SENTENZA N. 94
ANNO 2013
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco GALLO Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo
Maria NAPOLITANO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo
40, comma 3, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei
contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle
direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), promossi dal Tribunale amministrativo
regionale del Lazio con tre ordinanze del 13 dicembre 2011 rispettivamente
iscritte al n. 85, al n. 86 ed al n. 87 del registro ordinanze 2012 e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie
speciale, dell’anno 2012.
Visti gli atti di
costituzione di Rina Services s.p.a.,
Rina s.p.a. e di Rina Organismo di Attestazione s.p.a., nonché gli atti di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e della Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici di lavoro, servizi e forniture;
udito nell’udienza pubblica del 10 aprile 2013 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;
uditi gli avvocati Maria Alessandra Sandulli, Roberto
Damonte, Giuseppe Giacomini
e Massimo Luciani per le società predette e
l’avvocato dello Stato Salvatore Messineo per il
Presidente del Consiglio dei ministri e per la Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici di lavoro, servizi e forniture.
Ritenuto in fatto
1.– Il Tribunale amministrativo
regionale del Lazio, con tre ordinanze del 13 dicembre 2011, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 41 della Costituzione,
questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 40, comma 3, del decreto
legislativo 12 aprile 2006, n. 163, recante «Codice dei contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE
e 2004/18/CE» (di seguito: Codice dei contratti pubblici).
2.– Nel giudizio in cui è stata emessa
la prima ordinanza (reg. ord. n. 85 del 2012), Rina Services
s.p.a. (infra: Rina Services)
ha proposto ricorso contro la Presidenza del Consiglio dei ministri, il
Consiglio di Stato, il Consiglio superiore dei lavori pubblici, la Conferenza
unificata Stato-città ed autonomie locali, l’Autorità
per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, il
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, il Ministero per le politiche
europee, il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare,
il Ministero per i beni culturali ed ambientali, il Ministero dell’economia e
delle finanze, il Ministero dello sviluppo economico ed il Ministero degli
affari esteri, chiedendo che sia annullato il decreto del Presidente della
Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207 (Regolamento di esecuzione ed attuazione del
decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, recante «Codice dei contratti
pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive
2004/17/CE e 2004/18/CE»), nella parte in cui, all’art. 66, ha incluso tra i
soggetti che non possono possedere, a qualsiasi titolo, direttamente o
indirettamente, una partecipazione al capitale di una società organismo di
attestazione (SOA) quelli di cui all’articolo 3, comma 1, lettera ff), e cioè gli «organismi di certificazione: gli organismi
di diritto privato che rilasciano i certificati di conformità del sistema di gestione
per la qualità conformi alle norme europee serie UNI EN ISO 9000». La
ricorrente ha, altresì, impugnato l’art. 64 di detto d.P.R., laddove stabilisce che la SOA deve avere sede
legale nel territorio della Repubblica (comma 1) e che «lo statuto deve
prevedere come oggetto esclusivo lo svolgimento dell’attività di attestazione»
(comma 3), nonché, in linea gradata, l’art. 357,
comma 21, ed ogni altro atto, anche istruttorio o consultivo, preordinato o
presupposto, conseguente o connesso, con condanna delle convenute all’integrale
risarcimento dei danni.
Rina Services,
espone l’ordinanza di rimessione, ha dedotto di essere una società accreditata
alla certificazione di qualità, facente parte del Gruppo Rina, che svolge
attività di certificazione, progettazione e validazione attraverso le proprie controllate aventi sede in tutto il mondo. La SOA Rina s.p.a. (d’ora in poi: SOA Rina) è, invece una società
organismo di attestazione, avente quale oggetto esclusivo lo svolgimento
dell’attività di attestazione, ai fini della qualificazione ai sensi dell’art.
8 della legge 11 febbraio 1994, n. 109 (Legge quadro in materia di lavori
pubblici) – ora art. 40 del d.lgs. n. 163 del 2006 – ed è partecipata al 99 %
da Rina s.p.a. ed all’1 % dalla ricorrente.
La ricorrente, in
riferimento all’art. 66 del d.P.R. n. 207 del 2010
(in prosieguo: Regolamento), ha dedotto la violazione e falsa applicazione
dell’art. 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina
dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei
Ministri), in relazione all’art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 163 del 2006 ed
all’art. 41 Cost., in quanto lo schema di regolamento approvato dal Consiglio
dei ministri il 13 luglio 2007 non prevedeva il divieto per gli organismi di certificazione
di partecipare al capitale sociale di una SOA e, nonostante che «il parere
espresso dalla Sezione Consultiva per gli atti normativi del Consiglio di Stato
nell’adunanza del 17 settembre 2007» non avesse ritenuto di introdurlo, lo
stesso è stato inserito nel Regolamento. Detta disposizione violerebbe,
inoltre, l’art. 40, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 163 del
2006, in relazione all’art. 76 Cost., nonché l’art. 41 Cost., in quanto
stabilisce un divieto che esorbita dai criteri direttivi del Codice dei contratti
pubblici e pone una regola illogica e contraddittoria. Inoltre, secondo la
Corte di giustizia dell’Unione europea, le situazioni di controllo tra società
diverse vanno verificate in concreto e sarebbero illegittimi i divieti
stabiliti esclusivamente in ragione di un collegamento tra soggetti
giuridicamente distinti. La ratio della disciplina
dell’Unione europea (UE) sarebbe di garantire indipendenza ed
imparzialità delle SOA e degli organismi di certificazione e la facoltà
attribuita agli Stati membri di demandare a determinati soggetti l’attività di
certificazione non potrebbe essere esercitata in violazione del principio di
proporzionalità.
Il divieto per un organismo di
certificazione di possedere una quota minoritaria del capitale sociale di una
SOA sarebbe ingiustificato rispetto allo scopo di garantirne autonomia ed indipendenza di giudizio. La verifica dell’imparzialità
dovrebbe, infatti, essere effettuata con riferimento all’impresa da certificare
ed attestare e, secondo la ricorrente, qualora si
ritenga che la disposizione del Codice dei contratti pubblici legittimi il
divieto in esame, occorrerebbe accertarne – eventualmente, mediante rinvio
pregiudiziale – la compatibilità con il diritto dell’UE. Ad avviso di Rina Services, sarebbero state violate e falsamente applicate le
norme in materia di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi
(artt. 49 e 56 del Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea – TFUE – e direttiva 12 dicembre 2006, n. 2006/123/CE,
recante «Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai servizi
nel mercato interno»), in relazione ai principi di necessità e proporzionalità.
Inoltre, sarebbero lesi gli artt. 3, 41 e 117, primo
comma, Cost., ed i principi di eguaglianza, ragionevolezza, proporzionalità,
affidamento e di libertà dell’iniziativa economica.
Secondo la ricorrente, il citato art.
357, comma 21, sarebbe illegittimo anche a causa
dell’incongruità del termine semestrale dallo stesso fissato. L’obbligo della
SOA di avere sede legale in Italia sarebbe in contrasto con l’art. 40, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 163 del 2006, con l’art. 41
Cost., con i principi in materia di tutela della concorrenza, con la direttiva
n. 2006/123/CE e con il d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva
2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno). Il divieto per gli
organismi di certificazione di svolgere attività di attestazione violerebbe,
infine, l’art. 41 Cost., le direttive 31 marzo 2004, n. 2004/18/CE, recante
«Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa
al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di
lavori, di forniture e di servizi» (in particolare l’art. 52) e n. 2006/13/CE
(specie l’art. 25), nonché i principi di necessità e proporzionalità.
2.1.– Sintetizzati i motivi di impugnazione, secondo il TAR, la ricorrente ha un
interesse attuale e concreto ad impugnare le norme regolamentari, poiché esse
costituiscono «volizioni azioni», applicabili indipendentemente da qualunque
provvedimento attuativo e sussiste, inoltre, la legittimazione passiva di tutte
le amministrazioni convenute nel giudizio.
2.2.– Ad avviso del giudice a quo, sono
infondate alcune censure concernenti il citato art. 66,
comma 1. Il Consiglio di Stato, nel rendere parere sullo schema di regolamento,
sottolineando che, «in relazione al divieto di
partecipazione al capitale di una SOA recato dall’articolo 66 per gli organismi
di certificazione, l’articolo 357 prevede ora, in via transitoria, un termine
di 180 giorni per l’adeguamento della composizione azionaria, termine che può
ritenersi congruo» (Sezione consultiva per gli atti normativi, 24 febbraio
2010, n. 313/2010), ha implicitamente reputato legittimo il divieto, in quanto
non ha formulato specifiche osservazioni.
L’art. 4, comma
2, lettera b) (recte: art. 8, comma 4, lettera b,
della legge n. 109 del 1994, nel testo sostituito dall’art. 2 della legge 18
novembre 1998, n. 415, in vigore fino al 2002) prevedeva che il regolamento di
esecuzione avrebbe dovuto stabilire modalità e criteri di autorizzazione degli
organismi di attestazione e di revoca della stessa, nonché i relativi requisiti
soggettivi, organizzativi, finanziari e tecnici, fermo restando che essi
avrebbero dovuto agire in piena indipendenza rispetto ai soggetti esecutori di
lavori pubblici ed essere sottoposti alla sorveglianza dell’Autorità per la
vigilanza sui lavori pubblici (infra: Autorità). I
soggetti accreditati al rilascio della certificazione dei sistemi di qualità
avrebbero potuto, poi, essere autorizzati allo svolgimento dei compiti di
attestazione, se in possesso dei predetti requisiti, fermo il divieto di
svolgere entrambe le attività relativamente alla
medesima impresa.
L’art. 13 del
decreto del Presidente della Repubblica 25 gennaio 2000, n. 34 (Regolamento
recante istituzione del sistema di qualificazione per gli esecutori di lavori
pubblici, ai sensi dell’articolo 8 della legge 11 febbraio 1994, n. 109, e
successive modificazioni), abrogato dall’art. 358, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 207 del 2010 a decorrere dall’8 giugno 2011,
aveva previsto che l’organismo di certificazione potesse essere autorizzato a
svolgere anche attività di attestazione, salvo il divieto di svolgere entrambe
le funzioni nei confronti della stessa impresa. L’art. 8
della legge n. 109 del 1994, nel testo modificato dall’art. 7 della legge 1°
agosto 2002, n. 166 (Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti),
non ha più contemplato siffatta possibilità e, a seguito di tale modifica,
secondo la giurisprudenza, non è stato più possibile autorizzare i soggetti
operanti nella certificazione a svolgere anche attività di attestazione.
L’art. 8, comma
4, lettera b), della legge n. 109 del 1994, nel testo vigente anteriormente
alla modifica del 2002, recava, quindi, due norme: la prima, di autorizzazione
e derogatoria del principio di esclusività dell’oggetto sociale; la seconda, di
divieto, limitativa del contenuto di detta autorizzazione; la parziale
abrogazione della disposizione ha determinato l’eliminazione di entrambi i
contenuti precettivi. Il sistema è stato reso più rigoroso, poiché gli
organismi di certificazione non possono più essere autorizzati «a qualificare
soggetti esecutori di lavori pubblici, neppure con il limite soggettivo prima
esistente». In contrario, non rilevava la mancata formale abrogazione (anteriormente all’entrata in vigore del d.P.R.
n. 207 del 2010) dell’art. 13 del d.P.R. n. 34 del
2000, poiché questa disposizione, a seguito della citata modifica del 2002, era
stata svuotata di contenuto normativo, in quanto faceva riferimento ad
un’autorizzazione che l’ordinamento non permetteva più di rilasciare. Nel senso
dell’inapplicabilità della disposizione regolamentare, a seguito della modifica
della norma primaria, si era espresso il Consiglio di Stato (Sezione atti
normativi, 17 settembre 2007, n. 3262/2007 ; sez. VI, 16 febbraio 2011, n. 987), secondo il quale l’art. 13
del d.P.R. n. 34 del 2000 aveva «perso la sua base
normativa» e, quindi, non poteva «essere riprodotto nel nuovo schema di
regolamento».
Inoltre, secondo la giurisprudenza
amministrativa, il principio di esclusività
dell’oggetto sociale della SOA comporta, in primo luogo, il divieto per uno
stesso soggetto di svolgere entrambe le attività in esame ed impedisce ad un
organismo di certificazione di partecipare al capitale sociale di una SOA. In
secondo luogo, definisce una disciplina non in contrasto con le norme
comunitarie, in quanto, «nella misura in cui mira ad affermare la neutralità e
l’imparzialità dei soggetti chiamati a verificare la sussistenza dei requisiti
per partecipare alle gare di appalto, risulta
certamente in linea con i principi comunitari che
tutelano la concorrenza». Lo scopo di garantire la partecipazione alle gare
d’appalto in materia di lavori pubblici dei soli soggetti in possesso dei
prescritti requisiti giustifica infatti – anche sotto
il profilo della proporzionalità – il divieto dell’esercizio congiunto delle
due attività.
La disciplina frutto della modifica della 1egge n. 109 del 1994 da parte della 1egge n. 166 del
2002 è stata sostanzialmente riproposta dal Codice dei contratti pubblici, il
quale, all’art. 40, comma 3, stabilisce che l’attività di attestazione deve
essere esercitata nel rispetto del principio di indipendenza di giudizio,
garantendo l’assenza di qualunque interesse commerciale o finanziario che possa
determinare comportamenti non imparziali o discriminatori, e non prevede che
l’organismo di certificazione possa svolgere attività di qualificazione. In
definitiva, secondo il rimettente, la regola che l’attività di qualificazione
può essere svolta esclusivamente dalle SOA è stabilita dall’art. 40, comma 3, del d.lgs. n. 163 del 2006, che costituisce, in
parte qua, la base giuridica delle disposizioni regolamentari impugnate.
Ad avviso del TAR, la circostanza che il
citato art. 66 stabilisce il divieto in esame
qualunque sia l’entità della partecipazione non esclude che lo stesso rinvenga
fondamento nella norma primaria, circostanza eventualmente contestabile
adombrando che avrebbe potuto essere previsto solo in presenza di un rapporto
tra società di certificazione e di attestazione in grado di garantire
l’influenza dominante della prima sulla seconda. Nella specie, tale circostanza
non rileva, poiché «esiste un collegamento societario intragruppo
tale da determinare l’unitarietà del centro decisionale», in
quanto SOA Rina è partecipata al 99% da Rina s.p.a. ed all’1% da Rina Services (società accreditata alla certificazione di
qualità) che, a sua volta, è partecipata al 100% da Rina s.p.a. e, quindi, «non
può sussistere alcun dubbio che, a prescindere dalla partecipazione dell’1%
della società organismo di certificazione (Rina Services)
nella società organismo di attestazione (SOA Rina), le stesse confluiscano in
un unico centro decisionale facente capo alla holding Rina s.p.a.».
2.3.– Posta questa premessa, il giudice
a quo solleva, in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost.,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 40, comma 3, del d.lgs. n.
163 del 2006, nella parte in cui stabilisce il principio di esclusività
dell’oggetto delle SOA ed «ha il duplice corollario di vietare ad un medesimo
soggetto di svolgere contemporaneamente attività di organismo di certificazione
e di SOA e di vietare ad un organismo di certificazione di avere partecipazioni
azionarie in una SOA».
La questione sarebbe rilevante, in quanto l’interesse sostanziale della ricorrente è di
continuare a detenere la partecipazione al capitale di SOA Rina, allo scopo di
svolgere le attività di certificazione e di attestazione e sarebbe proprio la
norma censurata, di cui le disposizioni regolamentari costituiscono
applicazione, ad impedirne il contestuale espletamento da parte del gruppo
Rina, proibendo la partecipazione di Rina Services al
capitale sociale di SOA Rina.
2.4.– Nel merito, in
riferimento all’art. 41 Cost., il rimettente deduce che, in virtù di tale
parametro, l’iniziativa economica privata è libera (primo comma), ma non può
essere svolta in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla
sicurezza, alla libertà e alla dignità umana (secondo comma) e, quindi, può
essere limitata per ragioni di utilità sociale, nell’osservanza di criteri di
ragionevolezza e proporzionalità, allo scopo di tutelare altri valori di
rilevanza costituzionale.
Nella specie, i limiti posti dalla norma
censurata, in quanto strumentali rispetto all’esigenza
di garantire neutralità ed imparzialità dei soggetti che controllano
l’esistenza dei requisiti per partecipare alle gare di appalto, «sono in linea
di massima certamente aderenti a valori di rilievo costituzionale, come la
concorrenza, ed ai principi comunitari». Tuttavia, ad avviso del TAR, «lo
stesso risultato di indipendenza e neutralità potrebbe
essere messo a rischio non già dalla teorica possibilità per uno stesso gruppo
societario di attestare sia la certificazione di qualità che i requisiti di
qualificazione, ma dalla concreta ipotesi che tale duplice attività sia svolta
nei confronti della medesima impresa». Sarebbe, quindi, ragionevole vietare che
le due attività in esame siano svolte da uno stesso soggetto nei confronti
della medesima impresa; sarebbe «invece sproporzionato rispetto alla finalità
perseguita dalla norma e, per tale motivo, irragionevole che sia sic et simpliciter escluso che una società, o un gruppo
societario con un medesimo centro di imputazione
decisionale, possa svolgere entrambe le attività, senza prevedere invece tale
possibilità con il limite del divieto di svolgimento nei confronti della stessa
impresa». D’altronde, ad avviso del TAR, detta soluzione sarebbe quella
realizzata dalla legge n. 109 del 1994, prima della modifica introdotta dalla
legge n. 166 del 2002, che appariva «più congrua e proporzionata e, quindi,
maggiormente idonea a garantire l’equilibrio tra tutti i valori costituzionali»
in gioco.
2.5.– La norma violerebbe, altresì,
l’art. 3 Cost., dato che realizzerebbe una disparità
di trattamento, nella parte in cui «agli organismi di certificazione preclude
sic et simpliciter la possibile partecipazione al
capitale delle SOA anche nell’ipotesi in cui, ove previsto il divieto di
contestuale attestazione e certificazione nei confronti di una stessa impresa,
non sembrerebbe sussistere un vulnus ai principi di imparzialità ed
indipendenza e gli altri soggetti che possono liberamente detenere
partecipazioni al capitale delle SOA».
Il principio di indipendenza
ed imparzialità, ad avviso del rimettente, potrebbe essere efficacemente
tutelato vietando lo svolgimento delle attività di certificazione e di
attestazione nei confronti di una medesima impresa, con la conseguenza che il
divieto in esame sarebbe «sproporzionato e debordante rispetto alla finalità
perseguita dalla norma» ed il differente trattamento riservato agli organismi
di certificazione violerebbe il canone della ragionevolezza.
3.– La seconda ordinanza (reg. ord. n.
86 del 2012) espone che Rina s.p.a. ha proposto ricorso contro le medesime
parti convenute nel processo sopra sintetizzato, chiedendo che siano annullate
le stesse disposizioni del Regolamento impugnate da Rina Services,
nonché il citato art. 66, laddove tra i soggetti che non possono possedere, a
qualsiasi titolo, direttamente o indirettamente, una partecipazione al capitale
di una SOA, ha genericamente incluso quelli indicati dall’art. 34 del Codice
dei contratti pubblici, la determinazione dell’Autorità per la Vigilanza sui
contratti pubblici di lavori, servizi e forniture del 15 marzo 2011, n. 1, e,
«per quanto possa occorrere», il parere dell’Adunanza Generale del Consiglio di
Stato, Gab. n. 2/2011, 24 febbraio 2011, n. 852/2011.
3.1.– Secondo il TAR, Rina s.p.a. ha dedotto di essere un ente già accreditato alla
certificazione di qualità che, in data 1° dicembre 2009, ha posto in essere
un’operazione di riassetto societario, modificando il proprio ruolo da società
operativa, tra l’altro, nel settore della certificazione, in quella di società
capogruppo con funzioni direttive e di holding di un gruppo con attività
diversificate, per tipologia e collocazione geografica, escludendo
esplicitamente dal proprio oggetto sociale le attività di certificazione di
sistema.
La ricorrente ha formulato molteplici
motivi di impugnazione, sostanzialmente identici a
quelli proposti da RINA Services (sopra
sintetizzati), sostenendo che il divieto in esame sarebbe illogico e
contraddittorio, dato che il controllo esercitato dalla SOA sarebbe vincolato.
Referente dell’organismo di certificazione non sarebbe solo la SOA, ma prima
ancora la stessa Autorità, così come referente di quest’ultima non sarebbe
tanto l’organismo di certificazione quanto l’organismo
di accreditamento. Rina s.p.a. ha, inoltre, eccepito
la violazione e falsa applicazione della direttiva 31 marzo 2004, n. 2004/18/CE
(Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al coordinamento
delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di
forniture e di servizi), insistendo perché sia disposto rinvio pregiudiziale
alla Corte di giustizia, qualora il Codice dei contratti pubblici costituisca
idonea base giuridica delle disposizioni regolamentari impugnate.
La ricorrente ha, altresì, censurato
l’estensione da parte dell’art. 66 d.P.R. n. 207 del
2010 del divieto a partecipare al capitale della SOA a tutti i soggetti
indicati nell’art. 34 del d.lgs. n. 163 del 2006.
3.2.– Secondo il TAR, sarebbe infondata,
per le argomentazioni sopra sintetizzate, l’eccezione di difetto di interesse al ricorso proposta dalle resistenti. Il
divieto stabilito dal citato art. 66, comma 1, è,
inoltre, applicabile anche a Rina s.p.a., in quanto essa è capogruppo di un
gruppo comprendente società che svolgono attività di attestazione (SOA Rina),
ovvero di certificazione (Rina Services). In
particolare, poiché essa partecipa al 100 % al capitale di Rina Services ed al 99 % al capitale
sociale di SOA Rina, sarebbe indubbio che le controllate confluisco in un
medesimo centro decisionale facente capo alla holding. D’altronde, la
disposizione regolamentare stabilisce che gli organismi di certificazione non
possono possedere «a qualsiasi titolo, direttamente o indirettamente», una
partecipazione al capitale sociale di una SOA e, secondo la giurisprudenza, il
principio di esclusività dell’oggetto sociale della
SOA, con il corollario del divieto di contemporaneo svolgimento di attività di
certificazione e di attestazione, costituisce un principio materiale che, in
funzione antielusiva, vieta qualsivoglia negozio o meccanismo con cui si
raggiunga l’obiettivo, vietato dalla legge, del contemporaneo svolgimento di
attestazione e certificazione da parte del medesimo soggetto. Il divieto è,
quindi, applicabile anche nel caso in cui vi siano formalmente due società
distinte, una di attestazione e una di certificazione, che non hanno reciproche partecipazioni societarie, ma che hanno la
medesima compagine societaria, essendo partecipate e controllate dai medesimi
soggetti.
Posta questa premessa e ritenute
infondate, per le considerazioni svolte nella prima ordinanza (reg.ord. n. 85 del 2012), le censure concernenti
le disposizioni regolamentari, il giudice a quo solleva questione di
legittimità costituzionale del citato art. 40, comma 3, in riferimento agli
artt. 3 e 41 Cost., sotto gli stessi profili e sulla scorta di argomentazioni
identiche a quelle sopra sintetizzate. La questione sarebbe, infine, rilevante,
poiché l’interesse sostanziale della ricorrente è di svolgere entrambe le
attività (di certificazione e di attestazione), attraverso le controllate Rina Services e SOA Rina, mentre la
norma censurata ne preclude il contestuale svolgimento da parte del gruppo RINA
ed impedisce la partecipazione di Rina Services e di Rina s.p.a. al capitale sociale di SOA Rina.
4.– Nel giudizio attinente alla terza
ordinanza (reg. ord. n. 87 del 2012), Rina Organismo di Attestazione s.p.a.
(SOA Rina), in persona del legale rappresentante, ha proposto ricorso contro le
parti convenute nel processo oggetto dell’ordinanza n. 85 del 2012, chiedendo
l’annullamento delle stesse norme regolamentari censurate da Rina Services e nelle medesime parti (salva la limitazione della
censura riferita al citato art. 64 alla parte in cui lo stesso impone che la
SOA debba avere sede legale in Italia). La ricorrente ha, inoltre, denunciato
la violazione e falsa applicazione della direttiva n. 2004/18/CE e dei principi
di proporzionalità e dell’effetto utile, chiedendo che sia disposto rinvio
pregiudiziale alla Corte di Giustizia, per accertare la compatibilità del
divieto in esame con il diritto dell’UE.
4.1.– Il TAR, dopo avere ritenuto
infondate le eccezioni delle resistenti, di carenza di
interesse al ricorso e di difetto di legittimazione passiva, nonché le censure
concernenti le norme regolamentari, nella parte prescrittiva del divieto in
esame, solleva questione di legittimità costituzionale del citato art. 40, comma
3, in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost., sulla scorta degli argomenti svolti
nell’ordinanza n. 85 del 2012.
A suo avviso, la questione sarebbe
rilevante, poiché l’interesse di SOA Rina è di «evitare la cessione delle quote
sociali da parte di Rina Services (nonché
da parte di Rina s.p.a.) e la conseguente interruzione immediata dell’attività
di qualificazione», tenuto conto che, in virtù della norma censurata, non è
possibile né lo svolgimento contestuale di entrambe le attività da parte del
gruppo Rina, né la partecipazione Rina Services e di
Rina s.p.a. al capitale sociale della predetta.
5.– In tutti i giudizi si sono
costituite, con distinti atti, di contenuto sostanzialmente coincidente, le
società ricorrenti nei processi principali (infra: Società),
le quali, anche con le memorie depositate in prossimità dell’udienza pubblica,
hanno sostenuto che sarebbe possibile un’interpretazione costituzionalmente
adeguata della norma censurata e, in subordine, hanno chiesto l’accoglimento
della questione di legittimità costituzionale.
Le ricorrenti espongono che il TAR, con
sentenze non definitive 13 dicembre 2011, n. 9715, n. 9716 e n. 9717, ha
accolto le domande, nella parte concernente l’art. 64,
comma 1, del d.P.R. n. 207 del 2010 (annullandolo,
laddove stabilisce che la SOA deve avere sede legale in Italia) e che la
sentenza 13 dicembre 2011, n. 9715, resa nel giudizio proposto da Rina s.p.a.,
ha dichiarato cessata la materia del contendere, in relazione ad alcune delle
censure, non concernenti il divieto in esame.
Posta questa premessa, le Società «ripropongono» gli argomenti sottoposti ai rimettenti nei
processi principali, sostenendo che il citato art. 40 non permetterebbe di
identificare con le norme regolamentari «soggetti aprioristicamente interdetti»
al possesso di partecipazioni al capitale sociale delle SOA ed anche l’Autorità
aveva enunciato il principio della tendenziale libertà di tale partecipazione,
limitata soltanto da apposite disposizioni concernenti i requisiti strutturali
e di indipendenza di dette società.
Secondo le parti private, il divieto in
esame non sarebbe desumibile dalla previgente disciplina, alla
quale farebbero riferimento le pronunce dei giudici amministrativi
richiamate dai rimettenti. Di rilievo, sarebbe, invece, il parere reso dal
Consiglio di Stato sullo schema di decreto delegato, dal quale, a loro avviso,
emergerebbe che l’art. 40 non prevede il divieto in
esame e che l’introduzione dello stesso neppure sarebbe stata ipotizzata in
sede di elaborazione della norma. La tesi del TAR, secondo la quale ciò che non
è espressamente consentito è vietato, contrasterebbe,
inoltre, con il principio in virtù del quale «l’iniziativa e l’attività
economia privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente
vietato dalla legge» (enunciato dall’art. 3, commi 1 e 2, del decreto-legge 13
agosto 2011, n. 138, recante «Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione
finanziaria e per lo sviluppo», convertito, con modificazioni, dalla legge 14
settembre 2011, n. 148).
5.1.– Nel merito, le censure del TAR
sarebbero fondate e la violazione dell’art. 41 Cost. risulterebbe
confortata dalla giurisprudenza costituzionale secondo la quale l’esercizio
della libertà di iniziativa economica può essere «limitato solo per ragioni di utilità
sociale» (sentenza
n. 162 del 2009) e di «utilità economico sociale» (sentenze n. 70 del
2000 e n.
196 del 1998), mediante la fissazione di limiti «non incongrui e non
irragionevoli» (sentenza
n. 428 del 2008), occorrendo verificare se la soluzione realizzata «resiste
al necessario test di proporzionalità al quale va sottoposta» (sentenza n. 270 del
2010). Il citato art. 40, comma 3, prevedendo un
generalizzato divieto per gli enti di certificazione di svolgere l’attività di
attestazione, non desunto da una realistica presunzione di parzialità,
difetterebbe di utilità sociale e non permetterebbe di tutelare in termini
concreti valori di rilevanza costituzionale.
Secondo le Società, la comparazione
dell’interesse «sacrificato» e di quello oggetto di tutela dimostrerebbe la
violazione dell’art. 41 Cost. La sentenza n. 328 del
2011 (ma anche la sentenza n. 411 del
2008) ha, infatti, affermato che la disciplina della qualificazione e
selezione delle imprese «mira a garantire che le gare si svolgano nel rispetto
delle regole concorrenziali e dei principi comunitari della libera circolazione
delle merci, della libera prestazione dei servizi, della libertà di
stabilimento, nonché dei principi costituzionali di
trasparenza e parità di trattamento» e, quindi, è preordinata ad assicurare la
massima concorrenza e la libertà di iniziativa economica privata, con
conseguente illegittimità di un divieto generale ed astratto qual è quello
stabilito dalla norma censurata. L’irragionevolezza di siffatto divieto
deriverebbe dal fatto che implica una grave limitazione del diritto d’impresa,
fondata su di una presunzione di parzialità non giustificata alla luce della
previsione di strumenti di controllo e verifica che permettono
di accertare l’esistenza di situazioni di concreta incompatibilità e di comprovato
conflitto di interessi. Non sussisterebbe, quindi,
nessuna ragione logica e giuridica idonea a giustificarlo, anche perché l’art.
40, comma 4, del d.lgs. n. 163 del 2006 permette di intervenire in presenza di
situazioni concrete, lesive dei principi di imparzialità ed indipendenza.
5.1.1.– Le Società fanno, poi, proprie
le censure proposte dal TAR in riferimento all’art. 3
Cost., denunciando l’irragionevole disparità di trattamento realizzata tra gli
organismi di certificazione e tutti gli altri operatori economici, benché i
primi operino «in posizione di terza parte ed in un contesto normativo
garantito da controlli di carattere pubblicistico».
A loro avviso, il vizio avrebbe «un
raggio ancora più ampio di quello definito» dal TAR e la Corte potrebbe
dichiarare l’illegittimità, ai sensi dell’art. 27
della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento
della Corte costituzionale), «delle disposizioni censurate anche nella parte in
cui pongono il divieto di svolgere le menzionate attività "nei confronti della
medesima impresa”». L’art. 63 del d.P.R.
n. 207 del 2010 palesa che alla SOA spetta verificare
l’an della certificazione, senza entrare nel merito
della stessa: perciò l’ontologica differenza e l’oggettiva autonomia delle
attività di certificazione e di attestazione conforterebbero l’irragionevolezza
del generalizzato divieto in esame.
Le parti private sottolineano
che le attività in esame, benché eseguite in forza di contratto a prestazioni
corrispettive, costituiscono verifiche di «terza parte». La disciplina
concernente quella di certificazione è, infatti, incentrata
sull’obbligo di terzietà dell’ente che la svolge,
particolarmente garantita quando è svolta previo accreditamento, che consiste
in un controllo da parte di un organismo, il quale può anche sospendere o
revocare l’accreditamento, avente carattere pubblicistico. In
particolare, il decreto del Ministero dello sviluppo economico del 22 dicembre
2009 (Designazione di "Accredia” quale unico
organismo nazionale italiano autorizzato a svolgere attività di accreditamento
e vigilanza del mercato), emanato in attuazione del regolamento (CE) 9 luglio
2008, n. 765/2008 (Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che pone
norme in materia di accreditamento e vigilanza del mercato per quanto riguarda
la commercializzazione dei prodotti e che abroga il regolamento – CEE – n.
339/93) ha individuato in Accredia l’organismo unico
di accreditamento. La certificazione rilasciata da un organismo
accreditato dalla predetta costituisce oggetto di valutazione di «terza parte»,
assistita da particolari caratteristiche che ne garantiscono l’indipendenza. In
definitiva, attestazione SOA e certificazione, da una parte, e autorizzazione
rilasciata dall’Autorità ed accreditamento, dall’altra,
costituirebbero sistemi di verifica che non permetterebbero di limitare
ulteriormente l’autonomia contrattuale.
5.2.– In linea subordinata, le Società
deducono che «potrebbe essere opportuno anche un rinvio pregiudiziale alla
Corte di giustizia, per la corretta interpretazione del vigente diritto
dell’Unione». A loro avviso, il citato art. 66, comma
1, del d.P.R. n. 207 del 2010 violerebbe la direttiva
n. 2004/18/CE e spetterebbe al legislatore nazionale dimostrare che la deroga
di un principio del diritto dell’UE è idoneo a garantire l’obiettivo invocato e
non è sproporzionato rispetto a questo scopo. Nella specie verrebbe in rilievo
il principio in virtù del quale sarebbe «contraria ad
un’efficace applicazione del diritto comunitario l’esclusione sistematica delle
imprese tra loro collegate dal diritto di partecipare ad una medesima procedura
di aggiudicazione di appalto pubblico», senza che queste abbiano «la
possibilità di dimostrare che, nel loro caso, non sussistono reali rischi di
insorgenza di pratiche atte a minacciare la trasparenza e a falsare la
concorrenza tra gli offerenti». In definitiva, il divieto in esame sarebbe
eccessivamente rigoroso e lesivo del principio dell’effetto utile: al riguardo,
le parti private informano che, in riferimento alla
disciplina censurata, hanno presentato denuncia alla Commissione europea.
6.– In tutti e tre giudizi si sono
costituiti con altrettanti atti, di contenuto sostanzialmente identico, il
Presidente del Consiglio dei ministri e l’Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, parti nei processi
principali, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo, anche nelle memorie depositate in prossimità dell’udienza pubblica,
che le questioni siano dichiarate inammissibili e, comunque, infondate.
A loro avviso, il divieto in esame
sarebbe giustificato dall’esigenza di garantire la separazione tra chi
certifica la qualità e chi attesta l’esistenza della certificazione di qualità,
allo scopo di assicurare l’imparzialità nel rilascio di entrambe. La natura
pubblica delle funzioni giustificherebbe che, a tutela del loro corretto
esercizio, sia vietato il contemporaneo svolgimento delle stesse da parte dei
medesimi soggetti. Il divieto in esame concernerebbe appunto lo svolgimento di
funzioni pubbliche e, quindi, parteciperebbe della stessa natura delle norme
che le disciplinano, costituendo una palese forzatura evocare l’art. 41 Cost., in riferimento a norme aventi ad oggetto l’esercizio di tali
funzioni, occorrendo, invece, valutarlo alla luce dell’art. 97 Cost., che ne
rivela la ragionevolezza. La difesa dello Stato osserva che gli stessi
rimettenti ritengono che occorra scongiurare un vulnus
all’esigenza di imparzialità ed indipendenza della SOA, ma inesattamente lo
reputano esistente soltanto «laddove tale certificazione sia stata rilasciata
da un soggetto che partecipa alla SOA stessa». Per le parti pubbliche il
rischio di violazioni del dovere di imparzialità ed
indipendenza, infatti, «non deriva soltanto da possibili favoritismi commessi
in sede di rilascio della certificazione di qualità da parte di chi partecipa
alla stessa SOA richiedente la certificazione; situazioni di rischio sono
agevolmente rinvenibili anche nei casi in cui chi partecipa ad una SOA sia
chiamato ad accertare il possesso della certificazione di qualità in capo a SOA
concorrenti con la SOA partecipata».
Secondo l’Avvocatura generale, il TAR
chiede una pronuncia additiva che stabilisca la nuova
regola in virtù della quale una società, o un gruppo societario con un medesimo
centro di imputazione decisionale, può svolgere entrambe le attività, con il
«limite del divieto di svolgimento nei confronti della stessa impresa». Dunque,
avrebbero chiesto una pronuncia additiva dal contenuto inammissibile, poiché la
disciplina ipotizzata non rinviene un aggancio
utilizzabile quale tertium comparationis
ed implicherebbe una scelta discrezionale, non essendo la regola ipotizzata dai
giudici a quibus l’unica possibile, allo scopo di
regolare «la possibilità per uno stesso gruppo societario di attestare sia la
certificazione di qualità che i requisiti di qualificazione» e per individuare
casi e modi nei quali escluderla.
Le censure riferite all’art. 3 Cost. non
sarebbero, invece, fondate, alla luce della diversità delle attività svolta da
organismi di certificazione e dalle SOA e perché il
divieto di partecipazioni incrociate e commistione di funzioni opera per
entrambe, nei reciproci rapporti. Non sussisterebbe, infine, la denunciata
disparità di trattamento, dato che per ambedue i
gruppi di operatori economici (organismi di certificazione e SOA) sussiste il
divieto reciproco di partecipare all’altro gruppo.
7.– All’udienza pubblica le parti
costituite hanno chiesto l’accoglimento delle conclusioni svolte nelle difese
scritte.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale amministrativo
regionale del Lazio, con tre ordinanze del 13 dicembre 2011, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 41 della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’articolo 40, comma 3, del decreto
legislativo 12 aprile 2006, n. 163, recante «Codice dei contratti pubblici
relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE
e 2004/18/CE» (di seguito: Codice dei contratti pubblici).
1.1.– Nei tre giudizi principali sono
stati impugnati, tra l’altro, gli artt. 64, 66 e 357,
comma 21, del decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207
(Regolamento di esecuzione ed attuazione del decreto legislativo 12 aprile
2006, n. 163, recante «Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi
e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE»; infra: Regolamento), laddove dispongono che gli «organismi
di certificazione» non possono possedere partecipazioni nelle Società organismo
attestazione (SOA), disciplinano termine e modalità per adeguare la
composizione azionaria a detto divieto e prescrivono che lo statuto delle SOA
«deve prevedere come oggetto esclusivo lo svolgimento dell’attività di
attestazione». Il TAR sostiene, con argomentazioni sostanzialmente identiche
nelle tre ordinanze, che tale disciplina rinverrebbe base giuridica nel citato
art. 40, comma 3, ma dubita della legittimità
costituzionale di questa norma nella parte in cui, stabilendo il principio di
esclusività dell’oggetto sociale della SOA, «ha il duplice corollario di
vietare ad un medesimo soggetto di svolgere contemporaneamente attività di
organismo di certificazione e di SOA e di vietare ad un organismo di certificazione
di avere partecipazioni azionarie in una SOA».
Ad avviso del TAR, la norma censurata
mira ad assicurare neutralità ed imparzialità dei
soggetti che devono accertare l’esistenza dei requisiti per l’affidamento
dell’esecuzione dei lavori pubblici, le quali potrebbero, tuttavia, essere
pregiudicate soltanto dal contemporaneo svolgimento delle attività di
certificazione e di attestazione nei confronti della medesima impresa. Non
sarebbe, quindi, ragionevole e violerebbe l’art. 41 Cost. vietare «che una
società, o un gruppo societario con un medesimo centro di imputazione
decisionale, possa svolgere entrambe le attività», poiché la finalità della
norma potrebbe essere congruamente garantita dal più limitato divieto di
espletarle congiuntamente nei confronti di una medesima impresa.
Il citato art. 40,
comma, 3, secondo le ordinanze di rimessione, sarebbe in contrasto anche con
l’art. 3 Cost., poiché determinerebbe «una disparità di trattamento tra gli
operatori economici», in quanto «agli organismi di certificazione preclude sic et simpliciter la possibile partecipazione al capitale
delle SOA», mentre «gli altri soggetti» possono «liberamente detenere
partecipazioni al capitale delle SOA». Inoltre, «il divieto assoluto per gli
organismi di certificazione di partecipare al capitale sociale delle SOA» sarebbe sproporzionato rispetto alla finalità della norma e
lesivo del principio di ragionevolezza.
2.– I giudizi, avendo ad
oggetto la medesima norma, censurata in riferimento agli stessi parametri
costituzionali, sotto i medesimi profili e con argomentazioni sostanzialmente
coincidenti, pongono un’identica questione di legittimità costituzionale e,
quindi, vanno riuniti e decisi con un’unica sentenza.
3.– Preliminarmente, va osservato che
nei tre giudizi principali il TAR ha pronunciato altrettante sentenze non
definitive con le quali ha annullato l’art. 64, comma
1, del d.P.R. n. 207 del 2010, nella parte in cui
stabilisce che la SOA deve avere sede legale «nel territorio della Repubblica»;
in quello proposto da Rina s.p.a. ha, altresì, dichiarato cessata la materia
del contendere in relazione ad uno dei profili di censura concernenti l’art. 66
di detto d.P.R. Nel pronunciare dette sentenze, il
TAR non ha fatto applicazione della norma censurata, in parte qua, e non ha
definito i processi principali, con la conseguenza che esse non incidono
sull’ammissibilità della sollevata questione di legittimità costituzionale.
Le ordinanze di rimessione hanno,
inoltre, diffusamente argomentato le ragioni dell’interesse attuale e concreto
di tutte le società ricorrenti (infra: Società) nei
processi principali ad impugnare le disposizioni
regolamentari che hanno base giuridica nel citato art. 40, comma 3,
esplicitando, in riferimento a ciascuna, gli argomenti che, alla luce dell’attività
svolta ed in considerazione della natura e degli effetti di tali disposizioni,
inducono a ritenerlo esistente. L’ampia ed
approfondita motivazione svolta in ordine a detto profilo rende, quindi,
applicabile il principio secondo il quale sussiste la rilevanza della questione
di legittimità costituzionale quando, come nella specie, essa sia stata
adeguatamente e non implausibilmente motivata dal
rimettente (tra le molte, sentenze n. 273
e n. 172 del
2012).
4.– Ancora in linea preliminare, devono
essere esaminate le eccezioni di inammissibilità
proposte dal Presidente del Consiglio dei ministri e dall’Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (di seguito:
Autorità), deducendo, in primo luogo, che il TAR avrebbe chiesto la pronuncia
di una sentenza «additiva dal contenuto inammissibile»; in secondo luogo, che
il divieto in esame sarebbe giustificato e ragionevole.
4.1.– Le eccezioni non sono fondate.
I rimettenti hanno censurato il citato
art. 40, comma 3, chiedendo l’eliminazione sia del
divieto per gli organismi di certificazione di possedere, a qualsiasi titolo,
direttamente o indirettamente, una partecipazione al capitale sociale di una
SOA, sia del divieto per uno stesso soggetto di svolgere attività di
attestazione e di certificazione, salva la preclusione del congiunto
espletamento di entrambe nei confronti di un medesimo soggetto.
Tale essendo il contenuto del petitum, è palese che il TAR ha chiesto
che detti divieti siano eliminati mediante una pronuncia ablatoria.
L’ulteriore deduzione in ordine alla congruità
rispetto alla finalità della norma di una differente regola (indicata dai
rimettenti in quella stabilita dall’art. 8, comma 4, lettera b, della legge 11
febbraio 1994, n. 109, recante «Legge quadro in materia di lavori pubblici»,
nel testo anteriore alla modifica introdotta dall’art. 7 della legge 1° agosto
2002, n. 166, recante «Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti»)
è stata, infatti, svolta per argomentare l’eccepita irragionevolezza dei
divieti e porre in rilievo che la loro eventuale eliminazione non escluderebbe
l’esercizio da parte dell’Autorità dei propri poteri allo scopo di scongiurare,
in presenza di particolari fattispecie, la compromissione dei requisiti di
indipendenza ed imparzialità della SOA.
Le deduzioni dell’Avvocatura generale
dirette a dimostrare l’infondatezza delle censure di irragionevolezza
attengono, invece, al merito e, quindi, non prefigurano una ragione di
eventuale inammissibilità della questione.
5.– Sempre in via preliminare devono
essere dichiarate inammissibili le censure con le quali le parti private hanno
eccepito l’asserito contrasto del citato art. 40,
comma 3, anche con il diritto dell’UE e che, quindi, sono state proposte in
riferimento a parametri costituzionali (artt. 11 e 117, primo comma, Cost.) ed
a ragioni e profili non indicati dal TAR.
Secondo la costante giurisprudenza di
questa Corte, l’oggetto del giudizio di costituzionalità in via incidentale è,
infatti, limitato alle norme ed ai parametri fissati
nell’ordinanza di rimessione e non possono essere presi in considerazione,
oltre i limiti in queste indicati, ulteriori questioni o profili dedotti dalle
parti, sia che siano stati eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo, sia
che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle
stesse ordinanze (tra le molte, sentenze n. 283
e n. 42 del 2011).
Siffatto principio è applicabile anche qualora la parte privata deduca
un’antinomia tra norma nazionale e norme dell’UE, fattispecie che, in relazione al profilo in esame, è omologa a quella della
censura riferita ad un parametro costituzionale diverso dagli artt. 11 e 117,
primo comma, Cost. Peraltro, nella specie, tale asserito contrasto è stato già
prospettato dalle parti private nei giudizi principali, ma il TAR non ha
accolto le relative eccezioni e, quindi, non ha ritenuto esistenti le
condizioni per disapplicare la norma interna, ovvero per sollevare questione di
legittimità costituzionale (ammissibile nelle ipotesi in cui, secondo la
giurisprudenza costituzionale, a detta antinomia non può porre rimedio il
giudice comune). In contrario, non è congruente e pertinente il richiamo, da parte
delle Società, della sentenza n. 28 del
2010, dato che nel giudizio deciso da detta
pronuncia il giudice a quo aveva espressamente (ed esclusivamente) censurato la
norma nazionale in riferimento proprio agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.
Dall’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata
dalle parti private consegue che non è possibile e necessario approfondire se
ed in quali casi nel giudizio in via incidentale questa Corte possa disporre
rinvio pregiudiziale.
6.– Ancora in via preliminare, occorre,
infine, osservare che i giudici a quibus hanno
sollevato la questione di legittimità costituzionale, dopo avere affermato che
i divieti in esame rinvengono base giuridica nel Codice dei contratti pubblici,
rigettando la tesi contraria sostenuta dalle Società. A conforto di tale
premessa, le ordinanze di rimessione hanno svolto ampie ed
approfondite argomentazioni, all’esito di un’esegesi del citato art. 40, comma
3, attenta alla formulazione lessicale ed alla ratio
della norma, alla complessiva disciplina del sistema di qualificazione dei
soggetti esecutori di lavori pubblici, all’evoluzione che l’ha caratterizzato,
nonché all’orientamento espresso dal Consiglio di Stato.
L’art. 8, comma
4, lettera b), della legge 11 febbraio 1994, n. 109 (Legge quadro in materia di
lavori pubblici) stabiliva il principio di esclusività dell’attività di
attestazione, ma ne consentiva, in presenza di determinati requisiti, l’espletamento
anche da parte dei soggetti autorizzati alla certificazione, fermo il divieto
del congiunto svolgimento delle stesse nei confronti della medesima impresa. La
modifica della disposizione realizzata dall’art. 7
della legge n. 166 del 2002, nell’interpretazione offertane dalla
giurisprudenza amministrativa, ha invece comportato, ad avviso del TAR,
«l’irrigidimento del sistema, con il venir meno della possibilità di
autorizzare i soggetti operanti nella certificazione di qualità a svolgere
anche l’attività di attestazione» (Consiglio di Stato, sez. VI,
16 febbraio 2011, n. 987; 31 gennaio 2011, n. 696; 25 gennaio 2011, n. 510).
Siffatto indirizzo, benché abbia avuto ad oggetto la
disciplina previgente, ha significativamente fatto riferimento anche a quella
in esame ed ha puntualizzato che questa stabilisce «espressamente il divieto
per gli organismi di certificazione, di possedere, a qualsiasi titolo,
direttamente o indirettamente, una partecipazione al capitale di una SOA»
(Consiglio di Stato, sez. VI, 16 febbraio 2011, n.
987), reputando «destituiti di fondamento» i prospettati «dubbi di
compatibilità comunitaria della normativa nazionale» così interpretata
(Consiglio di Stato, sez. VI, 31 gennaio 2011, n.
696), ritenuta giustificata «anche sotto il profilo della proporzionalità»
(Consiglio di Stato, sez. VI, 25 gennaio 2011, n.
510).
Nell’interpretare la norma censurata, le
ordinanze di rimessione valorizzano altresì che il Consiglio di Stato, nel
parere reso sullo schema di Regolamento redatto nel 2007, sottolineatane
la natura di «regolamento di esecuzione ed attuazione», aveva rilevato che
occorresse eliminare la norma (art. 68) che «consentiva una deroga al principio
secondo cui le SOA possono fare solo le SOA» e permetteva «agli organismi di
certificazione di qualità di svolgere entrambe le attività», qualora avessero
tutti i requisiti per queste prescritti, «tranne quello dell’unicità
dell’oggetto sociale». Nel parere è stato, infatti, sottolineato
che, trattandosi «di un regime derogatorio, lo stesso deve avere base in una
norma primaria», la quale, tuttavia, «non esiste più» dalla data della
promulgazione della legge n. 166 del 2002, con la conseguenza che la norma che
lo prevedeva (art. 13 del decreto del Presidente della Repubblica 25 gennaio 2000,
n. 34) «ha perso la sua base normativa e non può essere riprodotta nel nuovo
schema di regolamento» (Sezione consultiva per gli atti normativi, 17 settembre
2007, n. 3262/2007). I giudici a quibus hanno,
infine, avuto cura di porre in luce come nel parere sullo schema di regolamento
richiesto il successivo 19 gennaio 2010, il Consiglio di Stato, affermando che
il termine per l’adeguamento «al divieto di partecipazione al capitale di una
SOA recato dall’articolo 66 per gli organismi di certificazione
[…] può ritenersi congruo» (Sezione consultiva per gli atti normativi, 24
febbraio 2010, n. 313/2010), abbia «evidentemente ritenuto di non formulare
rilievi sul presupposto di tale adempimento, vale a dire sul divieto per gli
organismi di certificazione di possedere, a qualsiasi titolo, direttamente o
indirettamente, una partecipazione al capitale di una SOA».
L’ampia motivazione svolta dai
rimettenti dimostra, in primo luogo, che essi hanno diffusamente approfondito
le ragioni a conforto dell’interpretazione della norma censurata che hanno
fatto propria, non indulgendo in una lettura frammentaria della stessa, allo
scopo di identificarne correttamente contenuto e finalità e di escludere
(implicitamente ma chiaramente) la possibilità di fornirne una lettura in grado
di mandarla immune dalle censure proposte. In secondo luogo, rende chiara
l’applicabilità nella specie del principio in virtù del quale la questione di
legittimità costituzionale è ammissibile, qualora il giudice a quo abbia offerto
una non implausibile ricostruzione del quadro
normativo di riferimento, esplicitando adeguatamente
gli argomenti a conforto della premessa interpretativa posta a base della
stessa (tra le molte, sentenze n. 273
e n. 15 del 2012;
ordinanza n. 339
del 2010). In terzo luogo, pone in luce che le parti private, nel reiterare
la tesi svolta nei giudizi principali, deducendo testualmente che «ripropongono […] le ragioni per le quali […] l’opzione
ermeneutica del Giudice remittente non può essere condivisa», hanno sollecitato
un riesame della premessa interpretativa che eccede l’ambito ed i limiti del
controllo sulla stessa spettante a questa Corte. Sulla plausibilità di detta
premessa non influiscono, peraltro, le recenti norme recanti
le cosiddette misure di liberalizzazione: anzitutto in considerazione
della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 3, del
decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la
stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni,
dalla legge 14 settembre 2011, n. 148 (il quale prevedeva che fossero
«soppresse» le disposizioni di divieto nello stesso indicate) e della
circostanza che l’art. 34, comma 3, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201
(Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti
pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214,
non incide direttamente sulla norma in esame e l’art. 1, comma 2, del decreto
legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo
sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con
modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, sostanzialmente ribadisce che
la libertà di iniziativa economica può essere limitata esclusivamente per
garantire altri interessi costituzionalmente rilevanti. Inoltre, perché questa
Corte, come si preciserà di seguito, ha già sottolineato
che tali misure non influiscono sulla legittimità delle norme di divieto,
quando queste siano strumentali a garantire, in modo ragionevole, la
compatibilità dello svolgimento delle attività economiche con la tutela di
detti interessi.
7.– Nel merito, la questione non è
fondata.
7.1.– In ordine alle
censure riferite all’art. 41 Cost., occorre premettere che questa Corte, in una
recente pronuncia (sentenza n. 270 del
2010), ha ricordato che la più risalente giurisprudenza costituzionale,
nell’interpretare detto parametro, aveva posto l’accento sulla «libertà di
concorrenza» quale manifestazione della libertà d’iniziativa economica privata,
suscettibile di limitazioni giustificate da ragioni di «utilità sociale» e da
«fini sociali» (sentenze
n. 46 del 1963 e n. 97 del 1969).
Successivamente, ha offerto una nozione più ampia di
garanzia della libertà di concorrenza, sottolineando che essa ha «una duplice
finalità: da un lato, integra la libertà di iniziativa economica che spetta nella
stessa misura a tutti gli imprenditori e, dall’altro, è diretta alla protezione
della collettività, in quanto l’esistenza di una pluralità di imprenditori, in
concorrenza tra loro, giova a migliorare la qualità dei prodotti e a contenerne
i prezzi» (sentenza
n. 223 del 1982), ponendo in luce la concorrenza quale «valore basilare
della libertà di iniziativa economica» (sentenza n. 241 del
1990).
Le censure sollevate dal TAR in relazione all’art. 41 Cost. sono state proposte avendo
riguardo soltanto alla prima di dette accezioni, dato che l’eccepita non
ragionevolezza del divieto in esame è stata desunta dall’asserita, non
proporzionata limitazione della libertà d’iniziativa economica realizzata dalla
norma censurata. In riferimento a questo profilo,
occorre ribadire che le clausole generali «utilità sociale» e «fini sociali»
(art. 41, secondo e terzo comma, Cost.), le quali legittimano l’introduzione di
vincoli e limiti alla libertà di iniziativa economica, «non devono
necessariamente risultare da esplicite dichiarazioni del legislatore» (sentenza n. 46 del
1963), essendo sufficiente «la rilevabilità di un intento legislativo di
perseguire quel fine e la generica idoneità dei mezzi predisposti per
raggiungerlo» (sentenze
n. 63 del 1991, n. 388 del 1992
e n. 446 del
1988), ferma l’esigenza che l’individuazione delle medesime «non appaia
arbitraria» e che le stesse non siano perseguite dal legislatore mediante
misure palesemente incongrue (tra le molte, sentenze n. 247
e n. 152 del
2010, n. 167
del 2009 e n.
428 del 2008). La libertà di iniziativa economica
privata, come gode della tutela accordata dall’art. 41 Cost. alle imprese
singolarmente considerate, così soggiace, quindi, ai limiti che lo stesso
parametro costituzionale consente di stabilire a salvaguardia di valori di
rilievo costituzionale, ivi compreso quello di un assetto competitivo dei
mercati a tutela delle stesse imprese e dei consumatori.
Siffatto principio è stato ribadito anche da recenti pronunce, le quali hanno
scrutinato alcune norme che, stabilendo la regola generale della
liberalizzazione delle attività economiche, prevedono che eventuali restrizioni
e limitazioni alla libera iniziativa economica devono trovare puntuale
giustificazione in interessi di rango costituzionale. Dopo avere dichiarato
costituzionalmente illegittimo il comma 3 dell’art. 3
del decreto-legge n. 138 del 2011, questa Corte ha affermato che la disciplina
stabilita da detta norma – complessivamente considerata, nella parte non
censurata – «non rivela elementi di incoerenza con il quadro costituzionale, in
quanto il principio della liberalizzazione prelude a una razionalizzazione
della regolazione, che elimini, da un lato, gli ostacoli al libero esercizio
dell’attività economica che si rivelino inutili o sproporzionati e, dall’altro,
mantenga le normative necessarie a garantire che le dinamiche economiche non si
svolgano in contrasto con l’utilità sociale» (sentenza n. 200 del
2012, richiamata in parte qua dalla sentenza n. 8 del
2013). Siffatta ultima considerazione e l’ulteriore
puntualizzazione che «eventuali restrizioni e limitazioni alla libera
iniziativa economica debbano trovare puntuale giustificazione in interessi di
rango costituzionale» (sentenza n. 46 del
2013) confermano che, in virtù dell’art. 41 Cost., sono ammissibili limiti
della libertà d’iniziativa economica privata, purché giustificati dall’esigenza
di tutelare interessi di rango costituzionale, ferma quella della congruità e
proporzionalità delle relative misure, risultando in tal modo chiara la
correlazione esistente tra tale parametro e l’art. 3 Cost.
7.2.– Nel censurare l’art. 40, comma 3, del d.lgs. n. 163 del 2006, in riferimento
all’art. 41 Cost., i rimettenti hanno fatto riferimento esclusivamente al
profilo concernente la libertà d’iniziativa economica, non considerando che la
norma costituzionale – come sopra è stato già puntualizzato – ha un contenuto
più ampio, poiché enuclea la «concorrenza» quale bene giuridico distinto dalla
libertà di concorrenza, in virtù di un’interpretazione che ha ricevuto conferma
dalla previsione della «tutela della concorrenza» come materia attribuita alla
competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lettera
e, Cost.) e dalla circostanza che la relativa nozione riflette «quella posta
dall’ordinamento comunitario» (ex plurimis, sentenze n. 299 del
2012, n. 270
e n. 45 del 2010,
n. 430 del 2007
e n. 14 del 2004).
Secondo la costante giurisprudenza
costituzionale, siffatta locuzione comprende, «tra l’altro, interventi
regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali: le misure
legislative di tutela in senso proprio, che hanno ad
oggetto gli atti ed i comportamenti delle imprese che influiscono negativamente
sull’assetto concorrenziale dei mercati e ne disciplinano le modalità di
controllo, eventualmente anche di sanzione; le misure legislative di
promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura,
eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero
esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, in
generale i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche» (sentenza n. 270 del
2010, ed ivi gli ulteriori richiami; successivamente, tra le più recenti, sentenza n. 299 del
2012). Alla concorrenza oggetto della garanzia anche dell’art. 41 Cost.
sono, quindi, riconducibili i profili che attengono all’aspetto della «promozione della concorrenza, che è una delle leve della
politica economica del Paese» e, conseguentemente, le misure preordinate a
realizzare finalità di ampliamento dell’area di libera scelta sia dei
cittadini, sia delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici,
a loro volta, di beni e di servizi, ovvero quelle «volte a evitare che un
operatore estenda la propria posizione dominante in altri mercati (sentenza n. 326 del
2008) […], oppure a garantire la piena apertura del mercato (sentenza n. 320 del
2008)» (per tutte, sentenza n. 270 del
2010; successivamente, tra le più recenti, sentenza n. 299 del
2012). In definitiva, le clausole generali contenute nell’art. 41 Cost.
concernono molteplici interessi qualificati, anche collegati alla sfera
economica, quali quelli correlati all’esigenza «di salvaguardare l’equilibrio
di mercato» in un determinato settore (sentenza n. 63 del
1991), oppure strumentali a garantire i valori della concorrenzialità e
competitività delle imprese (sentenza n. 439 del
1991) e, quindi, l’assetto concorrenziale del mercato, che costituisce
ragione in grado di giustificare l’introduzione di limiti alla libertà di iniziativa economica.
7.3.– Nel quadro di
tali principi, il citato art. 40, comma 3, è immune dalle censure proposte dai
rimettenti.
Il sistema di qualificazione dei
soggetti esecutori di lavori pubblici è caratterizzato, per quanto qui rileva,
da un lato, dall’attività svolta dagli organismi di certificazione, ai quali
spetta rilasciare la certificazione di qualità aziendale; dall’altro,
dall’attività espletata dalle SOA, alle quali compete
qualificare i soggetti esecutori di lavori pubblici, attestando il possesso da
parte degli stessi della certificazione di sistema di qualità, nonché dei
requisiti di ordine generale e di quelli tecnico-organizzativi ed
economico-finanziari conformi alle disposizioni comunitarie in materia di
qualificazione (art. 40, comma 3, lettere a e b, del Codice dei contratti
pubblici).
In considerazione della finalità del
compito ad esse attribuito, le SOA, benché abbiano
personalità giuridica di diritto privato ed esercitino il controllo in base ad
un contratto di diritto privato con l’impresa allo stesso assoggettata
(peraltro, caratterizzato da alcuni elementi predeterminati), «svolgono
funzioni di natura pubblicistica» (art. 40, comma 3, d.lgs. n. 163 del 2006) e
rilasciano attestazioni a contenuto vincolato, aventi rilievo pubblicistico.
Tale carattere dell’attività svolta comporta, in primo luogo, che, in caso di
false attestazioni, sono applicabili gli articoli 476 e 479 del codice penale
(art. 40, comma 3) e spetta all’Autorità il potere di «annullare […] le
attestazioni rilasciate in difetto dei presupposti stabiliti dalle norme
vigenti, nonché sospendere, in via cautelare, dette
attestazioni» (art. 6, comma 7, lettera m, del Codice dei contratti pubblici).
In secondo luogo, determina l’assoggettamento delle SOA agli «stessi vincoli
che caratterizzano l’azione della P.A., primo fra tutti il dovere di imparzialità che, in questo caso, viene a specificarsi
come neutralità, stante la natura tecnica delle funzioni, finalizzate ad
assicurare l’idoneità tecnico-economica dei soggetti che svolgono attività nel
settore dei lavori pubblici» (Consiglio di Stato, sez. VI,
9 settembre 2008, n. 4299), nonché la previsione di meccanismi di controllo
preordinati a garantire il principio costituzionale di buon andamento
dell’amministrazione, precisamente perché esse costituiscono soggetti privati
che, tuttavia, esercitano una pubblica funzione (Consiglio di Stato, Adunanza
generale, 24 febbraio 2011, n. 852/2011).
Una volta scelta la soluzione di
allocare all’esterno della P.A. i controlli per qualificare gli esecutori di
lavori pubblici, articolandoli in due fasi distinte, di differente ambito ed oggetto e attribuite a soggetti diversi, il divieto del
congiunto esercizio delle attività di certificazione e di attestazione da parte
di uno stesso soggetto e le limitazioni alla partecipazione al capitale sociale
delle SOA per gli organismi di certificazione sono del tutto coerenti con
quella scelta e giustificati in particolare dall’esigenza di garantire il
trasparente, imparziale ed indipendente esercizio di una funzione di natura
pubblica. I divieti sono, infatti, strumentali rispetto allo scopo di
assicurare la partecipazione alle gare d’appalto in materia di lavori pubblici
soltanto a quanti possiedono i requisiti prescritti, scongiurando
situazioni che, nonostante il formale rispetto del principio della diversità
dei soggetti che esercitano le due fasi del controllo, possono comportarne la
sostanziale elusione. La rilevanza dell’insieme di interessi
pubblici sottesi allo svolgimento dei controlli e l’esigenza di garantire
l’effetto utile della norma censurata e, quindi, la tutela di detti interessi
concorre, poi, a rendere anzitutto non ingiustificato il rilievo attribuito a
situazioni di conflitto anche meramente potenziali che possano determinare
comportamenti non imparziali o discriminatori. Inoltre, fa sì che sia
ragionevole la valorizzazione delle stesse in relazione alla
SOA come soggetto dotato di propria personalità giuridica ed in riferimento ai
suoi azionisti, con riguardo a quelle partecipazioni al capitale sociale che,
presuntivamente, possano compromettere i requisiti di indipendenza e
neutralità.
In contrario, non può essere enfatizzata
una valutazione atomistica del contenuto e dell’oggetto del controllo espletato
dagli organismi di certificazione e dalle SOA. Un tale
approccio impedisce, infatti, di apprezzare al giusto che, una volta articolata
l’attività di verifica in due distinte fasi e che, per garantirne in modo
congruo l’efficacia, è stato previsto l’intervento di due soggetti distinti,
allo scopo di assicurarne l’espletamento in situazioni di indipendenza
ed imparzialità, è conseguentemente ragionevole e proporzionata una disciplina
quale quella in esame che mira a scongiurare una commistione (anche solo
sostanziale) potenzialmente lesiva di detti requisiti e dell’esigenza di
neutralità e trasparenza, che deve essere massima nel settore dei lavori
pubblici. Argomenti a conforto della censura di irragionevolezza
del divieto neppure possono essere desunti dalla circostanza che le SOA hanno
personalità giuridica di diritto privato. Come il possesso da parte di soggetti
pubblici di partecipazioni al capitale sociale di società di diritto privato
rende legittima la previsione, a tutela della concorrenza, dell’esclusività dell’oggetto sociale delle stesse e la
fissazione di limiti all’attività che queste possono svolgere (sentenze n. 148 del
2009 e n.
326 del 2008), così la natura e la finalità dell’attività possono, infatti,
su altro piano, giustificare la fissazione, a tutela di rilevanti interessi
pubblici, dell’esclusività dell’oggetto sociale delle società che la espletano
e di limiti alla partecipazione al capitale sociale delle medesime.
L’art. 41 Cost., come sopra precisato, è
un parametro che garantisce non solo la libertà di iniziativa
economica, ma anche l’assetto concorrenziale del mercato di volta in volta
preso in considerazione; ed è, altresì, questo che il divieto di partecipazione
in esame concorre soprattutto a tutelare. Qualora, infatti, fosse permesso, è
palese che il possesso da parte di un organismo di certificazione di
partecipazioni sociali in una SOA può favorire la
concentrazione delle due distinte verifiche in capo a soggetti sostanzialmente
unitari (nella specie, poi, la partecipazione è praticamente totalitaria),
anche senza ipotizzare condotte in concreto necessariamente scorrette, ma con
pregiudizio per l’assetto concorrenziale del mercato.
Ciò vale anche a respingere l’ipotesi,
suggerita dai rimettenti e dalle Società, di limitare i divieti contestati a
quella di certificazione e attestazione di una medesima impresa. Il rischio di
un vulnus all’assetto competitivo dei due mercati coinvolti va evitato già a monte. L’esigenza di garantire gli assetti concorrenziali
dei mercati richiede l’eliminazione di ogni possibile contesto
o pratica facilitante la collusione o anche la semplice confusione di
interessi; ed in tali ipotesi rientra sicuramente anche la partecipazione
azionaria di una società operante in un mercato in una diversa società attiva
nel mercato contiguo o a valle. Tale partecipazione può almeno favorire quello
scambio di informazioni tra operatori dello stesso
mercato o di mercati contigui che si trova spesso alla base di condotte
anticoncorrenziali in funzione della fonte, del tasso di elaborazione, del
vantaggio per gli operatori e per gli utenti e che pertanto può di per sé
costituire un cartello illecito, per il suo oggetto o per i suoi effetti (la
Commissione europea è giunta a focalizzare espressamente questa ipotesi nelle
Linee direttive sull’applicabilità dell’art. 101 TFUE alle intese orizzontali:
Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea C11/01 del 14 gennaio 2011). Peraltro,
le limitazioni alle partecipazioni azionarie al fine di assicurare
l’indipendenza e l’imparzialità delle società di certificazione e delle SOA si
collegano anche alla necessità di tutelare l’interesse generale alla corretta
ed efficiente allocazione delle risorse destinate all’esecuzione di opere
pubbliche. Significativo è, infine, anche il divieto
di partecipazioni incrociate agli organi collegiali nel settore finanziario,
bancario e assicurativo, introdotto al preciso scopo di evitare la
realizzazione di un contesto che faciliti o comunque sia idoneo a facilitare
pratiche anticompetitive o commistioni d’interessi di per sé pregiudizievoli ad
un sano assetto dei mercati dei servizi in questione (art. 36, decreto-legge 6
dicembre 2011, n. 201, recante «Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità
e il consolidamento dei conti pubblici», convertito, con modificazioni, dalla
legge 22 dicembre 2011, n. 214).
Risulta, quindi, anche rispetto a questo
profilo ed alla luce della finalità dei divieti in
esame l’infondatezza delle censure proposte in riferimento all’art. 41 Cost.
7.4.– Dalla ritenuta non fondatezza
delle censure riferite all’art. 41 Cost., consegue che non sono fondate neppure
quelle sollevate con riguardo all’art. 3 Cost., in relazione
al principio di ragionevolezza.
Non è, infine, fondata l’ulteriore censura riferita a detto parametro proposta dal
TAR (la sola qui scrutinabile), deducendo che il citato art. 40, comma 3,
realizzerebbe una disparità di trattamento in danno degli organismi di
certificazione, discriminati rispetto ad altri soggetti «che possono detenere
liberamente partecipazioni al capitale delle SOA».
La situazione di detti organismi, alla
luce dell’attività svolta, della finalità della norma censurata e degli
interessi dalla stessa tutelati è, infatti,
evidentemente diversa e non comparabile con quella di tutti gli altri
«operatori economici» (così indeterminatamente indicati dal TAR), rispetto ai
quali non sussistono quelle situazioni in grado di vulnerare l’esigenza di
indipendenza, neutralità ed imparzialità della SOA. La disciplina prevede,
invece, il divieto di partecipazione, diretta o indiretta, al capitale sociale
delle SOA, ovvero pone limiti quantitativi alla
stessa, anche nei confronti di numerosi soggetti ulteriori e diversi dagli
organismi di certificazione, rispetto ai quali è prefigurabile una analoga
situazione suscettibile di vulnerare detta esigenza e dunque la stessa
valutazione qui svolta sui divieti evocati dai rimettenti. Ed è in riferimento a quei soggetti che è possibile svolgere una
comparazione, che dimostra l’inesistenza della asserita disparità di
trattamento.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 40, comma 3, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163
(Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in
attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), sollevata, in riferimento
agli articoli 3 e 41 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale
del Lazio, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 maggio
2013.
F.to:
Franco GALLO, Presidente
Giuseppe TESAURO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 22 maggio
2013.