Sentenza n. 70/2000

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SENTENZA N.70

ANNO 2000

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Cesare MIRABELLI, Presidente

- Francesco GUIZZI   

- Massimo VARI                     

- Cesare RUPERTO                

- Riccardo CHIEPPA             

- Gustavo ZAGREBELSKY              

- Valerio ONIDA                    

- Carlo MEZZANOTTE                     

- Fernanda CONTRI               

- Guido NEPPI MODONA                

- Piero Alberto CAPOTOSTI             

- Annibale MARINI               

- Franco BILE             

- Giovanni Maria FLICK                    

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 4 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 649 (Norme concernenti i servizi ed il personale delle abolite imposte di consumo), promosso con ordinanza emessa il 7 luglio 1998 dal Consiglio di Stato sul ricorso proposto dal Comune di Cagliari contro il Ministero delle finanze ed altro, iscritta al numero 16 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numero 4, prima serie speciale, dell’anno 1999.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 23 febbraio 2000 il Giudice relatore Annibale Marini.

Ritenuto in fatto

1.- Con ordinanza emessa il 7 luglio 1998 il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24, 41 e 42 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 3 e 4 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 649 (Norme concernenti i servizi ed il personale delle abolite imposte di consumo), " nella parte in cui consentono alla Commissione ivi prevista di definire i rapporti pendenti in tema di soppresse imposte comunali di consumo "anche in deroga alle disposizioni contrattuali" che regolano il servizio di gestione di dette imposte, sulla base dell’iniziativa di una sola delle parti, e dunque senza il consenso di entrambe ad una definizione del rapporto in deroga alle pattuizioni contrattuali, e anche quando non vi é l’oggettiva impossibilità di definire i rapporti pendenti secondo diritto, e a prescindere, altresì, dalla rilevanza economica del rapporto".

1.1.- Secondo quanto risulta dall’ordinanza di rimessione, il giudizio a quo origina dal ricorso giurisdizionale proposto dal Comune di Cagliari avverso il decreto del Ministro delle finanze di approvazione della deliberazione, adottata dalla commissione di cui all’art. 3 del d.P.R. n. 649 del 1972, con la quale - in dipendenza dell’abolizione delle imposte comunali di consumo - era stata dichiarata dovuta all’I.N.G.I.C., appaltatore del servizio di riscossione di tali imposte nel Comune di Cagliari, la somma di L. 233.533.146.

Decidendo il ricorso, il TAR Sardegna, adito in primo grado, dichiarava il proprio difetto di giurisdizione, rilevando che i rapporti tra il Comune di Cagliari e l’I.N.G.I.C. in ordine al servizio di riscossione delle imposte di consumo erano regolati da un contratto di appalto, fonte di diritti soggettivi e, perciò stesso, sottratti alla cognizione del giudice amministrativo. Ad avviso del TAR, l’attività della commissione prevista dal d.P.R. n. 649 del 1972 non avrebbe, d’altro canto, carattere autoritativo, ma meramente ricognitivo e non sarebbe perciò idonea a degradare ad interessi legittimi i diritti soggettivi delle parti.

Avverso la sentenza del TAR il Comune di Cagliari proponeva appello dinanzi al Consiglio di Stato deducendo "che l’attività della commissione di cui al d.P.R. n. 649 del 1972 non é meramente ricognitiva, ma ha carattere autoritativo, in quanto l’art. 3 d.P.R. n. 649 attribuisce alla commissione il potere di definire i rapporti pendenti anche in deroga alle disposizioni contrattuali". Sicchè, sempre ad avviso dell’appellante, la commissione sarebbe titolare di poteri discrezionali ed autoritativi atti a degradare i diritti soggettivi ad interessi legittimi e avverso il cui esercizio sarebbe ammissibile solo il sindacato del giudice amministrativo.

1.2.- Osserva il giudice a quo che la sentenza appellata va sicuramente condivisa laddove afferma che la gestione del servizio di riscossione delle soppresse imposte comunali di consumo risulta nella specie regolata da un contratto di appalto, fonte, in quanto tale, di diritti soggettivi sottratti alla cognizione del giudice amministrativo.

Muovendo da tale premessa sarebbe, dunque, necessario accertare - ad avviso del rimettente - se gli atti di definizione dei rapporti pendenti previsti dal d.P.R. n. 649 del 1972 siano atti di mero accertamento e paritetici, come tali inidonei ad operare l’affievolimento dei diritti soggettivi in interessi legittimi, ovvero atti autoritativi.

Sul punto, il Consiglio di Stato ritiene - diversamente dal TAR Sardegna - che in base alla disciplina vigente gli atti impugnati debbano qualificarsi come autoritativi, potendo la commissione di cui al citato art. 3 definire i rapporti pendenti anche in deroga al contratto, secondo valutazioni tecnico-discrezionali non sindacabili nel merito. Ciò che dovrebbe comportare l’accoglimento dell’appello e l’affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo.

Il rimettente, peraltro, dubita della legittimità costituzionale proprio di quelle disposizioni dalle quali deriva il carattere autoritativo degli atti in questione. Sicchè, la questione di legittimità costituzionale risulterebbe pregiudiziale alla decisione sulla giurisdizione della quale é investito il giudice a quo.

1.3.- Ad avviso del Consiglio di Stato, infatti, le norme denunciate, prevedendo che la commissione possa decidere anche in deroga alle disposizioni contrattuali e, quindi, secondo equità, su istanza di una sola delle parti, si porrebbero in contrasto sia con il principio di eguaglianza, in quanto altererebbero la parità tra le parti del rapporto, sia con il diritto di difesa della parte convenuta dinanzi alla commissione, che si troverebbe costretta ad accettare un giudizio secondo equità senza poter sindacare in alcun modo il merito della decisione.

Le medesime norme contrasterebbero inoltre, sotto un duplice profilo, con il principio della libertà di iniziativa economica e con quello di autonomia contrattuale: da un lato perchè consentirebbero una definizione equitativa, senza il consenso di entrambe le parti, riguardo a rapporti che hanno costituito oggetto di regolamentazione pattizia; dall’altro perchè una definizione equitativa imposta, a fronte di interessi economici di notevole entità, "può tradursi in una sensibile menomazione dell’autonomia privata e in una espropriazione senza indennizzo".

2.- E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria di inammissibilità o infondatezza della questione.

Ad avviso dell’Avvocatura la questione difetterebbe di rilevanza nel giudizio a quo, non essendo chiarito nell’ordinanza di rimessione se il Comune di Cagliari abbia o meno prestato il proprio consenso alla definizione del rapporto in via amministrativa e se la commissione abbia in concreto derogato alle pattuizioni contrattuali.

La questione stessa sarebbe comunque infondata nel merito. Le norme denunciate, secondo l’Avvocatura, attribuirebbero, infatti, alla commissione un potere di valutazione equitativa riguardo esclusivamente all’ammontare della prestazione; potere analogo a quello accordato in numerose altre ipotesi previste nell’ordinamento per determinare il corrispettivo di un’opera o di un’attività quando non lo abbiano stabilito le parti e non soccorrano gli usi (ad esempio nei casi previsti dagli articoli 1733, 1736, 1749, secondo comma, 1751, primo comma, 1755, secondo comma, del codice civile), per stabilire l’indennizzo o l’indennità che la legge pone a carico di un soggetto nel caso di diminuzione patrimoniale non procurata da fatto illecito (artt. 1651, terzo comma, 1660, secondo comma, 2045, 2047 cod. civ.), per valutare il lucro cessante del danneggiato (art. 2056 cod. civ.). L’art. 1374 cod. civ. individuerebbe del resto, in via generale, l’equità come fonte integrativa del contratto.

La disciplina dettata dal d.P.R. n. 649 del 1972 non costituirebbe, pertanto, un’anomalia incompatibile con il dettato costituzionale, specie ove si consideri che il ricorso a criteri equitativi da parte della commissione prevista dall’art. 3 sarebbe ammissibile soltanto quando si renda necessario per l’obiettiva carenza di dati certi o in presenza di condizioni contrattuali rivelatesi inique, analogamente a quanto previsto dagli artt. 1450, 1467 e 1468 cod. civ.

Dovrebbe, poi, escludersi qualsiasi disparità di trattamento tra le parti, essendo la definizione dei rapporti affidata ad un organo terzo deputato a deliberare obiettivamente in base a criteri prefissati ed in conformità a disposizioni legislative; nè si potrebbe ravvisare nella specie una menomazione del diritto di difesa, in quanto quella della commissione sarebbe una delibera tecnico-estimativa giustiziabile (analogamente a quanto previsto, ad esempio, nell’art. 1226 cod. civ.) attraverso il sindacato del procedimento logico-giuridico seguito dall’organo deliberante e la verifica della valutazione di tutti i dati di fatto risultanti dall’istruttoria.

Nemmeno sarebbe violato il principio della libertà di iniziativa economica privata e quello dell’autonomia contrattuale, non incidendo l’operato della commissione sulla volontà delle parti, manifestatasi mediante la stipulazione del contratto, ma solo sugli effetti giuridici del contratto stesso.

Tanto meno sarebbe, infine, configurabile un’ipotesi di espropriazione senza indennizzo avuto riguardo, tra l’altro, al carattere non autoritativo proprio delle deliberazioni della commissione.

Considerato in diritto

1.- Il Consiglio di Stato dubita, in riferimento agli articoli 3, 24, 41 e 42 della Costituzione, della legittimità costituzionale degli articoli 3 e 4 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 649 (Norme concernenti i servizi ed il personale delle abolite imposte di consumo), nella parte in cui prevedono che la commissione istituita per la definizione dei rapporti tra comuni e appaltatori del servizio di riscossione delle imposte comunali di consumo, in dipendenza dell’abolizione delle predette imposte, possa adottare le proprie deliberazioni anche in deroga alle disposizioni contrattuali, su iniziativa di una sola delle parti ed indipendentemente dalla rilevanza economica dei rapporti pendenti e dalla impossibilità di una loro definizione secondo diritto.

2.- Va preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità, per difetto di motivazione sulla rilevanza della questione, sollevata dall’Avvocatura dello Stato sull’assunto che l’ordinanza di rimessione avrebbe omesso di precisare se il procedimento di definizione dei rapporti inter partes sia stato attivato ad istanza di una sola o di entrambe le parti e se la delibera della commissione abbia in concreto derogato alle pattuizioni contrattuali.

Deve, infatti, osservarsi che il Consiglio di Stato é chiamato a decidere sulla sola questione di giurisdizione e dubita in buona sostanza della legittimità costituzionale delle norme che, attribuendo al decreto ministeriale oggetto del giudizio il carattere di atto autoritativo, radicano la giurisdizione amministrativa.

E’ evidente allora come la questione di legittimità costituzionale risulti rilevante indipendentemente dal concreto atteggiarsi della vicenda oggetto del giudizio a quo e come, pertanto, debba escludersi la necessità che tale vicenda sia analiticamente descritta nella ordinanza di rimessione.

3.- Nel merito, la questione non é fondata.

4.- Le norme denunciate dispongono che i rapporti pendenti tra comuni e appaltatori del servizio di riscossione delle imposte di consumo, in conseguenza dell’abolizione delle predette imposte operata con il d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto), siano definiti da una commissione istituita presso il Ministero delle finanze, le cui deliberazioni sono approvate con decreto del Ministro per le finanze soggetto alla registrazione della Corte dei conti.

Poichè a tale commissione é espressamente attribuita - come si é detto - la facoltà di derogare alle disposizioni contrattuali, e cioé di deliberare secondo equità, anche quando il procedimento sia attivato ad istanza di una sola delle parti del rapporto, il giudice rimettente ravvisa innanzitutto una lesione del principio di eguaglianza proprio nell’attribuzione alla sola parte istante del potere di "scegliere di derogare al diritto a favore dell’equità".

Al riguardo é sufficiente osservare che il diritto di presentare l’istanza alla commissione é espressamente attribuito dall’art. 4 del citato decreto presidenziale sia ai comuni che agli appaltatori delle abolite imposte di consumo. Le due parti del rapporto sono dunque poste, rispetto al potere di iniziativa del procedimento, su un piano di assoluta parità che esclude la lamentata violazione dell’art. 3 della Costituzione.

La circostanza, poi, che la parte convenuta debba sottostare alla decisione della commissione non comporta certamente alcuna lesione del principio di eguaglianza, essendo tale vincolo il necessario riflesso del diritto, esercitato dalla controparte, di attivare il procedimento.

5.- Deve altresì escludersi che l’attribuzione alla commissione di cui si tratta del potere di definire, anche in via equitativa, i rapporti pendenti tra comuni ed appaltatori del servizio di riscossione delle imposte si traduca in una lesione del diritto alla tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost.

Le norme denunciate delineano, infatti, secondo la ricostruzione non implausibile del giudice rimettente, un procedimento di natura amministrativa, finalizzato ad una rapida soluzione delle controversie collegate alla cessazione dei contratti di appalto. L’atto finale di tale procedimento é rappresentato dal decreto ministeriale di approvazione della delibera della commissione che - secondo quanto ritenuto dal rimettente - essendo atto autoritativo é impugnabile dinanzi al giudice amministrativo.

Ciò che porta ad escludere l’asserita violazione dell’art. 24 della Costituzione

6.- Le norme denunciate non sono d’altro canto in contrasto nemmeno con l’art. 41 Cost.

Va premesso, al riguardo, che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte l’art. 41 della Costituzione tutela l’autonomia contrattuale in quanto strumento della libertà di iniziativa economica, il cui esercizio può tuttavia essere limitato per ragioni di utilità economico-sociale (sentenze n. 268 del 1994; n. 241 del 1990; n. 159 del 1988).

Nella specie, l’attribuzione alla pubblica amministrazione del potere di definire in via equitativa i rapporti obbligatori derivanti dai contratti di appalto e di gestione del servizio di riscossione delle imposte di consumo appare giustificata dal fatto che tali contratti sono cessati, alla data del 1° gennaio 1973, in conseguenza e per effetto della abolizione delle imposte oggetto del servizio (art. 1 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 649). La sollecita definizione dei rapporti in questione, alla stregua di criteri uniformi per tutto il territorio nazionale, che tengano altresì conto - in via appunto equitativa - della peculiarità della intervenuta causa di cessazione degli appalti, rappresenta all’evidenza una di quelle ragioni di utilità sociale sufficienti a legittimare le deroghe alla autoregolamentazione privata denunciate dal rimettente.

7.- Manifestamente infondata appare da ultimo la censura riferita all’art. 42 Cost.

Il parametro evocato riguarda, infatti, esclusivamente la tutela della proprietà privata e non può essere utilmente riferito all’ipotetico sacrificio di diritti obbligatori come quelli oggetto del presente giudizio.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 3 e 4 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 649 (Norme concernenti i servizi ed il personale delle abolite imposte di consumo), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 41 e 42 della Costituzione, dal Consiglio di Stato con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 marzo 2000.

Cesare MIRABELLI, Presidente

Annibale MARINI, Redattore

Depositata in cancelleria il 17 marzo 2000.