SENTENZA N. 98
ANNO 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO
”
- Augusto
Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1,
3, 9, 15 (recte: 15, comma 1,
lettera c), 19 (recte: 19, comma 1, lettera a),
72, comma 1, della legge
della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 8 aprile 2016, n. 4 (Disposizioni
per il riordino e la semplificazione della normativa afferente il settore
terziario, per l’incentivazione dello stesso e per lo sviluppo economico)
promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso
spedito per la notifica il 13 giugno 2016, depositato il 21 giugno 2016 e
iscritto al n. 36 del registro ricorsi 2016.
Visti l’atto di costituzione della Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia, nonché l’atto di intervento, fuori termine, della
FEDERDISTRIBUZIONE – Federazione delle Associazioni delle Imprese e delle
Organizzazioni Associative della Distribuzione Moderna Organizzata;
udito nell’udienza pubblica dell’11 aprile 2017 il Giudice
relatore Augusto Antonio Barbera;
uditi l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del
Consiglio dei ministri e l’avvocato Massimo Luciani per la Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia.
Ritenuto in
fatto
1.– Con il ricorso spedito per la
notifica il 13 giugno 2016, depositato il successivo 21 giugno e iscritto al
registro ricorsi n. 36 del 2016, il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso
questione di legittimità costituzionale, in via principale, degli articoli 1, 3, 9, 15 (recte:
15, comma 1, lettera c), 19 (recte: 19, comma 1,
lettera a), 72 comma 1, della legge regionale 8 aprile 2016, n.
4 (Disposizioni per il riordino e la semplificazione della normativa afferente
il settore terziario, per l’incentivazione dello stesso e per lo sviluppo
economico), per violazione dell’art. 117, primo e
secondo comma, lettere e) e s), della Costituzione, nonché degli
artt. 4 e 6 della legge
costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione
Friuli-Venezia Giulia).
1.1.– Il ricorrente censura: il citato
art. 1, nella parte in cui modifica l’art. 29 della legge regionale 5 dicembre
2005, n. 29 (Normativa organica in materia di attività commerciali e di
somministrazione di alimenti e bevande. Modifica alla legge regionale 16
gennaio 2002, n. 2 «Disciplina organica del turismo»), disponendo che
«l’esercizio del commercio al dettaglio in sede fissa è svolto senza limiti
relativamente alle giornate di apertura e chiusura, a eccezione dell’obbligo di
chiusura nelle seguenti giornate festive: 1° gennaio, Pasqua, lunedì
dell’Angelo, 25 aprile, l° maggio, 2 giugno, 15 agosto, 1° novembre, 25 e 26
dicembre»; il richiamato art. 3, che hamodificato l’art. 30, della legge
regionale n. 29 del 2005, disponendo che, «nei Comuni classificati come
località a prevalente economia turistica, gli esercenti determinano liberamente
le giornate di chiusura degli esercizi di commercio al dettaglio in sede fissa,
in deroga a quanto disposto dall’art. 29». La disposizione impugnata precisa
altresì le località a prevalente economia turistica e stabilisce che con
delibera «della Giunta regionale, su domanda del comune interessato, possono essere
individuate ulteriori località a prevalente economia turistica, sulla base
delle rilevazioni periodiche di Promo Turismo FVG».
Secondo il ricorrente, gli impugnati
artt. 1 e 3 violano l’art. 117, comma secondo, lettera e), Cost., che riserva alla competenza esclusiva dello Stato la
materia «tutela della concorrenza», e gli artt. 4 e 6 dello statuto della
Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, che definiscono la potestà legislativa
esclusiva della Regione in materia di commercio, da esercitare in armonia con
la Costituzione, con i principi generali dell’ordinamento, con le norme
fondamentali delle riforme economico-sociali e con gli obblighi internazionali
dello Stato (art. 4, comma 1), potendo la Regione adeguare con norme integrative
la legislazione statale alle proprie esigenze in alcune materie indicate
dall’art. 6, ma non in materia di commercio.
La disciplina uniforme degli orari e dei
giorni di apertura degli esercizi commerciali atterrebbe alla materia «tutela
della concorrenza»; l’autonomia normativa regionale speciale non potrebbe
dunque incidere su tale disciplina attribuita alla competenza legislativa
esclusiva dello Stato (vengono richiamate le sentenze n. 104 del
2014, n. 270
e n. 45 del 2010,
n. 160 del 2009,
n. 430 e n. 401 del 2007).
Espressione della competenza legislativa
esclusiva dello Stato in questa materia sarebbe, ad avviso del ricorrente,
l’art. 31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni
urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici),
convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma l, della legge 22 dicembre
2011, n. 214. La disposizione avrebbe liberalizzato l’attività imprenditoriale nel settore
commerciale, stabilendo che «costituisce principio generale dell’ordinamento
nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio
senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra
natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori,
dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali».
In particolare, il profilo degli orari e dei giorni
di apertura e chiusura degli esercizi commerciali è disciplinato dall’art. 3,
comma 1, lettera d-bis), del d.l. n.
223 del 2006 (Disposizioni urgenti
per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione
della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto
all’evasione fiscale), come modificato dall’art. 31 del d.l. n. 201 del 2011,
il quale stabilisce che le attività commerciali «individuate dal decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 114» (recante «Riforma della disciplina relativa
al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15
marzo 1997, n. 59»), sono svolte senza il rispetto – tra l’altro – di orari di
apertura e chiusura, dell’obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonché
di quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale.
L’imposizione generalizzata del divieto
di apertura nei giorni festivi indicati dalla legge impugnata, e l’esclusione
di quest’obbligo nei soli comuni a prevalente economia turistica, contrastano
con tale assetto, «costituente disciplina della concorrenza e riforma economica
fondamentale», sicché la normativa in esame esulerebbe dalla materia
«commercio», invadendo la competenza esclusiva statale, per contrasto con il
d.l. n. 223 del 2006 e con il successivo d.l. n. 201 del 2011, come convertiti
in legge.
Le medesime violazioni si colgono anche
in riferimento all’art. 3 della legge regionale n. 4 del 2016, che prevede la
liberalizzazione totale dei giorni di apertura soltanto nei comuni a prevalente
economia turistica, sotto il profilo della disparità di condizioni territoriali
di esercizio del commercio.
La previsione di un regime differenziato
si porrebbe, quindi, in contrasto con l’art. 117, comma 2, lettera e), Cost., e con i principi di
liberalizzazione, uniformità del mercato, par
condicio degli operatori e uniformità della disciplina, ribaditi dalla
Corte Costituzionale fin dalla sentenza n. 430 del
2007 (richiamata anche la sentenza n. 8 del
2013), per contrasto con l’art. 3, comma 1, del d.l. n. 223 del 2006, come
convertito in legge, che stabilisce la necessità di «garantire la libertà di
concorrenza secondo condizioni di parità e il corretto e uniforme funzionamento
del mercato, nonché di assicurare ai consumatori finali un livello minimo e
uniforme di condizioni di accessibilità ai beni e servizi sul territorio
nazionale».
2.– Il Presidente del Consiglio dei
ministriimpugna, altresì, gli artt. 9 e 15 (recte: 15, comma 1,
lettera c), della legge regionale n. 4 del 2016.
2.1.– La prima disposizione introduce,
nella legge regionale n. 29 del 2005, l’art. 85-bis, dedicato ai «centri commerciali naturali», locuzione con la
quale il legislatore regionale ha inteso definire un insieme «di attività
commerciali, artigianali e di servizi, localizzate in una zona determinata del
territorio comunale» e finalizzate «al recupero, promozione e valorizzazione
delle attività economiche, in particolare delle produzioni locali, al
miglioramento della vivibilità del territorio e dei servizi ai cittadini e ai
non residenti» (comma 1). Questi enti, ai sensi del comma 2 della norma
censurata, possono costituirsi «in forma di società di capitali, società consortili
e associazioni con finalità commerciali» e «adottano iniziative di
qualificazione e innovazione dell’offerta commerciale, di promozione
commerciale, di acquisizione di servizi innovativi di supporto alle attività
delle imprese aderenti»; alla loro costituzione potrebbero aderire «le
associazioni di categoria, la Camera di commercio e il Comune competenti per
territorio e altri enti e associazioni che si prefiggano lo scopo di
valorizzare il territorio» (comma 3).
La disposizione impugnata, al comma 4,
stabilisce altresì che al fine di sostenere le attività previste, i «centri
commerciali naturali» possono accedere ai contributi previsti dalla legge
regionale n. 4 del 2016 (di cui all’art. 100 della legge n. 29 del 2005).
2.2.– Nel ricorso si evidenzia, inoltre,
che l’art. 15 della legge regionale n. 4 del 2016, modifica l’art. 2, comma 1,
lettera i), della legge regionale n.
29 del 2005, distinguendo la categoria degli «esercizi di vendita al dettaglio
di media struttura», precedentemente comprensiva degli esercizi con superficie
di vendita superiore a 250 mq e fino a 1500 mq, in «esercizi di media struttura
minore», compresi tra 250 e 400 metri quadrati ed esercizi di «media struttura
maggiore», compresi tra più di 400 e 1500 metri quadri.
2.3.– Le due disposizioni censurate
introdurrebbero due nuove tipologie di esercizi commerciali non previsti dalle
norme statali, secondo quanto disposto dal d.lgs. n. 114 del 1998 (art. 4,
comma 1, lettere d, e, g),
generando una discrasia rispetto alla classificazione dei centri commerciali e
degli esercizi di vendita al dettaglio stabilita da queste ultime. Questa
differenziazione esulerebbe dalla materia «commercio» di competenza della
Regione autonoma, incidendo direttamente sulla disciplina della concorrenza.
Il ricorrente richiama la giurisprudenza
della Corte secondo cui una regolazione delle attività economiche
«ingiustificatamente intrusiva» genera inutili ostacoli alle dinamiche
economiche, a detrimento degli interessi degli operatori economici, dei consumatori
e degli stessi lavoratori e, dunque, alla stessa utilità sociale (sentenza n. 299 del
2012). Richiama anche la sentenza n. 125 del
2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni
regionali che avevano introdotto la definizione di «polo commerciale» non
prevista nella classificazione degli esercizi di vendita operata dal d.lgs. n.
114 del 1998.
2.4.– Con riguardo al disposto dell’art.
15 della legge regionale n. 4 del 2016, ad avviso del ricorrente, dalla
distinzione menzionata non farebbe seguito «nell’insieme della novellata legge
regionale n. 29 del 2005, alcuna conseguenza pratica», poiché il regime
amministrativo a cui sono sottoposti gli esercizi di media struttura rimarrebbe
immutato (sottoposizione a Segnalazione certificata di inizio attività o ad
autorizzazione in base alla dimensione della struttura), essendo regolato
dall’art. 12, della citata legge, non soggetto a modifiche.
2.5.– Quanto ai «centri commerciali
naturali», introdotti dall’art. 9, della legge regionale impugnata, anch’essi
comporterebbero un eccesso di regolazione, in quanto si basano su una
definizione sfuggente che eccede largamente i limiti concessi all’intervento
del legislatore nella dinamica economica. La figura del «centro commerciale naturale»
inciderebbe sul libero dispiegarsi dell’iniziativa economica in regime di
concorrenza, fissando limiti spaziali, oggettivi e strutturali alle attività
commerciali, anziché rimettere al dispiegamento del gioco concorrenziale il
determinarsi dei luoghi, oggetti e strutture delle attività commerciali.
Altererebbe, inoltre, la concorrenza all’interno del territorio regionale, e
anche al di fuori di esso, perché: a) consente che alle società e associazioni
con finalità commerciali, in cui i centri dovrebbero costituirsi, partecipino
anche soggetti che non perseguono direttamente ed esclusivamente finalità
commerciali, tra cui le Camere di commercio e il Comune competente per
territorio; b) collega alla costituzione di un «centro commerciale naturale»
l’accesso ai finanziamenti pubblici, previsti dall’art. 100 della legge
regionale n. 29 del 2005 (secondo l’art. 85-bis,
ultimo comma, della medesima legge, introdotto dall’impugnato art. 9),
incentivando la costituzione di società o associazioni per ragioni legate alla
possibilità di accedere ai finanziamenti (richiamata la sentenza n. 104 del
2014).
3.– Con il terzo motivo di ricorso,
viene censurato l’art. 19 (recte: 19, comma 1, lettera a), della legge regionalein
esame, che modifica l’art. 7, comma 2, della legge regionale n. 29 del 2005.
La norma impugnata stabilisce che
l’esercizio dell’attività commerciale in sede fissa o sulle aree pubbliche di
prodotti alimentari o la somministrazione di alimenti e bevande, ancorché
svolto «nei confronti di una cerchia limitata di persone in locali non aperti
al pubblico», è subordinato al possesso di uno dei requisiti di cui all’art.
71, commi 6 e 6-bis, del decreto
legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE
relativa ai servizi nel mercato interno).
Il ricorrente richiama l’art. 71, commi
6 e 6-bis, del d.lgs. n. 59 del 2010,
nel testo in vigore dal 14 settembre 2012, a seguito delle modifiche disposte
dal decreto legislativo 6 agosto 2012, n. 147 (Disposizioni integrative e
correttive del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, recante attuazione
della direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno), che
dispone requisiti meno stringenti rispetto alla precedente formulazione. Sintetizzando
l’evoluzione della vicenda normativa evidenzia che, con il d.lgs. correttivo n.
147 del 2012, il legislatore è intervenuto sulla prima attuazione della
direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 12 dicembre 2006, n.
2006/123/CE recante «Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa
ai servizi nel mercato interno» (da qui: direttiva Servizi), operata con
l’originario testo dell’art. 71, del d.lgs. n. 59 del 2010, in materia di
requisiti soggettivi per l’esercizio del commercio o della somministrazione di
alimenti. L’intervento costituì una verifica della necessità e proporzionalità
di tali requisiti soggettivi, ai sensi dell’art. 15, della direttiva Servizi (e
del correlativo art. 12 del d.lgs. n. 59 del 2010), che prescrive tale verifica
da parte degli Stati membri. Il legislatore statale, con il decreto correttivo
del 2012, ritenne che non fosse proporzionato richiedere il possesso dei
requisiti soggettivi, previsti dall’art. 71, comma 6, anche nel caso in cui il
commercio o la somministrazione di alimenti avvenissero nei confronti di una
ristretta cerchia di soggetti. Per questa ragione eliminava l’inciso «anche se
effettuate nei confronti di una cerchia determinata di persone».
Il permanere, nell’impugnato art. 19,
della restrizione abolita dal legislatore statale, palesa per il ricorrente la
violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., e delle norme statutarie sopra citate (che rinviano ai
principi fondamentali della Costituzione e alle grandi riforme economiche),
avendo introdotto una disciplina che incide sulla misura di liberalizzazione
prevista dalla norma correttiva statale del 2012. Le Regioni, anche ad
autonomia speciale, infatti, non possono, nell’esercitare la propria competenza
in materia di «commercio», provocare differenziazioni territoriali nelle
condizioni di tale offerta, secondo quanto statuito dall’art. 41, comma 2,
della legge delega 7 luglio 2009, n. 88 (Disposizioni per l’adempimento di
obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla Comunità europea – Legge
comunitaria 2008), che impone anche alle Regioni ad autonomia speciale di
adeguare la propria legislazione a quella statale di attuazione della direttiva
Servizi.
Il permanere nella legislazione
regionale di requisiti non necessari e non proporzionati, contrasterebbe anche
con l’art. 117, primo comma, Cost.
4.– Il Presidente del Consiglio dei
ministri impugna, infine, l’art. 72, comma 1, della legge regionale n. 4 del
2016, che introduce l’art. 6-quater
nella legge regionale 12 maggio 1971, n. 19 (Norme per la protezione del
patrimonio ittico e per l’esercizio della pesca nelle acque interne del
Friuli-Venezia Giulia).
Ad avviso del ricorrente, la Regione
avrebbe adottato tale disposizione nell’esercizio della propria competenza esclusiva
in materia di pesca (art. 4, n. 3 dello statuto), ma ne avrebbe oltrepassato i
limiti, invadendo la competenza statale esclusiva in materia di tutela
dell’ambiente e dell’ecosistema (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.), e l’art. 117, primo comma,
Cost., in quanto avrebbe posto una disciplina in contrasto con i principi
ricavabili dall’ordinamento dell’Unione europea, e in particolare con l’art. 22
della direttiva 21 maggio 1992, n. 92/43 CEE (Direttiva del Consiglio relativa
alla conservazione degli habitat
naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche) (c.d. direttiva
Habitat), e gli artt. 4 e 6, par. 1,
del regolamento CE 11 giugno 2007, n. 708/2007 (Regolamento del Consiglio
relativo all’impiego in acquacoltura di specie esotiche e di specie localmente
assenti).
Le modifiche apportate dalla legge
impugnata consentirebbero, al fine di favorire la pesca sportiva: 1)
l’immissione in tutti corpi idrici regionali di specie ittiche autoctone; 2)
l’immissione di specie alloctone in corpi idrici artificiali, a condizione che,
per quanto connessi con corpi idrici naturali, non ne consentano la migrazione;
3) l’immissione nei corpi idrici naturali della specie alloctona della trota
iridea, purché siano immessi individui incapaci di riprodursi, anche nei corpi
idrici abitati dalla «trota marmorata» (specie autoctona) per alleggerire la
pressione di pesca su quest’ultima; 4) l’immissione della specie alloctona
«trota fario» in qualsiasi corpo idrico, purché si tratti di corpi idrici non abitati
dalla «trota marmorata» o di corpi idrici originariamente privi di fauna ittica
e attualmente popolati da specie introdotte (come i laghi artificiali).
Per il ricorrente questa disciplina minerebbe
l’equilibrio naturale delle specie ittiche autoctone, nella misura in cui si
consente, senza limiti, l’immissione artificiale di specie autoctone, creando
il pericolo del sovrappopolamento, senza prevedere che si tratti di specie a
rischio di estinzione. Si consente inoltre che specie alloctone «particolarmente
invasive» (trota iridea e trota fario), vengano introdotte artificialmente,
garantendo in modo meramente apparente che non si mescoleranno alle specie
autoctone, minando l’habitat di
queste ultime, a fronte di condizioni limitative previste dalla normativa
impugnata solo apparenti, considerata la loro genericità.
La normativa regionale esorbiterebbe
dalla competenza regionale in materia di pesca, impingendo direttamente sulla
tutela dell’ambiente di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., che vincola anche le Regioni
ad autonomia speciale, esulando la materia dalla competenza legislativa della
Regione, secondo lo statuto di autonomia.
Lo Stato italiano, prosegue il
ricorrente, ha esercitato la propria competenza con il decreto del Presidente
della Repubblica n. 357 del 1997 (Regolamento recante attuazione della
direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e
seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche ), come modificato
dal decreto del Presidente della Repubblica n. 120 del 2003 (Regolamento
recante modifiche ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 8
settembre 1997, n. 357, concernente attuazione della direttiva 92/43/CEE
relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della
flora e della fauna selvatiche), consentendo (art. 12, comma 2) la
reintroduzione delle specie autoctone sulla base di linee guida da emanarsi dal
Ministero dell’ambiente, previa acquisizione del parere dell’Istituto nazionale
per la fauna selvatica (ora ISPRA), e (art. 12, comma 3) vietando espressamente
la reintroduzione, l’introduzione e il ripopolamento in natura di specie e
popolazioni non autoctone.
L’invasione della competenza statale
deriva quindi, in definitiva, dalla circostanza che la legge regionale
impugnata autorizza direttamente le immissioni di specie autoctone e alloctone
sopra illustrate, superando l’intero sistema di verifiche preventive e di
autorizzazioni, e soprattutto il divieto assoluto di introduzione di specie alloctone,
previsti dalla normativa statale di settore, attuativa di precise prescrizioni
di diritto europeo – espresse dalla direttiva CEE, n. 43 del 1992 e dal
regolamento CE n. 708 del 2007 – e comunque fondante standard uniformi di tutela dell’ambiente, non differenziabili tra
Regione e Regione.
Infine, la normativa regionale
violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., per il contrasto con il principio di
precauzione con riferimento all’art. 22 della direttiva Habitat, che consente agli Stati membri di reintrodurre specie
autoctone, solo previa verifica della effettiva necessità e sostenibilità
ambientale, al solo fine di ristabilire il loro soddisfacente stato di
conservazione; con le disposizioni della direttiva stessa, che consente agli
Stati membri, in funzione di conservazione dell’equilibrio ambientale, di
vietare l’introduzione di specie alloctone, come ha fatto il legislatore
italiano senza incontrare censura né in sede europea né da parte delle Regioni.
5.– Con memoria del 26 luglio 2016 si è
costituita in giudizio la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, chiedendo che
il ricorso sia dichiarato inammissibile e, in subordine, infondato.
La resistente eccepisce innanzitutto una
ragione di inammissibilità del ricorso comune a tutte le censure. Nel motivare
l’impugnazione, secondo la difesa regionale, il ricorrente non avrebbe
considerato le disposizioni di cui agli artt. 8 e seguenti del d.P.R. n. 1116
del 1965 (Norme di attuazione dello Statuto in materia di agricoltura e
foreste, industria e commercio, turismo e industria alberghiera), dal
particolare e significativo «ruolo interpretativo ed integrativo delle stesse
espressioni statutarie» (richiamate le sentenze n. 288 del
2013 e n. 51
del 2006).
Con riguardo alla censura di cui
all’art. 1 della legge regionale n. 4 del 2016, relativa alle giornate di
chiusura degli esercizi commerciali, la Regione eccepisce che il ricorrente,
nel lamentare la pretesa violazione di «norme di grande riforma economico-
sociale» dello Stato, pur citando alcune disposizioni di legge statale (art.
31, del d. l. n. 201 del 2011; art. 3, del d. l. n. 223 del 2006), non le
qualifica come «norme di grande riforma economico-sociale», bensì si
limiterebbe a definirle «espressione della competenza legislativa esclusiva
dello Stato in questa materia» (nell’ambito materiale della tutela della
concorrenza). Ne deriverebbe l’inammissibilità per difetto di motivazione e di
indicazione del parametro (interposto) di legittimità costituzionale.
Nel merito, secondo la difesa regionale,
la censura di violazione dell’ambito competenziale riservato allo Stato nella
materia «tutela della concorrenza» appare infondata. Ad avviso della
resistente, in particolare, i precedenti di questa Corte richiamati nel ricorso
non rileverebbero nel caso di specie «per il semplice motivo che la
disposizione in commento non limita l’assetto del mercato (e della concorrenza
nel mercato) disciplinato dallo Stato».
La resistente eccepisce l’infondatezza
anche della censura relativa alla presunta violazione dell’art. 4 dello statuto
speciale «per il fatto che la disposizione impugnata non sarebbe "in armonia”
con le norme di grande riforma economico-sociale dello Stato». A suo avviso,
infatti, solo il comma 2, dell’art. 31, del d.l. n. 201 del 2011, che ha
liberalizzato il commercio, costituirebbe «principio generale dell’ordinamento,
mentre tale qualificazione non è prevista per il primo comma». Da ciò
discenderebbe che «nemmeno lo Stato qualifica come "grande riforma
economico-sociale” la soppressione delle regole di apertura e chiusura degli
esercizi commerciali». Al contrario, la garanzia di alcuni giorni di chiusura
rappresenterebbe una misura di tutela dei lavoratori, che trova fondamento
nell’art. 36 Cost.
Con riguardo alla censura relativa ai
centri commerciali naturali e alle medie strutture di vendita (artt. 9 e 15
della legge regionale n. 4 del 2016), la resistente evidenzia che le censure
non avrebbero ad oggetto l’intero art. 15, bensì la sola lettera c) del comma l, che novella la lettera i) dell’art. 2, comma l, della legge
regionale n. 29 del 2005, poiché le altre previsioni dell’art. 15 non sarebbero
menzionate nell’articolazione del motivo.
Nel merito le doglianze sarebbero
manifestamente infondate. La disciplina del «centro commerciale naturale» non
costituirebbe una nuova tipologia di esercizio commerciale, bensì uno strumento
«di promozione economico-sociale delle aree nelle quali, per tradizione,
vocazione o potenzialità di sviluppo, l’attività commerciale assume particolare
rilievo». Ciò sarebbe dimostrato dal fatto che la legge contempla l’adesione a
tali enti anche da parte dei Comuni, delle associazioni di categoria e delle
Camere di commercio, «soggetti che sono totalmente estranei all’attività di
vendita al dettaglio».
Sarebbe priva di fondamento anche la
doglianza secondo la quale il centro commerciale naturale inciderebbe «sul
libero dispiegarsi dell’iniziativa economica in regime di concorrenza», poiché
la legge impugnata non determinerebbe «autoritativamente l’ambito territoriale
dei centri commerciali naturali». Al contrario, l’istituzione di tali enti
sarebbe rimessa alla volontà delle imprese private, «che scelgono di
"consorziarsi” e, eventualmente, di agire in partenariato con i comuni e le
camere di commercio, per valorizzare alcune aree a vocazione commerciale», (in
linea con quanto accaduto in altre Regioni italiane e come avallato dalla
giurisprudenza amministrativa: TAR Toscana, Sez. seconda, sentenza 30 maggio
2014, n. 925).
Secondo la resistente, inoltre, è
infondata la censura in base alla quale la disposizione in esame sarebbe in
grado di «alterare la concorrenza all’interno del territorio regionale», perché
la Regione assegna dei contributi ai centri commerciali naturali. A suo avviso,
la legge regionale n. 29 del 2005, già prevedeva forme di incentivazione per
determinate attività commerciali; similmente stabiliscono inoltre le norme
statali che prevedono incentivi alle imprese, senza che sussista violazione
dell’ordinamento europeo che consentirebbe forme di incentivazione economica,
purché erogate secondo i princìpi di non discriminazione, trasparenza,
pubblicità e parità di trattamento tra gli operatori commerciali. Si
tratterebbe, infatti, di aiuti compatibili con l’assetto concorrenziale del
mercato europeo, tanto che il regolamento CE 18 dicembre 2013, n. 1407/2013/UE
(Regolamento della Commissione relativo all'applicazione degli articoli 107 e
108 del trattato sul funzionamento dell'Unione europea agli aiuti «de minimis») li sottrae alla disciplina
sugli "aiuti di Stato” (art. 107 Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea).
Anche la censura concernente la
qualificazione delle medie strutture di vendita sarebbe manifestamente
infondata, in quanto si tratterebbe di «disposizioni meramente definitorie»
che, appunto per questo, secondo la giurisprudenza costituzionale, non
avrebbero effetto lesivo.
Il terzo motivo di ricorso relativo ai
requisiti per la somministrazione dei cibi e bevande sarebbe nel merito
infondato, perché non è in gioco la tutela della concorrenza, bensì quella
della salute, secondo quanto statuito dalla Corte costituzionale nella sentenza
n. l04 del 2014.
Con riguardo al quarto motivo di
ricorso, relativo all’immissione di specie ittiche, per la Regione resistente
la censura è anzitutto inammissibile, in quanto formulata in maniera ipotetica
e, comunque, è infondata nel merito.
Secondo la resistente, l’impugnazionenon
considera il ruolo che la novella impugnata conferirebbe all’Ente Tutela Pesca
(ETP) del Friuli-Venezia Giulia, deputato alla conservazione e alla tutela del
patrimonio ittico regionale che predispone il "Piano di gestione ittica” (art.
6-ter legge regionale n. 19 del
1971), quale documento di programmazione teso alla tutela della biodiversità,
alla conservazione e incremento della fauna ittica e dei relativi habitat, alla gestione del patrimonio
ittico. L’attività di immissione e ripopolamento, dunque, non sarebbe fine a sé
stessa, costituendo uno strumento di attuazione del piano di gestione ittica.
Insussistenti sarebbero le censure di
violazione dell’art. 22 della direttiva Habitat,
sull’opportunità di reintrodurre delle specie locali nel loro territorio degli
Stati membri (di cui all’allegato IV), poiché la disposizione impugnata non
riguarderebbe le "re-introduzioni”, bensì le immissioni di esemplari di specie
autoctone che sono già presenti nell’ambiente, a fini della loro
"conservazione”.
Ad identica conclusione dovrebbe
pervenirsi quanto alla denunciata violazione dell’art. 12, comma 3, del d.P.R.
n. 357 del l997, perché la disposizione impugnata già escluderebbe l’immissione
di specie alloctone nelle acque naturali e artificiali, ai sensi della
direttiva richiamata, nonché nei «siti di frega o nursery di specie ittiche
autoctone incluse nell’allegato II della Direttiva 92/43/CEE o di specie
oggetto di particolari misure di salvaguardia da parte dell’Ente Tutela Pesca».
6.– In data 18 ottobre 2016 ha
depositato atto di intervento, con istanza di sospensione cautelare, la
Federazione delle Associazioni delle Imprese e delle Organizzazioni Associative
della Distribuzione Moderna Organizzata (FEDERDISTRIBUZIONE).
7.– In prossimità dell’udienza pubblica,
la difesa regionale ha depositato una memoria, reiterando le sintetizzate
eccezioni di inammissibilità e di infondatezza. Inoltre, in riferimento
all’impugnato art. 3, deduce che, successivamente alla proposizione del
ricorso, tale disposizione è stata modificata con la legge regionale 9 dicembre
2016, n. 19 (Disposizioni per l’adeguamento e la razionalizzazione della
normativa regionale in materia di commercio), in un’ottica di maggiore
liberalizzazione stabilendo, tra l’altro, che la Giunta regionale può disporre
la sospensione delle giornate di chiusura degli esercizi commerciali, di cui al
comma 1, della legge impugnata.
Considerato
in diritto
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha
promosso, in riferimento agli artt. 117, primo e secondo comma, lettere e) e s),
della Costituzione, e agli artt. 4 e 6 della legge costituzionale 31 gennaio
1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia), questione di
legittimità costituzionale degli artt. 1, 3, 9, 15, 19 e 72, comma 1, della
legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, 8 aprile 2016, n. 4,
(Disposizioni per il riordino e la semplificazione della normativa afferente il
settore terziario, per l’incentivazione dello stesso e per lo sviluppo
economico), di modifica delle leggi regionali 5 dicembre 2005, n. 29 (Normativa
organica in materia di attività commerciali e di somministrazione di alimenti e
bevande. Modifica alla legge regionale 16 gennaio 2002, n. 2 «Disciplina
organica del turismo») e 12 maggio 1971, n. 19 (Norme per la protezione
del patrimonio ittico e per l’esercizio della pesca nelle acque interne del Friuli-Venezia
Giulia).
2.– Preliminarmente, deve essere
dichiarato inammissibile l’intervento della Federazione delle Associazioni
delle Imprese e delle Organizzazioni Associative della Distribuzione Moderna
Organizzata (FEDERDISTRIBUZIONE), per la pregiudiziale e assorbente ragione che
è avvenuto con atto depositato il 21 ottobre 2016 (spedito il 18 ottobre) e,
quindi, oltre il termine stabilito dall’art. 4 delle norme integrative per i
giudizi davanti alla Corte costituzionale; termine perentorio secondo la
costante giurisprudenza di questa Corte (tra le più recenti, sentenze n. 242
e n. 110 del
2016).
3.– Ancora in via preliminare, va
osservato che la Regione ha eccepito l’inammissibilità di tutte le censure,
poiché il ricorrente non ha considerato le disposizioni, di cui agli artt. 8 e
seguenti, del d.P.R. 26 agosto 1965, n. 1116 (Norme di attuazione dello Statuto
in materia di agricoltura e foreste, industria e commercio, turismo e industria
alberghiera), che avrebbero particolare e significativo «ruolo interpretativo
ed integrativo delle stesse espressioni statutarie» e rileverebbero al fine
dell’esatta identificazione del thema
decidendum.
3.1.– L’eccezione non è fondata.
Secondo la costante giurisprudenza
costituzionale, l’omesso riferimento alle disposizioni statutarie, qualora
incida sulla compiuta definizione dell’oggetto del giudizio, comporta
l’inammissibilità della questione (ex
multis, sentenze
n. 58 del 2016, n. 151 e n. 142 del 2015).
Nella specie non è, tuttavia,
richiamabile detto principio. Le disposizioni delle quali è lamentata la
pretermissione hanno, infatti, un contenuto sostanzialmente reiterativo delle
norme statutarie (artt. 4 e 6 della legge costituzionale n. 1 del 1963), che
sono state puntualmente evocate dal ricorrente, allo scopo di identificare la
potestà legislativa regionale in materia di commercio e pesca.
4.– Il ricorrente censura anzitutto il
citato art. 1, il quale sostituisce l’art. 29 della legge regionale n. 29 del
2005, prevedendo che «l’esercizio del commercio al dettaglio in sede fissa è
svolto senza limiti relativamente alle giornate di apertura e chiusura, ad
eccezione dell’obbligo di chiusura nelle seguenti giornate festive: 1° gennaio,
Pasqua, lunedì dell’Angelo, 25 aprile, l° maggio, 2 giugno, 15 agosto, 1° novembre,
25 e 26 dicembre». Censura inoltre il richiamato art. 3, che ha sostituito
l’art. 30, comma 1, della legge regionale n. 29 del 2005, disponendo che nei
comuni «classificati come località a prevalente economia turistica, gli
esercenti determinano liberamente le giornate di chiusura degli esercizi di
commercio al dettaglio in sede fissa, in deroga a quanto disposto dall’art.
29»; ha abrogato il comma 2 dell’art. 30 citato e ha aggiunto, al comma 3, che
«[c]on delibera della Giunta regionale, su domanda del comune interessato,
possono essere individuate ulteriori località a prevalente economia turistica
sulla base delle rilevazioni di Promo Turismo FVG».
4.1.– Secondo l’Avvocatura generale
dello Stato, dette norme violerebbero l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., nonché gli artt. 4 e 6 dello
statuto speciale della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, avendo la
Regione esorbitato dai limiti della propria potestà legislativa esclusiva in
materia di commercio.
Inoltre, si porrebbero in contrasto con
l’art. 31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni
urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici),
convertito con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, che prevede
la liberalizzazione del commercio, e con l’art. 3, comma 1, lettera d-bis), del decreto-legge 4 luglio 2006,
n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il
contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in
materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito con
modificazioni dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, che dispone che le attività
commerciali siano svolte senza il rispetto dell’obbligo di chiusura domenicale
e festiva.
4.1.1.– Preliminarmente, va osservato
che l’art. 29 della legge regionale n. 29 del 2005, così come modificato
dall’impugnato art. 1 della legge regionale n. 4 del 2016, è quasi del tutto
coincidente con la previgente disciplina, rappresentata dall’art. 29, comma 7,
della legge regionale n. 29 del 2005, sull’obbligo di chiusura degli esercizi
commerciali in determinati giorni dell’anno. Questa considerazione, tuttavia,
non ostacola l’impugnabilità della disposizione novellata da parte del Governo,
per l’inapplicabilità dell’istituto dell’acquiescenza ai giudizi in via
principale, atteso che «la norma impugnata ha comunque l’effetto di reiterare
la lesione da cui deriva l’interesse a ricorrere dello Stato» (così, da ultimo, la sentenza n. 60 del
2017).
4.1.2.– Ancora in via preliminare, va
evidenziato che l’impugnato art. 3 è stato modificato dal sopravvenuto art. 14,
comma 1, lettera a), della legge
della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 9 dicembre 2016, n. 19 (Normativa
organica in materia di attività commerciali e di somministrazione di alimenti e
bevande. Modifica alla legge regionale 16 gennaio 2002, n. 2 «Disciplina
organica del turismo»), stabilendo i requisiti e il procedimento per ottenere
la qualifica di ente a prevalente economia turistica da parte dei Comuni e
prevedendo chela Giunta regionale possa disporre per l’intero territorio
regionale la sospensione della previsione delle giornate di chiusura degli
esercizi commerciali.
Il contenuto «marginale» della modifica
normativa, tenuto conto del perimetro e del tenore della censura proposta dal
ricorrente, rendono palese che la stessa non è satisfattiva dell’interesse di
quest’ultimo. Conseguentemente, va operato il trasferimento della questione di
costituzionalità sulla nuova formulazione dell’art. 3 (sentenza n. 23 del
2014).
4.1.3.– In relazione alla censura avente
ad oggetto il citato art. 1, occorre precisare, inoltre, che la mancata
qualificazione, da parte del ricorso, delle disposizioni interposte quali
«norme di grande riforma economico-sociale» non incide sull’ammissibilità della
stessa, come invece eccepito dalla resistente.
Nella specie, infatti, la disciplina
statale richiamata a sostegno della censura viene correttamente evocata quale
espressione della competenza legislativa esclusiva dello Stato, in linea con la
giurisprudenza di questa Corte, che ha esplicitamente ricondotto le
disposizioni, richiamate nel caso odierno come parametro interposto, a principi
di liberalizzazione del mercato a tutela della concorrenza (sentenza n. 38 del
2013; sentenze n. 299 del 2012
e n. 430 del
2007) e che ha altresì affermato che detta normativa «costituisce un limite
alla disciplina che le medesime Regioni [a statuto speciale] possono adottare
in altre materie di loro competenza» (sentenza n. 299 del
2012).
5.– Nel merito, come si evince già da
queste ultime considerazioni, le questioni sono fondate.
In
materia di orari degli esercizi commerciali, l’art. 31, comma 1, del d.l. n.
201 del 2011, ha modificato l’art. 3, comma 1, lettera d-bis), del d.l. n. 223 del 2006, come convertito in legge, e ha
stabilito che le attività commerciali si svolgano «senza limiti e prescrizioni»
concernenti, fra gli altri, «il rispetto degli orari di apertura e di chiusura,
l’obbligo della chiusura domenicale e festiva nonché quello della mezza giornata
di chiusura infrasettimanale dell’esercizio».
Questa
Corte, con la sentenza
n. 299 del 2012, ha ritenuto non illegittima tale norma, ascrivendola alla
materia «tutela della concorrenza» (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.). Successivamente, con la sentenza n. 239 del
2016, ha nuovamente valorizzato il principio di liberalizzazione, contenuto
in detta norma interposta, che esonera gli esercizi commerciali dall’obbligo di
rispettare gli orari e i giorni di chiusura.
Peraltro, è opportuno rilevare cheil contenuto
precettivo dell’impugnato art. 1, coincide, per i profili qui rilevanti, con
l’art. 4, della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, 25 febbraio 2013, n. 5, recante «Modificazioni alla
legge regionale 7 giugno 1999, n. 12 (Principi e direttive per l’esercizio
dell’attività commerciale)», dichiarato illegittimo da questa Corte con la sentenza n. 104 del
2014.
In questa pronuncia è stato rimarcato che la normativa
statale volta all’eliminazione dei limiti agli orari e ai giorni di apertura al
pubblico degli esercizi commerciali, oltre ad attuare un principio di
liberalizzazione, rimuovendo vincoli e limiti alle modalità di esercizio delle
attività economiche a beneficio dei consumatori, favorisce «la creazione di un
mercato più dinamico e più aperto all’ingresso di nuovi operatori e amplia la
possibilità di scelta del consumatore. Si tratta, dunque, di misure coerenti
con l’obiettivo di promuovere la concorrenza, risultando proporzionate allo
scopo di garantire l’assetto concorrenziale del mercato di riferimento relativo
alla distribuzione commerciale» (sentenza n. 104 del
2014, che riprende le sentenze n. 38 del
2013 e n.
299 del 2012).
Queste considerazioni, che vanno qui
ribadite, rendono palese la fondatezza delle censure aventi ad oggetto
l’impugnato art. 1, in quanto interviene nella disciplina delle giornate di
apertura degli esercizi commerciali, ascrivibile appunto alla «tutela della
concorrenza», di competenza esclusiva dello Stato.
Deve, pertanto, essere dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, della legge regionale n. 4 del
2016, che modifica l’art. 29, della legge regionale n. 29 del 2005.
La dichiarazione di illegittimità
costituzionale va estesa, in via conseguenziale, anche all’art. 29-bis, della richiamata legge regionale n.
29 del 2005, stante l’inscindibile legame funzionale sussistente fra la
disposizione impugnata e l’altra ora indicata. La disposizione de qua, infatti, estende i principi
richiamati dalla norma impugnata ad ogni singolo esercizio di vendita.
La dichiarazione di illegittimità
costituzionale colpisce, inoltre, anche l’impugnato art. 3, che ha modificato
l’art. 30 della legge n. 29 del 2005, essendo divenuta priva di ragion d’essere
una tale disposizione, tesa ad individuare i comuni classificati come località
a prevalente economia turistica, dal momento che in questi, al pari degli altri
comuni, dovrà operare la liberalizzazione del commercio senza distinzioni.
6.– Con la seconda censura, il Governo
impugna l’art. 9 della legge regionale n. 4 del 2016, che introduce i c.d.
«centri commerciali naturali» e la relativa disciplina, nonché l’art. 15, che
prevede due distinti tipi di esercizi commerciali di media struttura
(distinguendoli in «media struttura minore» e «media struttura maggiore»).
6.1.– Le disposizioni violerebbero
l’art. 117, secondo comma, lettera e),
Cost., nonché gli artt. 4 e 6 dello statuto speciale della Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia, esorbitando dai limiti della competenza regionale
esclusiva in materia di commercio.
6.1.1.– Entrambe le norme impugnate
introdurrebbero, infatti, tipologie di esercizi commerciali non presenti a
livello nazionale, secondo quanto disposto dall’art. 4, lettere d), e),
g), del decreto legislativo 31 marzo
1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a
norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59). Si
determinerebbe, così, una discrasia tra quanto disposto dalla legge regionale e
la classificazione dei centri commerciali e degli esercizi di vendita al
dettaglio indicati a livello nazionale.
6.2.– Sempre secondo il Governo, la
disposizione che contempla i «centri commerciali naturali» comporterebbe un
eccesso di regolazione incidente sul libero dispiegarsi dell’iniziativa
economica in regime di concorrenza, fissando i limiti spaziali, oggettivi e
strutturali alle attività commerciali «naturali», anziché rimettere al libero
gioco concorrenziale il determinarsi dei luoghi, oggetti e strutture delle
attività commerciali. Altererebbe inoltre la concorrenza all’interno del
territorio regionale, e anche al di fuori di esso, consentendo che alle società
e associazioni con finalità commerciali, in cui i centri dovrebbero costituirsi,
possano partecipare anche soggetti che non perseguano direttamente ed
esclusivamente finalità commerciali, tra cui le Camere di commercio e il Comune
competente per territorio. Consentendo, infine, anche ai «centri commerciali
naturali» l’accesso ai finanziamenti pubblici, previsti dall’art. 100 della
legge regionale n. 29 del 2005, si incentiverebbe, con conseguente lesione dei
principi della concorrenza, la costituzione di società o associazioni non per
ragioni derivanti da dinamiche di mercato, bensì per la possibilità di accedere
ai finanziamenti stessi.
6.3.– Preliminarmente, occorre precisare
che, come dedotto dalla Regione, il citato art. 15 deve ritenersi censurato
limitatamente alla norma recata nel comma 1, lettera c), laddove distingue ulteriormente le medie strutture di vendita.
6.4.– La questione avente ad oggetto
l’introduzione di tipologie di esercizi commerciali non presenti a livello
nazionale non è fondata.
Premesso che è lo stesso ricorrente ad
evidenziare l’irrilevanza, a fini pratici, della suddistinzione delle medie
strutture di vendita – poiché, tra l’altro, il regime amministrativo a cui esse
sono sottoposte rimarrebbe immutato – è da sottolineare che in ordine al
richiamato parametro interposto questa Corte ha evidenziato che, a seguito
della modifica del Titolo V della parte seconda della Costituzione, la materia
«commercio» rientra nella competenza residuale delle Regioni, ai sensi del
quarto comma, dell’art. 117 Cost. In questo contesto, ha sottolineato la
cedevolezza del decreto legislativo n. 114 del 1998, che «si applica, ai sensi
dell’art. 1, comma 2, della legge 5 giugno 2003, n. 131, soltanto alle Regioni
che non abbiano emanato una propria legislazione nella suddetta materia» (sentenza n. 247 del
2010, che richiama l’ordinanza n. 199
del 2006).
Tale conclusione è riferibile anche alla
Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, in virtù della «clausola di maggior
favore», di cui all’art. 10, della legge costituzionale n. 3 del 2001
(Modifiche al titolo V, della parte seconda della Costituzione). La Regione,
infatti, ha già posto in essere una normativa in materia di commercio, qual è
la disposizione censurata, che, in base alle argomentazioni svolte, prevale sul
disposto del d.lgs. n. 114 del 1998.
6.5.– È del pari non fondata la
questione di legittimità costituzionale del citato art. 9, laddove stabilisce
che i «centri commerciali naturali» possano accedere ai finanziamenti pubblici,
già previsti dall’art. 100 della legge regionale n. 29 del 2005.
Ai sensi dell’art. 9, comma 1, per centro
commerciale naturale si intende «un insieme di attività commerciali,
artigianali e di servizi localizzato in una zona determinata del territorio
comunale» e finalizzato alla valorizzazione delle attività economiche e delle
produzioni locali. Al fine di sostenere le attività richiamate, l’art. 9, comma
4, prevede l’accesso ai contributi di cui all’art. 100. Tale disposizione,
secondo il ricorrente, si porrebbe in contrasto con il libero dispiegarsi, in
regime di mercato, dell’iniziativa economica.
Va, tuttavia, in proposito evidenziato
che il riferimento alla tutela della concorrenza non può essere così pervasivo
da assorbire, aprioristicamente, le materie di competenza regionale.
Come questa Corte ha avuto modo di
precisare con la sentenza n. 8 del 2013, «i principi di liberalizzazione
presuppongono che le Regioni seguitino ad esercitare le proprie competenze in
materia di regolazione delle attività economiche», sia pure «in base ai
principi indicati dal legislatore statale». Tale orientamento – sottolinea la
medesima decisione – non esclude ogni intervento legislativo regionale, purché
siano fatte salve «le regolamentazioni giustificate da un interesse generale,
costituzionalmente rilevante e compatibile con l’ordinamento comunitario» che
siano «adeguate e proporzionate alle finalità pubbliche perseguite», così da
«garantire che le dinamiche economiche non si svolgano in contrasto con
l’utilità sociale e con gli altri principi costituzionali».
Secondo la giurisprudenza costituzionale
non sussiste, comunque, una potestà statale esclusiva in materia di incentivi e
aiuti alle imprese (sentenza n. 63 del
2008). Infatti, anche la legislazione regionale, volta a prevedere
contributi e aiuti può ritenersi conforme al riparto costituzionale delle
materie, qualora sia coerente con la disciplina del diritto dell’Unione europea
sugli aiuti di Stato (sentenza n. 217 del
2012). Detti incentivi alle imprese, peraltro, quando consentiti, «lo sono
normalmente in deroga alla tutela della concorrenza» (così la già citata sentenza n. 63 del
2008).
Nella specie, i contributi richiamati
dalla norma impugnata sono quelli previsti dal citato art. 100 della legge
regionale n. 29 del 2005, che contempla una serie di incentivi per un’ampia
categoria di beneficiari che vanno dalle «micro, piccole e medie imprese», ai
consorzi, sino ad arrivare, attraverso l’integrazione prevista dalla
disposizione impugnata, ai «centri commerciali naturali». È tuttavia importante
sottolineare che lo stesso articolo, al comma 6, si richiama esplicitamente al
regolamento della Commissione n. 1407/2013/UE (Regolamento della Commissione,
relativo all’applicazione degli articoli 107 e 108 del Trattato sul
Funzionamento dell’Unione europea agli aiuti «de minimis»), che fissa una cifra assoluta al di sotto della quale
l’aiuto non è soggetto all’obbligo della comunicazione, così da definire la
soglia dei contributi erogabili in termini tali da escludere la possibile
conflittualità degli stessi con la normativa dell’Unione europea. Si tratta,
dunque, di incentivi che non alterano il mercato. Da qui la non fondatezza
della censura.
6.6.– È invece fondata la questione
relativa all’art. 9, con riferimento alla partecipazione delle Camere di
commercio e dei Comuni ai «centri commerciali naturali».
La resistente evidenzia che i «centri
commerciali naturali» rappresentano uno strumento «di promozione
economico-sociale delle aree nelle quali, per tradizione, vocazione o
potenzialità di sviluppo, l’attività commerciale assume particolare rilievo»;
ciò troverebbe conferma nel fatto che la legge contempla la facoltà dei Comuni,
delle associazioni di categoria e delle Camere di commercio di aderire a detti
enti. Tuttavia, è proprio la commistione che si può instaurare tra gli
esercenti e le pubbliche amministrazioni a mostrare profili di illegittimità.
A tal proposito, va precisato che la
disposizione censurata prevede, al comma 2, che i «centri commerciali naturali
sono costituiti in forma di società di capitali, società consortili e
associazioni con finalità commerciali», stabilendo, al comma 3, che ai centri
commerciali naturali «possono aderire, in qualità di soggetti interessati, le
associazioni di categoria, la Camera di commercio e il Comune competenti per
territorio e altri enti e associazioni che si prefiggano lo scopo di
valorizzare il territorio».
Dal combinato disposto dei due commi in
oggetto, si evince la possibilità che il partenariato pubblico-privato potrebbe
non limitarsi soltanto a promuovere il commercio in determinate aree attraverso
l’ausilio – in misura proporzionata e ragionevole – di strumenti, che pure sono
ascrivibili alle competenze dei Comuni, come la pianificazione urbanistica
finalizzata a valorizzare le diverse parti del territorio (siano essi centri
storici o zone a particolare vocazione produttiva). Il partenariato contemplato
dalla legislazione regionale censurata in
parte qua, invece, si spinge oltre, ammettendo anche la costituzione di
società a capitale misto.
Il profilo che viene qui in considerazione
non attiene, dunque, alle modalità organizzative delle società partecipate. Più
specificamente, infatti, ciò che viene in rilievo è l’impatto di simile
disciplina sulla «tutela della concorrenza».
Va in proposito evidenziato che il
decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, recante «Testo unico in materia di
società a partecipazione pubblica», nello stabilire, all’art. 1, comma 2, che
le disposizioni in esso contenute sono finalizzate a garantire l’efficiente
gestione delle partecipazioni pubbliche, la tutela e promozione della
concorrenza e del mercato, la razionalizzazione della spesa pubblica, dispone,
all’art. 4, comma 1, che le «amministrazioni pubbliche non possono direttamente
o indirettamente costituire società aventi per oggetto attività di produzione
di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle
proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni, anche
di minoranza, in tali società».
La disposizione del testo unico si pone
in continuità rispetto alla normativa precedente, rappresentata dalla legge 24
dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato» (legge finanziaria 2008) che, all’art. 3,
comma 27, valorizza il medesimo principio, al fine di ridurre il campo d’azione
delle società pubbliche, in linea con quanto prefigurato anche dal successivo
decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito con
modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122.
Questa Corte ha ricondotto detta
disciplina, che limita il raggio d’azione delle società partecipate da parte di
Regioni ed enti locali, anche alla tutela della concorrenza (sentenza n. 326 del
2008), affermando che l’obiettivo della stessa è «quello di evitare che
soggetti dotati di privilegi svolgano attività economica al di fuori dei casi
nei quali ciò è imprescindibile per il perseguimento delle proprie finalità
istituzionali» (sentenza
n. 148 del 2009).
Nella specie, in considerazione della
tipologia delle attività svolte dai «centri commerciali naturali», secondo la
disposizione impugnata, si tratta di soggetti che svolgono attività di servizi.
La disposizione censurata, pertanto, prevede la partecipazione delle Camere di
commercio e dei Comuni a società aventi per oggetto attività di produzione di
servizi che non sono strettamente necessari «al perseguimento delle proprie
finalità istituzionali»; per ciò solo, essa viola la normativa statale a tutela
della concorrenza, richiamata in precedenza.
6.7.– Ne consegue che deve essere
dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 3, limitatamente
alla parte in cui prevede che partecipino ai «centri commerciali naturali»
anche soggetti pubblici quali le Camere di commercio e il Comune competente per
territorio.
7.– Con la terza censura il Governo
impugna l’articolo 19 della legge regionale n. 4, del 2016, che dispone il
possesso di dati requisiti professionali per esercitare attività commerciali
che prevedano la somministrazione di alimenti e bevande, anche ove l’attività
commerciale sia svolta «nei confronti di una cerchia limitata di persone», in
locali non aperti al pubblico.
7.1.– La disposizione violerebbe l’art.
117, primo e secondo comma, lettera e),
Cost., nonché gli artt. 4 e 6, dello statuto speciale della Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia, in materia di commercio.
Preliminarmente occorre precisare che il
citato art. 19 deve ritenersi censurato limitatamente alla norma di cui al
comma 1, lettera a).
7.2.– La violazione dell’art. 117, primo
comma, Cost., sarebbe palese in riferimento all’art. 41, commi 1, lettera f), e 2 della legge 7 luglio 2009, n. 88
(Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell’Italia
alle Comunità europee – Legge comunitaria 2008), che impone anche alle Regioni
a statuto speciale di adeguare la propria legislazione a quella statale di
attuazione della direttiva 12 dicembre 2006, n. 2006/123/CE (Direttiva del
Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai servizi nel mercato interno),
nonché in riferimento all’art. 15 della direttiva medesima, che impone di
verificare la necessità e proporzionalità dei requisiti soggettivi di accesso
alle attività di prestazione dei servizi.
7.3.– Il vulnus all’art. 117, comma secondo, lettera e), Cost. sarebbe ravvisabile in riferimento all’art. 8, comma 1,
lettera e), del decreto legislativo 6
agosto 2012, n. 147 (Disposizioni integrative e correttive del decreto
legislativo 26 marzo 2010, n. 59, recante attuazione della direttiva
2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno). Detta disposizione,
infatti, ha modificato l’art. 71, comma 6, del decreto legislativo 26 marzo
2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel
mercato interno), abolendo i requisiti richiamati in caso di somministrazione
di alimenti e bevande «nei confronti di una cerchia limitata di persone».
La legislazione regionale, che continua
a prevedere il possesso di almeno uno dei requisiti in questione,
contrasterebbe con la «misura liberalizzatrice» statale.
7.4.– La questione non è fondata.
Va, innanzitutto, osservato che il contenuto precettivo dell’impugnato
art. 19 coincide, nei profili qui rilevanti, con quello di una norma regionale
(art. 3 della legge della Regione autonoma Val d’Aosta/Vallée d’Aoste, n. 5 del 2013), scrutinata da questa Corte con la
richiamata sentenza
n. 104 del 2014.
Tale pronuncia ha evidenziato che,
sebbene la normativa statale stabilisca che le attività commerciali possono
essere svolte senza limiti e prescrizioni, tra cui il possesso di requisiti
professionali soggettivi, tuttavia, poi, fa espressamente salvi quelli
riguardanti il settore alimentare e della somministrazione degli alimenti e
delle bevande. In particolare, è stato sottolineato dalla medesima pronuncia
che tali considerazioni «portano ad escludere che la normativa in questione
attenga alla materia della «tutela della concorrenza», ponendo limiti o
barriere all’accesso al mercato con effetti restrittivi della concorrenza
stessa. Essa, piuttosto, concerne la materia della «tutela della salute»,
attribuita dall’art. 117, terzo comma, Cost. alla competenza legislativa
concorrente delle Regioni, ponendosi quale misura volta a salvaguardare «la salute
dei consumatori» (sentenza
n. 104 del 2014).
7.4.1.– Inquadrata in questi termini, sia rispetto alla materia della
«tutela della concorrenza», sia riguardo al vincolo europeo richiamato
dall’art. 117, primo comma, Cost., la questione deve ritenersi non fondata.
8.– Con la quarta censura, infine, il Governo impugna l’articolo 72,
comma 1, della legge regionale n. 4 del 2016, che prevede, al fine di
valorizzare la pesca sportiva, la possibilità di autorizzare l’immissione nei
corpi idrici naturali e artificiali di esemplari di specie ittiche autoctone e
alloctone.
Per il ricorrente la previsione
impugnata andrebbe a minare l’equilibrio naturale delle specie autoctone,
consentendo l’immissione di ulteriori esemplari, creando un pericolo di
sovrappopolamento, senza una previa verifica che si tratti di specie a rischio
di estinzione. Inoltre, l’obbiettivo volto ad evitare la commistione delle
specie alloctone con quelle autoctone verrebbe garantito in modo meramente
apparente ricorrendo ad una normativa di carattere generico.
8.1.– La norma regionale violerebbe i
limiti posti alla competenza regionale in materia di pesca, incidendo
direttamente sulla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, di cui all’art. 117,
secondo comma, lettera s), Cost., che
vincola anche le Regioni ad autonomia speciale, esulando la materia dalla
competenza legislativa della Regione secondo lo statuto di autonomia. La norma
impugnata lederebbe altresì i vincoli europei richiamati dall’art. 117, primo
comma, Cost.
8.1.1.– Secondo il Governo ricorrente,
la lamentata violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., si coglierebbe in riferimento
all’art. 12, commi 2 e 3, del d.P.R. 8 settembre 1997, n. 357 (Regolamento
recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli
habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche),
come modificato dal d.P.R. 12 marzo 2003, n. 120 (Regolamento recante modifiche
ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n.
357, concernente attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla
conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della
fauna selvatiche). Detta normativa viene richiamata laddove vieta
esplicitamente l’introduzione di specie alloctone e subordina l’introduzione di
specie autoctone al superamento di una serie di verifiche e controlli.
8.1.2.– La lesione dell’art. 117, primo
comma, Cost. sarebbe evidente, inoltre, in riferimento al principio di
precauzione contenuto nell’art. 22, della direttiva 21 maggio 1992, n.
92/43/CEE (Direttiva del Consiglio relativa alla conservazione degli habitat
naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche), (c.d. direttiva
Habitat), nonché negli artt. 4 e 6,
par. 1, del Regolamento CE, 11 giugno 2007, n. 708/2007 (Regolamento del
Consiglio relativo all’impiego in acquacoltura di specie esotiche e di specie
localmente assenti).
8.2.– In riferimento alla censura di cui
all’art. 72, comma 1, la resistente ritiene che la censura sia costruita in
termini meramente ipotetici. L’eccezione va respinta, potendosi obiettare che
così deve necessariamente essere, facendo riferimento al principio di
precauzione.
8.3.– Nel merito la questione è fondata.
L’introduzione, la reintroduzione e il
ripascimento delle specie ittiche sono regolate dal già citato art. 12 del
d.P.R. n. 357 del 1997, come modificato dal d.P.R. n. 120 del 2003, in
attuazione della c.d. direttiva Habitat
che richiede agli Stati membri di valutare l’opportunità di reintrodurre specie
autoctone, qualora questa misura possa contribuire alla loro conservazione, sia
di regolamentare, ed eventualmente vietare, le introduzioni di specie alloctone
che possano arrecare pregiudizio alla conservazione degli habitat o delle specie autoctone (art. 22, lettere a e b).
Lo Stato italiano ha esercitato la sua
competenza con il richiamato d.P.R. n. 357 del 1997, come modificato nel 2003,
consentendo la reintroduzione delle specie autoctone, sulla base di linee guida
del Ministero dell’ambiente, secondo le procedure stabilite dall’art. 12, comma
2. Ha altresì vietato espressamente (e in via generale) la reintroduzione,
l’introduzione e il ripopolamento in natura di specie non autoctone (art. 12,
comma 3).
Riguardo al riparto delle attribuzioni
tra lo Stato e le Regioni e le Province autonome, in materia ambientale e di
protezione della fauna, la giurisprudenza costituzionale è costante nel
ritenere che ove la materia «tutela dell’ambiente» non sia contemplata negli
statuti di autonomia, ciò determina che quanto non rientri nelle specifiche
competenze delle Province autonome rifluisca «nella competenza generale dello
Stato nella suddetta materia, la quale implica in primo luogo la conservazione
uniforme dell’ambiente naturale, mediante precise disposizioni di salvaguardia
non derogabili in alcuna parte del territorio nazionale» (sentenze n. 387 del
2008 e n.
288 del 2012 nonché, analogamente, sentenza n. 151 del
2011).
Relativamente all’immissione di specie
ittiche nei corpi idrici regionali, inoltre, questa Corte ha affermato che la
disciplina «dell’introduzione, della reintroduzione e del ripopolamento di
specie animali rientra nella esclusiva competenza statale di cui all’art. 117,
secondo comma, lettera s), della
Costituzione, trattandosi di regole di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema e
non solo di discipline d’uso della risorsa ambientale-faunistica».
Nell’esercizio di tale sua competenza esclusiva, finalizzata ad una «tutela
piena ed adeguata» dell’ambiente, lo Stato «può porre limiti invalicabili di
tutela» (sentenza
n. 30 del 2009; nello stesso senso, sentenza n. 288 del
2012).
A tali limiti le Regioni devono
adeguarsi nel dettare le normative d’uso dei beni ambientali, o comunque
nell’esercizio di altre proprie competenze, rimanendo libere, ove lo ritengano
opportuno, di definire, nell’esercizio della loro potestà legislativa, «limiti
di tutela dell’ambiente anche più elevati di quelli statali» (sentenza n. 30 del
2009; in senso conforme sentenza n. 151 del
2011).
Con riferimento alle specie alloctone,
con la sentenza
n. 30 del 2009 questa Corte ha precisato che l’art. 12, comma 3, del citato
d.P.R. n. 357, vieta espressamente e in via generale la reintroduzione,
l’introduzione e il ripopolamento in natura di «specie e popolazioni non
autoctone».
Riguardo invece all’immissione delle
specie autoctone, l’art. 12, comma 2, del d.P.R. n. 357, come sostituito dal
d.P.R. n. 120 del 2003, richiede alle Regioni e alle Province autonome di
attivare un’attività istruttoria che coinvolga gli enti interessati, al fine di
prevedere la introduzione e la reintroduzione di esemplari delle stesse,
«dandone comunicazione al Ministero dell’ambiente» e presentando allo stesso
uno studio per evidenziare che l’introduzione di dette specie contribuisca a
ristabilirle «in uno stato di conservazione soddisfacente».
La Regione non ha tenuto conto delle
procedure previste per dar vita all’immissione stessa, secondo quanto indicato
all’art. 12, comma 2. Queste indicazioni, infatti, non emergono dalla normativa
impugnata la cui ratio, oltretutto,
rivolta alla valorizzazione della pesca sportiva, si discosta dagli obiettivi
perseguiti dalla legislazione statale, tesi, piuttosto, alla conservazione
delle specie a rischio.
In base alle considerazioni svolte, la
questione è fondata rispetto all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. Resta assorbita l’ulteriore
censura relativa all’art. 117, primo comma, Cost.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 29, della legge della Regione autonoma
Friuli-Venezia Giulia 5 dicembre 2005, n. 29 (Normativa organica in materia di
attività commerciali e di somministrazione di alimenti e bevande. Modifica alla
legge regionale 16 gennaio 2002, n. 2 «Disciplina organica del turismo»), come
modificata dall’art. 1, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia
Giulia 8 aprile 2016, n. 4 (Disposizioni per il riordino e la semplificazione
della normativa afferente il settore terziario, per l’incentivazione dello
stesso e per lo sviluppo economico);
2) dichiara,
in via conseguenziale, ai sensi dell’art. 27, della legge 11 marzo 1953, n. 87
(Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale),
l’illegittimità costituzionale dell’art. 29-bis
della legge regionale n. 29 del 2005;
3) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 della legge regionale n. 29 del
2005, come modificato dall’art. 3 della legge regionale n. 4 del 2016 e
successivamente dall’art. 14 della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia
Giulia 9 dicembre 2016, n. 19 (Disposizioni per l’adeguamento e la
razionalizzazione della normativa regionale in materia di commercio);
4) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 3, della legge regionale n. 4
del 2016, limitatamente alla parte in cui prevede che ai «centri commerciali
naturali» possano aderire anche «la Camera di commercio e il Comune competente
per territorio»;
5) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 1, della legge regionale n.
4 del 2016;
6) dichiara
non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 1,
lettera c), della legge regionale n.
4 del 2016, promossa in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., e agli artt. 4 e 6 della
legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione
Friuli-Venezia Giulia), con il ricorso indicato in epigrafe;
7) dichiara
non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 1,
lettera a), della legge regionale n.
4 del 2016, promossa in riferimento all’art. 117, primo e secondo comma,
lettera e), Cost., e agli artt. 4 e 6
della legge costituzionale n. 1 del 1963, con il ricorso indicato in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 aprile 2017.
F.to:
Paolo
GROSSI, Presidente
Augusto
Antonio BARBERA, Redattore
Roberto
MILANA, Cancelliere
Depositata
in Cancelleria il 10 maggio 2017.