciarsi (legittimità, o no, dell’astensione dichiarata dal difensore
in adesione all’astensione collettiva), mostra chiaramente che la fattispecie
in riferimento alla quale sono mosse le censure di costituzionalità è quella
specifica dell’imputato in custodia cautelare nel processo per il quale si
procede, e non già, in generale, dell’imputato detenuto, che può esser tale per
altra causa estranea al processo in corso.
La questione posta in riferimento all’art. 13,
quinto comma, Cost. è fondata nei limiti e nei termini che seguono, con
conseguente assorbimento degli altri profili di dedotta illegittimità
costituzionale.
14.– Occorre prendere le mosse dalla sentenza n. 171 del
1996 di questa Corte che ha riconosciuto che «l’astensione dalle udienze
degli avvocati e procuratori è manifestazione incisiva della dinamica
associativa volta alla tutela di questa forma di lavoro autonomo», in relazione
alla quale è identificabile, più che una mera facoltà di rilievo
costituzionale, un vero e proprio diritto di libertà. È necessario, però, un
bilanciamento con altri valori costituzionali meritevoli di tutela, tenendo
conto che il secondo comma, lettera a), dell’art. 1, della legge 146 del 1990
indica fra i servizi pubblici essenziali «l’amministrazione della giustizia,
con particolare riferimento ai provvedimenti restrittivi della libertà
personale ed a quelli cautelari ed urgenti nonché ai processi penali con
imputati in stato di detenzione».
Nel bilanciamento tra questi valori e il diritto
del difensore di aderire all’astensione collettiva, i primi hanno una «forza
prevalente». Ha ammonito questa Corte, con la sentenza da ultimo citata, che
«[q]uando la libertà degli avvocati e procuratori si
eserciti in contrasto con la tavola di valori sopra richiamata, essa non può
non arretrare per la forza prevalente di quelli». Sicché, è da privilegiare
l’interpretazione costituzionalmente orientata che riconosce «al giudice il
potere di bilanciare i valori in conflitto e, conseguentemente, di far recedere
la "libertà sindacale” di fronte a valori costituzionali primari»;
bilanciamento che nel processo penale non può dirsi realizzato con la nomina
del difensore d’ufficio. La legge n. 146 del 1990, che non ha operato tale
bilanciamento non avendo affatto previsto l’astensione collettiva dei
professionisti, è risultata (all’epoca) carente in quanto non apprestava una
razionale e coerente disciplina che includesse tutte le altre manifestazioni
collettive capaci di comprimere detti valori primari. Con la sentenza n. 171 del
1996, quindi, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art.
2, commi 1 e 5, della legge n. 146 del 1990, nella parte in cui non prevedeva,
nel caso dell’astensione collettiva dall’attività defensionale degli avvocati e
dei procuratori legali, l’obbligo d’un congruo preavviso e di un ragionevole
limite temporale dell’astensione e, altresì, nella parte in cui non prevedeva
gli strumenti idonei a individuare e assicurare le prestazioni essenziali
durante l’astensione stessa, nonché le procedure e le misure conseguenziali
nell’ipotesi di inosservanza.
15.– A seguito di questa pronuncia di
incostituzionalità il legislatore avrebbe dovuto introdurre «misure idonee ad
evitare che vengano compromessi i beni primari della convivenza civile che non
tollera la paralisi della funzione giurisdizionale e, quindi, esige
prescrizioni volte ad assicurare, durante l’astensione dell’attività
giudiziaria, le prestazioni indispensabili» (sentenza n. 171 del
1996).
A tal fine, il Governo ha inizialmente
presentato un disegno di legge (A.S. 1268), che elencava una serie di
fattispecie di «prestazioni indispensabili» da assicurare in caso di astensione
collettiva degli avvocati, prevedendo, in particolare, che l’astensione non era
consentita nei procedimenti relativi ad imputati in stato di custodia
cautelare. La disciplina proposta era quindi interamente di fonte legale.
Il legislatore, però, è intervenuto solo qualche
anno dopo, con la legge 11 aprile 2000, n. 83 (Modifiche ed integrazioni della
legge 12 giugno 1990, n. 146, in materia di esercizio del diritto di sciopero
nei servizi pubblici essenziali e di salvaguardia dei diritti della persona
costituzionalmente tutelati), inserendo nella legge n. 146 del 1990 il
censurato art. 2-bis. La scelta di fondo, che appartiene alla discrezionalità
legislativa, è stata diversa: non più una disciplina diretta da parte della
legge delle fattispecie che richiedono l’effettuazione di «prestazioni
indispensabili», ma il coinvolgimento delle associazioni di categoria mediante
il richiamo del «codice di autoregolamentazione» in un’ottica, più avanzata, di
assetto partecipativo degli strumenti di composizione del conflitto, insito
nella proclamazione dell’astensione collettiva di categoria. Il legislatore, da
una parte, ha riconosciuto, in linea di continuità con la citata sentenza n. 171 del
1996, il diritto di astensione collettiva anche a lavoratori autonomi,
professionisti o piccoli imprenditori, ma, d’altra parte, ha chiamato in causa
le loro associazioni rappresentative per individuare le fattispecie di
«prestazioni indispensabili» che comunque devono essere assicurate perché non
siano lesi i diritti della persona costituzionalmente tutelati, indicati
dall’art. 1 della stessa legge n. 146 del 1990, concernenti segnatamente, per
quanto qui rileva, «l’amministrazione della giustizia, con particolare
riferimento ai provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli
cautelari ed urgenti, nonché ai processi penali con imputati in stato di
detenzione». La disciplina di fonte legale è quindi destinata a saldarsi con
quella eteroprodotta dal codice di
autoregolamentazione.
16.– In questa diversa ottica si ha che la norma
primaria (art. 2-bis) si limita a definire il perimetro di riferimento:
riconosce il diritto (sindacale) di «astensione collettiva dalle prestazioni, a
fini di protesta o di rivendicazione di categoria» e fissa, al contempo, il
principio del necessario «contemperamento con i diritti della persona
costituzionalmente tutelati», ma poi coinvolge gli stessi destinatari di questo
bilanciamento richiedendo l’adozione, da parte «delle associazioni o degli
organismi di rappresentanza delle categorie interessate», di «codici di
autoregolamentazione». In particolare – oltre ad indicare un criterio molto puntuale,
essendo prescritto che il codice deve in ogni caso prevedere un termine di
preavviso non inferiore a quello indicato al comma 5 dell’art. 2 (dieci giorni)
e l’indicazione della durata e delle motivazioni dell’astensione collettiva –
l’art. 2-bis fissa nel resto, in termini ampi, la missione affidata al codice:
assicurare in ogni caso un livello di prestazioni compatibile con le finalità
di cui al comma 2 dell’art. 1 della medesima legge.
Il meccanismo di questo rinvio – che è formale
perché rimette alla disciplina subprimaria il
completamento della regolamentazione, ossia l’individuazione delle fattispecie
di «prestazioni indispensabili», e non già materiale, che richiede invece che
«il richiamo sia indirizzato a norme determinate ed esattamente individuate
dalla stessa norma che lo effettua» (sentenza n. 311 del
1993; ordinanza
n. 484 del 1993) – si articola nella promozione, da parte della Commissione
di garanzia, del codice di autoregolamentazione delle associazioni o degli
organismi di rappresentanza delle categorie interessate e nella successiva
valutazione di idoneità ad opera della stessa Commissione. È quest’ultima –
deputata ad esercitare una funzione eminentemente pubblicistica – che con la
delibera di idoneità del codice attrae quest’ultimo, tipico atto di autonomia
privata, nell’orbita delle fonti (subprimarie) del
diritto.
17.– Quindi, il codice di autoregolamentazione,
ove ritenuto "idoneo” dalla Commissione di garanzia, costituisce una vera e
propria normativa subprimaria e non già solo un atto
di autonomia privata delle associazioni categoriali che raggruppano gli
avvocati nell’esercizio del diritto di associarsi (art. 18 Cost.). In tal
senso, è l’univoco orientamento della giurisprudenza di legittimità nella sua
massima espressione nomofilattica costituita dalle sezioni unite, nella specie
penali, della Corte di cassazione (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza
30 maggio 2013 – 19 giugno 2013, n. 26711, e soprattutto Corte di cassazione,
sezioni unite, sentenza 27 marzo 2014 – 29 settembre 2014, n. 40187), che ha in
particolare sottolineato l’esigenza di uniformità (id est applicabilità erga omnes) della disciplina delle prestazioni indispensabili
nei servizi pubblici essenziali; esigenza presente parimenti in caso di vero e
proprio sciopero nell’area del lavoro privato e pubblico (sentenza n. 344 del
1996).
Ciò è coerente con il sistema delle fonti del
diritto. Una norma primaria può autorizzare un’altra fonte, come tale sottordinata e quindi subprimaria,
a dettare una determinata disciplina avente carattere generale ed astratto;
fonte che può anche originare nell’ambito dell’autonomia privata, se mediata da
un atto di ricezione, derivazione o validazione di natura pubblicistica. In
passato si è ritenuto in giurisprudenza (Corte di cassazione, sezioni unite
civili, sentenza 20 dicembre 1993, n. 12595) che tipici atti di autonomia
privata, quali gli accordi collettivi nazionali per il personale sanitario a
rapporto convenzionale, acquisissero natura di normazione subprimaria,
in ragione della dichiarazione di esecutività, con decreto del Presidente della
Repubblica (ex art. 48 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, recante
«Istituzione del servizio sanitario nazionale»).
Nella fattispecie in esame è la stessa
disposizione censurata (art. 2-bis della legge n. 146 del 1990) ad assegnare
alla Commissione di garanzia, quale autorità amministrativa indipendente, il
potere di verificare la "idoneità” dei codici di autoregolamentazione per le
categorie previste dalla stessa disposizione (lavoratori autonomi,
professionisti o piccoli imprenditori) e, in caso di ritenuta inidoneità del
codice categoriale ovvero di mancata presentazione dello stesso da parte della
categoria interessata, di deliberare la «provvisoria regolamentazione». Tale
valutazione di idoneità del codice di autoregolamentazione dell’astensione
collettiva dalle prestazioni di una determinata categoria (nella specie, quella
forense), sussume al livello di normazione subprimaria
questo codice che altrimenti rimarrebbe un tipico atto di autonomia privata
(quale, ad esempio, si ritiene che sia il codice deontologico forense: Corte di
cassazione, sezioni unite civili, sentenza 25 giugno 2013, n. 15873).
Si ha allora che, costituendo il codice di
autoregolamentazione, qualificato idoneo dalla Commissione di garanzia, una
normazione subprimaria valida erga omnes, il giudice è tenuto ad applicarne le disposizioni in
quanto conformi alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.) ed è nei confronti
della legge – come sopra rilevato − che è rivolta la questione di
legittimità costituzionale.
Costituisce, quindi, regola di diritto quella
che il Tribunale rimettente è chiamato ad applicare per stabilire se la
richiesta di rinvio del difensore, che dichiari di aderire all’astensione
collettiva, sia legittima, o no.
Da una parte, l’art. 2-bis della legge n. 146
del 1990 prevede che, in caso di astensione collettiva dalle prestazioni, a
fini di protesta o di rivendicazione di categoria, da parte di lavoratori
autonomi, professionisti o piccoli imprenditori, vanno rispettate le misure
dirette a consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili per
assicurare la funzionalità dei servizi pubblici essenziali, quale
l’amministrazione della giustizia «con particolare riferimento ai provvedimenti
restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed urgenti, nonché ai
processi penali con imputati in stato di detenzione».
Dall’altra parte, l’art. 4, comma 1, lettera b),
del codice di autoregolamentazione prescrive che l’astensione non è consentita
nella materia penale in riferimento ai «procedimenti e nei processi in
relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare o di
detenzione, ove l’imputato chieda espressamente, analogamente a quanto previsto
dall’art. 420-ter, comma 5 (introdotto dalla legge n. 479/1999) del codice di
procedura penale, che si proceda malgrado l’astensione del difensore». In tal
caso, il difensore di fiducia o d’ufficio non può legittimamente astenersi ed
ha l’obbligo di assicurare la propria prestazione professionale.
18.– La disposizione del codice di
autoregolamentazione (art. 4, comma 1, lettera b) richiama in particolare
l’art. 420-ter, comma 5, cod. proc. pen. che
stabilisce che il giudice provvede a norma del comma 1, rinviando ad una nuova
udienza, nel caso di assenza del difensore, quando risulta che l’assenza stessa
è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento, con
conseguente sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare
ai sensi dell’art. 304 cod. proc. pen., salvo che
l’imputato chieda che si proceda in assenza del difensore impedito.
Espressamente, quindi, la disposizione del
codice di autoregolamentazione mira ad introdurre – ed introduce – una
fattispecie analoga e parallela a quella legale che, dando rilievo all’assenso
dell’imputato, incide parimenti sul prolungamento, o no, dei termini di durata
massima della custodia cautelare, e finisce per toccare proprio la disciplina
legale di tali termini.
Mentre lo stesso art. 4, comma 1, alla lettera
a), si limita a prevedere che l’astensione del difensore non è consentita in
una serie di ipotesi relative, tra l’altro, alle misure cautelari, e quindi
anche ai procedimenti ed ai processi aventi ad oggetto proprio la stessa
custodia cautelare, rimanendo regolati per legge i termini della sua durata
massima e la loro sospensione o proroga, invece, nell’ipotesi della lettera b),
concernente i procedimenti e i processi in relazione ai quali l’imputato si
trovi in stato di custodia cautelare o di detenzione, non si limita a fare il
contemperamento tra diritto del difensore di aderire all’astensione collettiva
e i diritti della persona costituzionalmente tutelati, ma introduce una
regolamentazione dell’assenso dell’imputato sottoposto a custodia cautelare che
ha una diretta ricaduta sul suo stato di libertà.
19.– Orbene, con riferimento al primo dei tre
richiamati profili delle censure di illegittimità costituzionale, è decisiva la
prescrizione della riserva di legge, di carattere assoluto, che pone l’art. 13,
quinto comma, Cost.: è la legge che stabilisce i limiti massimi della
carcerazione preventiva, oggi custodia cautelare (sentenza n. 293 del
2013).
La libertà personale, diritto fondamentale
espressamente definito inviolabile (art. 13, primo comma, Cost.), è presidiata
da un’ampia riserva di legge che riguarda innanzi tutto i casi ed i modi in cui
è ammessa la detenzione con atto motivato dell’autorità giudiziaria (art. 13,
secondo comma, Cost.) o con provvedimento provvisorio dell’autorità di pubblica
sicurezza (art. 13, terzo comma, Cost.), e concerne poi, in particolare, i
limiti massimi della custodia cautelare (art. 13, quinto comma, Cost.).
La tutela della libertà personale, che si
realizza attraverso i limiti massimi di custodia cautelare, che l’art. 13,
quinto comma, Cost. demanda alla legge di stabilire, è «un valore unitario e
indivisibile, che non può subire deroghe o eccezioni riferite a particolari e
contingenti vicende processuali» (sentenza n. 299 del
2005).
Il codice di rito prevede un’articolata
disciplina dei termini di durata, fissando termini finali complessivi, in
funzione di limite massimo insuperabile, sì da coprire l’intera durata del
procedimento, garantendo, da un lato, un ragionevole limite di durata della
custodia cautelare, e, dall’altro, attribuendo al giudice una discrezionalità
vincolata nella valutazione della sussistenza dei presupposti per la sua
sospensione ex art. 304 cod. proc. pen. (sentenza n. 204 del
2012).
Questa Corte ha precisato che i «limiti che deve
incontrare la durata della custodia cautelare, discendono direttamente dalla
natura servente che la Costituzione assegna alla carcerazione preventiva
rispetto al perseguimento delle finalità del processo, da un lato, e alle
esigenze di tutela della collettività, dall’altro, tali da giustificare, nel
bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio
della libertà personale di chi non è ancora stato giudicato colpevole in via
definitiva» (sentenze
n. 219 del 2008 e n. 229 del 2005).
20.‒ La riserva di legge di cui all’art.
13, quinto comma, Cost. è strettamente funzionale a disegnare lo statuto di
tutela della libertà personale, collocato a livello di normazione primaria.
È solo la legge che deve assicurare il minor
sacrificio della libertà personale, cui ripetutamente ha fatto riferimento
questa Corte a partire dalla fondamentale sentenza n. 64 del
1970; la quale – aprendo la via alla vigente disciplina in tema di termini
massimi (di fase, complessivi e finali) della custodia cautelare – ha
evidenziato che con l’art. 13, quinto comma, la Costituzione ha voluto evitare
che il sacrificio della libertà determinato dalla custodia cautelare «sia
interamente subordinato alle vicende del procedimento; ed ha, pertanto, voluto
che, con la legislazione ordinaria, si determinassero i limiti temporali
massimi della carcerazione preventiva, al di là dei quali verrebbe compromesso
il bene della libertà personale, che [...] costituisce una delle basi della
convivenza civile».
21.– In conclusione, la disposizione censurata
viola la riserva di legge posta dall’art. 13, quinto comma, Cost. nella parte
in cui consente al codice di autoregolamentazione di interferire nella
disciplina nella libertà personale; interferenza consistente nella previsione
che l’imputato sottoposto a custodia cautelare possa richiedere, o no, in forma
espressa, di procedere malgrado l’astensione del suo difensore, con l’effetto
di determinare, o no, la sospensione, e quindi il prolungamento, dei termini
massimi (di fase) di custodia cautelare.
22.– Ciò, però, non comporta – come ritiene l’Avvocatura
dello Stato – la disapplicazione della norma subprimaria
ad opera del giudice comune e quindi anche del Tribunale rimettente.
La disposizione del codice di
autoregolamentazione si è mossa nell’ampio perimetro assegnatole dalla norma
primaria che – come già ricordato – le aveva demandato di assicurare in ogni
caso un livello di prestazioni compatibile con le finalità di salvaguardia dei
diritti della persona costituzionalmente tutelati.
La regola sulle «prestazioni indispensabili» da
assicurare in caso di procedimento o processo nei confronti di imputato
detenuto in custodia cautelare, regola che finisce per interferire nella
disciplina della libertà personale, è posta dalla disposizione subprimaria (art. 4, comma 1, lettera b, citato), che si muove
nel perimetro tracciato dalla norma primaria, fonte della sua legittimazione.
Ma, nella parte in cui la norma primaria ha consentito ciò, è essa stessa in
contrasto con l’art. 13, quinto comma, Cost. che prescrive che la legge
stabilisce i limiti massimi della custodia cautelare.
Nella specie, l’art. 2-bis della legge n. 146
del 1990 è costituzionalmente illegittimo proprio perché consente – nel senso
che non preclude − al codice di autoregolamentazione di andare ad
incidere sulla disciplina legale dei limiti di restrizione della libertà
personale, prevedendo una facoltà dell’imputato – quella di richiedere, o no,
che si proceda malgrado la dichiarazione di astensione del suo difensore che
abbia aderito all’astensione collettiva – con diretta ricaduta sui termini di
durata della custodia cautelare. Quindi, non è (nell’immediato) un problema di
disapplicazione della disposizione subprimaria, in
ipotesi illegittima per violazione dei limiti posti dalla norma primaria, ma è
innanzi tutto una questione di costituzionalità della norma primaria nella
parte in cui ha consentito a quella subprimaria di
incidere sulla durata della custodia cautelare prevedendo tale facoltà
dell’imputato detenuto.
23.– L’illegittimità costituzionale della
disposizione censurata per violazione dell’art. 13, quinto comma, Cost.
comporta – come già rilevato – che rimangono assorbiti gli ulteriori parametri
evocati dal rimettente nelle due ordinanze di promovimento dell’incidente di
costituzionalità.
24.– Va, quindi, dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 2-bis della legge n. 146 del 1990, nella parte in cui
consente che il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze
degli avvocati − adottato in data 4 aprile 2007 dall’OUA e da altre
associazioni categoriali (UCPI, ANF, AIGA, UNCC), valutato idoneo dalla
Commissione di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali con
delibera n. 07/749 del 13 dicembre 2007, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 3 del 2008 − nel regolare, all’art. 4, comma 1,
lettera b), l’astensione degli avvocati nei procedimenti e nei processi in
relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare,
interferisca con la disciplina della libertà personale dell’imputato.
Restano fermi, per il passato, i provvedimenti
di sospensione del termine di custodia cautelare stante il rinvio dell’attività
processuale su richiesta del difensore ovvero a causa della sua mancata
presentazione o partecipazione.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara
ammissibile l’intervento spiegato dall’Unione delle Camere Penali Italiane
(UCPI);
2) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 2-bis della legge 13 giugno 1990,
n. 146 (Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici
essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente
tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della
legge), nella parte in cui consente che il codice di autoregolamentazione delle
astensioni dalle udienze degli avvocati – adottato in data 4 aprile 2007
dall’Organismo Unitario dell’Avvocatura (OUA) e da altre associazioni
categoriali (UCPI, ANF, AIGA, UNCC), valutato idoneo dalla Commissione di
garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali con delibera n. 07/749
del 13 dicembre 2007 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.
3 del 2008 – nel regolare, all’art. 4, comma 1, lettera b), l’astensione degli
avvocati nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si
trovi in stato di custodia cautelare, interferisca con la disciplina della
libertà personale dell’imputato.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Giovanni AMOROSO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 27 luglio 2018.