Sentenza n.86 del 1985

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SENTENZA N. 86

ANNO 1985

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Guglielmo ROEHRSSEN, Presidente

Avv. Oronzo REALE

Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI

Avv. Alberto MALAGUGINI

Prof. Livio PALADIN

Prof. Antonio LA PERGOLA

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO, Giudici,

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 8, terzo comma, della legge 16 dicembre 1977, n. 904 (INVIM), promossi con due ordinanze emesse il 17 febbraio 1982 dalla Commissione tributaria di primo grado di Vercelli sui ricorsi proposti dall'Opera Pia "Foa" e dall'Asilo Infantile "Levi", iscritte ai nn. 304 e 305 del registro ordinanze 1982 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 283 dell'anno 1982.

Visti gli atti d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 5 marzo 1985 il Giudice relatore Livio Paladin;

udito l'avvocato dello Stato Carlo Salimei per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - A seguito di un ricorso proposto dall'Opera pia FOA (collegata alla comunità israelitica di Vercelli) per ottenere l'esenzione dall'INVIM decennale quanto ad un immobile che l'Opera proprietaria assumeva destinato all'esercizio dei suoi fini istituzionali, l'adita Commissione tributaria di primo grado di Vercelli - con ordinanza emessa il 17 febbraio 1982 - ha ritenuto che il problema potesse venir superato dalla sopraggiunta legge n. 904 del 1977: il cui art. 8, terzo comma, dichiara senz'altro esenti dall'INVIM gli "immobili appartenenti ai benefici ecclesiastici ... il cui imponibile non sia ancora divenuto definitivo". Ma, precisamente in tal senso, la Commissione ha sollevato questione di legittimità costituzionale della norma predetta, "nella parte in cui limita l'esonero dall'imposta ai benefici ecclesiastici, escludendo dall'esonero stesso quelle istituzioni aventi personalità giuridica e dotazione patrimoniale immobiliare, che siano espressione o emanazione di confessioni religiose ammesse dallo Stato e diverse dalla religione cattolica"; e ciò in riferimento agli artt. 3, 8, 19 e 20 della Costituzione.

Secondo il giudice a quo, tale limitazione realizzerebbe un'innegabile disparità di trattamento in danno di tutti gli enti delle confessioni religiose non cattoliche aventi identica struttura e finalità dei "benefici ecclesiastici". Parallelamente, risulterebbero anche vulnerate l'eguaglianza delle confessioni religiose e la libertà di religione, in quanto a trattamenti diversi non potrebbero non corrispondere possibilità diverse di professare le varie fedi; e sarebbe inoltre contraddetto l'art. 20 Cost., che esclude la legittimità di "speciali gravami fiscali", i quali abbiano causa nel "carattere ecclesiastico" o nel "fine di religione o di culto d'una associazione od istituzione".

2. - Ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, contestando la fondatezza della questione.

L'Avvocatura dello Stato ha in particolare escluso che, nella specie, possa considerarsi violato il principio di eguaglianza, attesa la diversità della posizione complessiva delle categorie comparate. Tale diversità discenderebbe: in primo luogo, dal fatto che la stessa Costituzione, "riconoscendo che la Chiesa cattolica é un ordinamento primario e prevedendo di regolare i rapporti con essa secondo criteri differenti da quelli previsti per le altre confessioni religiose, dimostra chiaramente di valutare in modo diverso i due fenomeni sociali"; in secondo luogo, dal fatto che, per i "benefici ecclesiastici", lo Stato italiano si é impegnato, in base all'art. 30 del Concordato, a supplire alle deficienze dei relativi redditi. Il che comporta - si afferma - che l'ammontare dell'INVIM, ove dovesse venir corrisposto relativamente agli immobili dei detti benefici, "non potrebbe non essere ammesso tra le passività patrimoniali gravanti sull'ente e, quindi, tra gli elementi che concorrono a determinare l'ammontare dell'assegno supplementare di congrua a carico dello Stato"; mentre non sussiste alcuna consimile disciplina per gli istituti delle altre confessioni religiose.

Né avrebbero maggiore consistenza le ulteriori ipotesi di violazione dell'art. 8 Cost., "che riguarda la parità nel godimento della libertà e non impone dunque una completa parità di trattamento delle varie confessioni religiose", e dell'art. 19 Cost., che garantisce soltanto la generale libertà di professione della propria fede religiosa. Per quanto poi concerne l'art. 20 Cost., dovrebbe considerarsi, da un lato, "che la previsione della esenzione da una imposta che abbia carattere di generalità per tutti gli enti pubblici e privati, esula certamente dal divieto di imposizioni aventi causa nel carattere ecclesiastico o nel fine di culto o di religione"; e, d'altro lato, "che l'agevolazione in esame, più che essere in relazione immediata col carattere ecclesiastico degli enti in questione, deriva piuttosto dal particolare regime previsto per tali enti dalla disciplina concordataria, dato che l'agevolazione stessa non riguarda tutti gli enti ecclesiastici, ma solo i benefici, che sono appunto gli enti ai quali si riferisce il particolare regime dei supplementi di congrua".

3. - Identica questione di costituzionalità é stata riproposta dalla stessa Commissione di primo grado di Vercelli, con altra ordinanza in pari data.

Anche in questo giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, replicando le già svolte conclusioni di infondatezza.

 

Considerato in diritto

 

1. - I due giudizi vanno riuniti e congiuntamente decisi, dato che in entrambi i casi la Corte é chiamata a risolvere una comune questione di legittimità costituzionale: cioé se gli artt. 3, primo comma, 8, primo comma, 19 e 20 della Costituzione siano stati violati dall'art. 8, terzo comma, della legge 16 dicembre 1977, n. 904, nella parte in cui sono dichiarati esenti dall'INVIM decennale i soli "immobili appartenenti ai benefici ecclesiastici" (ad esclusione di "quelle istituzioni aventi personalità giuridica e dotazione patrimoniale immobiliare, che siano espressione o emanazione" - come precisano i dispositivi delle ordinanze di rimessione - "di confessioni religiose ammesse dallo Stato e diverse dalla religione cattolica").

Effettivamente, l'impugnata norma di esenzione non faceva parte dell'originaria disciplina dell'INVIM, che non ricollegava alcuna esclusione dalla imposta per decorso del decennio al carattere ecclesiastico di determinati enti (cfr. l'art. 3, terzo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 643). Né, d'altra parte, il presente problema poteva dirsi risolto già in base alla legge 22 dicembre 1975, n. 694, recante "Modifiche alla disciplina dell'imposta comunale sull'incremento di valore degli immobili". L'art. 3, terzo comma, lett. c e lett. g, della legge predetta esentava ed esenta dall'INVIM decennale, infatti, gli immobili appartenenti agli enti che non esercitino in modo esclusivo o principale attività commerciali, qualora "destinati" alle rispettive "attività istituzionali", nonché gli immobili "destinati all'esercizio del culto, purché compatibile con le disposizioni degli artt. 8 e 19 della Costituzione": il che, tuttavia, non comporta agli effetti tributari alcuna differenziazione fra le varie confessioni religiose (e neppure coinvolge l'intero complesso degli immobili appartenenti ad istituzioni comunque create dalle confessioni stesse).

Per contro, é solo in virtù del ricordato art. 8, terzo comma, della legge n. 904 del 1977 che tutti gli immobili appartenenti ai "benefici ecclesiastici", quali che ne siano la destinazione e l'utilizzazione, vengono esclusi dall'applicazione dell'INVIM per decorso del decennio. Ed é precisamente da questa previsione che prendono lo spunto le censure proposte dal giudice a quo: non già per far cadere la esenzione della quale si tratta, ma per estenderla a tutte le istituzioni promananti dalle confessioni acattoliche, in nome del principio di eguaglianza in materia religiosa che le ordinanze di rimessione ricavano dal combinato disposto degli artt. 3, 8, 19 e 20 della Costituzione

2. - Così configurata, la questione é senza dubbio rilevante, poiché un'eventuale decisione di accoglimento renderebbe superfluo che si accerti, ai fini dei giudizi principali, se gli immobili di cui si controverte siano o meno destinati all'esercizio di "attività istituzionali" (secondo la citata lett. c dell'art. 3, terzo comma, della legge n. 694 del 1975); ed effettivamente la disposizione impugnata "si applica anche" - per testuale disposto del legislatore - "agli immobili il cui imponibile non sia ancora divenuto definitivo". Ma l'impugnativa é infondata, in quanto le situazioni che si vorrebbero mettere a raffronto non sono per nulla omogenee; sicché non sussiste la pretesa violazione del principio costituzionale d'eguaglianza.

Anzitutto, la Corte non può condividere la premessa interpretativa dalla quale procedono le ordinanze di rimessione: ossia che i "benefici ecclesiastici", cui si riferisce l'impugnata norma di esenzione, comprendano tutti gli "enti ecclesiastici dotati di personalità giuridica". Secondo il previdente Codice canonico, al quale fa implicito richiamo l'art. 8, terzo comma, della legge n. 904 del 1977, il beneficio ecclesiastico non é il puro e semplice sinonimo dell'ente ecclesiastico, ma deve definirsi come l'"ens iuridicum a competente ecclesiastica auctoritate in perpetuum constitutum sen erectum, constans officio sacro et iure percipiendi reditus ex dote officio adnexos" (in base al canone 1409 del predetto Codex, ribadito dal canone 1272 del Codex promulgato il 25 gennaio 1988). Anche ai fini del presente giudizio, il beneficio ecclesiastico va pertanto inteso nel senso tecnico di tale nozione, senza confonderlo con gli altri enti della Chiesa cattolica. Ne la contraria interpretazione giurisprudenziale, fatta propria dal giudice a quo, può considerarsi tanto diffusa da costituire diritto vivente; all'opposto, tale interpretazione é stata giustamente disattesa, perché troppo lontana dal testo legislativo in esame, da parte di altri giudici e della dottrina tributaristica, per non dire dello stesso Ministero delle finanze.

Secondariamente, ben prima dell'entrata in vigore della legge n. 904, l'ordinamento italiano ha riguardato i benefici ecclesiastici in una prospettiva del tutto peculiare, che non trova riscontro nel caso di altre istituzioni religiose acattoliche, come quelle ricorrenti dinanzi alla Commissione tributaria di primo grado di Vercelli. All'origine di tale disciplina sta l'art. 30, terzo comma, del Concordato dell'11 febbraio 1929, con cui lo Stato italiano si é impegnato, "finché con nuovi accordi non sarà stabilito diversamente, ... a supplire alle deficienze dei redditi dei benefici ecclesiastici ..."; e si é riservato - in conseguenza - di intervenire nella "gestione patrimoniale di detti benefici, per quanto concerne gli atti e contratti eccedenti la semplice amministrazione" (secondo i criteri successivamente stabiliti dagli artt. 12 ss. della legge 27 maggio 1929, n. 848). Ne segue che lo Stato aveva ancora - nel tempo in cui sono insorte le controversie sottoposte al giudizio della Commissione tributaria di primo grado di Vercelli - l'interesse a prender parte alla gestione dei benefici ecclesiastici, appunto perché congruabili a cura dello Stato stesso; e questo interesse poteva ben coinvolgere i profili tributari di tale gestione, dato l'art. 3, primo comma, del r.d. 29 gennaio 1931, n. 227, per cui l'"assegno supplementare di congrua viene corrisposto sul bilancio del fondo per il culto ed é concesso a seguito di domanda del parroco, previo accertamento dei redditi del beneficio, al netto - fra l'altro - "delle imposte e tasse". Ma ciò determina - come si vede - una situazione assai particolare, che vale a giustificare, pur non imponendola, la scelta legislativa concretatasi nell'impugnato art. 8, terzo comma, della legge n. 904: scelta tuttoggi operante, tanto più che non é stato ancora approvato il disegno governativo presentato alla Camera dei deputati il 3 dicembre 1984, per ridisciplinare - in seguito agli accordi di modificazione del Concordato lateranense, stipulati il 18 febbraio 1984 - "il sostentamento del clero cattolico in servizio nelle diocesi".

In tali circostanze, la sentenza di accoglimento additivo prospettata dal giudice a quo non troverebbe alcun fondamento nel principio generale d'eguaglianza. Come la Corte ha chiarito - da ultimo - nella sentenza n. 108 del 1983, "le disposizioni legislative le quali contengono agevolazioni e benefici tributari di qualsiasi specie hanno palese carattere derogatorio e costituiscono il frutto di scelte del legislatore"; sicché la Corte stessa non può estenderne l'ambito di applicazione, se non quando lo esiga la ratio di tali benefici. Ma la ratio legis cui s'informa l'impugnata esenzione dall'INVIM decennale concerne in modo esclusivo i benefici ecclesiastici e non si presta di certo ad inglobare istituzioni religiose o parareligiose del tutto diverse, sul tipo dell'Opera pia "FOA" e dell'Asilo infantile "Levi", collegati alla comunità israelitica di Vercelli e ricorrenti nei giudizi a quibus.

3. - Per altro, una volta esclusa la violazione del principio generale d'eguaglianza, la stessa conclusione vale, a più forte ragione, quanto ai parametri rappresentati dagli artt. 8, 19 e 20 della Carta costituzionale.

Vero é che "il Costituente ha dettato negli artt. 7 e 8 della Cost., rispettivamente per la Chiesa cattolica e le altre confessioni religiose, norme esplicite, le quali non ne stabiliscono la parità, ma ne differenziano invece la situazione giuridica, che é, sì, di eguale libertà ... ma non di identità di regolamento dei rapporti con lo Stato" (cfr. la sent. n. 125 del 1957, come pure la sent. n. 39 del 1965). Ed é altrettanto vero che l'art. 19 Cost. riguarda la libertà di culto "come pura manifestazione di fede religiosa" (cfr. la sent. n. 59 del 1958): insuscettibile, dunque, di essere lesa dall'imposizione di un tributo quale l'INVIM decennale, tanto più se si consideri che dal tributo stesso rimangono esenti, in particolar modo, gli "immobili destinati all'esercizio del culto" medesimo. Né regge, infine, l'assunto che la norma impugnata realizzi una speciale limitazione legislativa od uno speciale gravame fiscale, atti a discriminare le confessioni religiose acattoliche, in contrasto con l'art. 20 Cost.: non é in questo ambito, infatti, che si colloca l'INVIM decennale e non é a questi effetti che opera, nemmeno in modo indiretto, l'impugnata norma di esenzione introdotta dall'art. 8, terzo comma, della legge 16 dicembre 1977, n. 904.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 8, terzo comma, della legge 16 dicembre 1977 n. 904 - "nella parte in cui limita l'esonero dall'imposta di cui all'art. 3 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 643 ai benefici ecclesiastici, escludendo dall'esonero stesso quelle istituzioni aventi personalità giuridica e dotazione patrimoniale immobiliare, che siano espressione o emanazione di confessioni religiose ammesse dallo Stato e diverse dalla religione cattolica" - sollevata dalla Commissione tributaria di primo grado di Vercelli, in riferimento agli artt. 3, 8, 19 e 20 della costituzione, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 marzo 1985.

Guglielmo ROEHRSSEN - Livio PALADIN

Depositata in cancelleria il 28 marzo 1985.