SENTENZA N. 78
ANNO 2019
Commento alla decisione di
Paolo Veronesi
per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera b), ultimo periodo, della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario), promosso dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, nel procedimento vertente tra l’Università degli studi di Catania e Lucia Lo Bello e altra, con ordinanza dell’8 febbraio 2018, iscritta al n. 63 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visti gli atti di costituzione di Lucia Lo Bello e dell’Università degli studi di Catania, l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e l’atto di intervento di Dario Francia;
udito nella udienza pubblica del 5 marzo 2019 il Giudice relatore Giuliano Amato;
uditi gli avvocati Carmelo Elio Guarnaccia e Rosario Panebianco per Lucia Lo Bello, Felice Giuffrè per l’Università degli studi di Catania e l’avvocato dello Stato Vincenzo Nunziata per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza depositata l’8 febbraio 2018, il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera b), ultimo periodo, della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario), nella parte in cui non prevede – tra le condizioni che impediscono la partecipazione ai procedimenti di chiamata dei professori universitari – il rapporto di coniugio con un docente appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata, ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo.
Ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata violerebbe, in primo luogo, l’art. 3 Cost. per l’irragionevolezza insita nella mancata previsione del rapporto di coniugio tra le situazioni ostative alla partecipazione alle procedure selettive, a fronte della espressa previsione del rapporto di affinità, il quale presuppone il rapporto coniugale.
Sarebbe violato anche l’art. 97 Cost., per contrasto con il principio di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa.
2.– Il giudizio a quo ha per oggetto l’impugnazione della sentenza con cui il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sezione staccata di Catania, ha annullato la nomina della vincitrice della procedura selettiva indetta dall’Università degli studi di Catania per la chiamata di un professore di prima fascia, sul rilievo del rapporto di coniugio tra la vincitrice ed altro professore, appartenente allo stesso dipartimento che aveva richiesto l’attivazione della procedura.
Alla pronuncia di annullamento il TAR è pervenuto applicando, in via di interpretazione estensiva, l’art. 18, primo comma, lettera b), ultimo periodo, della legge n. 240 del 2010, il quale vieta la partecipazione ai procedimenti di chiamata di coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la stessa chiamata, ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo, ma non prevede espressamente il rapporto di coniugio. La successiva lettera c) del medesimo art. 18 estende il divieto in esame al conferimento di assegni di ricerca, alla stipulazione dei contratti di cui al successivo art. 24 e, più in generale, ai «contratti a qualsiasi titolo erogati dall’ateneo». Esso è stato, altresì, ritenuto applicabile dal Consiglio di Stato e dallo stesso Consiglio di giustizia amministrativa anche ai procedimenti per chiamata diretta.
Il giudice a quo osserva che alcune pronunce della giurisprudenza amministrativa, anche di secondo grado, hanno interpretato estensivamente il divieto, includendovi anche il rapporto di coniugio. In questo caso, infatti, la familiarità tra giudicante e giudicato sarebbe della massima intensità. Secondo questa giurisprudenza, sarebbe quindi irragionevole la mancata previsione, quale causa di incompatibilità, del rapporto di coniugio, a fronte della espressa previsione dell’affinità, che lo presuppone.
Tuttavia, ad avviso del giudice a quo, si tratterebbe di un indirizzo non consolidato, tale da non assurgere a diritto vivente, rispetto al quale sarebbe viceversa preminente la differenza tra coniugio e parentela, nonché tra coniugio e affinità.
Pur essendo il rapporto di coniugio presupposto di quello di affinità, il rimettente ritiene che alla manifesta irragionevolezza della lacuna normativa non si possa ovviare in via interpretativa. A ciò osterebbe, da un lato, la natura tassativa della disposizione che limita la libertà di accesso ai concorsi pubblici e, dall’altro lato, il complessivo ordinamento delle procedure concorsuali, secondo il quale le cause di esclusione fondate su un presumibile conflitto di interessi devono costituire l’extrema ratio, ossia laddove non siano possibili altri strumenti per evitarlo.
L’unica via per rimediare a questa irragionevole lacuna sarebbe, dunque, rappresentata dall’incidente di legittimità costituzionale dell’art. 18, primo comma, lettera b), ultima parte, nella parte in cui non vieta la partecipazione ai procedimenti di chiamata a coloro che sono in rapporto di coniugio con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata, ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo.
3.– Con memoria depositata il 16 maggio 2018, si è costituita Lucia Lo Bello, parte appellata nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale. In via subordinata, ha chiesto che la disposizione censurata sia ritenuta conforme agli artt. 3 e 97 Cost., ove interpretata in modo da ricomprendere anche il rapporto di coniugio tra le cause ostative alla partecipazione alle procedure selettive per la chiamata dei professori.
La parte privata costituita osserva che la disciplina in esame è finalizzata alla prevenzione della disparità di trattamento fra gli aspiranti all’accesso a posti di professore e ricercatore nelle università. Essa è volta ad evitare, anche in astratto, il pericolo di alterazione della imparzialità, non essendo richiesta la prova dell’influenza che i rapporti familiari considerati possano avere sulla procedura selettiva. Questo obiettivo avrebbe una valenza generale, mirando ad assicurare la piena trasparenza di ogni pubblica procedura selettiva. La comunanza di interessi, la solidarietà e la frequentazione che distinguono tali rapporti sono considerate dal legislatore un ostacolo all’imparzialità della selezione concorsuale.
La parte privata costituita rileva che, sebbene non espressamente previsto come causa di esclusione, il rapporto di coniugio è già stato incluso dalla giurisprudenza amministrativa tra le situazioni genetiche dell’incompatibilità, sul rilievo del concetto di familiarità, che trova la massima intensità proprio fra i coniugi.
Peraltro, questa interpretazione estensiva del divieto può essere ritenuta incompatibile con la natura derogatoria attribuita alla disposizione. Al riguardo, è richiamata la sentenza n. 473 del 1993, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 62 del codice di procedura penale del 1930, nella parte in cui non prevedeva che giudici in rapporto di coniugio tra loro non potessero esercitare nello stesso procedimento funzioni anche separate o diverse. In questo caso, la norma è stata ritenuta eccezionale, e non interpretabile estensivamente, sul presupposto che essa costituisce un limite alla pienezza della funzione del giudice. Analogamente, nel caso in esame, la natura derogatoria della disposizione censurata andrebbe individuata nel limite che essa pone alla libertà di accesso ai concorsi e di ricerca di un lavoro.
3.1.– In via subordinata, la parte costituita propone una lettura della disposizione censurata che consentirebbe, in via interpretativa, di superare la questione di costituzionalità.
È richiamato, a questo riguardo, il contenuto immediatamente precettivo dell’art. 97 Cost., che detta la regola dell’accesso per concorso ai pubblici impieghi e che, allo stesso tempo, impone all’amministrazione di agire in modo imparziale.
Ad avviso della parte costituita, non sarebbe sostenibile neppure la natura eccezionale della disposizione censurata, poiché dall’art. 97 Cost. non si ricava una garanzia del diritto di partecipare ai concorsi per tutti coloro che abbiano le competenze richieste. L’esclusione dal concorso di coloro che si trovano in determinate relazioni con l’ente, ritenute tali da condizionarne la scelta, non costituirebbe affatto una deroga, ma sarebbe una diretta traduzione della ratio che ispira l’art. 97 Cost., affinché il concorso sia veramente pubblico e risponda ad un interesse generale, con esclusione di ogni privilegio particolare, quale può derivare dall’influenza esercitabile dai congiunti sugli organi che procedono alla selezione.
Sarebbe, dunque, possibile e doverosa un’interpretazione conforme all’art. 97 Cost., del quale la disposizione censurata costituirebbe attuazione. Essa potrebbe, infatti, essere interpretata estensivamente, in modo da comprendere anche il rapporto di coniugio fra le ipotesi ostative alla partecipazione ai concorsi per la chiamata dei professori universitari.
3.1.2.– D’altra parte, neppure qualificando la disposizione censurata come eccezionale o derogatoria vi sarebbe un divieto assoluto di darne un’interpretazione estensiva, laddove ciò non ne muti la ratio, né risulti ridotta l’area di applicabilità della norma derogata, ma sia individuata la reale portata della norma derogatrice (sono richiamate le sentenze n. 153 del 2017, n. 111 del 2016, n. 6 del 2014, n. 275 del 2005, n. 27 del 2001, n. 431 del 1997, n. 86 del 1985 e le ordinanze n. 103 del 2012, n. 203 del 2011, n. 144 del 2009 e n. 10 del 1999).
Sarebbe dunque ragionevole e coerente con la ratio dell’intervento legislativo riferire il divieto anche al rapporto di coniugio, come fonte della medesima incompatibilità che muove dal concetto di familiarità, la quale trova la massima intensità fra coniugi. La ratio che ha ispirato la legge n. 240 del 2010 sarebbe proprio quella di assicurare l’imparzialità del reclutamento e avanzamento di carriera nel settore universitario, in conformità al principio di uguaglianza e al canone di ragionevolezza, che ne costituisce il corollario.
4.– L’Università degli studi di Catania, parte appellante nel giudizio a quo, ha chiesto, in via principale, che la presente questione sia dichiarata inammissibile o comunque non fondata.
4.1.– Ad avviso della parte costituita, il legislatore avrebbe intenzionalmente omesso di ricomprendere i coniugi nella disposizione che limita l’accesso ai concorsi universitari. Il coniugio presenta, infatti, significativi profili differenziali, tali da giustificare un trattamento legislativo diversificato.
La comune residenza coniugale costituisce elemento fondamentale di garanzia dell’unità familiare, tale da distinguere la condizione dei coniugi da quella dei parenti e affini, per i quali non esiste alcuna esigenza di vita in comune. Pertanto, escludendo i coniugi dal divieto in esame, il legislatore avrebbe inteso tutelare, con una disciplina differenziata, situazioni diverse rispetto a quelle dei parenti e degli affini, in armonia con l’art. 3 Cost. ed il canone della ragionevolezza.
Il divieto previsto dalla disposizione censurata sarebbe volto a rafforzare l’imparzialità nel reclutamento dei docenti, in un ragionevole bilanciamento con l’interesse all’unità familiare. Viceversa, sarebbe discriminatorio ed irragionevole, oltre che in contrasto con gli artt. 2, 29, 30, 31 e 51 Cost., un divieto che costringesse uno dei due coniugi a scegliere tra il rapporto coniugale, l’unità familiare e le legittime aspettative professionali.
Si fa inoltre rilevare che in alcuni settori scientifico-disciplinari non esisterebbe neppure la possibilità di chiedere il trasferimento in altro dipartimento, essendo molte discipline presenti in un unico dipartimento. In questi casi, si porrebbe l’alternativa tra la rinuncia alle proprie aspirazioni professionali e la conclusione del matrimonio.
Nel bilanciamento tra le esigenze dell’uguaglianza e imparzialità che presidiano l’azione amministrativa e quelle dell’unità della famiglia dovrebbe essere attribuita prevalenza a queste ultime. D’altra parte, al fine di garantire l’imparzialità sarebbe stato sufficiente delimitare il rischio di conflitto d’interessi in concreto, anziché configurare una fattispecie di radicale incandidabilità. In molti altri ambiti, infatti, il pericolo di condizionamento è risolto attraverso gli istituti dell’astensione e della ricusazione. L’art. 51 del codice di procedura civile costituirebbe, infatti, un modello generale per risolvere in concreto possibili ipotesi di conflitto di interessi o di “condizionamento parentale”.
4.2.– In via subordinata, la difesa della parte appellante ha dedotto l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 51, 97, 29, 30 e 31 Cost., laddove essa sia interpretata nel senso di ricomprendere anche il coniugio tra le situazioni ostative della partecipazione alle procedure in esame.
Ciò sacrificherebbe ingiustamente le aspettative di vita familiare e di crescita professionale dei docenti che rientrano nell’ambito di applicazione del divieto. Per costoro, le scelte di vita della coppia e della famiglia ne uscirebbero perturbate, essendo costretti ad allontanarsi dal nucleo familiare, ovvero dal proprio percorso professionale. Il sacrificio imposto al coniuge sarebbe molto più gravoso di quello che può risentire un altro familiare, non tenuto al rispetto del vincolo di coabitazione.
Il divieto per i coniugi sarebbe, del resto, assolutamente irragionevole e sproporzionato, poiché lo stesso effetto potrebbe essere ottenuto con l’applicazione degli istituti dell’astensione e della ricusazione, che scongiurano il rischio di conflitto d’interessi in concreto, senza pregiudicare il necessario bilanciamento tra diritto al lavoro e tutela della famiglia.
5.– Con atto depositato il 15 maggio 2018, è intervenuto nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate.
In via preliminare, l’interveniente eccepisce l’inammissibilità della questione per l’omessa sperimentazione di un’esegesi adeguatrice del dato normativo, nel senso di ravvisare nel rapporto di coniugio una situazione genetica della medesima incompatibilità espressamente prevista dalla disposizione censurata.
Tale interpretazione conforme è già stata offerta dal Consiglio di Stato, che è pervenuto a questo risultato rilevando che un’incompatibilità riferita ad un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, si fonda sul possibile affievolimento del principio di eguaglianza e della conseguente par condicio dei candidati, che deriva dalla familiarità tra giudicante e giudicato, familiarità che è di massima intensità nel caso del coniuge, considerato anche il suo obbligo di coabitazione.
Il divieto in questione sarebbe volto a garantire il pieno rispetto dei principi di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione, assicurati anche dagli obblighi di astensione e ricusazione previsti dagli artt. 51 e 52 cod. proc. civ. e, per le commissioni di concorso, dall’art. 11 del d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487 (Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi). Inoltre, il medesimo divieto sarebbe volto a salvaguardare l’immagine, la reputazione e il decoro delle università, assicurando che le procedure di chiamata dei professori universitari siano imparziali ed obiettive non solo in concreto, ma, soprattutto, che appaiano tali anche in astratto.
6.– Con atto depositato l’8 febbraio 2019, fuori termine, è intervenuto Dario Francia, chiedendo che la questione in esame sia dichiarata inammissibile, o comunque non fondata.
6.1.– A sostegno della propria legittimazione a partecipare al giudizio costituzionale, l’interveniente deduce di avere chiesto, nell’ambito di un diverso giudizio amministrativo, l’annullamento di un provvedimento di diniego di un incarico di docenza universitaria, determinato dal rilievo del rapporto di coniugio con altro docente del medesimo dipartimento.
Considerato in diritto
1.– Il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera b), ultimo periodo, della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario), nella parte in cui non prevede – tra le condizioni che impediscono la partecipazione ai procedimenti per la chiamata dei professori universitari – il rapporto di coniugio con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata, ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo.
Ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata violerebbe, in primo luogo, l’art. 3 Cost., per l’irragionevolezza insita nella mancata previsione del coniugio tra le situazioni che precludono la partecipazione alle procedure selettive, a fronte della espressa esclusione dei soggetti legati dal rapporto di affinità, il quale presuppone il rapporto di coniugio.
Sarebbe violato anche l’art. 97 Cost., per contrasto con il principio di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa.
2.– In via preliminare, va dichiarata l’inammissibilità dell’intervento ad opponendum di Dario Francia.
L’atto di intervento è stato depositato l’8 febbraio 2019, oltre il termine di 20 giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’atto introduttivo del giudizio, previsto dall’art. 4, comma 4, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, giacché la pubblicazione della suddetta ordinanza del Consiglio di giustizia amministrativa è avvenuta nella Gazzetta Ufficiale n. 17 del 26 aprile 2018.
Secondo il costante orientamento di questa Corte, il termine previsto dal richiamato art. 4, comma 4, deve ritenersi perentorio e non ordinatorio, con la conseguenza che l’intervento avvenuto dopo la sua scadenza è inammissibile (ex plurimis, sentenze n. 99 del 2018, n. 303 del 2010, n. 263 e n. 215 del 2009).
3.– Non sono ammissibili le deduzioni svolte dall’Università degli studi di Catania, in ordine alla denunciata violazione degli artt. 2, 4, 29, 30, 31 e 51 Cost., in quanto volte ad estendere il thema decidendum definito dall’ordinanza di rimessione, ponendo in dubbio la legittimità costituzionale della disposizione in esame, ove interpretata nel senso di includere il coniugio tra le cause ostative.
La giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nell’ordinanza di rinvio; non possono, pertanto, essere presi in considerazione, oltre i limiti in questa fissati, ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto della stessa ordinanza (ex plurimis, sentenze n. 248, n. 120, n. 27, n. 4 del 2018, n. 251, n. 250, n. 35 e n. 29 del 2017).
4.– Non è fondata l’eccezione di inammissibilità della questione formulata dall’Avvocatura generale dello Stato per l’omessa sperimentazione di un’interpretazione conforme ai principi costituzionali.
Infatti, nel censurare l’irragionevolezza della mancata previsione del rapporto di coniugio ai fini della partecipazione alle procedure di chiamata, il giudice a quo dà atto dell’orientamento giurisprudenziale, secondo il quale la disposizione censurata deve essere interpretata in modo costituzionalmente orientato, nel senso che si trovano in posizione di incompatibilità anche coloro che sono legati da rapporto di coniugio con uno dei soggetti indicati nello stesso art. 18.
Tale percorso ermeneutico, tuttavia, viene consapevolmente scartato dal rimettente, il quale ritiene che alla manifesta irragionevolezza della lacuna normativa non si possa ovviare in via interpretativa. A ciò osterebbe sia la tassatività della previsione dei casi di esclusione, in quanto limitativa della libertà di accesso ai concorsi pubblici, sia il complessivo ordinamento delle procedure concorsuali, secondo il quale l’esclusione fondata su presumibili conflitti di interessi dovrebbe costituire l’extrema ratio, ove non siano possibili altri strumenti per evitare il conflitto di interessi.
Tali considerazioni del rimettente sono sufficienti ad escludere l’inammissibilità della questione per non avere sperimentato l’interpretazione conforme, che risulta valutata e consapevolmente esclusa dal giudice a quo.
Al riguardo, la giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che il fatto che il giudice a quo abbia consapevolmente reputato che il tenore letterale della disposizione censurata imponga un’interpretazione e ne impedisca altre, eventualmente conformi a Costituzione, non è ragione di inammissibilità, dato che «la verifica dell’esistenza e della legittimità di interpretazioni alternative, che il rimettente abbia ritenuto di non poter fare proprie, è questione che attiene al merito del giudizio e non alla sua ammissibilità» (ex plurimis, sentenze n. 240 del 2018, n. 194, n. 69, n. 53, n. 42 del 2017, n. 95 del 2016, n. 221 del 2015).
Nel caso in esame, non osta, quindi, all’ammissibilità delle questioni la possibilità di interpretazioni alternative, come prospettate da alcune pronunce dei giudici amministrativi e da alcune parti del giudizio.
5.– Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera b), ultimo periodo, della legge n. 240 del 2010, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., non sono fondate.
5.1.– La disposizione censurata si inserisce all’interno della disciplina delle procedure di chiamata dei professori universitari, attraverso le quali gli atenei provvedono alla copertura dei posti di professore di prima e di seconda fascia. Si tratta di procedure di valutazione comparativa, che presuppongono il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale e possiedono le caratteristiche del concorso, finalizzato alla scelta del miglior candidato in relazione al posto da ricoprire.
In particolare, all’art. 18, primo comma, lettera b), ultimo periodo, sono elencate le condizioni che precludono la partecipazione ai procedimenti di chiamata. Sono espressamente esclusi «coloro che abbiano un grado di parentela o affinità fino al quarto grado compreso con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione».
Nella prospettazione del rimettente, questo elenco evidenzierebbe una lacuna. Non è contemplato, infatti, il coniuge di chi sia già inserito nel dipartimento coinvolto nelle procedure indicate. È viceversa previsto, quale situazione ostativa, il rapporto di affinità, il quale presuppone il coniugio. Sotto il profilo testuale, quindi, il coniugio non ricade nel divieto in esame e sull’irragionevolezza di questa omissione si appuntano le censure del giudice a quo.
5.2.– Nell’ambito della disciplina delle modalità di accesso e di avanzamento nella carriera accademica, le preclusioni introdotte dalla disposizione censurata sono volte a garantire l’imparzialità delle procedure. Attraverso la previsione di limitazioni riferite alla situazione soggettiva dei possibili candidati, la legge n. 240 del 2010 ha inteso rafforzare, in termini assoluti e preclusivi, le garanzie di imparzialità della scelta dell’amministrazione. Sino all’introduzione della disciplina in esame, ad evitare il pericolo di condizionamenti nello svolgimento della procedura era valso, invece, l’obbligo di astensione del soggetto che si trovasse in situazione di incompatibilità (art. 51 del codice di procedura civile, richiamato dall’art. 11 del d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, «Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi»). Nelle cause di incompatibilità, e nei modi di farle valere, di cui all’art. 51 cod. proc. civ., la giurisprudenza amministrativa ha individuato un modello generale, estensibile a tutti i campi dell’azione amministrativa, quale applicazione dell’obbligo costituzionale d’imparzialità nelle procedure di accesso ad impieghi pubblici.
Nell’intervento legislativo in esame, che pure ha introdotto procedure selettive, non solo nazionali, ma anche locali, volte a meglio tutelare l’imparzialità della selezione, le previste situazioni di rigida incandidabilità sono espressione di un bilanciamento fra il diritto di ogni cittadino a partecipare ai concorsi universitari e le ragioni dell’imparzialità, che è tutto improntato alla prevalenza di tali ragioni. Che essa non includa il coniugio come motivo di incandidabilità degli aspiranti alla chiamata non può ritenersi irragionevole. Il coniugio richiede, infatti, un diverso bilanciamento. Esso pone a fronte dell’imparzialità non soltanto il diritto a partecipare ai concorsi, ma anche le molteplici ragioni dell’unità familiare, esse stesse costituzionalmente tutelate.
Sono infatti fuor di dubbio le peculiarità del vincolo matrimoniale rispetto a tutte le altre situazioni personali contemplate dalla disposizione censurata. Il matrimonio scaturisce di frequente da una relazione che, nell’università come altrove, si forma nell’ambiente di lavoro dove si radicano le prospettive future di entrambe le parti. Si caratterizza per l’elemento volontaristico, viceversa mancante negli altri rapporti considerati, e comporta convivenza, responsabilità e doveri di cura reciproca e dei figli, così come previsto dal codice civile.
La considerazione di tali elementi differenziali vale a giustificare, su un piano di ragionevolezza, il trattamento riservato dalla disposizione censurata al vincolo derivante dal matrimonio. Se, da un lato, la comune residenza coniugale costituisce elemento di garanzia dell’unità familiare, dall’altro lato, la presenza dell’elemento volontaristico può rendere eludibile e, quindi, priva di effetti, la eventuale previsione normativa dell’incandidabilità del coniuge, frustrandone così le stesse finalità.
Appare dunque più aderente alle esigenze qui in gioco un bilanciamento che affidi la finalità di garantire l’imparzialità, la trasparenza e la parità di trattamento nelle procedure selettive a meccanismi meno gravosi, attinenti ai componenti degli organi cui è rimessa la valutazione dei candidati. Come già osservato, nell’art. 51 cod. proc. civ. è stata individuata l’espressione dell’obbligo costituzionale d’imparzialità nelle procedure di accesso all’impiego pubblico. E in tale articolo, là dove lo si è voluto, il coniugio è esplicitamente regolato, accanto al rapporto di parentela e di affinità fino al quarto grado.
È inoltre significativo che, in altri sistemi giuridici vicini al nostro, da un lato, vengono promossi percorsi accademici che favoriscono l’unità familiare, e dall’altro lato, che qui maggiormente rileva, l’esigenza di preservare l’accesso alla carriera accademica da possibili condizionamenti è soddisfatta attraverso meccanismi diversi dalla drastica previsione dell’incandidabilità.
L’attuale regolazione delle situazioni che precludono la partecipazione alle procedure di chiamata costituisce, dunque, il risultato di un bilanciamento non irragionevole tra la pluralità degli interessi in gioco. La disposizione censurata non si pone, dunque, in contrasto con il parametro di cui all’art. 3 Cost., né lede i principi di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibile l’intervento di Dario Francia;
2) dichiara non fondate la questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera b), ultimo periodo, della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario), sollevate dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 marzo 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Giuliano AMATO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 9 aprile 2019.