Sentenza n. 248 del 2018

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SENTENZA N. 248

ANNO 2018

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-      Giorgio                       LATTANZI                                       Presidente

-      Aldo                           CAROSI                                            Giudice

-      Marta                          CARTABIA                                              ”

-      Mario Rosario             MORELLI                                                 ”

-      Giancarlo                    CORAGGIO                                             ”

-      Giuliano                      AMATO                                                    ”

-      Silvana                        SCIARRA                                                 ”

-      Daria                           de PRETIS                                                 ”

-      Nicolò                         ZANON                                                     ”

-      Franco                         MODUGNO                                             ”

-      Augusto Antonio        BARBERA                                                ”

-      Giulio                          PROSPERETTI                                         ”

-      Giovanni                     AMOROSO                                               ”

-      Francesco                    VIGANÒ                                                   ”

-      Luca                            ANTONINI                                               ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 4-ter, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES) e dell’art. 36, commi 5, 5-ter e 5-quater, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), promosso dal Tribunale ordinario di Foggia, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento vertente tra D. D.O., G. M., M. T., M. I. e A. F., e l’Istituto zooprofilattico sperimentale della Puglia e della Basilicata, con ordinanza del 26 ottobre 2016, iscritta al n. 32 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visti gli atti di costituzione di D. D.O., di G. M., di M. T., di M. I. e di A. F., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri, della Confederazione Generale Italiana del Lavoro - CGIL e della Federazione Lavoratori della Funzione Pubblica - CGIL, e dell’Unione Italiana del Lavoro Federazione Poteri Locali - UIL FPL;

udito nell’udienza pubblica del 23 ottobre 2018 il Giudice relatore Giancarlo Coraggio;

uditi gli avvocati Amos Andreoni per la Confederazione Generale Italiana del Lavoro - CGIL e altra, Massimo Pistilli per l’Unione Italiana del lavoro Federazione Poteri Locali - UIL FPL, Vincenzo De Michele per D. D.O., Sergio Galleano per G. M., Francesca Chietera per M. T., Aurora Notarianni per A. F. e l’avvocato dello Stato Maria Gabriella Mangia per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.− Con ordinanza del 26 ottobre 2016, iscritta al n. 32 del reg. ord. 2017, il Tribunale ordinario di Foggia, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 4-ter, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), e dell’art. 36, commi 5, 5-ter e 5-quater, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), in riferimento, nel complesso, agli artt. 3, 4, 24, 35, primo comma, 97, terzo (recte: quarto) comma, 101, secondo comma, 104, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione alla clausola 4, punto 1, e alla clausola 5, punti 1 e 2, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEP sul lavoro a tempo determinato, e all’art. 4, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea, con richiamo alla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) del 26 novembre 2014, cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/18, Mascolo ed altri.

2.− Il giudice a quo premette di essere stato adito da più lavoratori, tutti già alle dipendenze dell’Istituto zooprofilattico sperimentale (IZS) della Puglia e della Basilicata, con rapporti di lavoro a tempo determinato, per l’accertamento della illegittimità degli stessi, con la conseguente trasformazione dei rapporti a termine in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ai sensi dell’art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, prospettato come applicabile, in particolare, in ragione della natura di ente pubblico economico dell’IZS, e per la condanna dell’Amministrazione al pagamento di un’indennità risarcitoria.

I ricorrenti sostenevano che, anche in presenza della natura pubblica del datore di lavoro, sussisterebbe il diritto alla trasformazione in ragione, oltre che della citata sentenza Mascolo, delle ordinanze della Corte di giustizia dell’Unione europea 1° ottobre 2010, in causa C-3/10, Affatato, e 12 dicembre 2013, in causa C-50/13, Papalia,

3.− L’IZS, costituitosi nel giudizio principale, a sostegno della bontà del proprio operato, richiamava le sentenze della CGUE del 7 settembre 2006, in causa C-53/04, Marrosu e Sardino, e in causa C-180/04, Vassallo, e rilevava che la legittimità del divieto alla trasformazione trovava conferma nell’art. 10, comma 4-ter, del d.lgs. n. 368 del 2001. Né poteva riconoscersi ai lavoratori un diritto al risarcimento del danno senza la prova della sussistenza dello stesso.

4.− Nel corso del giudizio, quindi, i lavoratori chiedevano di sollevare questione di legittimità costituzionale di tale ultima disposizione e dell’art. 36, commi 5, 5-ter e 5-quater, del d.lgs. n. 165 del 2001, nella parte in cui non consentirebbero la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato per il personale sanitario, qualora i contratti a termine superino i trentasei mesi di servizio anche non continuativo con mansioni equivalenti presso la stessa azienda sanitaria, per asserita violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., in quanto impedirebbero ogni forma di tutela sanzionatoria rispetto all’abusiva reiterazione dei contratti medesimi, in modo analogo a quanto previsto dalla disciplina del settore della scuola, fatta oggetto di declaratoria di illegittimità costituzionale con la sentenza di questa Corte n. 187 del 2016.

5.− Su queste premesse, il rimettente afferma che, per ciascuno dei lavoratori ricorrenti, i contratti a termine hanno superato la durata di trentasei mesi, e che pur in presenza della illegittimità degli stessi, deve fare applicazione ratione temporis delle norme impugnate, ostative alla riqualificazione dei rapporti a termine in rapporti a tempo indeterminato, almeno per quattro dei ricorrenti, atteso che i rapporti di lavoro con gli Istituti zooprofilattici sperimentali vanno riferiti al comparto sanità del pubblico impiego contrattualizzato.

6.− Dunque, la questione è stata ritenuta rilevante perché la declaratoria di incostituzionalità renderebbe inapplicabili le disposizioni, ostative alla tutela offerta dalle norme interne, che impediscono l’operatività della sanzione più efficace a rimuovere l’illecito, costituita dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Né assumerebbe rilievo, di contro, il decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183), che ha abrogato il d.lgs. n. 368 del 2001, in quanto le fattispecie di causa erano cessate in precedenza.

7.− In ordine alla non manifesta infondatezza della questione il rimettente premette quanto segue.

7.1.− Ritiene anzitutto che la sentenza Mascolo, i cui princìpi come ius superveniens si inseriscono direttamente nell’ordinamento interno, aveva individuato proprio nella previsione dell’art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, derogata dall’art. 10, comma 4-ter, la misura effettiva ed energica idonea a prevenire e sanzionare gli abusi nel ricorso alla successione dei contratti a tempo determinato, offrendo al giudice nazionale un’indicazione su quale possa essere anche nei confronti della pubblica amministrazione una effettiva ed energica misura preventiva e sanzionatoria.

7.2.− Rileva poi che l’art. 36, comma 5, contrasterebbe con l’ordinanza Papalia.

Ed infatti, la CGUE, con tale pronuncia, ha affermato che il diritto dell’Unione europea osta ad una disciplina che, in presenza della abusiva reiterazione di rapporti di lavoro a termine con un datore di lavoro pubblico, non solo escluda qualsiasi trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ma subordini il diritto di ottenere il risarcimento del danno all’obbligo, gravante su detto lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego.

Con la successiva sentenza 14 settembre 2016, in cause C-184/15 e C-197/15, Martínez Andrés e Castrejana López, si è affermato che la compatibilità eurounitaria della mancata previsione della trasformazione richiede la previsione di un’altra misura efficace.

7.3.− Tuttavia, ciò non potrebbe condurre ad una disapplicazione della disciplina nazionale in ragione della sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite civili, 15 marzo 2016, n. 5072, intervenuta successivamente.

Con essa, il Giudice di legittimità ha ribadito l’attualità del divieto di conversione del rapporto di lavoro a termine illegittimo in rapporto a tempo indeterminato, e ha affermato che il dipendente ha diritto al risarcimento del danno previsto dall’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro).

7.4.− Prosegue il rimettente deducendo che la citata sentenza delle sezioni unite civili poneva, a sua volta, un dubbio di inadempimento della direttiva 1999/70/CE, per dirimere il quale è stato promosso rinvio pregiudiziale dal Tribunale ordinario di Trapani, chiedendosi alla CGUE se rappresenti misura equivalente, nel senso indicato dalla sentenza Mascolo e dalla sentenza Morrosu e Sardino, l’attribuzione di un’indennità, con la possibilità per il lavoratore di conseguire l’intero ristoro del danno solo provando la perdita di altre opportunità lavorative oppure provando che, se fosse stato bandito un concorso, lo avrebbe vinto.

7.5.− Prospetta altresì il rimettente che, in ragione della specialità della disciplina del settore scuola, le statuizioni della sentenza n. 187 del 2016 e dell’ordinanza n. 194 del 2016 non possono trovare applicazione nel caso in esame in cui si controverte del comparto sanità.

7.6.− L’insieme delle disposizioni censurate evidenzia che l’ordinamento interno non prevede alcuna misura idonea a prevenire l’abusiva reiterazione dei contratti a tempo determinato per quanto riguarda tutto il pubblico impiego, compreso quello sanitario.

Ad avviso del rimettente, infatti, l’art. 10, comma 4-ter, del d.lgs. n. 368 del 2001 stabilisce una deroga per i contratti a tempo determinato del personale sanitario del Servizio sanitario nazionale, rispetto al medesimo decreto legislativo e comunque all’art. 5, comma 4-bis, dello stesso. L’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, contrasterebbe con la citata sentenza Papalia. Il richiamo del comma 5-ter (aggiunto dall’art. 4, comma 1, lettera b, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, recante «Disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni», convertito, con modificazioni, nella legge 30 ottobre 2013, n. 125) alle «esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale», di cui al comma 2 (come vigente ratione temporis), e la sanzione della nullità dei contratti a termine stipulati in violazione di tali esigenze, stabilita dal comma 5-quater (anch’esso aggiunto dal d.l. n. 101 del 2013, come convertito, impediscono ogni forma di tutela risarcitoria.

8.− Tutto ciò premesso, il rimettente ritiene che le norme censurate sarebbero in contrasto sia con la clausola 5, punti 1 e 2, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato recepito dalla direttiva 1999/70/CE; sia con il principio di non discriminazione rispetto alle condizioni di impiego dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili, tutelato dalla clausola 4, punto 1, dello stesso accordo quadro. Ed infatti, la cessazione ingiustificata dei singoli rapporti di lavoro a tempo determinato, dopo il superamento dei trentasei mesi di servizio con lo stesso datore di lavoro pubblico, equivale a tutti gli effetti ad un licenziamento, trattandosi di dipendente a tempo determinato abitualmente e illegittimamente impiegato per supplire carenze strutturali di organico (sono richiamate le sentenze della CGUE 14 settembre 2016, in causa C-596/14, de Diego Porras; e 14 settembre 2016, in causa C-16/15, Pérez López).

9.− Inoltre, il giudice a quo ritiene che le medesime norme violerebbero anche l’art. 3 Cost., e il principio di uguaglianza e non discriminazione, sia rispetto ai lavoratori privati cui si applica integralmente la sanzione dell’art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, sia rispetto ai dipendenti precari pubblici delle fondazioni lirico-sinfoniche (è richiamata la sentenza n. 260 del 2015), ai quali sarebbe stato riconosciuto il diritto alla stabilità lavorativa.

10.− Risulterebbero violati anche gli artt. 4, 24, 35, primo comma, 97, quarto comma, 101, secondo comma, 104, primo comma, e 111, secondo comma, Cost., sempre in relazione all’art. 117, primo comma, Cost. e all’attuazione degli obblighi derivanti dai vincoli comunitari, con particolare riferimento, oltre che alla direttiva 1999/70/CE, all’art. 4, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea, perché lo Stato italiano aveva già rappresentato alla CGUE, nella causa C-3/10, Affatato, che l’art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001 veniva integralmente applicato anche a tutto il pubblico impiego, compreso quello sanitario.

La stessa Corte di giustizia, nell’ordinanza Affatato, aveva attestato l’adeguatezza di tale misura sanzionatoria interna.

Sotto questo profilo, le norme impugnate violerebbero il giusto processo, i princìpi della parità delle armi e dell’affidamento dei consociati nella sicurezza giuridica e le attribuzioni costituzionali dell’autorità giudiziaria, impedendo di applicare la tutela effettiva della stabilità lavorativa, così realizzando una grave violazione degli obblighi comunitari e del principio di leale cooperazione con le Istituzioni europee.

11.− In data 3 aprile 2017 hanno spiegato intervento ad adiuvandum la Confederazione Generale Italiana del Lavoro - CGIL, e la Federazione Lavoratori della Funzione Pubblica - CGIL.

Preliminarmente, le intervenienti hanno affermato la propria legittimazione all’intervento in ragione sia della propria rappresentatività, in quanto partecipano alla contrattazione collettiva nazionale, sia degli obiettivi statutari volti alla tutela del complesso dei lavoratori.

12.− In data 4 aprile 2017 si sono costituiti, con autonomi atti, D. O.D., G. M., M. T, M. I., A. F., tutti parti del giudizio a quo.

13.− Nella medesima data ha spiegato intervento ad adiuvandum anche la Unione Italiana del Lavoro Federazione Poteri Locali - UIL FPL, assumendo di essere titolare di un interesse qualificato quale firmataria del contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto sanità.

14.− Con atto del 4 aprile 2017, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata.

Ad avviso dell’interveniente, la stessa difetterebbe di rilevanza, in quanto non è censurato l’art. 10, comma 5-bis, ultimo periodo, del d.lgs. n. 368 del 2001, introdotto dal decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34 (Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 16 maggio 2014, n. 78, che prevede, per lo svolgimento di attività di ricerca scientifica, una durata dei contratti a termine diversa dai trentasei mesi.

Il mancato riferimento nell’ordinanza di rimessione a tale disposizione e l’omesso tentativo di un’interpretazione costituzionalmente orientata darebbero luogo all’inammissibilità della questione.

L’Avvocatura generale dello Stato rileva, altresì, che la giurisprudenza della CGUE non esclude che possano essere adottate misure sanzionatorie diverse dalla trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato.

Osserva che il divieto di conversione è già stato ritenuto conforme agli artt. 3 e 97 Cost. dalla Corte costituzionale sin dalla sentenza n. 89 del 2003.

Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri richiama, quale adeguata soluzione alle problematiche del risarcimento da abusiva reiterazione dei contratti a termine, condividendone i contenuti, la sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite civili, 15 marzo 2016, n. 5072.

15.− In data 2 ottobre 2018, D. O.D., G. M., M. T., M. I. e A. F. hanno depositato un’unica memoria, con la quale, dopo avere ribadito la rilevanza della questione, hanno trattato il tema del contratto a termine ripercorrendo le pronunce della CGUE, della Corte costituzionale e della Corte di cassazione, facendo presente la pendenza di rinvii pregiudiziali in materia. Hanno affermato il carattere non risolutivo della sopravvenuta sentenza della CGUE 7 marzo 2018, in causa C-494/16, Santoro.

16.− Nella medesima data anche il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria con la quale ha dedotto l’inammissibilità degli interventi dei soggetti estranei al giudizio a quo, e nel merito ha ricordato come la CGUE, con la sentenza Santoro, ha sancito la conformità della normativa nazionale alle disposizioni eurounitarie.

Considerato in diritto

1.− Il Tribunale ordinario di Foggia, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 26 ottobre 2016, iscritta al n. 32 del reg. ord. 2017, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 4-ter, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), e dell’art. 36, commi 5, 5-ter e 5-quater, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), in riferimento, nel complesso, agli artt. 3, 4, 24, 35, primo comma, 97, terzo (recte: quarto) comma, 101, secondo comma, 104, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione alla clausola 4, punto 1, e alla clausola 5, punti 1 e 2, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEP sul lavoro a tempo determinato, e all’art. 4, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea.

Il rimettente richiama, in particolare, i princìpi affermati dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) nella sentenza del 26 novembre 2014, cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/18, Mascolo ed altri.

2.− Con ordinanza dibattimentale del 23 ottobre 2018, che si allega, sono stati dichiarati inammissibili gli interventi ad adiuvandum spiegati dalla Confederazione Generale Italiana del lavoro - CGIL, dalla Federazione Lavoratori della Funzione Pubblica - CGIL, e dalla Unione Italiana del Lavoro Federazione Poteri Locali - UIL FPL, in quanto soggetti estranei al giudizio principale e non titolari di un interesse direttamente riconducibile all’oggetto del medesimo, bensì di un mero indiretto, e più generale, interesse connesso agli scopi statutari della tutela degli interessi economici e professionali degli iscritti.

3.− Non possono essere presi in considerazione, secondo la costante giurisprudenza della Corte, ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, oltre i limiti dell’ordinanza di rimessione; e ciò sia che siano stati eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il thema decidendum, una volta che le parti si siano costituite nel giudizio incidentale di costituzionalità (ex multis, sentenza n. 276 del 2016).

Sono dunque inammissibili le deduzioni delle parti del giudizio a quo, costituitesi nel presente giudizio incidentale, che tendono ad ampliare il thema decidendum definito dall’ordinanza di rimessione.

4.− Nel merito, le norme sono sempre censurate nel loro insieme, ma rispetto a tre diversi parametri.

4.1.− Si tratta anzitutto dell’art. 10, comma 4-ter, del d.lgs. n. 368 del 2001, che è stato inserito dall’art. 4, comma 5, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute), convertito, con modificazioni, nella legge 8 novembre 2012, n. 189, ed è stato abrogato dall’art. 55, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183), a decorrere dal 25 giugno 2015 (il d.lgs. n. 81 del 2015 non viene in rilievo, ratione temporis, nella specie, ma può comunque ricordarsi che all’art. 29, comma 2, lettera c, e 4, fa salvo anche per il personale sanitario quanto previsto dall’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001).

Il citato art. 10, comma 4-ter, esclude dall’applicazione del d.lgs. n. 368 del 2001 i «contratti a tempo determinato del personale sanitario del medesimo Servizio sanitario nazionale, ivi compresi quelli dei dirigenti, in considerazione della necessità di garantire la costante erogazione dei servizi sanitari e il rispetto dei livelli essenziali di assistenza.[…] In ogni caso, non trova applicazione l’articolo 5, comma 4-bis».

Dunque, non trova applicazione la previsione (art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001) secondo cui, «qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato […]».

4.2.− Oggetto di censura è poi anche l’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, nel testo applicabile ratione temporis, e precisamente:

− il comma 5, primo e secondo periodo, a norma dei quali «In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative»;

− il comma 5-ter, secondo cui: «Le disposizioni previste dal decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 si applicano alle pubbliche amministrazioni, fermi restando per tutti i settori l’obbligo di rispettare il comma 1, la facoltà di ricorrere ai contratti di lavoro a tempo determinato esclusivamente per rispondere alle esigenze di cui al comma 2 e il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato» (comma abrogato dall’art. 9, comma 1, lettera e, del decreto legislativo 25 maggio 2017, n. 75, recante «Modifiche e integrazioni al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17, comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l) m), n), o), q), r), s) e z), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche»;

− il comma 5-quater, in particolare nel primo periodo, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 75 del 2017, secondo cui: «I contratti di lavoro a tempo determinato posti in essere in violazione del presente articolo sono nulli e determinano responsabilità erariale».

5.− Il rimettente, con una generale censura poi specificata nella trattazione delle singole questioni, denuncia che queste norme consentono, senza limiti e misure preventive antiabusive e sanzionatorie, l’utilizzazione illegittima dei contratti a tempo determinato per il personale sanitario del Servizio sanitario nazionale per più di trentasei mesi; differenziano i contratti di lavoro a tempo determinato stipulati con la pubblica amministrazione sanitaria, rispetto ai contratti a termine stipulati con datori di lavoro privati, o pubblici, come le fondazioni lirico-sinfoniche, escludendo senza ragioni oggettive i primi dalla tutela rappresentata dalla costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come previsto dall’art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001, e senza un’adeguata misura risarcitoria, così ledendo i parametri costituzionali invocati.

6.− La questione di legittimità costituzionale per disparità di trattamento rispetto alle altre categorie di lavoratori, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. e al principio di eguaglianza e non discriminazione, è inammissibile.

6.1.− La censura è del tutto priva di motivazione rispetto a entrambi i casi indicati come tertia comparationis. A parte la considerazione che si omette la necessaria indicazione delle disposizioni relative (ex multis, sentenza n. 18 del 2015), manca del tutto il confronto con le altre categorie richiamate. Si tratta, infatti, di rapporti o relativi ad apparati pubblici diversi, ovvero privatistici. Nel primo caso, pertanto, occorreva dimostrare la presunta omogeneità; nel secondo, poi, non vi è alcuna considerazione della specificità del settore pubblico, pure oggetto di numerose e approfondite decisioni da parte della giurisprudenza della CGUE e costituzionale, con riferimento in particolare alla necessità che l’accesso avvenga per concorso pubblico.

7.− Sono anche inammissibili, per la genericità e la mancanza di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione sul punto, le censure di violazione degli artt. 4, 24, 35, primo comma, 97, quarto comma, 101, secondo comma, 104, primo comma, e 111, secondo comma, Cost., e dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai già richiamati parametri interposti eurounitari, nonché all’art. 4, paragrafo 3, del Trattato dell’Unione europea.

8.− La questione relativa alla mancanza di misure sanzionatorie adeguate è poi sollevata per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost, in relazione alle clausole 4, punto 1, e 5, punti 1 e 2, dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva n. 1999/70/CE, e alle relative decisioni della CGUE.

9.− Va premesso che nelle more del giudizio incidentale è intervenuta la sentenza della CGUE 7 marzo 2018, in causa C-494/16, Santoro, che si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale del Tribunale ordinario di Trapani (richiamato dal rimettente). Essa si è occupata nuovamente della misura risarcitoria e in particolare della sua entità, affermando che «La clausola 5 dell’accordo quadro […] dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che, da un lato, non sanziona il ricorso abusivo, da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, a una successione di contratti a tempo determinato mediante il versamento, al lavoratore interessato, di un’indennità volta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato bensì, dall’altro, prevede la concessione di un’indennità […], accompagnata dalla possibilità, per il lavoratore, di ottenere il risarcimento integrale del danno dimostrando, mediante presunzioni, la perdita di opportunità di trovare un impiego o il fatto che, qualora un concorso fosse stato organizzato in modo regolare, egli lo avrebbe superato, purché una siffatta normativa sia accompagnata da un meccanismo sanzionatorio effettivo e dissuasivo, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare».

9.1.− La decisione, in sostanza, ha ritenuto la compatibilità euronitaria delle statuizioni contenute nella sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite civili, 15 marzo 2016, n. 5072 − pronunciata nel giudizio nel corso del quale era intervenuta la sentenza della CGUE 7 settembre 2015, in causa C-53/04, Marrosu e Sardino − che, dopo aver ribadito il divieto di conversione del rapporto di lavoro a termine in rapporto a tempo indeterminato, ha affermato che il dipendente pubblico, a seguito della reiterazione illegittima dei contratti a termine, ha diritto al risarcimento del danno previsto dall’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, con esonero dall’onere probatorio, nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro).

10.− La questione dunque non è fondata.

Difatti, se da una parte, non può che confermarsi l’impossibilità per tutto il settore pubblico di conversione del rapporto da tempo determinato a tempo indeterminato − secondo la pacifica giurisprudenza euronitaria e nazionale −, dall’altra sussiste una misura sanzionatoria adeguata, costituita dal risarcimento del danno nei termini precisati dalla Corte di cassazione.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 4-ter, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES), e dell’art. 36, commi 5, 5-ter e 5-quater, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), sollevate, in riferimento, nel complesso, agli artt. 3, 4, 24, 35, primo comma, 97, quarto comma, 101, secondo comma, 104, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione alla clausola 4, punto 1, e alla clausola 5, punti 1 e 2, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEP sul lavoro a tempo determinato, e all’art. 4, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea, dal Tribunale ordinario di Foggia, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 ottobre 2018.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Giancarlo CORAGGIO, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 27 dicembre 2018.

 

Ordinanza del 23 ottobre 2018 allegata