SENTENZA
N. 99
ANNO
2018
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME
DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI
Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
-- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto
Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco
VIGANÒ ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art.
1 del decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3 (Misure urgenti per il sistema
bancario e gli investimenti), convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo
2015, n. 33, promosso dal Consiglio di Stato, nel procedimento vertente tra
Marco Vitale e altri e la Banca d’Italia e altri, con ordinanza
del 15 dicembre 2016, iscritta al n. 33 del registro ordinanze 2017 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie
speciale, dell’anno 2017.
Visti gli atti di
costituzione di Marco Vitale e altri, della Banca d’Italia, dell’UBI Banca spa
e altra, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri e dell’Amber Capital UK LLP e altra, quest’ultimo fuori termine;
udito nella udienza
pubblica del 20 marzo 2018 il Giudice relatore Daria de Pretis;
uditi gli avvocati
Francesco Saverio Marini e Ulisse Corea per Marco Vitale e altri, Marino
Ottavio Perassi per la Banca d’Italia, Giuseppe de Vergottini e Giuseppe Lombardi per l’UBI Banca spa e altra,
Pasquale Cardellicchio per l’Amber Capital UK LLP e
altra e l’avvocato dello Stato Gianna Maria De Socio per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto
in fatto
1.– Con ordinanza del 15 dicembre 2016, il
Consiglio di Stato ha sollevato questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 1 del decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3 (Misure urgenti per il
sistema bancario e gli investimenti), convertito, con modificazioni, nella
legge 24 marzo 2015, n. 33.
Le questioni sono sorte nella fase cautelare del
giudizio nel quale sono stati riuniti, per connessione oggettiva e parzialmente
soggettiva, gli appelli proposti avverso tre sentenze pronunciate dal Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio, aventi ad oggetto gli atti emessi dalla
Banca d’Italia in seguito alle modificazioni apportate dall’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 agli artt. 28 e 29 del decreto
legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante «Testo unico delle leggi in
materia bancaria e creditizia» (t.u. bancario).
Il TAR Lazio è stato investito delle
controversie con tre separati ricorsi: due presentati da soci di varie banche
popolari (Banca Popolare di Sondrio, Veneto Banca, Banco Popolare, Banca
Popolare di Milano, UBI Banca) contro la Banca d’Italia, la Presidenza del
Consiglio dei ministri e il Ministero dell’economia e delle finanze, nonché nei
confronti delle banche partecipate dai ricorrenti; il terzo presentato da due
associazioni di consumatori (ADUSBEF e FEDERCONSUMATORI) e da alcuni soci della
Banca Popolare di Milano, anche in questo caso contro la Banca d’Italia, la
Presidenza del Consiglio dei ministri e il Ministero dell’economia e delle
finanze, nonché nei confronti di Veneto Banca, Banca Popolare di Venezia, UBI
Banca, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio e Banca Popolare di Vicenza. In
tutti i giudizi è intervenuta un’altra associazione di consumatori (CODACONS).
Oggetto comune delle impugnazioni è il
provvedimento della Banca d’Italia denominato «9° aggiornamento del 9 giugno
2015», pubblicato l’11 giugno 2015 nel «Bollettino di Vigilanza n. 6, giugno
2015», che apporta modifiche alla circolare n. 285 del 17 dicembre 2013
(Disposizioni di vigilanza per le banche), introducendo nella Parte Terza di
tale circolare il Capitolo 4, intitolato «Banche in forma cooperativa». Esso
definisce i criteri e le modalità di determinazione del valore dell’attivo –
distinguendo la fase di prima applicazione da quella a regime – nonché i limiti
al rimborso degli strumenti di capitale. Sono impugnati, altresì, gli atti
preparatori di tale provvedimento (il «Documento per la consultazione»
intitolato «Disposizioni di vigilanza – Banche popolari», pubblicato sul sito
web della Banca d’Italia il 9 aprile 2015, nonché il «Resoconto della
consultazione» e la «Relazione sull’analisi d’impatto» della regolamentazione,
pubblicati sullo stesso sito web contestualmente al «9° aggiornamento del 9
giugno 2015»).
Il provvedimento è impugnato – unitamente agli
atti preparatori – sia per illegittimità derivata dalla asserita illegittimità
costituzionale delle disposizioni legislative che ne costituiscono la base
normativa, sia per vizi propri, relativi a parti diverse da quelle che
sarebbero colpite da illegittimità derivata.
Il TAR Lazio ha escluso la legittimazione al
ricorso delle due associazioni di consumatori, ha escluso la legittimazione
all’intervento dell’altra associazione e ha rigettato nel merito i ricorsi
proposti dai soci delle banche, ritenendo manifestamente infondate le eccezioni
di illegittimità costituzionale da essi sollevate.
Adìto per la riforma, con
preliminare istanza di sospensione, delle sentenze di primo grado, il Consiglio
di Stato ha riunito gli appelli e sospeso interinalmente l’efficacia del
provvedimento impugnato, limitatamente ad alcune sue parti, sino alla camera di
consiglio successiva alla restituzione degli atti da parte di questa Corte. Lo
stesso giudice ha quindi sollevato, con successiva ordinanza, le questioni
oggetto del presente giudizio costituzionale.
1.1.– Sulla rilevanza, il giudice a quo osserva
che l’applicazione della disposizione censurata, costituente la base normativa
del provvedimento impugnato, è pregiudiziale alla decisione definitiva
dell’incidente cautelare, considerato il carattere provvisorio e temporaneo
della sospensione, concessa fino alla ripresa del giudizio dopo l’incidente di
legittimità costituzionale, e considerata anche la possibilità, prevista dagli
artt. 60 e 98, comma 2, dell’Allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010,
n. 104, recante «Attuazione dell’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69
recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo» (Codice
del processo amministrativo), di pronunciare sentenza nel merito in sede di
decisione definitiva della fase cautelare.
Secondo il rimettente, la rilevanza delle
questioni sarebbe giustificata anche dal periculum in
mora che incombe sui soci delle banche popolari.
Ove non fossero state ancora assunte le
decisioni imposte alle banche popolari dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 3 del 2015 (riduzione dell’attivo al di sotto della
soglia di otto miliardi di euro, trasformazione in società per azioni o
liquidazione), l’esclusione del rimborso delle azioni arrecherebbe un
pregiudizio attuale e concreto alla volontà negoziale del socio da esprimere
con il voto nell’assemblea; inoltre, la disciplina censurata creerebbe, in seno
all’assemblea chiamata a deliberare sulla trasformazione, un conflitto di
interessi tra i soci che preferiscono la liquidazione della quota e quelli
intenzionati a mantenere la partecipazione, la cui risoluzione sembrerebbe
tradursi in un immediato pregiudizio dei primi a favore dei secondi, che
potrebbero "finanziare” la prosecuzione dell’impresa con risorse provenienti
anche dai soci intenzionati a recedere.
Nel caso di trasformazione già deliberata,
sarebbe comunque pregiudicata la libertà negoziale del socio, la cui volontà di
recedere risulterebbe condizionata dal concreto pericolo di non ottenere il
rimborso della quota.
1.2.– Ad avviso del giudice a quo, l’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 violerebbe in primo luogo l’art. 77, secondo comma,
della Costituzione, «in relazione alla evidente carenza dei presupposti di
straordinaria necessità e urgenza legittimanti il ricorso allo strumento
decretale d’urgenza (ove non ritenuta sanata, seppure soltanto ex nunc, dalla legge di conversione)».
La questione è posta con l’uso della formula
«ovvero, secondo altra prospettazione dogmatica», anche nei riguardi «della
relativa legge di conversione n. 33/2015, per avere quest’ultima convertito in
legge il predetto decreto pur nell’evidente difetto dei prefati presupposti
essenziali».
Dopo avere descritto l’evoluzione della
giurisprudenza costituzionale nella materia, il rimettente afferma di preferire
la tesi secondo cui la conversione del decreto-legge ne sanerebbe con effetto
ex nunc l’illegittimità per mancanza dei presupposti,
osservando che, ove si aderisse a tale orientamento, la questione non sarebbe
rilevante, in quanto i «provvedimenti impugnati si collocano in un ambito
temporale successivo alla conversione del decreto n. 3 del 2015».
Nondimeno il giudice a quo prende atto del
prevalente orientamento difforme della Corte costituzionale, secondo cui la
conversione non sanerebbe i vizi di un decreto-legge emesso in manifesta
carenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza, e solleva la
questione rilevando che il d.l. n. 3 del 2015, come
convertito, introdurrebbe norme in gran parte non auto-applicative e
richiedenti ulteriori misure attuative, in contrasto con la previsione generale
dell’art. 15, comma 3, della legge 23 agosto, n. 400 (Disciplina dell’attività
di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri).
Neppure la relazione illustrativa varrebbe a
fugare i dubbi sull’evidente mancanza dei presupposti ex art. 77, secondo
comma, Cost. Essa giustificherebbe l’urgenza dell’intervento riformatore delle
banche popolari con i rischi, segnalati dal Fondo monetario internazionale,
dalla Commissione europea e dalla Banca d’Italia, di concentrazione di potere
in favore di gruppi di soci organizzati, di autoreferenzialità della dirigenza
e di difficoltà di reperire nuovo capitale sul mercato, ma tali rischi non
sarebbero attuali e concreti bensì solo potenziali, non trovando essi
«riscontro concreto in circostanze straordinarie» e gravi, esistenti «all’atto
dell’emanazione del decreto-legge».
L’urgenza sarebbe ulteriormente smentita dalla
natura dell’intervento legislativo, che realizzerebbe una riforma organica e di
sistema delle banche popolari sulla quale era in corso da tempo un ampio
dibattito in sede dottrinale e politica.
1.3.– In secondo luogo, il rimettente dubita
della legittimità dell’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015
«nella parte in cui prevede che, disposta dall’assemblea della banca popolare
la trasformazione in società per azioni secondo quanto previsto dal nuovo testo
dell’art. 29, comma 2-ter, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385,
il diritto al rimborso delle azioni al socio che a fronte di tale
trasformazione eserciti il recesso possa essere limitato (anche con la
possibilità, quindi, di escluderlo tout court), e non, invece, soltanto
differito entro limiti temporali predeterminati dalla legge e con previsione
legale di un interesse corrispettivo» per il ritardo nel rimborso.
Sotto questo profilo, la norma violerebbe gli artt. 41, 42 e 117, primo comma,
Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
Dopo avere richiamato la giurisprudenza della
Corte di Strasburgo sulla nozione di «beni» ex art. 1 del protocollo
addizionale alla CEDU, che comprende le partecipazioni societarie e i crediti,
come quelli al rimborso delle azioni in caso di recesso, il rimettente osserva
che il risultato finale della duplice previsione normativa – dell’obbligo di
trasformazione delle banche popolari da società cooperative in società per
azioni nel caso di superamento della soglia di otto miliardi di euro di attivo
(ove non si opti per la riduzione dell’attivo o per la liquidazione della
società) e della possibilità di escludere in tutto o in parte o di rinviare
indefinitamente e senza un «corrispettivo compensatorio» il diritto del socio
recedente al rimborso delle azioni – finirebbe «per tradursi in una sorta di
esproprio senza indennizzo (o con indennizzo ingiustificatamente ridotto) della
quota societaria».
1.3.1.– Il legislatore non avrebbe compiuto un
corretto bilanciamento, ispirato al «principio del minimo mezzo», tra gli
opposti interessi di rilievo costituzionale in gioco, da identificare, da un
lato, nel diritto al rispetto dei propri «beni» correlato alla tutela della
proprietà nell’ampia accezione accolta dalla Corte EDU e, dall’altro,
nell’interesse generale alla sana e prudente gestione dell’impresa bancaria,
collegato alla tutela del credito e del risparmio.
Imponendo la trasformazione della banca (sia
pure con la previsione di obblighi alternativi), la norma censurata, per un
verso, consentirebbe di privare il socio di una banca popolare di uno status
che garantisce specifici diritti "amministrativi” come quello al voto
"capitario” nelle assemblee, modificando in senso peggiorativo il contenuto dei
poteri inerenti alla sua partecipazione sociale, e per altro verso non
assicurerebbe il rimborso delle azioni del socio che ritenesse di non accettare
lo status sensibilmente diverso conseguente alla trasformazione in società per
azioni, producendo così un effetto espropriativo senza indennizzo.
Pur dando atto che in materia sussiste la
preminente esigenza di tutelare l’interesse pubblico, di rilievo costituzionale
e comunitario, enunciato dalla norma con il richiamo alla necessità di «[…]
assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità
primaria della banca» (art. 1, comma 1, lettera a, del d.l.
n. 3 del 2015, come convertito, che aggiunge il comma 2-ter all’art. 28 del t.u. bancario), il giudice a quo lamenta che il
contrapposto interesse del socio recedente al rimborso delle azioni sarebbe
irragionevolmente sacrificato al di là dei limiti entro i quali tale sacrificio
appare strettamente necessario per assicurare un’adeguata tutela dell’interesse
pubblico.
I sospetti di irragionevolezza della norma
censurata per violazione del «principio del minimo mezzo» nel bilanciamento
degli interessi in gioco sarebbero confermati dal fatto che il diritto al
rimborso è sacrificato dal legislatore anche se la banca è costantemente
incapace di ripristinare il patrimonio di qualità primaria senza ricorrere alle
quote non rimborsate e continua a operare nel mercato solo grazie al capitale
conferito dagli ex soci.
L’esigenza di assicurare la sana e prudente
gestione dell’attività bancaria potrebbe giustificare non già la «perdita
definitiva» del diritto al rimborso, consentita dalla norma censurata, bensì
soltanto il «suo differimento nel tempo (con la previsione di un termine
massimo prestabilito, rimessa alla discrezionalità del legislatore) e salva la
corresponsione di un interesse corrispettivo (parametrabile
al tasso di riferimento della BCE […] attualmente prossimo allo 0, purché
comunque positivo)» diretto a evitare che il pur minore sacrificio imposto al
socio si risolva comunque in una forma di espropriazione senza indennizzo.
1.3.2.– L’esclusione ex lege
del diritto al rimborso non troverebbe «fondamento e copertura» neppure nel
diritto dell’Unione europea in tema di requisiti prudenziali per gli enti
creditizi.
Secondo il rimettente, la norma di settore che
si occupa dei limiti al rimborso degli «strumenti di capitale» emessi dagli
enti creditizi sarebbe contenuta nell’art. 10, paragrafo 2, del regolamento
delegato (UE) n. 241/2014 della Commissione del 7 gennaio 2014, che integra il
regolamento (UE) n. 575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto
riguarda le norme tecniche di regolamentazione sui requisiti di fondi propri
per gli enti. Tale disposizione, nello stabilire che «[l]a capacità dell’ente
di limitare il rimborso conformemente alle disposizioni che regolano gli
strumenti di capitale, di cui all’articolo 29, paragrafo 2, lettera b), e
all’articolo 78, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 575/2013, riguarda sia il
diritto di rinviare il rimborso che il diritto di limitare l’importo
rimborsabile […]», non imporrebbe l’obbligo incondizionato di escludere il
diritto al rimborso e consentirebbe di optare tra il rinvio e la limitazione
dell’importo rimborsabile. A fronte di più opzioni «comunitariamente
consentite», il legislatore nazionale avrebbe avuto dunque l’obbligo di
scegliere quella che meglio assicura il rispetto dei principi costituzionali,
da individuare, come visto, nel differimento del rimborso «ad un tempo dato»
con la corresponsione di un interesse corrispettivo per il ritardo.
1.4.– Infine, il rimettente dubita della
legittimità della norma censurata «nella parte in cui, comunque, attribuisce
alla Banca d’Italia il potere di disciplinare le modalità d[ella] esclusione»
del diritto al rimborso delle azioni in caso di recesso a seguito di
trasformazione della società «anche in deroga a norme di legge».
A suo avviso, in quella parte l’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 si pone in contrasto con gli artt. 1, 3, 23, 42, 95 e 97 Cost.. Il dubbio
di costituzionalità investe, in primo luogo, l’attribuzione stessa di un potere
di delegificazione all’Istituto di vigilanza, ovvero a un soggetto estraneo al
circuito politico dei rapporti Parlamento-Governo, e dunque politicamente irresponsabile.
Difetterebbero, infatti, le ragioni tradizionalmente invocate a sostegno del
potere regolamentare delle Autorità indipendenti, incidendo il potere normativo
in esame su materie non connotate da particolare «tecnicità o settorialità».
In secondo luogo, si tratterebbe di un potere di
delegificazione conferito «in bianco», in quanto il legislatore non avrebbe
dettato alcuna norma generale regolatrice della materia e neppure avrebbe
individuato le norme primarie di cui sarebbe consentita l’abrogazione ad opera
della fonte secondaria.
Il sospetto di incostituzionalità sarebbe
rafforzato dalla considerazione che tale «potere regolamentare atipico con
effetto delegificante» è stato attribuito in materie coperte da riserva di
legge. L’esclusione del diritto al rimborso si risolverebbe in una prestazione
patrimoniale imposta al socio recedente, rispetto alla quale la riserva di
legge prevista dall’art. 23 Cost. dovrebbe precludere una delegificazione
regolamentare di così ampia portata. L’interferenza tra l’esclusione del
diritto al rimborso e la tutela della proprietà privata consentirebbe di
richiamare anche la riserva di legge prevista dall’articolo 42 Cost., e
dall’art. 1, paragrafo 1, del protocollo addizionale alla CEDU.
2.– Con atto depositato il 4 aprile 2017 si sono
costituiti in giudizio alcuni soci della Banca Popolare di Sondrio e della
Banca Popolare di Milano, parti del processo principale, concludendo per
l’accoglimento delle questioni, previo eventuale rinvio pregiudiziale
interpretativo alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art.
267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato
dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla
legge 2 agosto 2008, n. 130.
2.1.– Le parti richiamano quanto esposto dal
rimettente sul meccanismo legislativo che pone il socio di fronte
all’alternativa se accettare uno status "ridimensionato” per effetto della
deliberata trasformazione in società per azioni, o recedere, esponendosi al rischio
concreto di perdere in tutto o in parte la quota versata, e ne sottolineano il
contrasto con l’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU (applicabile anche
alle partecipazioni sociali e ai crediti), nonché con gli artt. 41 e 42 Cost.,
in quanto la limitazione del diritto al rimborso delle azioni in caso di
recesso si tradurrebbe in un’espropriazione senza indennizzo.
I limiti e le garanzie fissate dall’art. 1 del
protocollo addizionale non sarebbero rispettati, in primo luogo, perché non
sussisterebbe una base legale sufficiente a soddisfare il principio di legalità
(e la riserva di legge ex art. 42 Cost.), in quanto il radicale mutamento
normativo introdotto dalla disposizione censurata, che oltretutto assegna alla
Banca d’Italia la disciplina della limitazione del diritto al rimborso senza
indicare specifici criteri, non poteva essere previsto nei suoi deteriori
effetti dai soci delle banche popolari, che costituiscono da tempo un modello
societario distintivo del nostro ordinamento, connotato da istituti tipici come
il voto capitario, il limite al possesso azionario e il numero minimo di soci.
In secondo luogo, neppure sussisterebbe una
causa di pubblica utilità idonea a giustificare la privazione dei «beni» dei
soci, tale da realizzare, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, un giusto
equilibrio tra le esigenze di interesse generale e quelle individuali,
garantendo un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e
lo scopo perseguito dalle misure restrittive della proprietà.
La causa di pubblica utilità non sarebbe
individuabile nella necessità di dare attuazione alle norme prudenziali europee
– contenute nel regolamento (UE) n. 575/2013 del Parlamento europeo e del
Consiglio del 26 giugno 2013, relativo ai requisiti prudenziali per gli enti
creditizi e le imprese di investimento e che modifica il regolamento (UE) n.
648/2012, e nel regolamento delegato (UE) n. 241/2014 – sulla limitazione al
rimborso delle quote del socio in caso di recesso ai fini della computabilità
degli strumenti di capitale delle banche cooperative nel «capitale primario di
classe 1» (cosiddetto CET1). Oltre ad avere natura auto-applicativa – ciò che
escluderebbe (e anzi renderebbe incompatibile) un intervento normativo interno
di attuazione – i citati regolamenti detterebbero una disciplina di carattere
generale sui requisiti del capitale primario e sulle possibili limitazioni al
diritto di rimborso in caso di recesso, applicabile a tutte le banche e
destinata a regolare le situazioni "ordinarie”, ben diverse dall’ipotesi della
trasformazione delle banche popolari che superino una certa soglia di attivo,
trasformazione non prevista né tantomeno imposta dalle fonti sovranazionali.
Queste sarebbero dunque impropriamente evocate per dare fondamento a una riforma
di sistema tradottasi nella violazione dei diritti fondamentali tutelati dalla
CEDU.
In ogni caso, come osserva il giudice a quo,
l’intervento normativo censurato violerebbe i principi di proporzionalità e
ragionevolezza nel bilanciamento tra gli opposti interessi in gioco. Né l’art.
10 del regolamento delegato (UE) n. 241/2014 imporrebbe di limitare il diritto
al rimborso, consentendo al legislatore di scegliere tra limitazione e
differimento temporale.
Analogo ragionamento varrebbe in riferimento
alla violazione dell’art. 41 Cost., in quanto la limitazione del diritto al
rimborso in caso di recesso conseguente alla trasformazione delle banche
popolari, senza limiti di tempo predeterminati dalla legge e senza la
previsione di un indennizzo, determinerebbe una compressione ingiustificata e
comunque non proporzionale della libertà di iniziativa economica e
imprenditoriale del socio.
2.2.– Quanto al dubbio di costituzionalità
evocato dal Consiglio di Stato in relazione agli artt. 1, 3, 23, 42, 95 e 97 Cost., le parti
del processo principale reiterano gli argomenti utilizzati dal giudice
rimettente, secondo cui: la norma censurata attribuirebbe un potere di
delegificazione a un soggetto diverso dal Governo ed estraneo al circuito
politico dei rapporti Parlamento-Governo; tale attribuzione non potrebbe
trovare giustificazione nell’elevato tecnicismo della materia; il potere di
delegificazione presenterebbe latitudine estrema, senza che neppure siano
previamente individuate le norme primarie suscettibili di abrogazione o deroga;
tali considerazioni risulterebbero avvalorate dall’incidenza della predetta delegificazione
su ambiti coperti da riserva di legge.
Viene rimarcato che la fonte legale della
limitazione al rimborso non potrebbe rinvenirsi nei menzionati regolamenti
sovranazionali. Quello che si contesta, infatti, è la facoltà concessa alla
banca popolare di limitare il rimborso al fine di garantire le perdite con il
proprio patrimonio, anche in caso di recesso giustificato dalla trasformazione
della cooperativa in società per azioni, ipotesi quest’ultima che non sarebbe
contemplata dalle fonti europee.
2.3.– In subordine, qualora questa Corte non
condividesse le considerazioni svolte sull’inidoneità dell’art. 10 del
regolamento delegato (UE) n. 241/2014 a escludere l’effetto espropriativo della
norma censurata e a garantire il rispetto della riserva di legge e del
principio di legalità ex artt. 23, 42 e 117, primo comma, Cost., in relazione
all’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, le parti chiedono che questa
Corte proponga alla Corte di giustizia UE una domanda di pronuncia
pregiudiziale interpretativa ex art. 267 del TFUE, diretta a verificare se il
citato art. 10, «nella parte in cui prevede alternativamente la possibilità sia
di rinviare il diritto al rimborso sia di escluderlo (in tutto o in parte),
osti a una normativa nazionale, come quella rilevante nel presente giudizio,
che prevede la possibilità di limitare del tutto, e non soltanto di differire
entro limiti predeterminati dalla legge e a fronte della corresponsione di un
interesse corrispettivo, il diritto del rimborso in caso di recesso, laddove
esso sia esercitato in conseguenza della trasformazione della Banca popolare in
S.p.A., parimenti prevista dall’art. 1, del d.l.
3/2015, come convertito (ipotesi, questa, non prevista espressamente dal
Regolamento)».
Si tratterebbe di una questione interpretativa
rilevante, oltre che proponibile in un giudizio costituzionale incidentale, in
quanto l’interpretazione richiesta alla Corte di giustizia consentirebbe di
definire l’esatto significato della normativa comunitaria e, di conseguenza, la
portata e i «limiti di copertura comunitaria» della norma censurata.
2.4.– Infine, sarebbe fondata anche la censura
relativa alla violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost.
Le parti, pur prendendo atto che la sentenza n. 287 del
2016 ha giudicato non fondata un’analoga questione sollevata in via
principale, auspicano un "ripensamento” di questa Corte alla luce delle
argomentazioni svolte nell’ordinanza di rimessione e dell’ulteriore rilievo
concernente la diversità e l’eterogeneità degli ambiti materiali sui quali è
intervenuto il d.l. n. 3 del 2015, al cui interno si
potrebbero rinvenire norme dal più disparato contenuto.
3.– Con atto depositato il 3 aprile 2017 si è
costituita in giudizio la Banca d’Italia, parte del giudizio a quo, che ha
concluso per la manifesta inammissibilità o, in subordine, per la manifesta
infondatezza delle questioni.
3.1.– I profili di contrasto con l’art. 77,
secondo comma, Cost. sarebbero superati dalla sentenza n. 287 del
2016 e comunque andrebbero esclusi.
Le previsioni del d.l.
n. 3 del 2015, come convertito, sui limiti dimensionali delle banche popolari,
sulla disciplina delle trasformazioni e sull’attribuzione alla Banca d’Italia
del potere di adottare disposizioni di attuazione dell’art. 29 del t.u. bancario sarebbero immediatamente applicabili, in
quanto il regime transitorio introdotto dall’art. 2 dello stesso decreto-legge
sarebbe diretto solo a consentire alle banche già autorizzate di adeguarsi al
nuovo limite dimensionale.
Per altro verso, il requisito dell’urgenza non
sembra contraddetto dalla complessità e laboriosità dell’avviato processo di
riordino del settore, il cui perfezionamento richiederebbe di fatto un certo
lasso di tempo, nel rispetto delle procedure decisionali delle società
coinvolte.
La relazione illustrativa, inoltre, darebbe atto
dell’inadeguatezza attuale e concreta del modello della banca popolare rispetto
al nuovo assetto regolamentare e ai nuovi strumenti della vigilanza nonché
rispetto alla disciplina europea delle crisi bancarie, assolvendo così
all’onere di dare conto dei presupposti della decretazione d’urgenza. Né il
Governo sarebbe tenuto ai più specifici oneri di allegazione prospettati
nell’ordinanza di rimessione.
Neppure sarebbe stata realizzata con
decreto-legge una riforma sistematica e ordinamentale, in quanto l’intervento
riguarderebbe limitati profili di un tipo di società di capitali operante in
uno specifico settore economico.
La questione, pertanto, dovrebbe essere
dichiarata manifestamente inammissibile, in quanto sostanzialmente identica ad
altra già decisa da questa Corte, o manifestamente infondata.
3.2.– Con riguardo alla violazione degli artt.
41, 42 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del protocollo
addizionale alla CEDU, la Banca d’Italia premette in via generale che «in base
alla disciplina codicistica delle società cooperative, applicabile alle banche
popolari in forza del rinvio operato dall’art. 2519, primo comma, cod. civ, in
caso di recesso di un socio, anche nell’ipotesi di trasformazione, lo stesso ha
diritto al rimborso delle azioni», e che, «[d]i contro, la disciplina europea
in tema di vigilanza prudenziale delle banche prescrive che gli intermediari
con forma di società cooperativa devono avere la possibilità di limitare il
rimborso delle azioni affinché queste siano computate tra i "fondi propri”
imposti a fini di solidità patrimoniale».
Pertanto, il potere di limitare il rimborso
delle azioni al socio che eserciti il recesso nelle varie ipotesi previste
dalla legge, anche nel caso di trasformazione della banca popolare in società
per azioni, sarebbe stato introdotto dal d.l. n. 3
del 2015, come convertito, al fine di assicurare che le azioni delle banche
popolari soddisfino le condizioni previste dall’art. 29 del regolamento (UE) n.
575/2013 per il computo quali strumenti di capitale primario di classe 1
(CET1). Ciò risulterebbe sia dalla relazione illustrativa al disegno di legge
di conversione, dove è richiamata l’esigenza di «mantenere un’adeguata
patrimonializzazione della banca», sia dallo stesso art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario, che collega la limitazione del rimborso alla
necessità di «assicurare la computabilità delle azioni nel capitale di qualità
primaria della banca».
Il giudice a quo avrebbe erroneamente
interpretato l’art. 29 del regolamento (UE) n. 575/2013 e l’art. 10 del
regolamento delegato (UE) n. 241/2014, ritenendo che, al fine di assicurare la
computabilità delle azioni delle banche popolari nel CET1, il legislatore non
fosse vincolato ad attribuire agli enti creditizi anche il potere di limitare
il rimborso in caso di recesso, in alternativa a quello di rinviare. Il tenore letterale
del citato art. 10, là dove prevede, al paragrafo 2, che «[l]a capacità
dell’ente di limitare il rimborso conformemente alle disposizioni che regolano
gli strumenti di capitale, di cui all’articolo 29, paragrafo 2, lettera b), e
all’articolo 78, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 575/2013, riguarda sia il
diritto di rinviare il rimborso che il diritto di limitare l’importo
rimborsabile», e che «[l]’ente è in grado di rinviare il rimborso o di limitare
l’importo rimborsabile per un periodo illimitato in conformità al paragrafo 3»,
sarebbe al contrario inequivoco nell’esigere che sia prevista la titolarità in
capo alla banca di ambedue i poteri, tra loro non fungibili, per il computo
degli strumenti nel CET1.
Gli opposti interessi in gioco sarebbero stati
bilanciati dalla norma europea, che, nell’ottica della stabilità del sistema,
ha anteposto quello alla continuità dell’impresa bancaria. Il legislatore
nazionale, di conseguenza, non avendo discrezionalità nella materia, avrebbe
dovuto prevedere anche il potere di limitare il rimborso, al fine di rendere le
azioni delle banche popolari computabili nel CET1, senza che gli fosse
consentito di applicare il principio del «minimo mezzo», scegliendo tra
limitazione e rinvio.
In ogni caso, la scelta fra l’uno o l’altro
strumento (limitazione o rinvio) non sarebbe rimessa all’arbitrio della banca,
ma a sue motivate valutazioni di carattere prudenziale riferite alle concrete
condizioni patrimoniali e ancorate ai precisi criteri indicati nell’art. 10,
paragrafo 3, del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, che la Banca d’Italia
ha riprodotto nelle disposizioni di attuazione. Tali criteri circoscriverebbero
la possibilità di limitare il diritto al rimborso a quanto strettamente
necessario per la salvaguardia della stabilità della banca, nel rispetto dei
requisiti prudenziali previsti dalla normativa europea. La facoltà dell’ente di
limitare «per un periodo illimitato» il rimborso non si tradurrebbe dunque in
quella di rinviarlo ad libitum, ma solo per il tempo necessario per
fronteggiare le descritte esigenze prudenziali, nel rispetto del criterio della
proporzionalità.
In definitiva, l’unico modo per assicurare che
le azioni delle banche popolari soddisfino le condizioni previste dal
regolamento (UE) n. 575/2013 per il computo come strumenti del CET1, a tutela
della stabilità delle banche e del sistema nel suo complesso, consisterebbe nel
rendere la disciplina nazionale in linea con i pertinenti requisiti prudenziali
indicati dagli artt. 28 e 29 del richiamato regolamento (UE) n. 575/2013.
Tale risultato sarebbe precluso dall’intervento
manipolativo auspicato dal rimettente, giacché la previsione di un
corrispettivo per il ritardo nel rimborso imporrebbe di considerare le azioni
come strumenti di debito anziché di capitale, secondo i principi contabili
applicabili (art. 28, paragrafo 1, lettera c, punto ii); ancora, farebbe venire
meno la cosiddetta "flessibilità dei pagamenti” (art. 28, paragrafo 1, lettera
h, punti iv e v); inoltre, non sarebbe rispettata la condizione stabilita dal
citato art. 10, paragrafo 3, del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, che
integra l’art. 29, paragrafo 2, lettera b), del regolamento (UE) n. 575/2013,
secondo il quale la banca deve essere «in grado di rinviare il rimborso o di limitare
l’importo rimborsabile per un periodo illimitato», vale a dire indeterminato,
nella misura e per il tempo necessari in relazione alla situazione prudenziale.
Impedendo la computabilità delle azioni delle
banche popolari come strumenti del CET1, l’intervento richiesto dal giudice a
quo creerebbe pertanto una disciplina viziata da irragionevolezza intrinseca,
in quanto sarebbe contraria alla propria ratio, che è quella di assicurare la
stabilità patrimoniale delle banche. La mancata possibilità di computo,
infatti, determinerebbe la presumibile discesa di tutte le banche popolari al
di sotto dei requisiti prudenziali minimi e farebbe scattare l’obbligo per le
Autorità di vigilanza di adottare i provvedimenti straordinari o liquidatori
imposti dalla disciplina di settore.
3.2.1.– Ad avviso della Banca d’Italia, il
giudice a quo neppure avrebbe correttamente individuato gli interessi in
conflitto, oggetto di bilanciamento da parte del legislatore. La limitazione
dei diritti dei soci sarebbe stata introdotta per assicurare la stabilità non
solo delle banche partecipate, ma anche del sistema finanziario nel suo
complesso, stabilità di fronte alla quale la giurisprudenza della Corte di
giustizia UE e della Corte EDU riconoscerebbe carattere recessivo ai diritti di
proprietà degli azionisti e persino di certi creditori delle banche, quali i
depositanti.
Inoltre, la limitazione in esame non dovrebbe
essere eccessivamente enfatizzata, poiché quasi tutte le banche popolari
soggette a trasformazione sono quotate in mercati regolamentati, nei quali i
soci possono ottenere agevolmente la liquidazione dell’investimento in altre
forme. E ciò senza considerare che le azioni rimarrebbero nella loro titolarità
anche dopo il recesso, onde sembra improprio parlare di "espropriazione” e di
mancanza di "indennizzo”.
Le questioni sarebbero dunque manifestamente
inammissibili, per la scorretta ricostruzione e la conseguente mancata
ponderazione del quadro normativo di riferimento, nonché per la richiesta di
una pronuncia manipolativa a contenuto non costituzionalmente obbligato, oltre
che in contrasto con la stessa ratio della modifica auspicata; in subordine,
esse sarebbero manifestamente infondate.
3.3.– La Banca d’Italia contesta la tesi del
giudice a quo, secondo cui la norma censurata le avrebbe attribuito un potere
di delegificazione «in bianco».
Preliminarmente, la questione sarebbe
inammissibile, sia per l’assenza di una adeguata motivazione delle ragioni per cui
la disposizione avrebbe delineato un procedimento di delegificazione, sia per
la scorretta ricostruzione e conseguente mancata ponderazione del quadro
normativo di riferimento.
Nel merito, contrariamente a quanto erroneamente
presupposto dal giudice rimettente, l’art. 1 del d.l.
n. 3 del 2015 non darebbe affatto luogo ad un fenomeno di delegificazione. La
disposizione non ricollegherebbe infatti all’entrata in vigore delle
disposizioni attuative emanate dalla Banca d’Italia l’abrogazione di alcuna
disposizione legislativa, bensì introdurrebbe ‒ espressamente e
direttamente ‒ una deroga alla disciplina del recesso del socio di cui
all’art. 2437 e seguenti del codice civile.
La questione sarebbe infondata anche perché la
disciplina censurata, in linea con la pertinente normativa europea, ancorerebbe
l’esercizio da parte dell’ente della facoltà di limitare o differire il
rimborso a valutazioni di carattere prudenziale, di natura eminentemente
tecnica, circoscritte dall’angusta cornice normativa definita dal regolamento
delegato (UE) n. 241/2014.
Le perplessità sollevate dall’ordinanza di
rimessione con riferimento all’assenza di collegamento della Banca d’Italia con
il circuito rappresentativo non sarebbero condivisibili ‒ non solo in
ragione della sussistenza di connotati di tecnicismo e settorialità
della materia affidata al potere regolamentare dell’Autorità di vigilanza, ma
anche ‒ in quanto le norme regolamentari della Banca d’Italia e le norme
tecniche di regolamentazione recate dal citato regolamento delegato (UE) n.
241/2014 sarebbero redatte all’esito di «rafforzate forme di partecipazione
degli operatori del settore nell’ambito del procedimento di formazione degli
atti regolamentari», idonee a compensare la «dequotazione
del principio di legalità in senso sostanziale» anche secondo la giurisprudenza
del Consiglio di Stato (è citata, tra le altre, la sentenza del Consiglio di
Stato, sesta sezione, 24 maggio 2016, n. 2182).
4.– Con atti depositati il 4 aprile 2017, di
identico contenuto, si sono costituite in giudizio UBI Banca spa e Banco BPM
spa (quale società risultante dalla fusione tra Banco Popolare società
cooperativa e Banca Popolare di Milano società cooperativa a responsabilità
limitata), parti del giudizio a quo, che hanno concluso per l’infondatezza
delle questioni e, in subordine, per il rinvio pregiudiziale interpretativo
alla Corte di giustizia UE, ai sensi dell’art. 267 del TFUE.
A loro avviso, la disciplina nazionale sui
limiti al rimborso, fondata sulle previsioni del regolamento (UE) n. 575/2013 e
del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, rispetterebbe pienamente i parametri
evocati nell’ordinanza di rimessione, in quanto essa, in un’interpretazione
costituzionalmente orientata, non escluderebbe in radice tale diritto. Il
legislatore avrebbe semplicemente replicato nella normativa nazionale il
principio comunitario prudenziale di tutela del sistema bancario, affidandone
la garanzia a un’operazione di bilanciamento flessibile, che prevede la
possibilità, nei casi di concreta e oggettiva difficoltà, di mantenere o
raggiungere i requisiti prudenziali, di limitare il diritto del singolo secondo
valutazioni da condurre in concreto rispettando i principi di proporzionalità e
ragionevolezza, senza escludere il differimento nel tempo del rimborso, come ha
espressamente stabilito il provvedimento della Banca d’Italia impugnato nel
giudizio a quo.
4.1.– Non sussisterebbe la violazione dell’art.
77, secondo comma, Cost., alla luce della sentenza n. 287 del
2016, della cui motivazione le parti riportano ampli stralci, ove si
esclude che il d.l. n. 3 del 2015 difetti con
evidenza dei presupposti di necessità e urgenza e che abbia portata di riforma
sistematica.
Si sottolinea, altresì, che la volontà politica
di adeguare l’ordinamento italiano agli indirizzi europei sarebbe stata
rinnovata mediante la "riproposizione” della norma sui limiti del diritto di
rimborso, con formulazione pressoché identica, nell’art. 1, comma 15, del decreto
legislativo 12 maggio 2015, n. 72 (Attuazione della direttiva 2013/36/UE, che
modifica la direttiva 2002/87/CE e abroga le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE,
per quanto concerne l’accesso all’attività degli enti creditizi e la vigilanza
prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento. Modifiche al
decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 e al decreto legislativo 24
febbraio 1998, n. 58), in ordine al quale non varrebbero i limiti stabiliti per
la decretazione d’urgenza.
4.2.– La questione di legittimità costituzionale
per violazione degli artt. l, 3, 23, 42, 95 e 97 Cost. sarebbe inammissibile
perché non adeguatamente motivata.
Nel merito, il dubbio di costituzionalità
sarebbe infondato, in quanto i limiti della potestà regolatrice della Banca
d’Italia emergerebbero dalla compiuta disamina del diritto europeo. A riprova
di ciò, la disciplina adottata dalla Banca d’Italia riprodurrebbe puntualmente
la disciplina di dettaglio contenuta all’art. 10 del regolamento delegato (UE)
n. 241/2014, mostrando così di avere un carattere meramente ricognitivo.
4.3.– Neppure sussisterebbe la violazione degli
artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 1 del protocollo
addizionale alla CEDU.
La limitazione del rimborso prevista dall’art.
28, comma 2-ter, del t.u. bancario non comporterebbe
un effetto espropriativo e non priverebbe il socio recedente del suo status.
Innanzi tutto, nel caso della trasformazione
delle banche popolari in società per azioni il richiamo alla fattispecie
espropriativa non sarebbe pertinente, trattandosi di conflitto orizzontale tra
privati e non di conflitto verticale tra Stato e privati, presupposto dall’art.
42, terzo comma, Cost.
In secondo luogo, non vi sarebbe alcuna
privazione di utilità economiche in danno dei soci recedenti, in quanto a
seguito della limitazione del rimborso le azioni verrebbero restituite ai loro
titolari, dovendosi così escludere un’ablazione o comunque una riduzione del
corrispettivo del recesso, nonché l’acquisizione definitiva, in capo all’ente
creditizio, del valore delle partecipazioni. Ne potrebbe tutt’al più conseguire
il mancato perfezionamento del recesso, dal quale non sembrano però sorgere
ulteriori dubbi di illegittimità, esistendo altre fattispecie nelle quali l’ordinamento
non riconosce al socio il diritto di recedere.
In ogni caso, anche secondo la giurisprudenza
della Corte EDU l’illegittimità di una misura espropriativa non si potrebbe
desumere solo dalla compressione del diritto del singolo, qualora prevalgano
motivi di interesse generale per effetto di un bilanciamento ispirato a criteri
di ragionevolezza e proporzionalità, senza che all’ablazione debba
corrispondere sempre e comunque la garanzia di un pieno indennizzo.
Tale bilanciamento, rimesso all’apprezzamento
discrezionale del legislatore, risulterebbe effettuato dalla disciplina
comunitaria sui requisiti prudenziali delle banche cui si conforma la
disposizione censurata. Quest’ultima non violerebbe il principio del minimo
mezzo, della ragionevolezza e della proporzionalità, non imponendo alcuna
specifica limitazione al rimborso, ma lasciando alla valutazione del caso
concreto la scelta da operare, tale da ridurre al minimo, se possibile, la
compressione del diritto del singolo.
Il rimettente, pur riconoscendo la preminente
esigenza di tutelare l’interesse generale alla stabilità patrimoniale del
sistema finanziario, che anche secondo la giurisprudenza della Corte di
giustizia può prevalere sugli interessi degli azionisti e dei creditori delle
banche, avrebbe arbitrariamente sostituito la propria valutazione a quella del
legislatore, affermando che solo il rinvio del rimborso a tempo determinato
sarebbe compatibile con la Costituzione.
Al contrario, la disciplina nazionale primaria e
secondaria sulla limitazione del rimborso in caso di recesso, che riproduce
quanto previsto dall’art. 29 del regolamento (UE) n. 575/2013 e dall’art. 10
del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, non lascerebbe alla totale
discrezione della singola banca la scelta delle misure da adottare, che
risulterebbe invece ancorata a condizioni patrimoniali oggettive verificabili
caso per caso. L’articolato assetto tracciato dalla normativa comunitaria
presupposta da quella interna avrebbe dunque lasciato agli Stati membri
«libertà di […] rinviare il diritto al rimborso fino ad un tempo illimitato
oppure [di] escludere ovvero limitare il rimborso», sicché legittimamente il
legislatore italiano avrebbe riproposto la stessa alternativa nel proprio
ordinamento, approntando una regolamentazione rispettosa della Costituzione e
dell’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU.
Inoltre, il riconoscimento degli interessi per
il ritardo nel rimborso, auspicato dal rimettente, vanificherebbe lo scopo
perseguito dalla normativa comunitaria e nazionale, consistente nella tutela
dei requisiti prudenziali delle banche, in quanto avrebbe un evidente impatto
sul loro patrimonio.
Qualora questa Corte ritenesse che gli argomenti
svolti non siano idonei a respingere le questioni, le parti propongono istanza
di rinvio pregiudiziale ex art. 267 del TFUE, diretto a «verificare quale sia
l’effettivo valore ermeneutico da riconoscere al combinato disposto dell’art.
29, comma 2, del [regolamento (UE) n. 575/2013] con l’art. 10 del Regolamento
[delegato (UE) n. 241/2014]», atteso che, «anche nell’ottica del giudizio di
costituzionalità, la questione di compatibilità comunitaria costituisce un prius logico e giuridico rispetto alla questione di
costituzionalità».
5.– Con atto depositato il 4 aprile 2017 è
intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato
e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per
l’inammissibilità o la manifesta infondatezza delle questioni.
5.1.– L’interveniente osserva in via preliminare
che il giudice a quo, deducendo la violazione degli artt. 41, 42 e 117, primo
comma, Cost. in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU,
avrebbe identificato la norma censurata nel «nuovo testo dell’art. 29 co. 2 ter
del D.lgs. 1 settembre 1993 n. 385», sull’erroneo presupposto che esso
disciplini la limitazione del diritto al rimborso del socio recedente, mentre
tale norma, introdotta dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 3 del 2015, contiene la diversa previsione dei
poteri della Banca d’Italia nel caso in cui non sia deliberata la
trasformazione della banca popolare con attivo "sopra soglia”. Viene pertanto
chiesto a questa Corte di valutare se l’errata identificazione della norma
censurata si possa tradurre nell’inammissibilità delle questioni.
Sempre in via preliminare, l’interveniente
eccepisce il difetto di rilevanza o di sufficiente motivazione sulla rilevanza
con riferimento alla censura che riguarda il diritto al rimborso.
Il giudice a quo avrebbe erroneamente posto a
base della rilevanza il «pregiudizio» che i soci ricorrenti potrebbero subire
dalla norma sospettata di illegittimità, anziché la necessità di applicare tale
norma per definire la controversia. L’ordinanza di rimessione non preciserebbe
se i soci ricorrenti hanno esercitato il diritto di recesso, sicché le domande
proposte nel giudizio principale dovrebbero essere dichiarate inammissibili per
difetto di interesse ad agire, con conseguente inammissibilità delle questioni,
per irrilevanza.
Non sarebbero condivisibili, inoltre, le
considerazioni svolte dal giudice a quo sull’esistenza di un pregiudizio
attuale e concreto alla «libertà di autodeterminazione negoziale del socio»
nell’espressione del diritto di voto in assemblea, che sarebbe condizionata
dalla «eventualità di vedersi escluso il diritto al rimborso in caso di recesso
conseguente alla trasformazione». Per i soci delle banche popolari già
trasformate in società per azioni (la quasi totalità di quelle "sopra soglia”),
tale "condizionamento” costituirebbe un fatto già avvenuto e dunque inidoneo a
fondare un interesse attuale all’annullamento del provvedimento della Banca
d’Italia. Né l’ordinanza riferirebbe di deliberazioni societarie che hanno
limitato il diritto al rimborso o di impugnazioni proposte avverso le delibere
di trasformazione, a conferma dell’assenza di prova dell’asserito
"condizionamento”. Per i soci delle banche popolari che non avessero ancora
deliberato la trasformazione, l’ordinanza non fornirebbe alcun elemento idoneo
a ipotizzare che la trasformazione verrà deliberata, che i soci ricorrenti
eserciteranno in tal caso il diritto di recesso, che si realizzeranno le
condizioni per rendere necessaria la limitazione del diritto al rimborso delle
loro azioni e che la limitazione si tradurrà nella riduzione del rimborso
anziché, come auspicato dal rimettente, nel suo mero differimento: ciò porrebbe
in dubbio, anche sotto il profilo prospettato nell’ordinanza di rimessione, la
sussistenza di un effettivo interesse ad agire in capo ai soci.
5.1.1.– Ancora in via preliminare,
l’interveniente osserva che tutte le questioni sollevate dal giudice a quo,
riferite in apparenza all’intero art. 1 del d.l. n. 3
del 2015, dovrebbero essere circoscritte al comma 1, lettera a) di tale
disposizione, che ha aggiunto il comma 2-ter all’art. 28 del t.u. bancario, in tema di limitazione del diritto al
rimborso in caso di recesso, giacché la residua disciplina contenuta nel citato
art. 1 sarebbe irrilevante per la definizione del processo principale.
Tuttavia, la previsione sui limiti al rimborso
non deriverebbe più dalla disposizione censurata, anche così circoscritta,
bensì dall’art. 1, comma 15, del d.lgs. n. 72 del 2015, entrato in vigore il 27
giugno 2015, che ha sostituito il testo dell’art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario con il seguente, riproduttivo di quello
anteriore: «2-ter. Nelle banche popolari e nelle banche di credito cooperativo
il diritto al rimborso delle azioni nel caso di recesso, anche a seguito di
trasformazione, morte o esclusione del socio, è limitato secondo quanto
previsto dalla Banca d’Italia, anche in deroga a norme di legge, laddove ciò
sia necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di
vigilanza di qualità primaria della banca. Agli stessi fini, la Banca d’Italia
può limitare il diritto al rimborso degli altri strumenti di capitale emessi.».
L’art. 1, comma 1, lettera a), del d.l. n. 3 del 2015, sarebbe stato dunque implicitamente
abrogato, per incompatibilità, dall’art. 1, comma 15, del d.lgs. n. 72 del
2015.
Da qui l’irrilevanza della questione concernente
il difetto dei requisiti della decretazione d’urgenza, ex art. 77 Cost., poiché
la norma vigente, applicabile in materia di recesso dei soci di banche popolari
e di limitazione al rimborso delle loro quote di capitale, sarebbe stata
adottata con l’ordinario procedimento di legislazione delegata ex art. 76 Cost.
5.2.– Ove rilevante, la questione ex art. 77,
secondo comma, Cost, sarebbe comunque infondata.
I requisiti di necessità e urgenza sussisterebbero,
in quanto la previsione di limiti al rimborso in caso di recesso sarebbe
espressamente finalizzata alla necessità di «assicurare la computabilità delle
azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca», onde
prevenire il rischio che, in occasione della trasformazione delle maggiori
banche popolari, si verifichi una tale quantità di recessi da porre in dubbio
il rispetto da parte di tali banche ai requisiti prudenziali di stabilità
patrimoniale.
L’urgenza di provvedere nel settore bancario,
imperniato sulla funzione normativa e di vigilanza della Banca d’Italia,
coesisterebbe logicamente con la rimessione a quest’ultima del potere di
adottare norme di attuazione. Solo in questo modo l’intervento legislativo
avrebbe rivestito i caratteri di completezza e organicità indispensabili ad
assicurarne l’efficacia concreta, anche in considerazione della laboriosità del
processo riformatore delle banche popolari (è citata sul punto la sentenza n. 133 del
2016). L’avvio del processo avrebbe garantito la necessaria stabilizzazione
di queste banche, con la previsione di un lasso di tempo sufficiente a
consentire la loro trasformazione nelle condizioni di maggiore convenienza.
Infine, la valutazione del rischio e
dell’urgenza di provvedere competerebbe esclusivamente al legislatore, non
apparendo manifestamente irragionevole il rischio che la presenza di banche
popolari di dimensioni sistemiche indebolisca la stabilità complessiva del
sistema bancario, sicché dovrebbe essere esclusa ogni valutazione sostitutiva
da parte del giudice a quo e dello stesso giudice delle leggi. L’ampiezza e la
durata nel tempo del dibattito sul tema della riforma delle banche popolari, al
quale allude il rimettente, dimostrerebbe l’esistenza del problema e l’urgenza
di risolverlo.
5.3.– Secondo l’interveniente, anche la
questione inerente alla legittimità costituzionale della previsione che
conferisce alla Banca d’Italia il potere di disciplinare la limitazione del
diritto al rimborso della quota del socio recedente sarebbe infondata.
Dalla norma censurata, letta nella sua
inscindibile interezza, si ricaverebbe infatti che la potestà normativa della
Banca d’Italia è esclusivamente finalizzata a garantire il rispetto da parte
della banca, in caso di recesso del socio, dei requisiti di stabilità
patrimoniale identificabili nel possesso di un patrimonio di vigilanza di
qualità primaria non inferiore ai minimi legali. Ciò renderebbe operanti, come
criteri limitativi della discrezionalità della Banca d’Italia, le norme
dell’ordinamento comunitario che disciplinano il patrimonio di vigilanza delle
banche, le quali sarebbero rigide e stringenti, e non consentirebbero margini
di effettiva discrezionalità. D’altra parte occorrerebbe ricordare che già
l’art. 53, comma l, lettere a), b) e d), del t.u.
bancario attribuisce alla Banca d’Italia un ampio potere regolamentare in tema
di adeguatezza patrimoniale degli istituti di credito.
5.4.– Anche le censure riferite agli artt. 41,
42 e 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale
alla CEDU, sarebbero infondate.
L’interveniente ribadisce che secondo l’art. 28,
comma 2-ter, del t.u. bancario la limitazione del
rimborso costituirebbe una misura non fine a se stessa, ma funzionale alla
stabilità della banca, garantita dalla tutela dell’integrità del suo patrimonio
di vigilanza di qualità primaria, che il rimborso immediato potrebbe intaccare.
Inoltre, la misura realizzerebbe un equilibrio con l’eccezionale diritto di
recesso riconosciuto dall’ordinamento al socio della cooperativa bancaria, a
differenza del socio di una banca ordinaria. Tale diritto sorgerebbe già
intrinsecamente limitato dalla condizione negativa che il rimborso non comporti
la perdita o l’indebolimento del patrimonio di vigilanza di qualità primaria
della banca.
Sarebbe inoltre errato il presupposto
interpretativo dal quale muove il rimettente, che equipara il differimento sine
die all’esclusione totale del rimborso. In realtà la norma censurata prevede
solo la possibilità di limitare il diritto al rimborso o il suo rinvio a un
momento determinato o da determinare, senza contemplarne l’esclusione immediata
e definitiva. Né il rinvio a un momento da determinare sembra consentire tale
equiparazione, posto che l’esclusione farebbe venire meno il credito al
rimborso, mentre il differimento lo conserverebbe, pur incidendo sulla sua
esigibilità.
Ove si intendessero superare tali
considerazioni, l’interveniente osserva che il dubbio di illegittimità
costituzionale deriverebbe dalla scorretta e incompleta ricostruzione
dell’istituto del recesso del socio e della normativa comunitaria in materia di
rafforzamento della disciplina prudenziale, ricostruzione che avrebbe condotto
il giudice a quo all’errata configurazione della quota di partecipazione del
socio come un valore economico intangibile, la cui eventuale limitazione ex lege si tradurrebbe in un’espropriazione senza indennizzo.
Al contrario, il credito al rimborso del valore
della partecipazione sociale, che sorge con l’esercizio del recesso, non
potrebbe essere qualificato come un diritto reale sul capitale della società,
suscettibile di espropriazione, né la situazione prodotta dal recesso si
risolverebbe in un mero conflitto tra soci recedenti e soci che proseguono
l’attività, come sembra ritenere il rimettente, coinvolgendo essa invece sia i
diritti dei terzi che operano con la banca che l’interesse pubblico, tutelato
dalle Autorità di vigilanza, alla stabilità del sistema bancario nel suo
complesso.
Nell’approfondire questo profilo,
l’interveniente esamina, in primo luogo, la disciplina ordinaria del recesso
del socio nelle società di capitali contenuta nel codice civile. Tale
disciplina evidenzierebbe la possibilità di ridurre il rimborso qualora –
inutilmente esaurite tutte le fasi nelle quali si articola il complesso
procedimento di liquidazione (trasferimento delle azioni del socio recedente
agli altri soci o a terzi; acquisto di azioni proprie; riduzione del capitale
in proporzione alle azioni da rimborsare, che può essere impedita dalla
vittoriosa opposizione dei creditori sociali alla delibera di riduzione) – si
giunga allo scioglimento della società con apertura del concorso del credito
del socio recedente con i crediti vantati dai terzi, in posizione di parità:
situazione che, nel caso di mancato rimborso per insufficienza dell’attivo, non
attribuirebbe il diritto a indennizzi o corrispettivi, essendo connessa al
rischio d’impresa assunto dal socio con la partecipazione alla società.
Nella disciplina prudenziale comunitaria delle
società che esercitano l’attività bancaria – introdotta dalla direttiva
2013/36/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013
sull’accesso all’attività degli enti creditizi e sulla vigilanza prudenziale
sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento, che modifica la direttiva
2002/87/CE e abroga le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, nonché dal
regolamento (UE) n. 575/2013 e dal regolamento delegato (UE) n. 241/2014 – il
recesso del socio riceverebbe un trattamento normativo sostanzialmente diverso,
diretto ad assicurare un adeguato livello di capitale di primaria qualità degli
enti creditizi sulla base di rigidi parametri di riferimento. Allo scioglimento
della società, configurato dalla disciplina codicistica quale strumento estremo
per soddisfare il credito del socio recedente, nel caso in cui la società non
disponga di risorse sufficienti e non possa procedere alla riduzione del
capitale, la disciplina prudenziale comunitaria e nazionale opporrebbe un
obiettivo contrario, diretto a evitare lo scioglimento della banca e a favorire
la stabilità del sistema finanziario globale.
Attraverso l’obbligatoria creazione del
patrimonio di vigilanza, di cui fa parte il capitale, la banca costituirebbe un
fondo proprio idoneo a fronteggiare in via permanente i rischi di perdite
connesse alle esposizioni creditorie, sicché il diritto al rimborso del socio
recedente non potrebbe essere soddisfatto se ciò comportasse la riduzione di
tale patrimonio al di sotto dei limiti prudenziali. Il relativo diritto di
credito si collocherebbe, pertanto, in una posizione subordinata al superiore
interesse pubblico che l’art. 28, comma 2-ter, del t.u.
bancario intende proteggere.
5.4.1.– Per queste considerazioni, non sarebbe
dunque violato il principio del minimo mezzo, come sostiene il rimettente, in
quanto il sacrificio imposto dalla norma censurata al socio di una banca
cooperativa appare funzionale all’attuazione di interessi superiori, che non si
identificano con quelli dei soci che intendono proseguire l’attività bancaria,
bensì con quello alla stabilità della singola banca e del sistema bancario nel
suo complesso. Tale assetto normativo sarebbe in linea sia con i valori
costituzionali, considerato che la libertà di iniziativa economica può essere
limitata in funzione dell’utilità sociale ex art. 41 Cost., sia con la
giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di superiorità dell’interesse
pubblico alla stabilità del sistema finanziario sul legittimo affidamento dei
singoli (è citata la sentenza
19 luglio 2016, in causa C-526/14, Tadej Kotnik e altri).
Neppure sarebbe violato il diritto
all’indennizzo in caso di esproprio, tutelato dall’art. 42 Cost. e dall’art. 1
del protocollo addizionale alla CEDU, in quanto la situazione del socio
recedente di una banca popolare, il cui diritto al rimborso sia limitato ex
art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario, sembra
analoga a quella del socio recedente di una società ordinaria che, a seguito
dello scioglimento di questa, non ottenga soddisfazione del credito in sede di
liquidazione, per insufficienza dell’attivo: anche in questo caso, il
sacrificio imposto al socio troverebbe giustificazione nel rischio d’impresa
che egli ha assunto partecipando alla società. La limitazione al rimborso
deriverebbe infatti da esposizioni di rischio della banca sorte prima dell’exit,
tali da imporre un livello di patrimonio prudenziale raggiungibile solo con la
quota di capitale di cui è titolare il socio che ha esercitato il recesso.
Il principio del minimo mezzo neppure sarebbe
violato dalla mancata previsione del differimento per un termine massimo
predeterminato dal legislatore. La norma censurata – come quella comunitaria di
riferimento – rinvierebbe infatti a parametri certi e rigorosi, connessi
all’esistenza di risorse che consentano il rimborso delle azioni senza
depauperare il patrimonio di qualità primaria della banca, determinato
proporzionalmente alle esposizioni di rischio.
Né si comprenderebbe come la previsione di un
termine, da rimettere comunque all’intervento del legislatore, riuscirebbe a
garantire il rispetto delle regole prudenziali, ove la condizione della banca
rimanesse invariata alla scadenza del termine stesso, quando le azioni ancora
necessarie per il mantenimento del patrimonio di vigilanza dovrebbero essere
rimborsate.
La norma censurata, inoltre, sarebbe pienamente
conforme alla disciplina comunitaria, che prevede le facoltà alternative della
limitazione e del rinvio, ancorandole al mantenimento di livelli patrimoniali
adeguati.
Neppure sarebbe fondata la censura relativa alla
mancata previsione di un interesse corrispettivo per il ritardo nel rimborso,
in quanto la parte di capitale versata dal socio recedente non potrebbe
produrre interessi, essendo destinata a garantire le esposizioni di rischio
della banca fino a che le condizioni patrimoniali della stessa ne impediscano
la "liberazione”.
6.– Con atto depositato il 31 luglio 2017, fuori
termine, sono intervenute nel giudizio Amber Capital UK LLP e Amber Capital
Italia SGR spa, che il 23 febbraio 2018 hanno depositato anche una memoria
illustrativa.
Esse chiedono, ai fini dell’ammissibilità
dell’intervento, una «nuova valutazione» sulla natura del termine stabilito
dall’art. 4, comma 4, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale. Questo termine non dovrebbe essere considerato perentorio,
secondo il costante orientamento della Corte, ma ordinatorio, in applicazione
del principio generale di cui all’art. 152, secondo comma, codice di procedura
civile. Inoltre, coordinando la previsione dell’art. 4, comma 4, con quella del
successivo art. 7 delle citate Norme integrative, che regola la fase
processuale successiva alla scadenza del termine per la costituzione delle
parti, l’intervento cosiddetto "tardivo” potrebbe essere ammesso fino a quando
il Presidente della Corte non abbia nominato il giudice relatore, al quale il
cancelliere deve immediatamente trasmettere il fascicolo.
7.– Anche le altre parti costituite e
l’interveniente hanno depositato memorie nell’imminenza dell’udienza.
7.1.– I soci della Banca Popolare di Sondrio e
della Banca Popolare di Milano ribadiscono le loro difese e insistono nelle
conclusioni già rassegnate, chiedendo altresì, «in alternativa, o in via di
ulteriore subordine, nell’ipotesi in cui si ritenesse ovvero venisse confermato
in sede di rinvio pregiudiziale che la citata normativa europea consente di
escludere tout court il rimborso», di proporre alla stessa Corte di giustizia,
sempre ai sensi dell’art. 267, terzo comma, del TFUE, un rinvio pregiudiziale
sulla validità del citato art. 10 del regolamento delegato (UE) n. 241/2014,
per violazione dell’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione
europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12
dicembre 2007 (CDFUE), «integrato, anche alla luce dell’art. 52, comma 3, della
medesima Carta […] dalle prevision[i] e dalla
giurisprudenza della CEDU richiamate nel I Motivo».
7.2.– La Banca d’Italia ribadisce e illustra le
considerazioni svolte, insistendo per la manifesta inammissibilità o la
manifesta infondatezza delle questioni. La parte osserva che l’assunto del
giudice a quo sull’effetto espropriativo conseguente all’applicazione della
norma censurata sarebbe comunque superato dalla considerazione che le azioni
non rimborsate per le esigenze prudenziali della banca dovrebbero essere
restituite al socio. Non potendosi completare il procedimento di liquidazione
del loro valore, esse sarebbero infatti liberate dal vincolo di indisponibilità
ex art. 2437-bis, cod. civ. Inoltre, la trasformazione in società per azioni accrescerebbe
la contendibilità dell’impresa e, con essa, il valore di scambio della
partecipazione azionaria, incrementando, anziché diminuendo, le opportunità
patrimoniali del socio. La previsione di un interesse corrispettivo, auspicata
dal giudice a quo, contrasterebbe poi con la mancanza di liquidità ed
esigibilità del credito. Infine, la Banca d’Italia illustra le ragioni per cui
le disposizioni oggetto del giudizio si collocherebbero armonicamente
all’interno del complessivo sistema del diritto bancario europeo,
riproducendone le logiche e gli equilibri, e salvaguardando il contenuto
essenziale del diritto che si assume leso.
7.3.– UBI Banca spa e Banco BPM spa, dopo avere
descritto le fasi dei procedimenti di liquidazione nell’ambito dei quali si
sono avvalse della facoltà di limitare parzialmente il rimborso delle azioni
oggetto di recesso restituendo ai soci recedenti le azioni non rimborsate nelle
rispettive misure del 94,8 e del 93 per cento, eccepiscono l’inammissibilità
delle questioni per difetto di rilevanza. Muovendo da erronei presupposti
giuridici, il giudice a quo non avrebbe esperito il tentativo di
interpretazione conforme e avrebbe chiesto una pronuncia manipolativa dai
contenuti indefiniti e non costituzionalmente obbligati, sovrapponendo la
propria valutazione alle scelte discrezionali spettanti al legislatore. Il
rimettente non avrebbe inoltre considerato che la previsione dell’art. 28,
comma 2-ter, del t.u. bancario è stata riproposta con
una formulazione pressoché identica nel successivo d.lgs. n. 72 del 2015, in
vigore dal 27 giugno 2015, sicché l’incompleta individuazione delle norme
censurate determinerebbe l’inammissibilità di tutte le questioni dedotte o,
quantomeno, l’irrilevanza di quella sollevata in riferimento all’art. 77, secondo
comma, Cost. Infine, il difetto di rilevanza deriverebbe anche dalla mancanza
di attualità delle questioni, poiché la dichiarazione di illegittimità
costituzionale non potrebbe incidere su situazioni o rapporti giuridici
relativi a «fasi che devono ritenersi esaurite o concluse», come la già
eseguita trasformazione in società per azioni delle banche popolari con attivo
superiore alla soglia di otto miliardi di euro.
Nel merito, le parti illustrano le difese già
svolte, richiamando la sentenza n. 287 del
2016 a dimostrazione dell’infondatezza della questione sul difetto dei
requisiti della decretazione d’urgenza e diffondendosi nell’esame delle norme
di diritto europeo rilevanti in materia, che sarebbero state erroneamente
interpretate dal giudice a quo e sarebbero assistite da una presunzione di
validità estesa alla loro conformità alla Carta dei diritti fondamentali.
Infine, le parti insistono nella subordinata
istanza di rinvio pregiudiziale ex art. 267, terzo comma, del TFUE.
7.4.– il Presidente del Consiglio dei ministri
insiste a sua volta nelle eccezioni e richieste rassegnate nell’atto di
intervento.
Quanto alle censure di violazione degli artt.
41, 42 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del protocollo
addizionale alla CEDU, l’interveniente sottolinea che nel contesto normativo
creato dalle regole prudenziali europee i diritti degli azionisti di società
bancarie sarebbero diritti "limitatamente disponibili” perché originariamente
connotati dalla funzione di concorrere all’adeguatezza patrimoniale della banca
rispetto alla sua esposizione al rischio. Disciplinando i diritti conseguenti
all’esercizio del recesso dalle banche popolari, la norma censurata avrebbe dunque
reso esplicito tale limite intrinseco, dato dal fatto che l’azione bancaria (lo
strumento di capitale) servirebbe innanzitutto a formare la componente
indefettibile dei fondi propri (il capitale primario di classe 1) e con ciò ad
assicurare il mantenimento del rapporto predeterminato, fissato dalle predette
regole, tra i fondi propri della banca e la sua esposizione al rischio. Tale
rapporto verrebbe messo in crisi, nel caso delle banche popolari soggette alla
trasformazione "obbligatoria”, dalla variabilità del loro capitale, che ne
implicherebbe la riduzione a seguito del recesso, nonché dalla loro natura
"sistemica”, implicante un’elevata esposizione al rischio, che nel caso di
riduzione del capitale a seguito dei recessi le costringerebbe ad uscire dal
mercato per la sopravvenuta perdita dei requisiti di stabilità patrimoniale o a
ridurre l’attivo, rinunciando alla propria dimensione operativa.
L’interveniente si sofferma, inoltre, sulla
diversità di regime giuridico tra il recesso del socio di società ordinaria e
quello del socio di società bancaria. Per quest’ultimo il potere di inibire la
riduzione del capitale sociale a seguito del recesso non è rimessa alla volontà
dei creditori sociali, mediante il rimedio dell’opposizione alla delibera di
riduzione, ma è previsto ex lege, mediante la
determinazione di un vincolo normativo rigido, che vieta di ridurre quella
parte del capitale sociale, determinata secondo un criterio matematico,
rientrante nel patrimonio di vigilanza della banca e pertanto destinato a
garantirne la solvibilità. Il patrimonio di vigilanza costituirebbe dunque un
bene giuridico che il legislatore comunitario e nazionale ritiene funzionale
alla tutela del superiore interesse alla stabilità della banca stessa e
dell’intero sistema finanziario. L’intervento legislativo in esame non avrebbe
fatto altro che precisare tale condizione, chiarendo che la limitazione del
rimborso, cioè il diniego totale o parziale in caso di recesso, potrebbe
verificarsi non solo quando lo imponga o lo consigli la situazione economica e
patrimoniale della banca popolare, bensì anche nel caso di sua trasformazione
in banca ordinaria, e dunque in un caso in cui il recesso sarebbe sì previsto
dalla legge, ma contraddirebbe l’esigenza di accrescere o, almeno, non diminuire
il coefficiente di capitale primario di classe 1 (CET1), resa inderogabile
proprio dalla trasformazione in banca ordinaria dotata di un attivo (rischio)
di proporzioni sistemiche.
Nella prospettiva così delineata perderebbero
dunque consistenza le censure di illegittimità riferite agli artt. 41 e 42
Cost., in ordine alle quali l’interveniente approfondisce le considerazioni
svolte, anche con riguardo alla conformazione che il legislatore avrebbe
impresso alla proprietà azionaria per assicurarne la «funzione sociale»,
all’analoga limitazione apposta alla libertà di iniziativa economica, in
funzione della sua «utilità sociale», all’insussistenza di lesioni
dell’affidamento dei soci e alla mancata violazione del principio di
proporzionalità.
Quanto alla violazione dell’art. 77, secondo
comma, Cost., anche l’interveniente richiama la sentenza n. 287 del
2016, ribadendo le precedenti difese.
In merito alle altre questioni, l’interveniente
osserva, infine, che la norma censurata non avrebbe previsto alcuna
delegificazione, id est nessuna abrogazione di norme di legge primaria
all’entrata in vigore di norme di rango subprimario,
avendo disposto, al contrario, che il diritto al rimborso dei soci recedenti
potrà essere limitato se è necessario per consentire il computo delle loro
azioni nel capitale di qualità primaria della banca, e che ciò costituisce
deroga alle norme di legge (del codice civile), le quali prevedono il rimborso
immediato e integrale delle quote dei soci recedenti dalle società non
bancarie.
Considerato
in diritto
1.– Il Consiglio di Stato dubita sotto vari
profili della legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto-legge 24
gennaio 2015, n. 3 (Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti),
convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 2015, n. 33, norma che
riforma la disciplina delle banche popolari.
Le questioni sono sorte nella fase cautelare del
giudizio in cui sono stati riuniti gli appelli proposti contro tre sentenze del
Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, rese in processi aventi ad
oggetto atti emessi dalla Banca d’Italia in seguito alle modificazioni
apportate dal citato art. 1 del d.l. n. 3 del 2015
agli artt. 28 e 29 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante
«Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia» (t.u.
bancario).
Più precisamente, davanti al giudice
amministrativo era stato impugnato – da soci di varie banche popolari e da due
associazioni di consumatori, con l’intervento in giudizio di una terza
associazione – il provvedimento della Banca d’Italia denominato «9°
aggiornamento del 9 giugno 2015», pubblicato l’11 giugno 2015 nel «Bollettino
di Vigilanza n. 6, giugno 2015», che apporta modifiche alla circolare della
Banca d’Italia n. 285 del 17 dicembre 2013 (Disposizioni di vigilanza per le
banche), introducendo nella Parte Terza di tale circolare il Capitolo 4,
intitolato «Banche in forma cooperativa». Secondo quanto riportato nelle sue
premesse, il provvedimento «[…] dà attuazione alla riforma delle banche
popolari introdotta con le modifiche al Capo V, Sezione I del TUB apportate dal
decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3, convertito con legge 24 marzo 2015, n.
33». Esso definisce, per quello che qui interessa, i criteri, le modalità e i
limiti al rimborso delle azioni e degli altri strumenti di capitale nel caso di
recesso, in applicazione dell’art. 1, comma 1, lettera a), del d.l. n. 3 del 2015, che ha aggiunto all’art. 28 t.u. bancario il comma 2-ter, secondo il quale «[n]elle
banche popolari il diritto al rimborso delle azioni nel caso di recesso, anche
a seguito di trasformazione o di esclusione del socio, è limitato secondo
quanto previsto dalla Banca d’Italia, anche in deroga a norme di legge, laddove
ciò è necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di
vigilanza di qualità primaria della banca. Agli stessi fini, la Banca d’Italia
può limitare il diritto al rimborso degli altri strumenti di capitale emessi».
Nel giudizio erano altresì impugnati gli atti
preparatori di tale provvedimento, ossia il «Documento per la consultazione»
intitolato «Disposizioni di vigilanza – Banche popolari», pubblicato nel sito
web della Banca d’Italia il 9 aprile 2015, nonché il «Resoconto della
consultazione» e la «Relazione sull’analisi d’impatto» della regolamentazione,
pubblicato nel sito web della Banca d’Italia contestualmente al «9°
aggiornamento».
Il TAR Lazio aveva escluso la legittimazione al
ricorso delle due associazioni di consumatori, nonché la legittimazione
all’intervento dell’altra associazione e aveva respinto nel merito i ricorsi
proposti dai soci delle banche.
Adìto per la riforma
delle sentenze di primo grado con preliminare istanza di sospensione, il
Consiglio di Stato ha riunito gli appelli e sospeso interinalmente l’efficacia
del provvedimento impugnato, per alcune sue parti, sino alla camera di
consiglio successiva alla restituzione degli atti da parte di questa Corte. Con
successiva ordinanza ha quindi sollevato le questioni oggetto del presente
giudizio costituzionale.
2.– Innanzitutto deve essere ribadita
l’inammissibilità dell’intervento in giudizio di Amber Capital UK LLP e Amber
Capital Italia SGR spa, per le ragioni esposte nell’ordinanza emessa
all’udienza del 20 marzo 2018.
3.– In secondo luogo deve essere respinta, in
quanto infondata, l’eccezione del Presidente del Consiglio dei ministri,
intervenuto nel giudizio, che ha contestato il difetto di rilevanza o di
sufficiente motivazione sulla rilevanza delle questioni.
Il giudice a quo motiva espressamente sulla
pregiudizialità delle questioni (e, con essa, sulla loro rilevanza), affermando
che la norma censurata costituisce la base legislativa del provvedimento
amministrativo emesso dalla Banca d’Italia impugnato nel processo principale,
sicché la sua applicazione è necessaria per definire il giudizio a quo anche
nella sua fase cautelare, attualmente sospesa in attesa della risoluzione
dell’incidente di costituzionalità.
Neppure può essere accolto l’assunto
dell’Avvocatura sul difetto di interesse ad agire dei ricorrenti nel processo
principale, che si tradurrebbe in un difetto di rilevanza o di sufficiente
motivazione sulla rilevanza delle questioni.
Secondo la costante giurisprudenza di questa
Corte, «il controllo della […] rilevanza "va limitato all’adeguatezza delle
motivazioni in ordine ai presupposti in base ai quali il giudizio a quo possa
dirsi concretamente ed effettivamente instaurato, con un proprio oggetto, vale
a dire un petitum, separato e distinto dalla
questione di legittimità costituzionale, sul quale il giudice remittente sia
chiamato a decidere” (ex plurimis, sentenza n. 263 del
1994)», sicché «[i]l riscontro dell’interesse ad agire e la verifica della
legittimazione delle parti, agli stessi fini, sono rimessi a loro volta alla
valutazione del giudice a quo e non sono suscettibili di riesame da parte
[della] Corte, qualora risultino sorretti da una motivazione non implausibile (ex plurimis, sentenze n. 1 del
2014, n. 91
del 2013, n.
280, n. 279,
n. 61 del 2012,
n. 270 del 2010)»
(sentenza n. 110
del 2015).
Le considerazioni svolte dal giudice rimettente
sull’attualità e sulla concretezza del pregiudizio alla libertà di espressione
del voto del socio in assemblea nel caso di trasformazione sociale non ancora
deliberata, ovvero alla sua libertà di recedere dalla società a trasformazione
deliberata, offrono argomenti non implausibili a
sostegno dell’esistenza dell’interesse ad agire dei ricorrenti, si trovino essi
nell’una o nell’altra situazione.
4.– Nel merito, il rimettente dubita
innanzitutto che l’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015
violi l’art. 77, secondo comma, della Costituzione, «in relazione alla evidente
carenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza legittimanti il
ricorso allo strumento decretale d’urgenza (ove non ritenuta sanata, seppure
soltanto ex nunc, dalla legge di conversione)».
Il d.l. n. 3 del 2015
introdurrebbe norme in gran parte non auto-applicative, richiedenti ulteriori
misure attuative, in contrasto con la previsione generale dell’art. 15, comma
3, della legge 23 agosto, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e
ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri).
Neppure la relazione illustrativa varrebbe a
fugare i dubbi di evidente mancanza dei presupposti ex art. 77, secondo comma,
Cost. Essa giustificherebbe l’urgenza dell’intervento riformatore delle banche
popolari con i rischi, segnalati dal Fondo monetario internazionale, dalla
Commissione europea e dalla Banca d’Italia, di concentrazione di potere in
favore di gruppi di soci organizzati, di autoreferenzialità della dirigenza e
di difficoltà di reperire nuovo capitale sul mercato, ma tali rischi non
sarebbero attuali e concreti, bensì solo potenziali, non trovando «riscontro
concreto in circostanze straordinarie» e gravi, esistenti «all’atto
dell’emanazione del decreto-legge».
L’urgenza sarebbe ulteriormente smentita dalla
natura dell’intervento legislativo, diretto a realizzare una riforma organica e
di sistema delle banche popolari sulla quale era in corso da tempo un ampio
dibattito in sede dottrinale e politica.
4.1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri
osserva che tutte le questioni sollevate dal giudice a quo, anche se riferite
in apparenza all’intero art. 1 del d.l. n. 3 del
2015, dovrebbero essere circoscritte al comma 1, lettera a) di tale
disposizione, che ha aggiunto il comma 2-ter all’art. 28 del t.u. bancario in tema di limitazione del diritto al
rimborso in caso di recesso. La residua disciplina contenuta nel citato art. 1,
relativa alle altre parti della riforma delle banche popolari, sarebbe
irrilevante per la definizione del processo principale.
La previsione sui limiti al rimborso, tuttavia,
non sarebbe più contenuta nella disposizione censurata, anche così
circoscritta, bensì nell’art. 1, comma 15, del decreto legislativo 12 maggio
2015, n. 72 (Attuazione della direttiva 2013/36/UE, che modifica la direttiva
2002/87/CE e abroga le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, per quanto concerne
l’accesso all’attività degli enti creditizi e la vigilanza prudenziale sugli
enti creditizi e sulle imprese di investimento. Modifiche al decreto
legislativo 1° settembre 1993, n. 385 e al decreto legislativo 24 febbraio
1998, n. 58), entrato in vigore il 27 giugno 2015, che ha sostituito l’art. 28,
comma 2-ter, del t.u. bancario riproducendone
sostanzialmente il testo, salvo modifiche qui non rilevanti che estendono
l’efficacia della norma alle banche di credito cooperativo e ai casi di morte
del socio.
L’art. 1, comma 1, lettera a), del d.l. n. 3 del 2015 sarebbe stato così implicitamente
abrogato, per incompatibilità, dal successivo art. 1, comma 15, del d.lgs. n.
72 del 2015. Da qui l’eccepita irrilevanza della questione concernente il
difetto dei requisiti della decretazione d’urgenza, ex art. 77 Cost., poiché la
disposizione vigente, applicabile in materia di recesso dei soci di banche
popolari e di limitazione al rimborso delle loro azioni, sarebbe stata adottata
secondo l’ordinario procedimento di legislazione delegata ex art. 76 Cost.
L’eccezione non è fondata.
Il rilievo dell’interveniente è corretto nel suo
presupposto, perché la norma che, tra le molteplici contenute nel censurato art.
1 del d.l. n. 3 del 2015, è pregiudiziale alla
definizione della controversia, fungendo da base legislativa del provvedimento
impugnato, è quella che prevede limiti del diritto al rimborso delle azioni in
caso di recesso di cui all’art. 28, comma 2-ter, del t.u.
bancario, aggiunto dall’art. 1, comma 1, lettera a), del d.l.
n. 3 del 2015. Se nel giudizio a quo fosse applicabile una norma analoga ma
contenuta in una disposizione diversa, successivamente introdotta con un
decreto legislativo, per la cui adozione non valgono i requisiti di necessità e
urgenza propri del decreto-legge, la censura ex art. 77, secondo comma, Cost.
non sarebbe rilevante.
Tuttavia, come visto, il «9° aggiornamento del 9
giugno 2015» alla circ. Banca d’Italia n. 285 del 2013 è stato pubblicato l’11
giugno 2015 nel «Bollettino di Vigilanza n. 6, giugno 2015». La fonte primaria
del provvedimento impugnato nel giudizio a quo deve essere individuata dunque,
secondo il principio tempus regit
actum e in conformità al suo stesso tenore letterale
(«Il presente aggiornamento introduce nella parte Terza della Circolare n. 285
il Capitolo 4 "Banche in forma cooperativa” […] Il Capitolo dà attuazione alla
riforma delle banche popolari introdotta con le modifiche al Capo V, Sezione I
del TUB apportate dal decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3, convertito con legge
24 marzo 2015, n. 33 […]»), nella disposizione in vigore al momento della sua
emanazione, e dunque nell’art. 28, comma 2-ter, del t.u.
bancario come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera a), del d.l. n. 3 del 2015, giacché nel momento in cui l’atto è
venuto a esistenza il potere esercitato dall’autorità amministrativa non poteva
che fondarsi su tale base legislativa.
Nel giudizio a quo, pertanto, si deve fare
applicazione della disposizione censurata, con la conseguenza che le questioni
continuano a essere rilevanti.
4.2.– Nel merito, la questione sollevata in
riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost. non è fondata.
Con la sentenza n. 287 del
2016, questa Corte ha dichiarato non fondata un’identica questione promossa
in via principale dalla Regione Lombardia, che aveva impugnato l’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 anche per la mancanza dei presupposti di
straordinaria necessità e urgenza, sulla base di argomentazioni in gran parte
analoghe a quelle offerte in questa sede. Nella sentenza si ricorda
innanzitutto che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, «[…] il
sindacato sulla legittimità dell’adozione, da parte del Governo, di un
decreto-legge va limitato ai casi di evidente mancanza dei presupposti di
straordinaria necessità e urgenza richiesti dall’art. 77, secondo comma, Cost.,
o di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della loro valutazione (ex plurimis, sentenze n. 133 del
2016, n. 10
del 2015, n.
22 del 2012, n.
93 del 2011, n.
355 e n. 83
del 2010, n.
128 del 2008, n.
171 del 2007)». E si prosegue affermando che le ragioni giustificative
esposte nel preambolo del d.l. n. 3 del 2015 (dove si
fa riferimento alla straordinaria necessità e urgenza di avviare il processo di
adeguamento del sistema bancario agli indirizzi europei) e le diffuse
considerazioni svolte nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di
conversione (dove sono menzionate anche le forti sollecitazioni del Fondo
monetario internazionale e dell’Organizzazione per lo sviluppo e la
cooperazione economica a trasformare le banche popolari maggiori in società per
azioni), «[…] che collegano le esigenze di rafforzamento patrimoniale, di
competitività e di sicurezza delle banche popolari, sia all’adeguamento del
sistema bancario nazionale a indirizzi europei e di organismi internazionali,
sia ai noti e deleteri effetti sull’erogazione creditizia della crisi economica
e finanziaria in atto, escludono che si sia in presenza di evidente carenza del
requisito della straordinaria necessità e urgenza di provvedere», così come
«escludono che la valutazione del requisito sia affetta da manifesta irragionevolezza
o arbitrarietà».
Anche per quanto riguarda la natura di riforma
di sistema della normativa impugnata, che ne impedirebbe l’adozione con
decreto-legge, si devono richiamare le conclusioni della citata sentenza n. 287 del
2016, secondo cui la normativa in esame «non presenta una portata così
ampia da caratterizzarsi come vera e propria riforma del sistema bancario»,
poiché, «[p]er quanto essa incida significativamente
su un particolare tipo di azienda di credito, resta pur sempre un intervento
settoriale e specifico, non assimilabile dunque a un atto definibile come
riforma di sistema».
Secondo il rimettente, inoltre, la sussistenza
dei presupposti della decretazione d’urgenza sarebbe da escludere in quanto
l’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 contiene norme non
auto-applicative, come il nuovo comma 2-ter dell’art. 28 t.u.
bancario, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera a), e il nuovo comma
2-quater dell’art. 29 t.u. bancario, introdotto
dall’art. 1, comma 1, lettera b), la cui attuazione è affidata alla Banca
d’Italia.
Nemmeno questo rilievo può essere accolto. La
presenza, nel contesto della normativa introdotta, di talune disposizioni non
auto-applicative, che richiedono per tale motivo norme di attuazione, non fa
venir meno l’urgenza di avviare ex lege il processo
di trasformazione delle banche popolari di maggiori dimensioni o di stabilire
la regola generale sulla possibilità di prevedere limiti al rimborso delle
azioni in caso di recesso del socio, con disposizioni destinate quindi a
operare immediatamente.
Alcune parti private (appellanti nel processo
principale) offrono a sostegno della censura l’ulteriore argomento della
diversità e dell’eterogeneità degli ambiti materiali di intervento del d.l. n. 3 del 2015, al cui interno si potrebbero rinvenire
norme dal più disparato contenuto. Anche sul punto specifico questa Corte ha
già avuto modo di osservare che «[l]’eterogeneità non sussiste, poiché tutte le
misure contemplate nella normativa oggetto di impugnazione possono essere
ricondotte al comune obiettivo di sostegno dei finanziamenti alle imprese,
ostacolati dalla straordinarietà della crisi economica e finanziaria in atto» (sentenza n. 287 del
2016).
Non essendovi ragioni per discostarsi da tale
recente pronuncia, per questo come per gli altri aspetti esaminati, si deve
concludere per l’infondatezza della questione.
5.– In secondo luogo, il rimettente dubita della
legittimità dell’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 «nella
parte in cui prevede che, disposta dall’assemblea della banca popolare la
trasformazione in società per azioni secondo quanto previsto dal nuovo testo
dell’art. 29, comma 2-ter, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385,
il diritto al rimborso delle azioni al socio che a fronte di tale
trasformazione eserciti il recesso possa essere limitato (anche con la
possibilità, quindi, di escluderlo tout court), e non, invece, soltanto differito
entro limiti temporali predeterminati dalla legge e con previsione legale di un
interesse corrispettivo» per il ritardo nel rimborso.
Sotto questo profilo, la norma violerebbe gli
artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1
del protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
Il rimettente osserva che il risultato finale
della duplice previsione normativa – dell’obbligo di trasformazione delle
banche popolari da società cooperative in società per azioni nel caso di
superamento della soglia di otto miliardi di attivo (ove non si opti per la
riduzione dell’attivo o per la liquidazione della società) e della possibilità
di escludere in tutto o in parte o di rinviare indefinitamente e senza un
«corrispettivo compensatorio» il diritto del socio recedente al rimborso delle
azioni – finirebbe «per tradursi in una sorta di esproprio senza indennizzo (o
con indennizzo ingiustificatamente ridotto) della quota societaria».
Il legislatore non avrebbe operato un corretto
bilanciamento, ispirato al «principio del minimo mezzo», tra gli opposti
interessi di rilievo costituzionale in gioco, che si identificherebbero, da un
lato, nel diritto al rispetto dei propri «beni», correlato alla tutela della
proprietà nell’ampia accezione accolta dalla Corte EDU, e, dall’altro lato,
nell’interesse generale alla sana e prudente gestione dell’impresa bancaria,
correlato alla tutela del credito e del risparmio.
L’intervento legislativo, imponendo la
trasformazione del tipo societario della banca (sia pure con la previsione di
obblighi alternativi), consentirebbe di privare il socio di una banca popolare
di uno status che garantisce specifici diritti "amministrativi”, come quello al
voto "capitario” nelle assemblee, modificando in senso peggiorativo il
contenuto dei poteri inerenti alla partecipazione sociale, senza peraltro
assicurare il rimborso delle azioni qualora il socio ritenesse di non accettare
lo status conseguente alla trasformazione della banca popolare in società per
azioni. Si produrrebbe così un effetto espropriativo senza indennizzo.
Pur dando atto che in materia sussiste la
preminente esigenza di tutelare l’interesse pubblico di rilievo costituzionale
e comunitario – enunciato dalla norma censurata con il richiamo alla necessità
di «[…] assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di
qualità primaria della banca» – il giudice a quo lamenta che il contrapposto
interesse del socio recedente al rimborso delle azioni sarebbe
irragionevolmente sacrificato al di là dei limiti di quanto strettamente
necessario per assicurare un’adeguata tutela dell’interesse pubblico.
I sospetti di irragionevolezza della norma
censurata per violazione del «principio del minimo mezzo» nel giudizio di
bilanciamento degli interessi in gioco sarebbero confermati dal fatto che il
diritto al rimborso è sacrificato dal legislatore anche per il caso in cui la
banca fosse costantemente incapace di ripristinare il patrimonio di qualità
primaria senza ricorrere alle quote non rimborsate, e continuasse di
conseguenza a operare nel mercato solo grazie al capitale conferito dagli ex
soci.
Pertanto, l’esigenza di assicurare la sana e
prudente gestione dell’attività bancaria potrebbe giustificare non già la
«perdita definitiva» del diritto al rimborso, consentita dalla norma censurata,
bensì soltanto il «suo differimento nel tempo (con la previsione di un termine
massimo prestabilito, rimessa alla discrezionalità del legislatore) e salva la
corresponsione di un interesse corrispettivo (da parametrare al tasso di
riferimento della BCE […] attualmente prossimo allo 0, purché comunque
positivo)», diretto a evitare che il minor sacrificio imposto al socio si
risolva comunque in una forma di espropriazione senza indennizzo.
L’esclusione ex lege
del diritto al rimborso non troverebbe «fondamento e copertura» nemmeno nel
diritto dell’Unione europea in tema di requisiti prudenziali per gli enti
creditizi. Secondo il rimettente, la norma di settore che si occupa dei limiti
al rimborso degli «strumenti di capitale» emessi dagli enti creditizi è l’art.
10, paragrafo 2, del regolamento delegato (UE) n. 241/2014 della Commissione,
del 7 gennaio 2014, che integra il regolamento (UE) n. 575/2013 del Parlamento
europeo e del Consiglio per quanto riguarda le norme tecniche di
regolamentazione sui requisiti di fondi propri per gli enti. Tale disposizione,
nello stabilire che «[l]a capacità dell’ente di limitare il rimborso
conformemente alle disposizioni che regolano gli strumenti di capitale, di cui
all’articolo 29, paragrafo 2, lettera b), e all’articolo 78, paragrafo 3, del
regolamento (UE) n. 575/2013, riguarda sia il diritto di rinviare il rimborso
che il diritto di limitare l’importo rimborsabile […]», non imporrebbe
l’obbligo incondizionato di escludere il diritto al rimborso, e consentirebbe
invece di optare tra il rinvio e la limitazione dell’importo rimborsabile. A
fronte di più opzioni «comunitariamente consentite», il legislatore nazionale
avrebbe pertanto l’obbligo di scegliere quella che meglio assicura il rispetto
dei principi costituzionali, da individuare, come detto, nel differimento del
rimborso «ad un tempo dato», con la corresponsione di un interesse
corrispettivo per il ritardo.
5.1.– Devono essere preliminarmente considerate
le eccezioni formulate dalle difese del Presidente del Consiglio dei ministri e
della Banca d’Italia.
5.1.1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri
osserva che il giudice a quo ha dedotto la violazione degli artt. 41, 42 e 117,
primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla
CEDU, e ha identificato la norma censurata nel «nuovo testo dell’art. 29 co. 2
ter del D.lgs. 1 settembre 1993 n. 385» sull’erroneo presupposto che esso
disciplini la limitazione del diritto al rimborso del socio recedente, mentre
tale norma, introdotta dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 3 del 2015, contiene la diversa previsione dei
poteri della Banca d’Italia nel caso in cui non sia deliberata la
trasformazione della banca popolare con attivo "sopra soglia”. Chiede pertanto
a questa Corte di valutare se l’errata identificazione della norma censurata si
possa tradurre nell’inammissibilità delle questioni.
Il rilievo non è corretto. Il rimettente non
identifica la norma censurata nell’art. 29, comma 2-ter, del t.u. bancario, ma richiama la disposizione inserita
dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 3 del
2015 per indicare la fattispecie della trasformazione delle banche popolari
"sopra soglia”, da essa regolata, in quanto in tale ipotesi la limitazione del
diritto al rimborso del socio recedente prevista dall’art. 28, comma 2-ter, del
t.u. bancario, inserito dall’art. 1, comma 1, lettera
a), del d.l. n. 3 del 2015, è a suo giudizio sospetta
di illegittimità.
5.1.2.– La Banca d’Italia eccepisce a sua volta
la manifesta inammissibilità delle questioni in quanto con esse si chiederebbe
una pronuncia manipolativa a contenuto non costituzionalmente obbligato.
Nemmeno questa eccezione è fondata. Come visto,
il rimettente dubita della legittimità dell’art. 1 del d.l.
n. 3 del 2015 (censura da circoscrivere al comma 1, lettera a, della
disposizione) «nella parte in cui prevede che, disposta dall’assemblea della
banca popolare la trasformazione in società per azioni secondo quanto previsto
dal nuovo testo dell’art. 29, comma 2-ter, del decreto legislativo 1° settembre
1993, n. 385, il diritto al rimborso delle azioni al socio che a fronte di tale
trasformazione eserciti il recesso possa essere limitato (anche con la
possibilità, quindi, di escluderlo tout court), e non, invece, soltanto
differito entro limiti temporali predeterminati dalla legge e con previsione
legale di un interesse corrispettivo».
L’espressione «nella parte in cui prevede […] e
non, invece, […]» deve essere letta come esplicativa, non già dell’intenzione
di richiedere un intervento sostitutivo, bensì delle ragioni poste a fondamento
delle censure desunte dalla motivazione. Non è chiesta dunque una pronuncia
manipolativa di tipo sostitutivo, ma una pronuncia caducatoria
della norma nella parte in cui essa prevede la possibilità dell’esclusione
(cioè della limitazione integrale e senza limiti di tempo) del diritto al
rimborso anche nel caso di recesso esercitato dal socio a seguito della
trasformazione delle banche popolari sopra soglia, esclusione che comporterebbe
il totale sacrificio dell’interesse del socio recedente, evitabile invece, a
giudizio del rimettente, con la soluzione legislativa ipotizzata. Depone nel
senso indicato anche il dato letterale del petitum
dell’ordinanza di rimessione, che, parlando di «limiti temporali predeterminati
dalla legge» e di «previsione legale di un interesse corrispettivo», esclude
l’intenzione del giudice a quo di chiedere a questa Corte di sostituirsi al
legislatore.
5.2.– Passando al merito delle questioni
sollevate, è necessario individuare preliminarmente il senso della norma censurata.
A tale fine occorre fare riferimento alla normativa dell’Unione europea sui
requisiti prudenziali delle banche, costituita dal regolamento (UE) n. 575/2013
del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 relativo ai requisiti
prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento e che modifica
il regolamento (UE) n. 648/2012, nonché dal regolamento delegato (UE) n.
241/2014 della Commissione del 7 gennaio 2014 che integra il regolamento (UE)
n. 575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le norme
tecniche di regolamentazione sui requisiti di fondi propri per gli enti.
Tale normativa pone al centro del sistema della
disciplina prudenziale i «fondi propri» quali strumenti di assorbimento delle
perdite potenziali. I requisiti patrimoniali minimi di ciascun ente creditizio
sono fissati da coefficienti che esprimono il rapporto percentuale tra i fondi
propri delle banche e l’ammontare complessivo dell’esposizione al rischio.
L’insufficienza, a questi fini, dei fondi propri impone all’ente creditizio
interventi di ricapitalizzazione in tempi brevi, pena il verificarsi dei
presupposti per la sua risoluzione. È quindi particolarmente importante che le
banche, quale che sia il modello organizzativo adottato, possano rispondere
prontamente a esigenze di rafforzamento patrimoniale e di capitalizzazione, e
che la normativa assicuri questa possibilità.
Secondo il regolamento (UE) n. 575/2013, il
«capitale» è un elemento dei fondi propri che tutti gli enti creditizi devono
possedere nel rispetto dei requisiti minimi, a fini prudenziali. Esso è
suddiviso nelle due categorie del «capitale di classe 1» e del «capitale di
classe 2», al cui interno operano ulteriori suddivisioni. In particolare, in
base all’art. 25 del regolamento (UE) n. 575/2013, il capitale di classe 1 è
composto dal «capitale primario di classe 1» e dal «capitale aggiuntivo di
classe 1». Gli elementi del capitale primario di classe 1 sono definiti
dall’art. 26 dello stesso regolamento, che alla lettera a) del paragrafo 1
contempla gli «[…] strumenti di capitale, purché siano soddisfatte le
condizioni di cui all’articolo 28 o, ove applicabile, all’articolo 29».
Ai sensi del successivo art. 29, gli strumenti
di capitale emessi da banche aventi la forma di società mutue e cooperative
(quali sono le banche popolari), enti di risparmio ed enti analoghi sono
considerati strumenti del capitale primario di classe 1 se sono soddisfatte,
oltre a tutte le condizioni di cui all’art. 28 (previste per le altre banche),
anche le ulteriori condizioni così descritte al paragrafo 2: «[…] a) ad
eccezione dei casi di divieto imposto dalla normativa nazionale applicabile,
l’ente può rifiutare il rimborso degli strumenti; b) se la normativa nazionale
applicabile vieta all’ente di rifiutare il rimborso degli strumenti, le
disposizioni che governano gli strumenti autorizzano l’ente a limitare il
rimborso […]».
Se tali condizioni non sono soddisfatte, le
azioni di una società esercente l’attività bancaria, che costituiscono i tipici
«strumenti di capitale» della società stessa, non possono essere computate nel
capitale primario di classe 1 ai fini del rispetto dei requisiti patrimoniali
minimi. È chiara in questo senso la previsione dell’art. 30 del regolamento
(UE) n. 575/2013, secondo cui «[q]uando le condizioni
di cui all’articolo 28 o, ove applicabile, all’articolo 29 non sono più
soddisfatte, […] lo strumento in questione cessa immediatamente di essere
considerato strumento del capitale primario di classe 1» e «i sovrapprezzi di emissione
relativi a tale strumento cessano immediatamente di essere considerati elementi
del capitale primario di classe 1».
Nella materia rilevano anche gli artt. 77 e 78
del regolamento (UE) n. 575/2013, che subordinano comunque il riacquisto
integrale o parziale ovvero il rimborso, anche anticipato, degli strumenti di
capitale primario di classe 1, di capitale aggiuntivo di classe 1 e di capitale
di classe 2, all’autorizzazione dell’autorità di vigilanza competente, che
accerta il rispetto di determinate condizioni per ridurre i fondi propri.
L’art. 78, paragrafo 3, stabilisce poi che, se il rifiuto di rimborso degli
strumenti di capitale primario di classe 1 è proibito dalla norma nazionale
applicabile, l’autorità competente può derogare a tali condizioni purché
«l’autorità competente imponga all’ente, su una base appropriata, di limitare
il rimborso di tali strumenti».
5.2.1.– Nella disciplina del codice civile, il
recesso del socio determina lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente
al recedente e fa sorgere a suo favore un credito nei confronti della società
avente ad oggetto il valore della partecipazione (art. 2437-ter, primo comma,
cod. civ. per la società per azioni; art. 2473, terzo comma, cod. civ. per la
società a responsabilità limitata; art. 2519 cod. civ. per la società
cooperativa, che richiama in generale le disposizioni sulla società per
azioni). I procedimenti di liquidazione del valore della partecipazione mutano
a seconda del tipo sociale ma vale per tutte le società il divieto di rifiutare
unilateralmente il rimborso. Il rifiuto equivarrebbe all’inadempimento
dell’obbligazione restitutoria derivante dal recesso.
La normativa italiana vieta dunque a una banca
cooperativa di rifiutare il rimborso delle azioni in caso di recesso del socio.
Di conseguenza, non ricorrendo nella normativa nazionale la condizione (la
previsione del rifiuto del rimborso) indicata dall’art 29, paragrafo 2, lettera
a), del regolamento (UE) n. 575/2013, ai fini prudenziali perseguiti dalla
normativa europea deve essere soddisfatta l’alternativa condizione prevista
dalla lettera b), del citato art. 29, paragrafo 2, ossia che «le disposizioni
che governano gli strumenti autorizzano l’ente a limitare il rimborso».
Nel dettare le «disposizioni che governano gli
strumenti», tuttavia, il legislatore nazionale non è libero di conformare
discrezionalmente i limiti del rimborso, poiché la materia è disciplinata
inderogabilmente dalle norme tecniche del regolamento delegato (UE) n.
241/2014, adottato al fine di integrare le previsioni del regolamento (UE) n.
575/2013, ai sensi dell’art. 29, paragrafo 6, di quest’ultimo. Ne è conferma la
previsione dell’art. 11, paragrafo 2, del citato regolamento delegato, secondo
cui, «[s]e gli strumenti sono regolati dalla normativa nazionale […], perché
gli strumenti abbiano i requisiti per essere considerati capitale primario di
classe 1 la legislazione deve consentire all’ente di limitare il rimborso come
previsto dall’articolo 10, paragrafi da 1 a 3».
5.2.2.– Più precisamente, l’art. 10, paragrafo
2, del regolamento delegato prevede che «la capacità dell’ente di limitare il
rimborso conformemente alle disposizioni che regolano gli strumenti di
capitale, di cui all’articolo 29, paragrafo 2, lettera b), e all’articolo 78,
paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 575/2013, riguarda sia il diritto di
rinviare il rimborso che il diritto di limitare l’importo rimborsabile, anche
per un periodo illimitato», e aggiunge che «[l]’ente è in grado di rinviare il
rimborso o di limitare l’importo rimborsabile per un periodo illimitato in
conformità al paragrafo 3».
L’espressione «sia il diritto di rinviare il
rimborso che il diritto di limitare l’importo rimborsabile» deve essere
interpretata nel senso del valore coordinativo-aggiuntivo, e non disgiuntivo,
della coppia «sia […] che», come è confermato – in maniera non equivocabile –
dalla versione inglese del testo normativo: «[t]he ability
of the institution to limit
the redemption under the provisions
governing capital instruments
as referred to in Article 29(2)(b) and 78(3) of Regulation
(EU) No 575/2013 shall encompass
both the right to defer the
redemption and to limit the
amount to be redeemed». E
come è ulteriormente confermato dal Considerando n. 10 del regolamento delegato
(UE) n. 241/2014, dove si legge che «[…] laddove il rifiuto al rimborso degli
strumenti sia proibito ai sensi della normativa nazionale applicabile per
queste tipologie di enti [id est per le società mutue, società cooperative,
enti di risparmio o enti analoghi], è essenziale che le disposizioni che
regolano gli strumenti conferiscano all’ente la capacità di rinviare il loro
rimborso e limitare l’importo da rimborsare».
Quanto appena osservato sul significato, secondo
questa Corte inequivoco, della citata disciplina europea porta a escludere che
ricorrano i presupposti per il rinvio pregiudiziale che alcune parti hanno
chiesto, in via subordinata, di proporre alla Corte di giustizia dell’Unione
europea ai sensi dell’art. 267, terzo comma, del Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13
dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130. Il rinvio,
infatti, «[…] non è necessario quando il significato della norma comunitaria
sia evidente […] e si impone soltanto quando occorra risolvere un dubbio
interpretativo (ex plurimis, Corte di giustizia, sentenza
27 marzo 1963, in causa C-28-30/62, Da Costa; Corte costituzionale, ordinanza n. 103
del 2008)» (ex plurimis, ordinanza n. 2 del
2017).
5.2.3.– Il presupposto interpretativo da cui
muove il giudice a quo per sollevare le questioni, prospettando l’esistenza di
una fattispecie espropriativa senza indennizzo, è dunque errato: le regole
prudenziali dell’Unione europea non lasciano al legislatore nazionale alcuna
facoltà di scelta tra le due presunte "opzioni” della limitazione quantitativa
del rimborso e del suo rinvio, ma gli impongono di attribuire all’ente
creditizio la «capacità» di adottare sia l’una che l’altra misura come
condizione perché le azioni possano essere considerate strumenti del capitale
primario di classe 1.
È opportuno precisare che l’unica "opzione”
concessa dalla normativa europea al legislatore nazionale si colloca su un
altro piano e riguarda la scelta, da operare nell’ambito dell’alternativa
prevista dall’art. 29 del regolamento (UE) n. 575/2013, tra il rifiuto del
rimborso delle azioni e la limitazione al rimborso stesso. Rispetto a tale
opzione, la norma censurata si conforma in effetti, secondo questa Corte, al
criterio del minimo mezzo – non prevedendo la possibilità del rifiuto e invece
– introducendo lo strumento della limitazione del rimborso sulla base della
situazione prudenziale della banca.
Al legislatore nazionale non può dunque essere
addebitato di avere illegittimamente sacrificato l’interesse del socio
recedente, «andando oltre a quanto strettamente necessario per tutelare
l’interesse pubblico alla sana e prudente gestione dell’attività bancaria» nel
bilanciare gli opposti interessi in gioco.
Una normativa nazionale che, allo scopo di
assicurare la computabilità delle azioni nel capitale primario di classe 1
delle banche popolari che si trasformino in società per azioni, consentisse
alle banche stesse, come auspica il rimettente, solo di rinviare a tempo
determinato il rimborso delle loro azioni in caso di recesso, assegnerebbe alle
azioni di quelle banche un contenuto difforme da quello minimo definito a
livello europeo ai fini della loro computabilità nella corrispondente classe di
fondi propri. Non solo: la previsione di interessi compensativi del ritardo,
anch’essa auspicata dal giudice a quo, imporrebbe addirittura di considerare le
stesse azioni come strumenti di debito anziché di capitale, secondo la disciplina
contabile sulla classificazione del patrimonio netto richiamata dall’art. 28,
paragrafo 1, lettera c), punto ii), del regolamento (UE) n. 575/2013, con la
conseguenza di escluderne radicalmente la computabilità dal capitale.
In ogni caso, il divieto di computo opererebbe
anche se la limitazione del rimborso fosse legislativamente circoscritta al
rinvio puro e semplice, senza predeterminazione di durata e di misure
compensative, poiché tale soluzione escluderebbe comunque la «capacità» della
banca di limitare il rimborso in altro modo, mediante una riduzione del
quantum, come prescrivono le regole prudenziali europee.
Si deve quindi concludere che l’art. 28, comma
2-ter, del t.u. bancario introdotto dalla
disposizione censurata impone la limitazione, nei modi indicati, del diritto al
rimborso delle azioni per assicurare il rispetto dei requisiti prudenziali
applicabili alle banche popolari, ovvero, come si esprime la stessa
disposizione, per assicurare «la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza
di qualità primaria della banca» in conformità con la normativa europea in
materia, mentre la previsione che, secondo il rimettente, sarebbe idonea a
evitare l’effetto espropriativo denunciato, bilanciando a suo dire
correttamente gli interessi in gioco, si porrebbe in contrasto con quella
normativa, o, meglio, si presenterebbe contraria alla sua propria ratio,
giacché finirebbe per impedire – anziché consentire, secondo la sua funzione –
la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria
della banca.
5.2.4.– Alcune parti private (appellanti nel
giudizio a quo) osservano che i regolamenti comunitari di settore avrebbero
natura auto-applicativa – ciò che escluderebbe (e anzi renderebbe
incompatibile) un intervento normativo interno di attuazione – e si
limiterebbero a dettare una disciplina di carattere generale in tema di
requisiti di capitale primario e di possibili limitazioni al diritto di
rimborso in caso di recesso, valida per tutte le banche. Si tratterebbe dunque
di una disciplina destinata a trovare applicazione in situazioni "ordinarie”,
che non considera – né tantomeno impone – la trasformazione delle banche
popolari in società per azioni al superamento di una certa soglia di attivo e
la correlata limitazione del diritto di recesso dei soci. La norma censurata,
quindi, non potrebbe trovare giustificazione nella necessità di adeguare
l’ordinamento interno alla disciplina comunitaria.
Il rilievo non è fondato.
Per un verso si deve osservare che l’effetto
vincolante delle previsioni regolamentari europee in tema di rimborso delle
azioni si realizza nello stabilire che gli ordinamenti degli Stati membri
devono attribuire alle banche la capacità sia di limitare che di rinviare il
rimborso, come condizione perché gli strumenti di capitale delle banche possano
essere computati nel capitale primario di classe 1 ai fini del rispetto dei
requisiti del patrimonio di vigilanza. Sicché, per consentire agli enti
creditizi di rispettare i requisiti prudenziali, il legislatore nazionale era
tenuto ad adottare disposizioni attributive alle banche stesse del potere di
limitare il rimborso previsto dalla normativa europea.
Per altro verso, è vero che la citata normativa
ha natura generale, operando in tutte le ipotesi di rimborso degli strumenti di
capitale delle banche cooperative nonché delle mutue bancarie, degli enti di
risparmio e di entità analoghe, ex art. 29 del regolamento (UE) n. 575/2013, ma
tale sua caratteristica non ne esclude, bensì ne conferma l’applicabilità anche
ai casi di recesso conseguenti alla trasformazione delle banche popolari "sopra
soglia”.
In questi casi le esigenze sottese alle regole
prudenziali europee si impongono addirittura con maggiore forza per il pericolo
che il recesso dei soci a seguito della trasformazione del tipo sociale assuma
estese dimensioni ed esponga le banche al rischio di esborsi a loro volta di
eccezionale consistenza. Non solo, dunque, non sono ravvisabili ragioni
sistematiche per derogare, per i rimborsi conseguenti alla trasformazione
prevista dall’art. 29, comma 2-ter, del t.u.
bancario, alle regole generali, ma, al contrario, è evidente che l’esclusione
di questa ipotesi dall’ambito di applicazione di tali regole condurrebbe
all’irragionevole risultato di esonerare le banche popolari dal rispetto dei
requisiti prudenziali proprio nell’evenienza più rischiosa, di un prevedibile
maggiore impatto dei rimborsi sul loro capitale.
5.2.5.– In conclusione, non c’è dubbio che
l’attuazione delle regole europee nell’ordinamento interno è avvenuta in piena
conformità ad esse, e soprattutto che, quanto alla definizione dei limiti da
apporre al rimborso delle azioni nel caso di recesso per trasformazione della
società, il legislatore non gode di alcuna discrezionalità, essendo vincolato a
prevedere che alla banca che intenda computare le proprie azioni nel capitale
primario di classe 1 devono essere attribuite entrambe le facoltà, di rinviare
il rimborso per un periodo illimitato e di limitarne in tutto o in parte
l’importo.
5.3.– Ciò considerato in linea generale sulla
portata della normativa europea in tema di computabilità degli strumenti di
capitale e sulla sua attuazione nell’ordinamento nazionale, si può passare a
considerare il profilo della censura che mette in relazione la limitazione del rimborso
alla trasformazione delle banche popolari ex art. 29, comma 2-ter, del t.u. bancario, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera b),
del d.l. n. 3 del 2015.
Si deve preliminarmente osservare che il
rimettente non avanza specifiche censure sulla disposizione che prevede
l’obbligo di trasformazione delle banche popolari nel caso di superamento della
soglia di otto miliardi di attivo – ritiene anzi manifestamente infondato il
dubbio di costituzionalità sollevato sul punto dai ricorrenti nel giudizio a quo
– e si limita a considerare la disposizione in quanto presupposto di
applicabilità, insieme all’esercizio del recesso, del regime di rimborso delle
azioni censurato. Ciò nondimeno, a suo giudizio il sacrificio del socio
recedente assumerebbe in questo caso un carattere peculiare – essendo la
modifica del contenuto dei diritti connessi alla qualità di socio delle banche
popolari "sopra soglia” in una certa misura imposta dalla legge (in alternativa
ad altre opzioni, come visto) – che dovrebbe condurre a ritenere il regime
generale non applicabile alla fattispecie.
L’assunto non è condivisibile: una volta
accertato che il legislatore è vincolato nella definizione delle condizioni
poste dalla normativa europea in funzione della computabilità degli strumenti
di capitale, non vi sono ragioni per ritenere che esse possano essere derogate,
in alcun caso. Tantomeno in fattispecie nelle quali, come già osservato, le
esigenze sottese alle regole prudenziali si presentano particolarmente
pressanti. Sicché, come in tutte le altre ipotesi di recesso, anche in questo
caso il limite opera sempre come mezzo inderogabilmente previsto dalla
disciplina prudenziale ai fini del rispetto dei requisiti patrimoniali della
banca, senza che ad esso possa essere attribuita alcuna diversa valenza che ne
comporti autonomi profili di illegittimità costituzionale, diversi da quelli
che si sono sopra già ritenuti infondati.
5.4.– Le considerazioni fin qui svolte
consentono di ritenere errato, per quanto ancora rilevasse, anche l’altro presupposto
dal quale muove il rimettente, che equipara l’apposizione di un limite al
rimborso all’esclusione del diritto, e quindi a una fattispecie espropriativa
senza indennizzo. Il giudice a quo ritiene infatti che la facoltà di limitare o
di differire il rimborso senza limiti di tempo si traduca nella «esclusione»
del diritto, vale a dire nella sua «perdita definitiva», e determini inoltre
l’inaccettabile conseguenza di permettere ai soci rimanenti di finanziare la
continuazione dell’attività d’impresa con le risorse patrimoniali dei soci che
hanno esercitato il recesso.
Al riguardo si deve osservare innanzitutto che,
configurata in questi termini, la facoltà della banca di limitare il rimborso
non si differenzierebbe dalla facoltà di rifiutare senz’altro il rimborso,
alternativamente offerta, come visto, dalla disciplina comunitaria – art. 29,
paragrafo 2, lettera a), del regolamento (UE) n. 575/2013 – e scartata dal
legislatore nazionale.
La soluzione adottata nella legislazione
nazionale può, e deve, essere invece diversamente ricostruita con
un’interpretazione della disciplina censurata che valorizzi l’inscindibile
collegamento da essa operato – e che il giudice a quo trascura di considerare –
tra la facoltà della banca di limitare il rimborso delle azioni e la sua
situazione prudenziale. Tale collegamento è imposto in primo luogo dalla
normativa europea, che all’art. 10, paragrafo 3, del regolamento delegato (UE)
n. 241/2014 prevede che «[l]’entità dei limiti al rimborso previsti dalle
disposizioni che regolano gli strumenti è determinata dall’ente sulla base
della sua situazione prudenziale in qualsiasi momento, considerando in
particolare i seguenti elementi: a) la situazione complessiva dell’ente in
termini di liquidità e di solvibilità; b) l’importo del capitale primario di
classe 1 e del capitale totale rispetto all’importo complessivo
dell’esposizione […]». Esso è poi recepito, negli stessi termini, nella
determinazione della Banca d’Italia, ove si precisa che «[l]’organo con
funzione di supervisione strategica assume le proprie determinazioni
sull’estensione del rinvio e sulla misura della limitazione del rimborso delle
azioni e degli altri strumenti di capitale tenendo conto della situazione
prudenziale della banca. In particolare, ai fini della decisione l’organo
valuta: – la complessiva situazione finanziaria, di liquidità e di solvibilità
della banca o del gruppo bancario; – l’importo del capitale primario di classe
1 […]» (Parte Terza, Capitolo 4, Sezione III, punto 1, della circ. Banca d’Italia
n. 285 del 2013, come modificata dal «9° aggiornamento del 9 giugno 2015»).
Letta sistematicamente e nella sua interezza, la
disposizione prevede dunque sì che il rimborso possa essere limitato dalla
banca (alla quale le disposizioni nazionali devono garantire tale facoltà, con
l’ampiezza descritta), ma solo se, nella misura e nello stretto tempo in cui
ciò sia necessario per soddisfare le esigenze prudenziali. Essa impone così
agli amministratori il dovere di verificare periodicamente la situazione prudenziale
della banca e la permanenza delle condizioni che hanno imposto l’adozione delle
misure limitative del rimborso e di provvedere ove esse siano venute meno. Più
precisamente, nel caso di rinvio del rimborso, una volta che si sia accertato
il venire meno degli elementi che hanno giustificato il differimento, il
credito del recedente si deve considerare esigibile. La limitazione
quantitativa, invece, deve condurre alla conservazione dei titoli non
rimborsati in capo al recedente, che si vedrà in questo modo reintegrato nel
suo status e nel valore patrimoniale della partecipazione.
L’effetto espropriativo paventato dal giudice a
quo è così scongiurato, dal momento che il socio recedente non subisce alcuna
perdita definitiva del valore delle azioni di cui sia limitato il rimborso. A
ciò si aggiunga che la previsione legislativa dell’obbligo dell’organo di
gestione strategica di tenere conto della situazione prudenziale della banca
nell’adozione delle scelte di limitazione del rimborso del socio recedente
comporta che la sua scelta debba essere motivata con riferimento alle descritte
esigenze, con la conseguenza che l’operato della banca potrà essere sindacato
in sede giudiziaria a tutela della posizione del socio.
Soffermandosi sull’ipotesi di un’impresa
bancaria che continuasse a operare solo grazie al computo nel patrimonio di
vigilanza delle azioni dei soci recedenti, il rimettente non considera che, in
un caso di questo tipo, l’alternativa alla prospettata soluzione comporterebbe
per gli stessi soci un sacrificio uguale se non probabilmente più grave. A
fronte di un capitale di vigilanza insufficiente, infatti, troverebbero
applicazione le misure di risoluzione (e, in caso di crisi non risolvibile, di
liquidazione) della banca previste dalla direttiva 2014/59/UE del Parlamento
europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014, che istituisce un quadro di
risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento
e che modifica la direttiva 82/891/CEE del Consiglio, e le direttive 2001/24/CE,
2002/47/CE, 2004/25/CE, 2005/56/CE, 2007/36/CE, 2011/35/UE, 2012/30/UE e
2013/36/UE e i regolamenti (UE) n. 1093/2010 e (UE) n. 648/2012 del Parlamento
europeo e del Consiglio. Queste regole, caratterizzate dal cosiddetto principio
del bail-in, prevedono che la crisi di una banca
debba essere risolta innanzitutto attraverso l’utilizzo di risorse interne alla
stessa in funzione di risanamento delle perdite, a partire da quelle di
pertinenza dei soci, che sarebbero i primi a rimanere esposti alle perdite: con
la conseguenza che il diritto al rimborso sarebbe comunque soggetto a
rilevanti, se non maggiori, limitazioni.
5.5.– Sulla base di quanto esposto con
riferimento alle censure esaminate fin qui, è agevole escludere anche
l’incompatibilità della norma denunciata con l’art. 1 del protocollo
addizionale alla CEDU. La disciplina contestata rispetta infatti le condizioni
alle quali, in base alla giurisprudenza della Corte EDU, l’ingerenza di
un’autorità pubblica nel pacifico godimento di un bene è giudicata compatibile
con la tutela convenzionale della proprietà, ossia che essa sia legittima,
necessaria per la tutela di un interesse generale e proporzionata (ex plurimis, Corte europea dei diritti
dell’uomo, sentenza 17 novembre 2015, Preite contro
Italia; sentenza 31
maggio 2011, Maggio contro Italia; sentenza 23 settembre 1982, Sporrong e Lönnroth contro Svezia).
In primo luogo, essa risulta legittima: è
infatti conforme alle condizioni richieste inderogabilmente dalle regole
prudenziali europee, che escludono fra l’altro, nello specifico, qualsivoglia
discrezionalità del legislatore nazionale nella scelta delle misure appropriate
per assicurare il loro rispetto. In secondo luogo, per le ragioni ampiamente
esposte sopra, la disciplina appare necessaria al perseguimento dei superiori
interessi pubblici alla stabilità del sistema bancario e finanziario e tanto
più appare tale nel caso delle banche popolari nel quale il rischio di recessi
in grande numero e di rimborsi conseguentemente di ampie dimensioni può mettere
gravemente a repentaglio la stabilità delle banche interessate e, con esse, dell’intero
sistema. La disposizione censurata risulta inoltre proporzionata al fine da
realizzare, bilanciando in maniera non irragionevole le esigenze dell’interesse
generale della comunità e la tutela dei diritti fondamentali della persona, e
ciò senza oneri individuali eccessivi (ex
plurimis, Corte europea dei diritti
dell’uomo, sentenza 13 gennaio 2015, Vécony contro
Ungheria; sentenza 30
giugno 2005, Jahn e altri contro Germania; sentenza 5 gennaio 2000, Beyeler contro Italia; sentenza 23 ottobre 1997,
National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society
contro Regno Unito; sentenza
21 febbraio 1986, James e altri contro Regno Unito; sentenza 23 settembre 1982, Sporrong e Lönnroth contro Svezia),
stante, come visto, l’obbligo degli enti creditizi di verificare costantemente
la permanenza delle condizioni che richiedono l’intervento prudenziale e il
loro vincolo a porre termine alle misure limitative nel momento in cui le
esigenze che le hanno determinate cessino. Si può ricordare come, nella
specifica materia bancaria, la Corte EDU abbia già avuto modo di affermare, ad
esempio, che non è manifestamente priva di ragionevole fondamento – e quindi
non contrasta con l’art. 1 del protocollo addizionale, nel cui ambito di
protezione ricadono anche le azioni di società (Corte europea dei diritti
dell’uomo, sentenza 25 luglio 2002, Sovtransavto
Holding contro Ucraina) – una misura che, allo scopo di proteggere un
settore economico chiave come quello finanziario, nazionalizza una banca in
crisi senza prevedere un indennizzo per gli azionisti (Corte europea dei diritti
dell’uomo, decisione 10 luglio 2012, Grainger e altri
contro Regno Unito).
In conclusione, nemmeno le questioni sollevate
in riferimento agli artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in
relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, sono fondate.
5.6.– Per ragioni non diverse da quelle appena
esposte, questa Corte ritiene che non sussistano i presupposti per un rinvio
pregiudiziale alla Corte di giustizia sulla validità della citata normativa
europea ai sensi dell’art. 267, terzo comma, TFUE, come richiesto, in via
subordinata alle altre conclusioni, dai soci della Banca Popolare di Sondrio e
della Banca Popolare di Milano costituiti in giudizio, per supposta violazione
dell’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,
proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre
2007 (CDFUE).
Misure comportanti sacrifici per i diritti degli
azionisti e dei creditori subordinati di società bancarie non determinano una
ingerenza sproporzionata e intollerabile nel diritto di proprietà riconosciuto
dall’art. 17 CDFUE, quando esse perseguono l’obiettivo della stabilità
finanziaria e non possono arrecare ai soggetti sacrificati un pregiudizio
maggiore di quello che essi subirebbero in caso di procedura di fallimento
conseguente alla mancata adozione delle misure stesse (nel senso della
prevalenza delle ragioni di stabilità finanziaria sul diritto di proprietà
degli azionisti e dei creditori subordinati delle banche, possono intendersi,
sia pure con riferimento a situazioni diverse da quella in esame, Corte di
giustizia UE, sentenza
8 novembre 2016, Grande sezione, in causa C-41/15, Gerard Dowling
e altri, in tema di ricapitalizzazione di una banca in crisi mediante la
sottoscrizione di nuove azioni da parte dello Stato, con sacrificio del diritto
di opzione dei soci; nonché sentenza
20 settembre 2016, Grande sezione, in cause riunite da C-8/15 P a C-10/15 P, Ledra Advertising Ltd e altri, in tema di azzeramento e
conversione delle passività ai fini della ristrutturazione e risoluzione delle
banche cipriote).
Argomenti del tutto simili possono essere riferiti
all’ipotesi della limitazione al rimborso anticipato delle azioni, in quanto
anche in questo caso il sacrificio è imposto, come visto, allo scopo di
consentire il rispetto dei requisiti patrimoniali di vigilanza cui è sotteso
l’interesse pubblico alla stabilità del sistema bancario e finanziario nel suo
complesso, ma anche l’obiettivo di evitare, a tutela di investitori e
depositanti, che la banca possa cadere in una procedura di risoluzione.
6.– Infine, il rimettente dubita della
legittimità della norma censurata «nella parte in cui, comunque, attribuisce
alla Banca d’Italia il potere di disciplinare le modalità d[ella] esclusione»
del diritto al rimborso delle azioni in caso di recesso a seguito di
trasformazione della società «anche in deroga a norme di legge».
A suo avviso, l’art. 1 del d.l.
n. 3 del 2015, nella parte in cui attribuisce alla Banca d’Italia il potere di
disciplinare le modalità dell’esclusione del diritto al rimborso, si porrebbe
in contrasto con gli artt. 1, 3, 23, 42, 95 e 97 Cost.
Il dubbio di legittimità costituzionale
investirebbe, in primo luogo, l’attribuzione stessa di un potere di
delegificazione all’Istituto di vigilanza, ovvero a un soggetto estraneo al
circuito politico dei rapporti Parlamento-Governo, e dunque politicamente
irresponsabile. Poiché inoltre il potere normativo in esame riguarderebbe
materie non connotate da particolare «tecnicità o settorialità»,
difetterebbero le ragioni tradizionalmente invocate a sostegno del potere
regolamentare delle Autorità indipendenti.
In secondo luogo, si tratterebbe di un potere di
delegificazione conferito «in bianco», in quanto il legislatore non avrebbe
dettato alcuna norma generale regolatrice della materia, e neppure avrebbe
individuato le norme primarie di cui sarebbe consentita l’abrogazione ad opera
della fonte secondaria.
Il sospetto di incostituzionalità sarebbe
rafforzato dalla considerazione che tale «potere regolamentare atipico con
effetto delegificante» è stato attribuito in materie coperte da riserva di
legge. L’esclusione del diritto al rimborso si tradurrebbe, infatti, in una
prestazione patrimoniale imposta al socio recedente, rispetto alla quale la
riserva di legge prevista dall’art. 23 Cost. dovrebbe precludere una
delegificazione regolamentare di così ampia portata. L’interferenza tra
l’esclusione del diritto al rimborso e la tutela della proprietà privata
consentirebbe di richiamare anche la riserva di legge prevista dall’articolo 42
Cost., e dall’art. 1, paragrafo 1, del protocollo addizionale alla CEDU.
Il Consiglio di Stato conclude sul punto
osservando che le riserve di legge previste dalla citate disposizioni
costituzionali non sembrano, invece, precludere alla legge di affidare, previa
fissazione di un limite temporale predeterminato e di un tasso di interesse
indennitario minimo, a una fonte di rango secondario (o eventualmente anche al
potere regolatorio della Banca d’Italia)
l’individuazione o la specificazione, sotto il profilo eminentemente tecnico,
dei presupposti economici, finanziari o patrimoniali che possono concretamente
giustificare il differimento del diritto al rimborso della quota del socio
recedente.
6.1.– I vizi prospettati sono accomunati dalla
medesima premessa ermeneutica: che la norma censurata abbia attribuito
all’Istituto di vigilanza un «potere regolamentare atipico con effetto
delegificante». È su queste basi, infatti, che il rimettente contesta, nell’an, l’attribuzione del potere di delegificazione in
capo a un’Autorità amministrativa indipendente dall’indirizzo politico del
Governo e, nel quomodo, l’estensione del potere
normativo così attribuito, senza previa fissazione delle norme generali
regolatrici della materia e senza individuazione delle disposizioni legislative
di cui sarebbe consentita l’abrogazione da parte della fonte secondaria.
Ancora una volta, tuttavia, il presupposto
interpretativo da cui muove il rimettente è erroneo: contrariamente a quanto
sostenuto nell’ordinanza di rimessione, infatti, la fattispecie normativa
censurata non delinea un procedimento di delegificazione.
Nel caso di specie «[l]’elemento comune alle
diverse forme di delegificazione possibili nel nostro ordinamento […],
costituito dal trasferimento della funzione normativa […] dalla sede
legislativa ad altra sede» (sentenza n. 130 del
2016), non ricorre. La legge impugnata non attribuisce alla Banca d’Italia
la facoltà di adottare una disciplina "sostitutiva” di quella già dettata dalla
legge, e neppure riconduce all’entrata in vigore della fonte secondaria la
contemporanea cessazione di efficacia di disposizioni legislative delegificate.
È infatti l’organo cui spetta ordinariamente l’esercizio della funzione
legislativa che ha introdotto direttamente ‒ e del tutto
indipendentemente dall’entrata in vigore del provvedimento della Banca d’Italia
‒ la regola che consente una limitazione del diritto al rimborso delle
azioni, in deroga alla disciplina ordinaria che pure rimane in vigore.
In questo quadro è la legge stessa che comporta
l’introduzione di previsioni statutarie che, anche in deroga alle norme del
codice civile, accordino agli organi amministrativi la facoltà di limitare il
rimborso delle azioni del socio uscente e degli altri strumenti di capitale
computabili nel capitale primario di classe 1; mentre alla Banca d’Italia è
affidato soltanto il compito di definire le condizioni tecniche che consentono
alla banca di rispettare i coefficienti patrimoniali minimi stabiliti dalla
normativa prudenziale europea.
Ciò chiarito, il dubbio di costituzionalità ‒
prospettato sulla base della considerazione che l’Autorità indipendente non
avrebbe sufficiente «legittimazione istituzionale» per essere investita di un
potere «ad effetto delegificante», e che in ogni caso l’attribuzione di tale speciale
competenza regolamentare avrebbe richiesto il duplice requisito della legge di
autorizzazione, di contenere le norme regolatrici della materia e di
predisporre l’abrogazione delle norme previgenti ‒ cade insieme con le
sue premesse.
6.2.‒ Ad analoga conclusione di
infondatezza si giunge anche ove si ritenga che il giudice a quo abbia inteso
censurare ‒ al di là della pretesa «surrettizia» forma di delegificazione
introdotta con la norma censurata ‒ anche un vizio più radicale,
attinente cioè alla violazione del principio di legalità sostanziale. Secondo
questa lettura dell’ordinanza di rimessione, il legislatore avrebbe omesso di
regolare compiutamente materie che dal punto di vista costituzionale lo
avrebbero richiesto, in ragione delle riserve di legge fissate in Costituzione
per le discipline che incidono sul diritto di proprietà (art. 42) e che
impongono prestazioni patrimoniali (art. 23 Cost.), e avrebbe altresì
trascurato di delimitare e indirizzare il potere regolamentare.
Contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente,
nella definizione della disciplina del rimborso delle azioni dei soci
recedenti, alla Banca d’Italia non spetta alcuna valutazione
politico-discrezionale sugli interessi in gioco, il cui bilanciamento – in
particolare quello fra l’interesse dei soci che intendono recedere e quello
della stabilità del sistema bancario ‒ è già definitivamente operato
dalla legge. Inoltre, il suo stesso potere di definire le modalità tecniche di
limitazione del rimborso è fortemente circoscritto dai citati regolamenti
europei (segnatamente dalle norme tecniche del più volte citato regolamento
delegato dell’UE n. 241/2014), che, come visto, dettano condizioni stringenti
per la computabilità degli strumenti di capitale delle banche nel capitale primario
di classe 1.
In definitiva, il principio della necessaria
predeterminazione normativa dell’attività amministrativa è rispettato e, di
conseguenza, la questione di legittimità costituzionale in esame risulta
infondata anche sotto questo profilo.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara
non
fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 del
decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3 (Misure urgenti per il sistema bancario e gli
investimenti), convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 2015, n. 33,
sollevate dal Consiglio di Stato, in riferimento agli artt. 1, 3, 23, 41, 42,
77, secondo comma, 95, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo
in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata
a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955,
n. 848, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 marzo 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 maggio 2018.
Allegato: