SENTENZA N. 171
ANNO 1996
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Avv. Mauro FERRI, Presidente
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale: a) dell'art. 486, comma 5, del codice di procedura penale; b) del combinato disposto degli artt. 97, 486, comma 5, del codice di procedura penale e 29 delle disposizioni attuative del codice di procedura penale; c) del combinato disposto degli artt. 420, comma 3, 97 del codice di procedura penale, 29 delle disposizioni attuative del codice di procedura penale e 1 della legge 12 giugno 1990, n. 146 (Norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della commissione di garanzia dell'attuazione della legge); d) degli artt. 304, lettera b), e 76 del codice di procedura penale in relazione all'art. 102, comma 2, stesso codice e art. 30 delle disposizioni attuative del codice di procedura penale; e) degli artt. 2, 4, 8, 12, 13 della legge 12 giugno 1990, n. 146; f) degli artt. 85 e 169, comma 2, del codice di procedura civile; g) degli artt. 1, comma 2, 2, comma 3, della legge 12 giugno 1990, n. 146 e degli artt. 669-duodecies, 669-septies e 669-octies del codice di procedura civile, promossi con ordinanze emesse il 30 maggio 1995 dal Tribunale di Sassari, il 1° giugno (n. 2 ordinanze) e il 3 giugno 1995 dal Pretore di Padova, l' 8 giugno e il 2 giugno 1995 dal Tribunale di Roma sez. per il riesame, il 14 giugno 1995 (n. 4 ordinanze) dal Pretore di Bologna, il 1° giugno 1995 dal Pretore di Padova, il 16 giugno, il 3 giugno, il 31 maggio (n. 2 ordinanze), il 13 giugno, il 31 maggio, il 7 giugno, il 14 giugno, il 3 giugno (n. 3 ordinanze), il 31 maggio, il 30 maggio (n. 2 ordinanze), il 2 giugno (n. 3 ordinanze), il 14 giugno, il 9 giugno, il 6 giugno, il 9 giugno, il 3 giugno, il 6 giugno, il 30 maggio (n. 2 ordinanze), il 2 giugno, il 9 giugno, il 20 giugno, il 30 maggio, il 9 giugno, il 20 giugno, il 21 giugno (n. 5 ordinanze), il 16 giugno, il 6 giugno, il 9 giugno e il 13 giugno 1995 dal Tribunale di Sassari, il 5 giugno 1995 (n. 5 ordinanze) dal Pretore di Forlì, il 2 giugno 1995 (n. 15 ordinanze) dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Padova, il 29 giugno 1995 dalla Corte d'appello di Napoli, il 20 giugno 1995 (n. 2 ordinanze) dal Pretore di Milano, il 2 giugno 1995 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Padova, il 23 giugno (n. 5 ordinanze), il 16 giugno, il 20 giugno, il 31 maggio, il 6 giugno, il 23 giugno, il 3 giugno, il 23 giugno e il 2 giugno 1995 dal Tribunale di Sassari, il 2 giugno 1995 (n. 3 ordinanze) dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Padova, il 20 luglio 1995 dal Pretore di Padova, il 2 giugno 1995 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Padova e il 1° giugno 1995 dal Pretore di Padova, iscritte rispettivamente ai nn. 500, 508, 509, 510, da 512 a 517, 521, da 530 a 536, da 545 a 577, da 594 a 598, da 618 a 632, 657, 660, 661, 690, da 696 a 709, 717, 729, 731, 739, 780 del registro ordinanze 1995, e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, nn. 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 46 e 48 dell'anno 1995.
Visti l'atto di costituzione di Bergantino Vincenzo e gli atti di intervento del Consiglio nazionale forense e del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella udienza pubblica del 9 gennaio 1996 il giudice relatore Francesco Guizzi;
uditi gli avvocati Piero Longo e Gaetano Pecorella per Bergantino Vincenzo, Antonino Galati e Vincenzo Panuccio per il Consiglio nazionale forense nonché gli avvocati dello Stato Carlo Sica e Alessandro De Stefano per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. -- Nel corso del procedimento penale a carico di Bosinco Antonio e di altro imputato, nonché nel corso di altri cinquantatré giudizi - alcuni dei quali in prosecuzione sotto il vigore delle norme anteriori, ai sensi dell'art. 245 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 - tutti pendenti davanti al Tribunale di Sassari, il Presidente della Camera penale sarda, con nota del 30 maggio 1995, informava l'autorità giudiziaria circa l'astensione a tempo indeterminato degli avvocati dalle udienze penali. Rilevata la tempestività della comunicazione e la legittimità dell'impedimento dei difensori, alla luce del consolidato orientamento della Corte di cassazione, che a tale impedimento riconduce il fenomeno dell'astensione di avvocati e procuratori dalle udienze, il Tribunale di Sassari ha sollevato, per lesione degli artt. 2, 10 (in riferimento all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848), 24, 101, 102 e 134 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 486, comma 5, del codice di procedura penale. Perché in conseguenza di detto impedimento, quantunque sinora ritenuto legittimo, l'azione penale verrebbe a essere paralizzata e la giustizia non sarebbe più amministrata, in spregio delle previsioni costituzionali di cui agli artt. 101 e 102.
La disposizione denunciata violerebbe altresì, in riferimento al dettato dell'art. 6 della Convenzione ratificata dalla citata legge n. 848 del 1955, anche l'art. 2 della Costituzione, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, fra i quali vi è, certo, l'esame della res litigiosa entro termini ragionevoli.
2. -- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la manifesta inammissibilità della questione.
Ad avviso dell'Avvocatura, con l'ordinanza di rimessione si chiede - in assenza di soluzioni costituzionalmente obbligate - una pronuncia additiva che questa Corte ha già espressamente escluso di poter adottare, considerandola invasiva della discrezionalità riservata al legislatore e limitandosi, con la sentenza n. 114 del 1994, a chiedere un intervento legislativo sul cosiddetto sciopero degli avvocati.
3. -- E' intervenuto il Consiglio nazionale forense, in persona del Presidente pro tempore, che ha affermato la propria legittimazione - quale rappresentante istituzionale dell'avvocatura italiana e, quindi, come portatore di un interesse collettivo - e ha concluso nel merito per la manifesta infondatezza, sia perché l'astensione non si è protratta a tempo indeterminato, avendo le assemblee deliberato, di volta in volta, tempi e modalità, anche di revoca, sia perché la disposizione denunciata attribuisce al giudice il potere di valutare la legittimità dell'impedimento dei difensori e di negarla per particolari esigenze o situazioni come quella dell'eccessivo protrarsi della condizione impeditiva. L'art. 486, comma 5, del codice di procedura penale consentirebbe infatti di bilanciare l'interesse al buon andamento dell'amministrazione della giustizia (unitamente a quello dell'imputato alla pronta definizione del processo) con l'interesse alla difesa tecnica di fiducia, dando evidente prevalenza a quest'ultimo, specie in considerazione della garanzia offerta dall'art. 24, secondo comma, della Costituzione.
La scelta del legislatore di ammettere la legittimità dell'impedimento dell'avvocato senza limitazioni non sarebbe compatibile con l'intervento del giudice né potrebbe essere censurata dalla Corte costituzionale. Non pertinente sarebbe, poi, il richiamo agli artt. 101 e 102 della Costituzione, inapplicabili alle parti, e non riferibile al legittimo impedimento del singolo patrocinatore la questione relativa all'agitazione di categoria, dal momento che si colloca su un piano diverso, implicando il bilanciamento di valori in conflitto: gli interessi di categoria e le esigenze di funzionamento dell'amministrazione della giustizia. Tale questione, però, non potrebbe che essere risolta con l'intervento del legislatore, onde in mancanza di esso sarebbe demandato al giudice di valutare, nel caso concreto, la legittimità dell'impedimento del difensore, con la possibilità di negarla in circostanze particolari come l'imminente prescrizione del reato o il lungo e intollerabile protrarsi dell'agitazione. L'attento esercizio del potere giudiziale di ponderazione dei contrapposti interessi, in relazione alla specificità delle situazioni, non farebbe dunque venir meno l'assistenza legale di fiducia - malgrado l'adesione del singolo all'agitazione di categoria - e non legittimerebbe il ricorso alla difesa d'ufficio, neanche prospettando il caso della revoca tacita del mandato ai sensi dell'art. 30 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, come suggerisce il giudice a quo.
La Corte potrebbe certo propendere per una sentenza manipolativa di rigetto, ma la soluzione più corretta - così conclude il Consiglio nazionale forense - dovrebbe essere una decisione di manifesta infondatezza.
4. -- Nel corso di quattro distinti procedimenti penali davanti al Pretore di Padova, i difensori di fiducia degli imputati hanno dichiarato di aderire all'astensione dalle udienze deliberata dall'Unione delle camere penali e successivamente ribadita dall'assemblea degli avvocati italiani; il pubblico ministero si è però opposto al rinvio, eccependo in subordine la illegittimità costituzionale dell'art. 486, comma 5, del codice di procedura penale. In merito a ciò, il Pretore ha preliminarmente rilevato che l'astensione dei difensori dalle udienze non è ancora legislativamente disciplinata nonostante le indicazioni formulate nella sentenza di questa Corte n. 114 del 1994 e quelle ricavabili dalla legge n. 146 del 1990. Ha quindi sollevato, per violazione degli articoli 2, 24, primo e secondo comma, 97, 101, secondo comma, e 112 della Costituzione, altrettante questioni di legittimità costituzionale della disposizione richiamata.
La Corte di cassazione - osserva il giudice a quo - ha ricondotto l'astensione dei difensori alla nozione di legittimo impedimento contenuta nell'art. 486 del codice di procedura penale, sì che sembrano presentarsi due interpretazioni alternative. Stando a una prima ricostruzione, il diritto di protesta della classe forense dovrebbe sempre prevalere, anche a costo di determinare la paralisi della funzione giurisdizionale; stando invece all'altra, il diritto di protesta - ancorché garantito dalla Costituzione nella sua forma associativa - andrebbe bilanciato con gli altri diritti costituzionalmente protetti. Di qui, la sussistenza del legittimo impedimento solo quando l'astensione si eserciti con modalità idonee a salvaguardare diritti e principi costituzionali anche solo potenzialmente lesi.
Un esempio di concreto bilanciamento è offerto dalla legge n. 146 del 1990 che - quantunque non applicabile ad avvocati e procuratori - prescinde dalla qualità dei soggetti che si astengono e, in ragione della peculiare natura del servizio e della funzione svolta, pone alcuni punti fermi, come il congruo preavviso, il termine certo circa la cessazione dell'astensione e gli affari ineludibili, che dovrebbero considerarsi vincolanti sul piano interpretativo, quali che siano i soggetti che si astengono dall'attività giudiziaria. Non costituirebbero perciò legittimo impedimento, ai sensi dell'art. 486, comma 5, del codice di procedura penale, quelle forme di protesta prive sia d'un congruo preavviso sia di un termine finale certo: onde, in relazione agli artt. 97, 2, 24, primo e secondo comma, 101, terzo comma, e 112 della Costituzione, la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della disposizione processuale censurata. Essa sarebbe rilevante - così motiva l'ordinanza di rimessione - perché le agitazioni si sarebbero svolte senza alcun preavviso e senza un termine certo di conclusione, in quanto genericamente ancorato, questo, all'approvazione dei "contenuti delle riforme a cui si erano impegnate le forze politiche".
5. -- Nel corso di altri due procedimenti penali, lo stesso Pretore - operando un concreto giudizio di bilanciamento - rigettava la richiesta di rinvio del dibattimento senza ottenere, tuttavia, alcun effetto. Nominava, perciò, difensore d'ufficio il Presidente del locale ordine forense che, a sua volta, negava la propria disponibilità, dichiarando di aderire alla protesta. E quindi sollevava una ulteriore questione di legittimità costituzionale avente a oggetto il combinato disposto degli artt. 97 e 486, comma 5, del codice di procedura penale, nonché dell'art. 29 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), nella parte in cui consente di ritenere legittimo l'impedimento di quei difensori che sono nominati d'ufficio a seguito della rigettata richiesta di rinvio proposta dal difensore di fiducia in adesione al medesimo deliberato assembleare.
Nel richiamare le considerazioni sopra illustrate, il giudicante prospetta la violazione:
- dell'art. 2 della Costituzione, perché il "legittimo impedimento" provocherebbe la paralisi della giustizia e priverebbe il cittadino di una tutela costituzionalmente garantita in ragione dell'ordinato funzionamento della giurisdizione;
- dell'art. 24, primo comma, per la grave turbativa che deriverebbe al diritto di azione;
- dell'art. 24, secondo comma, perché si vanificherebbe il diritto di difesa in ogni stato e grado del processo;
- dell'art. 35, primo comma, perché, con rinvii a catena delle udienze, si turberebbe la regolarità delle occupazioni di tutti quei cittadini a vario titolo coinvolti nel processo;
- dell'art. 97, per gli inconvenienti nel funzionamento del processo penale che scaturirebbero dalla mancata applicazione degli artt. 132 e 160 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, nonché dell'art. 477 dello stesso codice;
- dell'art. 101, secondo comma, impedendosi lo svolgimento della funzione giurisdizionale;
- dell'art. 112, perché verrebbe leso il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, non essendo garantita la sospensione dei termini prescrizionali.
6. -- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, la quale ha concluso per la infondatezza della questione, sostenendo che il richiamo agli artt. 2, 35 e 97 della Costituzione sarebbe generico e improprio - in quanto i tre valori costituzionali non atterrebbero all'esercizio della giurisdizione - e sottolineando che le disposizioni censurate non riguarderebbero l'organizzazione degli uffici giudiziari, ma un complesso di regole di ordine strettamente processuale.
Il riferimento all'art. 24 della Costituzione si rivelerebbe addirittura contraddittorio rispetto all'obiettivo perseguito, perché la difesa d'ufficio dell'imputato - quale risulterebbe dall'accoglimento della questione - potrebbe pregiudicare gli interessi dell'assistito. Né sarebbe ravvisabile una violazione degli artt. 101, secondo comma, e 112 della Costituzione, poiché le disposizioni censurate non impedirebbero l'esercizio della funzione giurisdizionale, ma inciderebbero soltanto sulla sua celerità, non derogando neppure al principio di obbligatorietà dell'azione penale da parte del pubblico ministero.
7. -- Anche in questo giudizio è intervenuto il Consiglio nazionale forense, concludendo per l'inammissibilità, e l'infondatezza, della questione.
L'inammissibilità conseguirebbe alla scelta effettuata dal Pretore che avrebbe nominato, ai sensi dell'art. 97, comma 1, del codice di procedura penale, quale difensore d'ufficio dell'imputato, il Presidente del locale ordine forense anziché altro sostituto. Nel richiamare l'art. 97 del codice di rito, il giudice a quo avrebbe, nella specie, dovuto applicare il comma 4, e non il comma 1, poiché l'imputato, nel caso in esame, non rimarrebbe privo del difensore, né il rapporto fiduciario sarebbe venuto meno, secondo quanto affermato dalla Corte nell'ordinanza n. 480 del 1991. La questione sarebbe comunque irrilevante, sia per la sopravvenuta cessazione della protesta degli avvocati, sia perché sollevata in un procedimento diverso, e non appropriato, dovendo invece esser posta nel corso del procedimento da instaurarsi a seguito del rifiuto del difensore nominato d'ufficio.
Nel merito, poi, sarebbe infondata sulla base delle argomentazioni svolte a proposito della questione sollevata dal Tribunale di Sassari. Circa i parametri qui invocati, si paleserebbe erroneo il riferimento all'art. 112 della Costituzione, giacché tale disposizione concerne solo il momento dell'iniziativa processuale e dell'irretrattabilità dell'azione penale, una volta che sia esercitata. Né appare pertinente il richiamo all'art. 102 della Costituzione con riguardo a disposizioni, qual è quella denunciata, che consentono al giudice di operare valutazioni comparative (cfr. sentenza n. 178 del 1991).
Pur respingendo l'equiparazione della protesta forense allo sciopero - solo quest'ultimo effettivamente regolato dalla legge n. 146 del 1990 - il Consiglio forense contesta inoltre la ricostruzione del fatto, secondo cui le assemblee della categoria non avrebbero prestato ossequio al principio del termine finale certo e agli altri stabiliti dalla predetta legge. L'obbligo del preavviso, almeno come inteso dall'art. 486 del codice di rito (la "pronta comunicazione"), e come risulterebbe dalle ordinanze dei giudici a quibus, sarebbe stato d'altronde rispettato, avendo i difensori provveduto, in ogni occasione, a comunicare con "prontezza" la loro adesione alla protesta. Né troverebbe fondamento, infine, la pretesa diversità di posizione fra l'avvocato di fiducia dell'imputato e quello nominato d'ufficio dal giudice, in quanto chiamato a difendere l'imputato a causa dell'astensione del primo. Dichiarando fondata la questione, si verrebbe a creare una disparità di trattamento fra due figure di professionisti, cui la legge riconosce gli stessi diritti.
8. -- In data 23 aprile 1994, il Giudice per le indagini preliminari presso Tribunale di Roma emetteva ordinanza di custodia cautelare nei confronti d'un imputato del reato di acquisto e detenzione di sostanze stupefacenti al fine di spaccio, ma questi proponeva istanza di riesame, ottenendo dal Tribunale, il 6 maggio 1994, l'accoglimento del ricorso e il conseguente annullamento della misura. Su ricorso del Procuratore della Repubblica, la Corte di cassazione, con sentenza del 31 gennaio 1995, annullava a sua volta, con rinvio, l'ordinanza del Tribunale.
All'udienza dell'8 giugno 1995, avendo il difensore chiesto un differimento della decisione per aderire all'astensione dalle udienze proclamata dalla categoria, il Tribunale di Roma ha sollevato, in relazione agli artt. 3, 24, secondo comma, e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, 4, 8, 12 e 13 della legge 12 giugno 1990, n. 146 (Norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della commissione di garanzia dell'attuazione della legge).
Osserva preliminarmente il Collegio rimettente che la protesta è stata più volte prorogata, con la sola eccezione della difesa nei processi con detenuti. D'altra parte, nei procedimenti di riesame dei provvedimenti coercitivi, personali e reali, gli artt. 309, 322 e 324 del codice di procedura penale non prevedono, come obbligatoria, la presenza delle parti e dei difensori, prescrivendo un termine di dieci giorni per l'emanazione del provvedimento. Rilevato, poi, che le competenze del tribunale del riesame dovrebbero rientrare fra i servizi pubblici essenziali, si afferma che la presenza non necessaria delle parti o del difensore non costituirebbe, in questo tipo di procedimenti, principio assoluto. La regola consentirebbe all'imputato, senza che la scelta sia sindacabile, di comparire personalmente o di avvalersi della difesa tecnica; sì che il giudice - quando la parte abbia appunto deciso di avvalersi della difesa tecnica e l'avvocato, nel comparire, dichiari di astenersi dalla partecipazione alle udienze - non potrebbe considerare la sua presenza come non avvenuta, difettandogli il potere di nominare un difensore d'ufficio.
Il Tribunale di Roma sostiene che la legge n. 146 del 1990 non avrebbe quali suoi destinatari i liberi professionisti, per quanto la giurisprudenza della Corte di cassazione sia da tempo orientata nel senso di configurare gli avvocati come "esercenti un servizio di pubblica necessità". La loro astensione dal lavoro non sarebbe assimilabile allo sciopero e, sotto il profilo penale, non integrerebbe interruzione di pubblico servizio, ai sensi dell'art. 331 del codice penale, perché le finalità dell'azione "sindacale" avrebbero una copertura costituzionale.
Per la potenziale lesione di altri interessi costituzionalmente garantiti, l'astensione sarebbe però equiparabile allo sciopero dei dipendenti di imprese o enti che erogano servizi pubblici essenziali, per i quali la legge sopra menzionata ha previsto una serie di obblighi - fra cui il preavviso e la possibilità dell'intervento autoritativo, al fine di garantire detti servizi - e ha stabilito varie sanzioni in caso di accertate violazioni (artt. 2, 4, 8, 9 e 13). Sarebbe irragionevolmente discriminatoria l'inapplicabilità della disciplina dello sciopero, introdotta con la citata legge n. 146, ai privati che adempiono servizi di pubblica necessità la cui collaborazione è indispensabile per il funzionamento dei servizi pubblici essenziali (v. sentenza n. 114 del 1994). Tale carenza normativa determinerebbe la lesione dei diritti di difesa per coloro che non possono in alcun modo opporsi allo "sciopero" del difensore, vanificando il canone del buon andamento dell'amministrazione (della giustizia).
9. -- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'inammissibilità della questione sotto un duplice profilo. Anzitutto, per difetto di rilevanza, in quanto sollevata in un procedimento camerale (ex art. 127 del codice di procedura penale, richiamato dall'art. 309, comma 8) di riesame di misura coercitiva personale. Tali procedimenti, infatti, consentirebbero la valutazione del legittimo impedimento della parte solo con riferimento all'imputato che abbia chiesto di essere sentito personalmente ai sensi del comma 4 del citato art. 127; il quale, tuttavia, non sarebbe applicabile ai difensori (e al pubblico ministero) che, ai sensi del comma 3, "sono sentiti se compaiono". Risulta evidente, perciò, che la presenza del difensore non è obbligatoria, per cui dovrebbe escludersi il rinvio dell'udienza anche quando l'assenza sia determinata da legittimo impedimento. La questione sarebbe altresì inammissibile, perché imperniata sulla richiesta di una pronuncia additiva in un ambito che è riservato alla discrezionalità del legislatore.
10. -- Nel corso di quattro distinti procedimenti penali, il Pretore di Bologna, con altrettante ordinanze del 14 giugno 1995, ha sollevato, in relazione agli artt. 3, 21 e 40 della Costituzione, questione di costituzionalità dell'art. 486, comma 5, del codice di procedura penale, nella parte in cui riconosce al difensore un diritto, privo di limiti, ad astenersi da ogni attività di difesa.
Secondo il giudice a quo la norma assicurerebbe al difensore l'esercizio di un diritto che - potendo paralizzare l'azione penale per tutta la durata della protesta - deve necessariamente trovare fondamento costituzionale o compatibilità con i valori costituzionali. Non essendo riconducibile al diritto di sciopero tutelato dall'art. 40 della Costituzione (v. sentenza n. 114 del 1994), e neppure ai principi affermati dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 222 del 1975, andrebbe piuttosto rapportato alla libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall'art. 21 della Costituzione, che non può però tollerare comportamenti in contrasto con "doveri normativamente imposti" né implicare il sacrificio di altri valori costituzionalmente protetti.
Non potendo essere effettuato in via interpretativa, tale bilanciamento dovrebbe realizzarsi per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 486, comma 5, del codice di procedura penale, nella parte in cui consente che l'astensione del difensore dalle udienze (in adesione a una protesta collettiva) si configuri quale legittimo impedimento. L'esercizio di un vero e proprio "diritto di astensione", senza limiti stabiliti, sarebbe costruito in contrasto sia con gli artt. 40 e 21 della Costituzione sia con il canone della ragionevolezza.
E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, la quale ha concluso per l'infondatezza, sostenendo che il richiamo agli artt. 40 e 21 della Costituzione sarebbe improprio - specie il secondo, perché non pone divieti a simili forme di protesta - mentre l'indicazione dell'art. 3, come sembra d'altronde riconoscere lo stesso rimettente, risulterebbe generica.
11. -- Nel corso di cinque distinti procedimenti penali, il Pretore di Forlì - rilevata l'astensione dalle udienze dei difensori di fiducia degli imputati - ha sollevato, in relazione agli artt. 97, 112 e 101, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 486, comma 5, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede che l'astensione dalle udienze degli avvocati costituisca legittimo impedimento anche se manchi un termine finale certo. L'agitazione proclamata dall'assemblea generale degli avvocati italiani non aveva un termine finale certo, come dimostrano le proroghe susseguitesi, mentre l'agitazione delle camere penali, aggiuntasi e sovrappostasi, ha sostituito addirittura il termine finale con una condizione: l'approvazione "in sede parlamentare dei contenuti delle riforme a cui si erano impegnate le forze politiche". La celebrazione dei processi sarebbe così rimessa alla volontà delle camere penali, e ciò costituirebbe un vulnus al disposto degli artt. 97, 112 e 101 della Costituzione, giacché sarebbe leso il canone del buon andamento, riferibile anche all'organizzazione giudiziaria e ai profili prescrizionali, particolarmente brevi, dei reati contravvenzionali; sarebbe vanificata l'obbligatorietà dell'azione penale da parte del pubblico ministero; e sarebbe oggettivamente compromessa l'indipendenza del giudice, soggetto solo alla legge e non agli indirizzi di una qualche assemblea. Del resto, il legislatore potrebbe, forse, aver inteso fornire un orientamento nel prevedere, con l'art. 477, comma 2, del codice di procedura penale, la possibilità - per i processi che non possono concludersi in una sola udienza - di sospendere il dibattimento per un termine massimo di dieci giorni.
Nel motivare sulla rilevanza della questione, il Pretore di Forlì suggerisce l'estensione al processo penale dei principi stabiliti, per lo sciopero, dalla legge n. 146 del 1990.
12. -- Nel corso del procedimento penale a carico di Bergantino Vincenzo, e in altri diciannove procedimenti, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Padova, ha sollevato, in relazione all'art. 1 della legge n. 146 del 1990, questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 420, comma 3, e 97 del codice di procedura penale, e dell'art. 29 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.
L'art. 420 del codice di procedura penale, ricorda il rimettente, prevede come necessaria la partecipazione del pubblico ministero e del difensore all'udienza preliminare, stabilendo che - nel caso in cui quest'ultimo non compaia - venga designato un sostituto ai sensi dell'art. 97, comma 4, dello stesso codice. In linea astratta, per la reperibilità soccorre l'art. 29 delle disposizioni di attuazione, ma se tutti i professionisti, come nel caso di specie, dichiarano di aderire all'agitazione e si astengono (da ultimo il componente del Consiglio dell'ordine forense), nessun'altra strada sarebbe percorribile per assicurare l'effettività di quella partecipazione del difensore che è condizione indefettibile per la celebrazione dell'udienza.
Osserva il giudice a quo che la legge n. 146 del 1990 non ricomprenderebbe fra i suoi destinatari coloro che esercitano un servizio di pubblica necessità, e soggiunge che lo spirito di essa consisterebbe nel bilanciare i diritti costituzionalmente protetti - quello di sciopero, da una parte, e quelli alla vita, alla salute e alla libertà personale, dall'altra - attraverso una regolamentazione del primo che non impedisca il realizzarsi di attività pubbliche in settori essenziali per la tutela dei diritti della persona.
Alla luce di tali considerazioni, appare irrazionale che, mentre per i pubblici dipendenti che operano nel settore giustizia sono previste numerose limitazioni al diritto di sciopero (dettate dalla preoccupazione di non intaccare diritti dei cittadini meritevoli di tutela), altrettanto non si verifica per coloro che, in ragione della loro attività, sono attori necessari per la salvaguardia di ogni diritto.
Non operando nei confronti della classe forense, la legge n. 146 del 12 giugno 1990, si porrebbe in contrasto - così conclude l'ordinanza - con l'art. 2 della Costituzione, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo; con l'art. 24, che assicura a tutti la possibilità di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti; con l'art. 101, per il quale i giudici sono soggetti solo alla legge; e con l'art. 40, che prescrive, per il diritto di sciopero, un esercizio nell'ambito delle leggi regolatrici.
13. -- Si è costituito Bergantino Vincenzo che ha chiesto la declaratoria di inammissibilità o, in subordine, di non fondatezza della questione, essendo preclusa alla Corte una pronuncia additiva in una materia riservata alla discrezionalità del legislatore, e non risultando irragionevole la normativa censurata.
14. -- Nel corso del procedimento penale a carico di Romaniello Luigi e altro imputato, rilevata l'assenza dei difensori di fiducia aderenti all'agitazione della categoria, e di altri avvocati "nominabili" d'ufficio, la Corte d'appello di Napoli ha sollevato, per violazione degli artt. 3 e 24, primo e secondo comma, della Costituzione, questione di costituzionalità degli artt. 304, comma 1, lettera b), 76 (in relazione all'art. 102, comma 2) del codice di procedura penale, e 30 delle disposizioni di attuazione di cui al decreto legislativo n. 271 del 1989.
Osserva preliminarmente il Collegio rimettente che il potenziale contrasto fra l'interesse del "giudicabile" e quello del difensore sarebbe regolato dagli artt. 486 e 304, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, essendo ivi previsto che soltanto l'imputato può chiedere la celebrazione del processo se e in quanto il difensore di fiducia abbia tempestivamente comunicato il proprio impedimento. Diversamente, l'art. 304, comma 1, lettera b), dello stesso codice, regolerebbe un'evenienza distinta dall'impedimento: la "privazione di assistenza" conseguente alla "mancata presentazione", o all'"allontanamento", o alla "mancata partecipazione" del difensore. Tale situazione si adatterebbe meglio dell'altra alle agitazioni forensi caratterizzate dall'astensione dalle udienze; e tuttavia, questa disposizione non formalizzerebbe il contrasto degli interessi fra l'imputato e il suo difensore (come invece, per altra ipotesi, farebbe l'art. 486 del codice di procedura penale), cosicché l'imputato, qualora volesse sostituire il difensore di fiducia, o rinunciarvi, non potrebbe ottenere alcun risultato nel caso, qual è quello in esame, d'una generalizzata mobilitazione della categoria. Eppure, già le sezioni unite della Corte di cassazione e la Corte costituzionale, con la sentenza n. 114 del 1994, hanno individuato la linea da seguire nel bilanciamento degli interessi in conflitto (già accolto nell'art. 304, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale) e hanno evitato di adottare la soluzione aprioristica in favore della categoria forense. La citata disposizione risulterebbe perciò viziata, in rapporto agli indicati parametri costituzionali, nella parte in cui non prevede che, nel caso di privazione di assistenza legale, l'imputato possa chiedere e ottenere la celebrazione del dibattimento. Sarebbero del pari viziati anche:
- l'art. 97, comma 4, dello stesso codice, nella parte in cui, richiamando l'art. 102, secondo comma, consente al sostituto del difensore di fiducia di non prestare l'ufficio deferitogli per l'identica ragione allegata dal sostituito;
- l'art. 30 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo n. 271 del 1989, nella parte in cui, quand'anche potesse giungersi a nominare un difensore d'ufficio, questi potrebbe allegare l'astensione in atto quale causa dell'impossibilità di adempiere.
Le questioni così prospettate sarebbero non manifestamente infondate, perché impedirebbero una valutazione bilanciata degli interessi contrapposti, imponendo il rinvio del processo con la sospensione dei termini di custodia cautelare, in violazione del principio di uguaglianza, del diritto dell'imputato al processo e del diritto alla difesa.
15. -- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'inammissibilità e l'infondatezza.
L'inammissibilità della questione relativa all'art. 304, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, conseguirebbe alla sua irrilevanza, non risultando la richiesta di celebrazione del processo in assenza dei difensori di fiducia. Nel merito, sarebbe manifestamente infondata, giacché l'ipotesi dell'astensione dalle udienze degli avvocati dovrebbe rientrare, in base all'indirizzo giurisprudenziale della Corte di cassazione, nella figura del legittimo impedimento a comparire, giustificativa del rinvio dell'udienza ai sensi dell'art. 486, comma 5, del codice di procedura penale. L'ordinanza di rimessione sarebbe, pertanto, basata su un erroneo presupposto in diritto.
Del pari inammissibili, perché irrilevanti, sarebbero le questioni relative agli artt. 97, comma 4, del codice di procedura penale, e 30 delle menzionate disposizioni di attuazione, poiché non sarebbe intervenuta alcuna nomina in sostituzione e, quindi, non si sarebbe potuto verificare alcun rifiuto. Le questioni di costituzionalità prospettate in via ipotetica sono improponibili: del resto, la difficoltà di rinvenire un difensore d'ufficio darebbe luogo a un impedimento di fatto.
Nel merito, anch'essa sarebbe infondata, poiché il giudice a quo differenzierebbe, indebitamente, la posizione del difensore di fiducia, al quale sarebbero riconosciute le libertà sindacali, da quella del difensore d'ufficio al quale analoga libertà dovrebbe essere negata, con la palese violazione del principio di uguaglianza che, invece, si vorrebbe garantire. L'agitazione sindacale non sarebbe riconducibile alle disposizioni censurate, costituendo un'espressione delle libertà costituzionali che, attualmente, non subiscono limitazioni per il bilanciamento con altri e concorrenti valori costituzionali: limitazioni che solo il legislatore potrebbe introdurre (cfr. sentenza n. 114 del 1994).
16. -- Nel corso di una causa avente a oggetto il pagamento di un corrispettivo, il Pretore di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 41, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 85 e 169, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui non consentono di depositare personalmente il fascicolo di causa a chi si sia costituito in giudizio mediante un procuratore che aderisca alla protesta collettiva e non permettono al giudice di fissare un termine per l'effettuazione del deposito. Nel caso esaminato dal rimettente, dei tre patrocinatori delle parti costituite, uno aveva dichiarato di aderire all'astensione dalle udienze, un altro era risultato assente e il terzo, pur non partecipando all'agitazione, aveva chiesto - senza successo - un rinvio "per spirito di colleganza".
Osserva preliminarmente il giudice a quo che non è censurabile la scelta compiuta dal procuratore di non depositare il proprio fascicolo, anche se espone l'assistito alle conseguenze d'un giudizio sfavorevole per la impossibilità di valutare le prove documentali: di qui, la rilevanza della sollevata questione di legittimità costituzionale.
L'astensione dalle udienze d'uno dei difensori non può, infatti, essere attratta nella previsione di cui all'art. 115 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile che regola il grave impedimento, ma può esserlo, piuttosto, nella previsione dell'art. 85 dello stesso codice, che disciplina la rinuncia alla procura da parte del difensore. Non essendo l'astensione degli avvocati dalle udienze esercizio d'un diritto costituzionale (qual è lo sciopero in base all'art. 40 della Costituzione), bensì soltanto una libera scelta, ovvero una volontaria omissione, civilisticamente qualificabile come rinuncia al mandato.
L'art. 85 del codice di procedura civile - non imponendo al giudice la verifica della conoscenza, da parte del litigante, circa l'astensione del proprio procuratore dall'udienza - si porrebbe in contrasto con quei precetti costituzionali che permettono alla parte di provvedere in altro modo alla propria difesa. In violazione dell'art. 3 della Costituzione, esso lederebbe il principio di uguaglianza, trattando diversamente quei cittadini i cui procuratori non si astengono dall'udienza e gli altri i cui procuratori aderiscono alla protesta collettiva, così demandando al difensore la scelta del grado di tutela dei diritti. Ove, però, la disparità di trattamento non sia ravvisata dalla Corte, si dovrebbe sospettare di illegittimità costituzionale la disposizione processuale nella sua totalità, in quanto non riconosce efficacia alla rinuncia al mandato difensivo e non impone che ne sia data tempestiva notizia alla parte prima dell'udienza in cui sarà dichiarata. In tal caso, non essendo possibile valutare se la parte sia stata adeguatamente posta in condizione di provvedere alla sostituzione, risulterebbe preclusa al giudice anche la possibilità di disporre un rinvio utile alla parte per esplicare in concreto le proprie difese (la disciplina dettata per il caso di morte o impedimento del procuratore ex art. 301 del codice di procedura civile costituirebbe il tertium comparationis).
La disposizione lederebbe, inoltre, l'art. 24 della Costituzione, rimettendo alla discrezionale e incontrollabile scelta del procuratore, la concreta realizzazione della difesa nel processo; e, in violazione dell'art. 41, farebbe sì che l'iniziativa economica del professionista (alla cui opera deve ricorrere normalmente chiunque voglia agire in giudizio) possa svolgersi in contrasto con l'utilità sociale e la libertà, e dignità, del mandante.
Analoghe considerazioni andrebbero sviluppate con riferimento all'art. 169, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui vieta la fissazione di un termine, successivo all'udienza di discussione, perché avvenga il deposito del fascicolo non effettuato dal difensore, senza distinguere fra le possibili ragioni del mancato adempimento (in ispecie fra il mancato deposito per la protesta collettiva e ogni altro caso).
17. -- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilità e la non fondatezza della questione, perché l'ordinanza conterrebbe due premesse inesatte. La prima, che riconduce l'astensione del difensore alla figura della rinuncia al mandato (e, per suo effetto, alla totale interruzione dell'attività difensiva); la seconda, che esalta il deposito del fascicolo di parte sino a farlo assurgere a sola, o a fondamentale, attività difensiva da espletare in udienza. In realtà, il deposito del fascicolo si esegue di norma in cancelleria (artt. 169 e 190 del codice di procedura civile), mentre la partecipazione alle udienze ha ben altro rilievo e contenuto. Una volta passata in decisione, la causa potrebbe, del resto, essere definita con un successivo deposito dei fascicoli delle parti; oppure il giudice potrebbe disporre un rinvio ad esso finalizzato. Poiché il rapporto tra la parte e il difensore sarebbe estraneo al processo, ne consegue tuttavia che il giudice non avrebbe alcun potere di verifica in ordine alla valutazione che la parte effettua sulla scelta del proprio difensore circa l'adesione alla protesta.
Il compito della Corte consisterebbe nel vagliare le disposizioni con riferimento alle normali previsioni e non, invece, con riguardo ai dati dell'emergenza, che richiederebbero l'intervento esclusivo del legislatore. La questione sarebbe dunque irrilevante nel processo a quo.
18. -- Con una seconda ordinanza, emessa in data 20 giugno 1995, il Pretore di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, e 2, comma 3, della legge n. 146 del 1990, nonché degli artt. 669-duodecies, 669-septies e 669-octies del codice di procedura civile, nella parte in cui tali norme impediscono al giudice, investito di un procedimento cautelare e urgente, di decidere allo stato degli atti nel caso di astensione dei procuratori delle parti, motivata da adesione a una protesta collettiva indetta senza il rispetto delle prescrizioni dettate dalla citata legge n. 146 del 1990.
Premette il giudice a quo che all'udienza del 23 maggio 1995, nella causa avente a oggetto un ricorso ex art. 669-duodecies del codice di procedura civile, i procuratori di entrambe le parti avevano dichiarato di astenersi - per l'adesione allo stato di agitazione proclamato dal Consiglio nazionale forense - e di ritenere inapplicabili al caso di specie i limiti previsti dalla predetta legge n. 146 per lo sciopero in materia di servizi pubblici.
Ad avviso del rimettente, il procedimento in questione, instauratosi a seguito di un'ordinanza di accoglimento di denuncia di nuova opera e regolato dall'art. 669-duodecies del codice di procedura civile, avrebbe indiscutibilmente natura cautelare e urgente. Di conseguenza, soltanto per i lavoratori dipendenti coinvolti nell'amministrazione della giustizia rientrerebbe nel novero di quei provvedimenti cautelari e urgenti che l'art. 1, comma 2, lettera a), della legge n. 146 prevede come prestazioni indispensabili al fine di contemperare l'esercizio del diritto di sciopero con la salvaguardia dei diritti della persona. L'effettività di tale garanzia potrebbe però essere vanificata dalla protesta di quei lavoratori autonomi, dalla cui opera il titolare del diritto non può prescindere; né il giudice, di fronte all'astensione dei difensori, potrebbe provvedere d'ufficio, in base agli elementi già acquisiti, sì che si verificherebbe un contrasto delle suddette disposizioni con gli artt. 3 e 24 della Costituzione. La tutela dei diritti costituzionali della persona, che la legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali intende tutelare tout court, e non soltanto per i casi di protesta dei lavoratori dipendenti, si rivelerebbe infatti monca e inefficace per la sua inapplicabilità a coloro che - sebbene non siano lavoratori dipendenti - pongono in essere forme di astensione dal lavoro idonee a provocare turbative e pregiudizi, secondo il Pretore di Milano, non meno devastanti di uno sciopero. Onde la illegittimità costituzionale della legge n. 146 del 1990, per lesione dell'art. 3 della Costituzione, giacché escluderebbe la categoria dei professionisti dall'osservanza delle modalità e limitazioni di cui fa carico, per i servizi essenziali e i procedimenti cautelari, alle altre categorie di lavoratori. Essa violerebbe, inoltre, l'art. 24 della Costituzione, comprimendo o addirittura elidendo il diritto di difesa ogni qual volta si voglia far valere un diritto costituzionalmente garantito della persona, tutelabile solo con l'adozione di provvedimenti cautelari o urgenti. Un effetto sintomatico, questo, dell'irragionevolezza della legge in esame, che si paleserebbe come incoerente con l'intero ordinamento giuridico e con i fini enunciati, perché quegli stessi diritti che mira a tutelare sarebbero lesi, o comunque pregiudicati, dalla condotta di coloro che sono chiamati a svolgere funzioni necessarie per l'espletamento d'un servizio essenziale.
Analoghe conclusioni dovrebbero altresì essere avanzate in riferimento agli artt. 669-duodecies, 669-septies e 669-octies del codice di procedura civile nell'ipotesi di astensione dei difensori, in quanto escluderebbero che il giudice, investito della decisione cautelare e urgente, possa provvedere allo stato degli atti.
19. -- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, concludendo per l'inammissibilità e la non fondatezza della questione. L'ordinanza non sarebbe, infatti, sufficientemente motivata sul punto della rilevanza, poiché il giudizio a quo sembrerebbe riguardare non tanto l'adozione di un provvedimento cautelare, quanto la sua attuazione ex art. 669-duodecies del codice di procedura civile, che non sottenderebbe il carattere dell'urgenza. Nel merito, poi, l'ipotesi di pronuncia additiva richiesta dal Pretore di Milano (il quale intende emanare un provvedimento di natura cautelare senza sentire le parti), non sarebbe suscettibile di accoglimento, in quanto vi sarebbe una profonda diversità fra la posizione del lavoratore dipendente e quella del lavoratore autonomo. D'altronde, la sentenza n. 114 del 1994, richiamata dal giudice a quo, avrebbe già indicato la strada per il bilanciamento dei valori coinvolti nell'esercizio della giurisdizione, escludendo la possibilità d'una sentenza additiva.
Considerato in diritto
1. -- Con 94 ordinanze di rimessione, di cui molte di identico contenuto, indicate in dettaglio nella narrativa in fatto, il Tribunale di Sassari, il Pretore di Padova, il Tribunale di Roma, il Pretore di Bologna, il Pretore di Forlì, la Corte d'appello di Napoli, il Pretore di Milano e il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Padova hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale, tutte in materia di astensione degli avvocati dalle udienze, che si possono raggruppare - riuniti i giudizi per omogeneità della materia - nei cinque tipi di seguito indicati.
1.1. -- Il primo gruppo di questioni, sollevate dal Tribunale di Sassari, dal Pretore di Padova, dal Pretore di Bologna e dal Pretore di Forlì, concerne l'art. 486, comma 5, del codice di procedura penale, e ha riguardo alla nozione di "legittimo impedimento" e alla riconducibilità ad essa dell'ipotesi dell'astensione degli avvocati dalle udienze.
1.1.1. -- Il Tribunale di Sassari ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 486, comma 5, del codice di procedura penale, per contrasto con gli artt. 2, 10 (in riferimento all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo che assicura il diritto a una decisione giudiziale in tempi ragionevoli), 24, 101, 102 e 134 della Costituzione, perché l'azione penale sarebbe paralizzata e la giustizia non più amministrata in conseguenza dell'astensione a tempo indeterminato degli avvocati e procuratori.
1.1.2. -- Il Pretore di Padova ha denunciato la stessa disposizione, perché ricomprende nella nozione di legittimo impedimento l'astensione dalle udienze del difensore di fiducia - ovvero di quello d'ufficio nominato a seguito del rigetto della richiesta di rinvio - senza prevedere un congruo preavviso né il termine finale dell'astensione, diversamente da quanto richiede in via obbligatoria, per le categorie dei pubblici dipendenti, la legge 12 giugno 1990, n. 146. Sì che sarebbero violati:
- l'art. 2 della Costituzione, perché la paralisi della giustizia inciderebbe sulla tutela dei diritti inviolabili, il cui presupposto è l'ordinato funzionamento della giurisdizione;
- l'art. 24, primo comma, per la grave turbativa arrecata al diritto di agire in giudizio;
- l'art. 24, secondo comma, perché si vanificherebbe il diritto di difesa in ogni stato e grado del processo;
- l'art. 35, primo comma, perché i rinvii a catena delle udienze si rifletterebbero sulla regolarità delle occupazioni di coloro che sono, a vario titolo, coinvolti nel processo;
- l'art. 97, perché, impedendo l'applicazione dell'art. 477 del codice di procedura penale e degli artt. 132 e 160 delle relative disposizioni di attuazione, si produrrebbero seri inconvenienti nel funzionamento del processo penale;
- l'art. 101, secondo comma, perché si intralcerebbe lo svolgimento della funzione giurisdizionale;
- l'art. 112, perché sarebbe compromesso il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, non essendo garantita la sospensione dei termini prescrizionali.
1.1.3. -- Il Pretore di Bologna dubita parimenti della legittimità costituzionale dell'art. 486, comma 5, del codice di procedura penale, perché sarebbe in contrasto con gli artt. 3, 21 e 40 della Costituzione, nella parte in cui riconosce al difensore un diritto, privo di limiti, ad astenersi dall'esercizio della difesa.
1.1.4. -- ll Pretore di Forlì ha denunciato la disposizione testé citata, nella parte in cui prevede che l'astensione dalle udienze costituisca legittimo impedimento anche se non vi sia un termine finale certo o comunque non superiore a dieci giorni (ex art. 477, comma 2, del codice di procedura penale). Rimettendo alla volontà delle camere penali la celebrazione dei processi, essa lederebbe:
- l'art. 97 della Costituzione, perché il buon andamento della pubblica amministrazione è riferibile anche all'organizzazione giudiziaria;
- l'art. 112, perché l'azione penale, obbligatoria, spetta esclusivamente al pubblico ministero;
- l'art. 101, secondo comma, perché il giudice è sottoposto solo alla legge e non, quali che siano, a determinazioni assembleari.
1.2. -- La seconda questione, sollevata dalla Corte di appello di Napoli, sottopone alla verifica di costituzionalità:
- l'art. 304, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che, nel caso di privazione di assistenza legale, l'imputato possa chiedere e ottenere la celebrazione del dibattimento;
- l'art. 97, comma 4, dello stesso codice, nella parte in cui, richiamando l'art. 102, consente al sostituto del difensore di fiducia di non prestare l'ufficio deferitogli per l'identica ragione allegata dal sostituito;
- l'art. 30 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo n. 271 del 1989, perché - quand'anche si riuscisse a nominare un difensore d'ufficio - questi potrebbe addurre l'astensione quale causa dell'impossibilità di adempiere.
Tali disposizioni violerebbero il principio di uguaglianza, il diritto dell'imputato al processo e il diritto alla difesa, rispettivamente tutelati dall'art. 3 e dall'art. 24, primo e secondo comma, della Costituzione. Con specifico riguardo all'art. 304, comma 1, lettera b), la Corte d'appello di Napoli osserva che l'astensione dalle udienze non dovrebbe essere qualificata come legittimo impedimento del difensore, ma assimilata alle previsioni del secondo comma dell'art. 304 ("mancata presentazione", "allontanamento", "mancata partecipazione" del difensore), ragion per cui se ne chiede la declaratoria di illegittimità costituzionale al fine di garantire all'imputato la possibilità di domandare, e ottenere, la celebrazione del dibattimento in assenza del difensore. In merito alle altre due disposizioni, il Collegio rimettente sospetta della loro incostituzionalità nella parte in cui non impediscono al difensore d'ufficio - nominato in sostituzione di quello di fiducia - di astenersi dalla difesa.
1.3. -- Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Padova ha denunciato il combinato disposto degli artt. 420, comma 3, e 97 del codice di procedura penale, e dell'art. 29 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), in relazione all'art. 1 della legge 12 giugno 1990, n. 146 (Norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell'attuazione della legge), nella parte in cui non prevede fra i suoi destinatari anche coloro che esercitano un servizio di pubblica necessità. Tali disposizioni sarebbero in contrasto con gli artt. 2, 24, 101 e 40 della Costituzione, perché non stabiliscono alcuna limitazione al diritto di astensione collettiva, come accade invece per coloro che, in ossequio all'art. 40 della Costituzione, sono ormai soggetti alla citata legge n. 146.
1.4. -- Il Tribunale di Roma ha sollevato, con riferimento agli artt. 3, 24 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, 4, 8, 12 e 13 della legge n. 146 del 1990 testé indicata. A differenza di quanto previsto per gli altri lavoratori del settore giustizia, le disposizioni denunciate mancherebbero infatti di regolamentare la protesta degli appartenenti alla categoria forense, che vengono qualificati, sulla base d'un indirizzo giurisprudenziale, quali privati esercenti un servizio di pubblica necessità. Con ciò esse opererebbero una irragionevole discriminazione e determinerebbero la lesione del diritto di difesa e quello del buon andamento della pubblica amministrazione.
1.5. -- Il quinto gruppo di questioni di costituzionalità attiene ad alcune previsioni del codice di procedura civile che sono oggetto di doglianza del Pretore di Milano in due distinte ordinanze.
1.5.1. -- Con la prima (R.O. 660 del 1995), il giudice a quo solleva, in relazione agli artt. 3, 24 e 41 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 85 e 169, secondo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui inibiscono a colui che si sia costituito in giudizio, mediante un procuratore che abbia aderito alla protesta collettiva, di depositare personalmente il proprio fascicolo, e non consentono al giudice di fissare un termine perché la parte effettui personalmente il deposito, anche dopo l'udienza di discussione. Donde la violazione dell'art. 3, perché non sarebbe assicurata l'uguaglianza fra i cittadini i cui procuratori non si astengono dall'udienza e quelli i cui procuratori aderiscono all'astensione; quella dell'art. 24, perché si rimetterebbe alla discrezionale e incontrollabile scelta del procuratore la concreta realizzazione della difesa nel processo; e, infine, quella dell'art. 41 della Costituzione, perché l'iniziativa economica del professionista si svolgerebbe in contrasto con l'utilità sociale, la libertà e la dignità del mandante.
1.5.2. -- Lo stesso Pretore (R.O. 661 del 1995) ha successivamente censurato anche gli artt. 1, comma 2, e 2, comma 3, della legge n. 146 del 1990, nonché gli artt. 669-duodecies, 669-septies e 669-octies del codice di procedura civile, nella parte in cui impediscono al giudice, investito di un procedimento cautelare e urgente, di decidere allo stato degli atti nel caso di astensione dei procuratori delle parti motivata dall'adesione a una protesta collettiva indetta senza il rispetto della citata legge n. 146 del 1990. Disposizioni che sarebbero in contrasto con:
- il principio di uguaglianza, per l'inapplicabilità della legge n. 146 del 1990 agli avvocati e procuratori, che - pur non essendo lavoratori dipendenti - possono porre in essere forme di lotta idonee a provocare, non meno dello sciopero, seri pregiudizi al pubblico servizio interessato;
- il diritto di difesa, specie con riguardo a procedimenti delicati come sono quelli finalizzati al rilascio di provvedimenti cautelari o urgenti.
2. -- Vanno dapprima esaminate le questioni di ammissibilità sorte nel corso dei singoli giudizi.
2.1. -- In primo luogo va affrontato un problema di rito: quello posto dal Consiglio nazionale forense che - pur non essendo parte nei processi a quibus - ha tuttavia depositato atti d'intervento nei giudizi promossi dal Tribunale di Sassari e dal Pretore di Padova.
Questa Corte ha già chiarito con specifico riferimento alla materia disciplinare (sentenza n. 114 del 1970) che il Consiglio nazionale forense tutela un interesse pubblicistico, ragion per cui non si può non riconoscergli un ruolo di rappresentanza sia delle diverse articolazioni associative, altrimenti prive d'un canale di comunicazione istituzionale, sia dei singoli che non aderiscano ad alcuna associazione. Di conseguenza, la Corte ritiene di confermare l'orientamento espresso in occasione dell'intervento della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri che si fonda sul riconoscimento delle competenze di entrambi gli ordini (cfr. sentenza n. 456 del 1993). E' quindi ammissibile l'intervento del Consiglio nazionale forense, giacché si tratta di questioni inerenti allo statuto degli avvocati e procuratori, il cui esito non è indifferente all'esercizio delle attribuzioni dello stesso Consiglio (cfr. sentenze nn. 421 del 1995 e 315 del 1992).
2.2. -- In base a una interpretazione dell'art. 127 del codice di procedura penale che si assume letterale, l'Avvocatura dello Stato ha eccepito l'inammissibilità della questione sollevata con due ordinanze dal Tribunale di Roma, di cui al punto 1.4, e ha sostenuto che non sarebbe necessaria la presenza del difensore, potendo il giudice - dopo averla constatata - decidere in assenza di questi. Nell'ordinanza di rimessione si osserva, tuttavia, che tale interpretazione è possibile solo quando l'assenza non sia da ascrivere a una protesta collettiva: in tal caso, invece, il Tribunale avrebbe il dovere di attendere la cessazione dello stato di agitazione prima di adottare la propria decisione.
L'eccezione è da respingere, perché il controllo sull'ammissibilità può comportare una decisione processuale solo quando la premessa interpretativa sia palesemente arbitraria e, cioè, in caso di assoluta, reciproca estraneità fra oggetto della questione e oggetto del giudizio di provenienza o quando l'interpretazione prospettata dal giudice a quo risulti non plausibile (da ultimo, v. le sentenze nn. 344 del 1993 e 436 del 1992).
2.3. -- Va accolta l'eccezione di inammissibilità prospettata dall'Avvocatura dello Stato in ordine alla questione di costituzionalità, sollevata dalla Corte d'appello di Napoli, dell'art. 304, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale e degli artt. 97, comma 4, dello stesso codice e 30 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271. Dall'ordinanza di rimessione non è dato sapere se gli imputati abbiano chiesto - anche in assenza dei difensori di fiducia - la celebrazione del processo; e se vi sia stata la nomina di un difensore d'ufficio in luogo di coloro che abbiano aderito alla protesta. Poiché tali elementi sono necessari per accertare la rilevanza delle due questioni sollevate dalla Corte d'appello di Napoli, ne va dichiarata l'inammissibilità.
2.4. -- E' stata poi eccepita, dalla stessa Avvocatura dello Stato, l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 669-septies, 669-octies e 669-duodecies del codice di procedura civile, nonché degli artt. 1, comma 2, e 2, comma 3, della legge n. 146 del 1990, sollevata dal Pretore di Milano (R.O. n. 661 del 1995), perché il Pretore non è stato investito della richiesta di rilascio d'un provvedimento cautelare, bensì soltanto della sua attuazione.
Tale eccezione va respinta, giacché la fase attuativa della cautela (che non rientra nell'attività esecutiva, oggetto del processo di esecuzione) è strettamente legata a quella del suo rilascio. La qualificazione datane dal giudice a quo, conformemente a quanto si è detto sopra al n. 2.2, non è dunque arbitraria né suscettibile di censure preliminari.
2.5. -- Il Consiglio nazionale forense eccepisce l'inammissibilità della questione sollevata dal Pretore di Padova non solo in quanto è sopravvenuta la cessazione dell'astensione collettiva dalle udienze, ma per i termini in cui è posta. Perché il Pretore avrebbe applicato erroneamente il comma 4 dell'art. 97 del codice di procedura penale, e non il comma 1, nominando quale difensore d'ufficio il Presidente del locale ordine forense anziché altro professionista scelto nell'albo predisposto ai sensi dell'art. 97, comma 2, del codice di procedura penale e, inoltre, perché avrebbe dovuto sollevare la questione nel procedimento conseguente alla dichiarazione di astensione anche da parte del difensore d'ufficio.
Tali eccezioni sono da disattendere.
La nomina del Presidente del locale Consiglio dell'ordine può costituire una irregolarità o un vizio procedurale, ma non implica alcuna ragione d'inammissibilità. La questione, poi, non doveva essere sollevata in un giudizio penale a carico del difensore d'ufficio anch'egli aderente all'astensione collettiva, derivando gli effetti giuridici del rifiuto direttamente dalla qualificazione dell'astensione (rilievo costituzionale della protesta e assenza di limiti al suo esercizio con riferimento al processo) che è il presupposto implicito dell'ordinanza di rimessione. Né ha rilievo l'eventuale cessazione dell'astensione collettiva dalle udienze, giacché il mutamento della situazione di fatto non incide sul giudizio di legittimità costituzionale già proposto.
3. -- Passando al merito, alcuni giudici (Tribunale di Sassari e Pretore di Bologna) chiedono una pronuncia meramente caducatoria, e altri (Pretore di Padova e Pretore di Forlì) una sentenza che limiti il legittimo impedimento esclusivamente al caso dell'astensione con preavviso e termine finale certo (v. supra nn. 1.1 ss.).
I parametri indicati sottendono la lesione di beni costituzionalmente protetti, quali i diritti inviolabili della persona, i principi di uguaglianza e di ragionevolezza (assumendosi come tertium comparationis la condizione dei lavoratori subordinati nel settore giustizia), di soggezione del giudice solo alla legge, di obbligatorietà dell'azione penale, di buon andamento dell'amministrazione giudiziaria.
Si impone, a questo punto, un preliminare chiarimento sui caratteri dell'astensione, qui in esame, e sulle situazioni soggettive di cui sono titolari gli appartenenti alla categoria professionale forense.
3.1. -- L'ordinamento repubblicano si fonda sul pieno riconoscimento della libertà di associazione e dell'attività sindacale e sull'espressa garanzia del diritto di sciopero entro i limiti indispensabili alla salvaguardia di altri interessi costituzionalmente protetti. Vi è dunque un'area, connessa alla libertà di associazione, che è oggetto di salvaguardia costituzionale ed è significativamente più estesa rispetto allo sciopero. Sì che è accordata una generale tutela alle iniziative - le quali si traducano in aggregazioni sociali di varia natura che possono esprimersi anche mediante astensioni collettive dal lavoro - volte a difendere peculiari interessi di categoria, non soltanto economici, e a garantire un corretto esercizio della libera professione. E qui vengono in rilievo le potestà che, a salvaguardia di interessi pubblici, l'ordinamento attribuisce agli ordini professionali per rimuovere situazioni pregiudizievoli (v. da ultimo Cassazione civile n. 3361 del 1993).
Il riconoscimento che la Carta costituzionale assicura all'autonomia dei singoli e dei gruppi e all'insieme delle libertà sopra richiamate, vale altresì per l'astensione dal lavoro di quei professionisti che svolgono - come gli avvocati e i procuratori legali - la propria attività in condizioni di indipendenza. E, dunque, se da un lato è vero che l'astensione da ogni attività defensionale non può configurarsi come diritto di sciopero e non ricade sotto la specifica protezione dell'art. 40, dall'altro va però sottolineato che nel caso in esame viene in rilievo il favor libertatis, il quale ispira la prima parte della Costituzione e si pone come fondamentale criterio regolatore di tale ambito di rapporti, garantendo la libertà di ogni formazione sociale e postulando, nel contempo, la concorrente tutela degli altri valori di rango costituzionale.
D'altro canto, se l'astensione dalle udienze degli avvocati e procuratori è manifestazione incisiva della dinamica associativa volta alla tutela di questa forma di lavoro autonomo, essa non può essere ridotta a mera facoltà di rilievo costituzionale. E ciò senza dimenticare le indubbie peculiarità dell'avvocatura considerate in più parti della Carta costituzionale: nell'art. 24, che garantisce la difesa tecnica a supporto del diritto di agire in giudizio; negli artt. 104, quarto comma, e 135, secondo comma, che conferiscono agli avvocati la legittimazione sia per l'elezione al Consiglio superiore della magistratura sia per la nomina o elezione alla Corte costituzionale; e infine nell'art. 106, terzo comma, che prevede per loro la possibilità di essere chiamati all'ufficio di consigliere di cassazione.
3.2. -- Sulla base di queste considerazioni, vanno respinte le due questioni di costituzionalità sollevate dal Pretore di Milano.
La prima, per erroneità della premessa secondo cui la libertà di astenersi dalle udienze equivarrebbe a una implicita rinuncia alla procura ad litem sottoscritta dal titolare dell'interesse coinvolto nella res litigiosa. Una ipotesi estrema, carente di solido fondamento, che richiede - quale effetto dell'invocata sentenza additiva - un incremento di poteri, per vero modesto, a favore del litigante in prima persona, al quale sarebbe concesso di depositare il fascicolo precedentemente ritirato dal difensore. Con ciò venendosi a introdurre surrettiziamente una forma di autodifesa alternativa alla difesa tecnica che si porrebbe in contrasto con l'art. 24 della Costituzione (cfr. sentenze nn. 188 del 1980 e 99 del 1975), dal momento che la parte sarebbe privata della possibilità di avvalersi del proprio difensore in una fase o in un grado del processo.
La seconda, perché la decisione allo stato degli atti - che ad avviso del giudice a quo meglio si adatta al summatim cognoscere caratteristico dei procedimenti cautelari - sarebbe assunta in spregio della funzione dell'avvocato e con potenziale pregiudizio per la parte che ha ragione, ove a favore di questa si dovesse richiedere un ulteriore apporto defensionale.
3.3. -- La salvaguardia degli spazi di libertà dei singoli e dei gruppi che ispira l'intera prima parte della Costituzione non esclude, tuttavia, che vi siano altri valori costituzionali meritevoli di tutela. Vengono così in evidenza i diritti fondamentali dei soggetti che, in vario modo, sono destinatari della funzione giurisdizionale, in ispecie il diritto di azione e di difesa di cui all'art. 24 della Costituzione, nonché i principi di ordine generale che sono posti a tutela della giurisdizione. Significativamente l'art. 1, comma 1, della legge n. 146 del 1990 qualifica come essenziale il servizio pubblico che garantisce il godimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati: quello alla vita, alla salute, alla libertà e alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all'assistenza e previdenza sociale, all'istruzione e alla libertà di comunicazione. Esso dunque fa riferimento non tanto a prestazioni determinate oggettivamente, quanto al nesso teleologico fra queste e gli interessi e beni costituzionalmente protetti. Coerentemente, il comma 2, lettera a), dello stesso articolo, annovera fra i servizi pubblici essenziali "l'amministrazione della giustizia, con particolare riferimento ai provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed urgenti nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione".
Quando la libertà degli avvocati e procuratori si eserciti in contrasto con la tavola di valori sopra richiamata, essa non può non arretrare per la forza prevalente di quelli. Ma da ciò non può derivare la fondatezza delle questioni di costituzionalità sollevate dal Tribunale di Sassari, dal Pretore di Padova, dal Pretore di Bologna e dal Pretore di Forlì. Tutte denunce riferite all'art. 486, comma 5, del codice di procedura penale, le quali muovono dall'erroneo presupposto che la libertà dei professionisti non incontri limite alcuno, mentre è vero il contrario. Nella stessa giurisprudenza di legittimità non si è ancora formato un diritto vivente, essendovi pronunce della Corte di cassazione che rigettano la richiesta di rinvio per legittimo impedimento del difensore e dispongono doversi proseguire oltre.
Alcune decisioni tendono a riconoscere al giudice il potere di bilanciare i valori in conflitto e, conseguentemente, di far recedere la "libertà sindacale" di fronte a valori costituzionali primari. Conforme a Costituzione, tale linea è, fra le due possibili, quella da privilegiare, secondo quanto si desume dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di interpretazione adeguatrice. Sta di fatto, però, che a seguito del bilanciamento degli opposti interessi operato dal giudice penale - gran parte delle questioni in esame è sorta, invero, nell'ambito di tale processo - la nomina d'un difensore d'ufficio non offre una risposta soddisfacente. Perché l'adesione anche del sostituto alla protesta di categoria - come ha denunciato in questa sede il Pretore di Padova - può far nascere altri processi a carico di coloro che si astengono dalle udienze: processi che esigono, essi stessi, la presenza d'un difensore.
Non sfugge questa impasse al Tribunale di Roma, che solleva la questione di costituzionalità degli artt. 2, 4, 8, 12 e 13 della legge n. 146 del 1990; mentre il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Padova pone una questione sostanzialmente analoga - la mancata estensione di essa agli esercenti servizi di pubblica necessità - con riguardo a un complesso normativo palesemente non pertinente: gli artt. 420, comma 3, e 97 del codice di procedura penale e l'art. 29 delle norme di attuazione di cui al decreto legislativo n. 271 del 1989. Sì che quest'ultima questione va dichiarata inammissibile per errata identificazione delle norme denunciate.
3.4. -- Nata per garantire i servizi pubblici essenziali e, quindi, i beni della vita ch'essi mirano a tutelare, la legge n. 146 omette di disciplinare situazioni che - al pari dello sciopero - possono determinare lesioni non rimediabili ai detti beni. E non regolando analiticamente procedure e modalità per le diverse ipotesi di astensione dal lavoro, non predispone specifiche misure idonee a evitare che vengano compromessi i beni primari della convivenza civile che non tollera la paralisi della funzione giurisdizionale e, quindi, esige prescrizioni volte ad assicurare, durante l'astensione dall'attività giudiziaria, le prestazioni indispensabili.
Già nella sentenza n. 114 del 1994, questa Corte ha indicato con preoccupazione le gravi conseguenze che all'esercizio della giurisdizione possono derivare dalle astensioni senza preavviso e a tempo indeterminato; ma in considerazione del principio di stretta legalità contenuto nell'art. 25 della Costituzione - che delimita i poteri della Corte costituzionale precludendo l'adozione d'ogni pronuncia additiva in malam partem - si è ritenuta inammissibile la richiesta di una sentenza additiva mirante a sospendere il corso della prescrizione al di fuori dei casi previsti dalla legge. Nella stessa sentenza si ricorda come la legge n. 146 del 1990 disciplini il diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, ricomprendendovi anche l'amministrazione della giustizia proprio al fine di salvaguardare beni essenziali costituzionalmente protetti. A tal proposito, richiamando l'art. 1 della citata legge n. 146, questa Corte ha rilevato che non vi è ragione per cui debbano restare esenti da regolamentazione forme di protesta collettiva, le quali compromettono, al pari dello sciopero, il pieno e ordinato esercizio di funzioni, come quella giurisdizionale, che assumono rilievo fondamentale nell'ordinamento; e ha quindi rivolto un invito al legislatore, auspicando l'introduzione d'una disciplina che colmi la lacuna denunciata (v. ancora la sentenza n. 114 del 1994, considerato in diritto, n. 3).
Nell'adottare siffatta decisione, la Corte aveva presente l'impegno e lo scrupolo deontologico con cui avvocati e procuratori assolvono quotidianamente una funzione insostituibile per il corretto svolgimento della dinamica processuale. Così come non era dimentica dei meriti storici che l'avvocatura ha acquisito anche fuori delle aule di giustizia, contribuendo alla crescita culturale e civile del Paese e, soprattutto, alla difesa delle libertà. L'invito al legislatore era necessario, ma si è rivelato inadeguato, essendo trascorsi invano due anni senza che l'auspicato intervento normativo si sia realizzato.
In questi due anni la situazione si è deteriorata al punto da destare allarme per il ripetersi di astensioni non regolamentate, sì che acuto è il disagio e concreto il pregiudizio per l'amministrazione della giustizia e, conseguentemente, per i diritti fondamentali della persona che in essa trovano tutela. Si è fatto uso della "libertà sindacale" tanto che in alcuni distretti giudiziari vi è stata per lunghi periodi la paralisi di tutte le attività, con inevitabili effetti perversi che ancora oggi si avvertono. D'altra parte, la questione in esame pone problemi nuovi rispetto a quelli vagliati con la sentenza n. 114: sollevata in riferimento ad alcune disposizioni della legge n. 146, palesa l'incongruenza fra gli obiettivi ispiratori di essa e i suoi strumenti operativi, limitati all'esercizio del diritto di sciopero quale risulta dalla legislazione e dagli svolgimenti giurisprudenziali.
3.5. -- I dubbi di costituzionalità sulla normativa del 1990 sono dunque parzialmente fondati.
L'obiettivo della legge n. 146 è la garanzia dei servizi pubblici essenziali, costruita com'è in funzione della tutela dei beni fondamentali della persona: l'art. 1, comma 1, è in tal senso emblematico, ma la restante parte della legge - nel mirare esclusivamente alla protezione dall'abuso del diritto di sciopero - non appresta una razionale e coerente disciplina che includa tutte le altre manifestazioni collettive capaci di comprimere detti valori primari.
Non si può procedere a una interpretazione estensiva o analogica dei diversi meccanismi contenuti nella legge, tale da ricomprendere l'astensione dal lavoro di soggetti che non siano lavoratori subordinati né presentino quell'indice di "non indipendenza" che ne rivela la debolezza economica; e tuttavia, l'astensione dalle udienze di questi attori del processo, la cui presenza è necessaria, incide - in misura non minore dello sciopero del personale delle cancellerie e delle segreterie giudiziarie - sull'amministrazione della giustizia, che è servizio pubblico essenziale.
La mancata previsione di tale ipotesi fra quelle che la legge n. 146 individua, ne compromette le finalità e ne riduce l'efficacia, ponendo nel contempo un problema, non più eludibile, di legittimità costituzionale.
La salvaguardia degli spazi di libertà riservati ai singoli, e ai gruppi, che ispira la prima parte della Carta costituzionale non esclude che vi siano altri valori costituzionali meritevoli di tutela, come s'intravede nell'impianto della legge n. 146, dove vengono in rilievo diritti fondamentali - quello di azione e quello di difesa di cui all'art. 24 della Costituzione - che sono attribuiti ai soggetti destinatari, a vario titolo, della funzione giurisdizionale.
Ora, avendo l'esperienza rivelato le carenze della legge n. 146, si impone una più ampia regolamentazione anche in riferimento all'astensione collettiva dal lavoro non qualificabile, per l'assenza dei suoi tratti tipici, come esercizio del diritto di sciopero; e si richiedono, quanto meno, un congruo preavviso e un ragionevole limite temporale di durata, peraltro già previsti da codici di autoregolamentazione recentemente adottati da vari organismi professionali che, tuttavia, non hanno efficacia generale.
Un'adeguata disciplina, ormai indilazionabile, è strumentale alla salvaguardia dei principi e valori costituzionali più volte menzionati: il buon andamento dell'amministrazione della giustizia postula che il legislatore, coerentemente con i canoni costituzionali richiamati, specifichi anche le prestazioni essenziali da adempiere durante l'astensione, le procedure e le misure conseguenziali nell'ipotesi di inosservanza. Sì che deve dichiararsi l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, commi 1 e 5, della legge n. 146, nella parte in cui non prevede, nel caso dell'astensione collettiva dall'attività giudiziaria degli avvocati e dei procuratori legali, l'obbligo d'un congruo preavviso e d'un ragionevole limite temporale dell'astensione e non prevede, altresì, gli strumenti idonei a individuare (e assicurare) le prestazioni essenziali durante l'astensione stessa, nonché le procedure e le misure conseguenziali nell'ipotesi di inosservanza.
Nel sottolineare che l'astensione di avvocati e procuratori da ogni attività defensionale non rientra compiutamente, per la sua morfologia, nei meccanismi procedurali previsti dagli artt. 8, 9, 10, 12, 13 e 14 della legge n. 146, la Corte non può che lasciare al legislatore di definire in modo organico le misure atte a realizzare l'equilibrata tutela dei beni coinvolti, essendole preclusa l'individuazione nel dettaglio delle soluzioni.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, commi 1 e 5, della legge 12 giugno 1990, n. 146 (Norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della commissione di garanzia dell'attuazione della legge), nella parte in cui non prevede, nel caso dell'astensione collettiva dall'attività giudiziaria degli avvocati e dei procuratori legali, l'obbligo d'un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dell'astensione e non prevede altresì gli strumenti idonei a individuare e assicurare le prestazioni essenziali, nonché le procedure e le misure conseguenziali nell'ipotesi di inosservanza;
2) dichiara inammissibili:
- la questione di legittimità costituzionale degli artt. 304, comma 1, lettera b) e 97, comma 4, del codice di procedura penale e dell'art. 30 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Napoli con l'ordinanza in epigrafe;
- la questione di legittimità costituzionale degli artt. 420, comma 3, e 97 del codice di procedura penale, e dell'art. 29 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, sollevata, in riferimento agli articoli 2, 24, 101 e 40 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Padova con le ordinanze in epigrafe;
3) dichiara non fondate:
- la questione di legittimità costituzionale dell' art. 2, commi 2, 3, 4, 6 e 7, e degli artt. 4, 8, 12 e 13 della legge 12 giugno 1990, n. 146, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 97 della Costituzione, dal Tribunale di Roma con le ordinanze in epigrafe;
- la questione di legittimità costituzionale dell'art. 486, comma 5, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 10 (in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848), 24, 101, 102 e 134 della Costituzione, dal Tribunale di Sassari con le ordinanze in epigrafe;
- la questione di legittimità costituzionale dell'art. 486, comma 5, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 24, 97, 101, secondo comma, e 112 della Costituzione, dal Pretore di Padova con le ordinanze in epigrafe;
- la questione dell'art. 486, comma 5, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 21 e 40 della Costituzione, dal Pretore di Bologna con le ordinanze in epigrafe;
- la questione dell'art. 486, comma 5, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 97, 112 e 101 della Costituzione, dal Pretore di Forlì con le ordinanze in epigrafe;
- la questione degli artt. 85 e 169, secondo comma, del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 41, secondo comma, della Costituzione, dal Pretore di Milano con l'ordinanza in epigrafe;
- la questione degli artt. 1, comma 2, e 2, comma 3, della legge n. 146 del 1990, e degli artt. 669-duodecies, 669-septies e 669-octies del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Pretore di Milano con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 maggio 1996.
Mauro FERRI, Presidente
Francesco GUIZZI, Redattore
Depositata in cancelleria il 27 maggio 1996.