SENTENZA N. 228
ANNO 2016
Commento
alla decisione di
Alberto
Maria Benedetti
Proprietà
e diritto privato delle Regioni (a proposito di Corte cost.
n. 228/2016)
per g.c.
di Diritto
Civile Contemporaneo
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale
dell’art. 32, comma 2, della legge
della Regione Toscana 25 marzo 2015, n. 35 (Disposizioni in materia di cave.
Modifiche alla l.r. 78/1998, l.r.
10/2010 e l.r. 65/2014), promossi dal Presidente
del Consiglio dei ministri con ricorso
notificato il 29 maggio - 3 giugno 2015, depositato in cancelleria il 3 giugno
2015 ed iscritto al n. 60 del registro ricorsi 2015, e dal Tribunale
ordinario di Massa nel procedimento vertente tra Omya
spa e Cave Statutario srl e Comune di Carrara, con ordinanza
del 17 marzo 2016, iscritta al n. 96 del registro ordinanze 2016 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visti gli atti di
costituzione della Regione Toscana, della Omya spa ed
altra, del Comune di Carrara, nonché gli atti di intervento del Presidente
della Regione Toscana, della Omya spa e della Società
Guglielmo Vennai spa ed altre;
udito
nell’udienza pubblica del 20 settembre 2016 il Giudice relatore Giuliano
Amato;
uditi
l’avvocato Beniamino Caravita di Toritto per la Società Guglielmo Vennai spa ed altre, l’avvocato dello Stato Maria Letizia
Guida per il Presidente del Consiglio dei ministri, gli avvocati Giuseppe
Morbidelli per Omya spa ed altra, Domenico Iaria per il Comune di Carrara, Marcello Cecchetti e Lucia
Bora per il Presidente della Regione Toscana.
Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso spedito
per la notificazione il 29 maggio 2015, ricevuto il 3 giugno 2015 e depositato
nello stesso giorno (reg. ric. n. 60 del 2015), il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha
promosso, in riferimento all’art. 117, secondo comma,
lettera l), della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 2, della legge
della Regione Toscana 25 marzo 2015, n. 35 (Disposizioni in materia di cave.
Modifiche alla l.r. 78/1998, l.r. 10/2010 e l.r. 65/2014).
L’art. 32, comma 2, prevede
che «Considerata la condizione di beni appartenenti al patrimonio indisponibile
comunale degli agri marmiferi di cui alle concessioni livellarie già rilasciate
dai Comuni di Massa e Carrara e dalle soppresse "vicinanze” di Carrara, già
disciplinate ai sensi dell’art. 1, comma 2, della legge regionale 5 dicembre
1995, n. 104 (Disciplina degli agri marmiferi dei Comuni di Massa e Carrara),
nonché dei beni estimati, di cui all’editto della duchessa Maria Teresa Cybo Malaspina del 1 febbraio 1751, entro centottanta
giorni dall’entrata in vigore della presente legge, i Comuni di Massa e Carrara
provvedono alla ricognizione dei tali beni, danno comunicazione
dell’accertamento ai titolari delle concessioni e delle autorizzazioni alla
coltivazione dei beni medesimi e provvedono ai conseguenti adempimenti ai sensi
del presente capo».
2.– Secondo il ricorrente,
tale disposizione sarebbe innovativa rispetto a quanto previsto dal combinato
disposto dei commi l e 2 dell’art. l della legge della Regione Toscana 5 dicembre
1995, n. 104 (Disciplina degli agri marmiferi di proprietà dei Comuni di Massa
e Carrara), secondo cui gli agri marmiferi appartengono al patrimonio
indisponibile comunale se di essi il Comune risulti proprietario ai sensi delle
normative in atto all’entrata in vigore della medesima legge regionale.
Ritiene la difesa
statale che tale norma non contempli espressamente i «beni estimati» e che il
rinvio alle normative in atto all’entrata in vigore della legge regionale n.
104 del 1995 presenti margini di ambiguità.
Dopo aver richiamato la
sentenza di
questa Corte n. 488 del 1995, l’Avvocatura generale dello Stato osserva come
il regio decreto 29 luglio 1927, n. 1443 (Norme di carattere legislativo per
disciplinare la ricerca e la coltivazione delle miniere nel Regno), nel
delegare ai Comuni di Carrara e di Massa l’emanazione di un regolamento «per
disciplinare le concessioni dei rispettivi agri marmiferi», non contenesse
alcun espresso riferimento ai «beni estimati».
2.1.– Ad avviso del
ricorrente, inoltre, la natura giuridica dei «beni estimati» sarebbe oggetto di
dibattito tra gli studiosi. Secondo un primo orientamento, su tali beni
sussisterebbe un vero e proprio diritto di proprietà; essi sarebbero oggetto di
atti di compravendita, nonché di acquisti all’asta nell’ambito di procedure
esecutive, senza che si sia mai resa necessaria alcuna autorizzazione comunale.
Vengono citate, a
questo riguardo, una autorevole dottrina e una pronuncia giudiziale che ha
distinto «due tipologie di terreni marmiferi, alcuni terreni cosiddetti agri
marmiferi, risultano di proprietà del Comune di Carrara e detenuti dalle
società in regime di concessione, altri invece di proprietà delle società
medesime c.d. beni estimati» (Commissione tributaria provinciale della Toscana,
Massa Carrara, sez. II, sent. 31 gennaio 2011, n. 14).
Secondo un opposto
orientamento, fondato soltanto su pareri di studiosi di chiara fama, i «beni
estimati» non avrebbero mai costituito oggetto di piena proprietà; l’editto del
1° febbraio 1751, infatti, si sarebbe limitato ad attribuire a soggetti privati
diritti di godimento su beni che rientravano nella proprietà delle cosiddette
«vicinanze».
Tuttavia, ad avviso
dell’Avvocatura generale dello Stato, il r.d. n. 1443 del 1927 avrebbe abrogato
la legislazione preunitaria precedente, così che sussisterebbero dubbi circa la
perdurante validità della testé indicata qualificazione giuridica.
2.2.– La disposizione
regionale impugnata, nell’includere i «beni estimati» nell’ambito del
patrimonio indisponibile comunale, nonostante consistenti elementi facciano
ritenere che tali beni siano oggetto di proprietà privata, colmerebbe una
lacuna nell’ordinamento civile italiano.
Essa, pertanto,
violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in quanto una simile operazione
spetterebbe alla potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di
«ordinamento civile».
3.– Con atto depositato il
7 luglio 2015, si è costituita in giudizio la Regione Toscana, chiedendo che il
ricorso sia dichiarato inammissibile e comunque infondato.
3.1.– La difesa regionale
eccepisce, in primo luogo, l’inammissibilità del ricorso per insufficiente, erronea
e incompleta ricostruzione del quadro normativo di riferimento.
Ad avviso della
Regione, infatti, lo Stato avrebbe sollevato la questione di legittimità
costituzionale muovendo dall’erroneo presupposto che la legislazione estense
sia stata abrogata dal r.d. n. 1443 del 1927.
Tale affermazione,
tuttavia, sarebbe smentita dalla sentenza di questa
Corte n. 488 del 1995, ai sensi della quale l’art. 64 del richiamato r.d.
«ha mantenuto in vigore la legislazione preunitaria solo in via transitoria,
fino al giorno dell’entrata in vigore dei detti regolamenti»; si tratta dei
regolamenti previsti dall’art. 64, comma 3, del richiamato r.d., con i quali i
Comuni di Massa e Carrara sono chiamati a disciplinare i propri agri marmiferi.
Osserva la resistente
che il Regolamento del Comune di Carrara sugli agri marmiferi è stato approvato
con delibera consiliare n. 61 del 2005 ed è esso, dunque, ad aver determinato
il superamento della legislazione estense, sino a quel momento rimasta vigente.
Pertanto, il riferimento legislativo richiamato dallo Stato sarebbe errato o
incompleto.
3.2– In ogni caso,
secondo la Regione, le censure statali sarebbero formulate in termini generici,
non essendo state evidenziate le ragioni per le quali le norme regionali
comportino la violazione del parametro evocato.
3.3.– Nel merito, ad avviso
della difesa regionale, non sussisterebbe alcuna lacuna nell’ordinamento. Con
la norma in esame, infatti, la Regione si sarebbe limitata a prendere atto
della natura giuridica pubblica dei «beni estimati», così come risultante dalla
normativa statale di riferimento.
3.3.1.– In particolare,
osserva la resistente, la proprietà pubblica, e precisamente del Comune di
Carrara, dei «beni estimati» discenderebbe dalla legislazione estense. L’editto
teresiano, infatti, avrebbe innanzitutto ribadito la proprietà degli agri
marmiferi in capo alle vicinanze, nonché il carattere inalienabile ed
imprescrittibile della stessa, secondo quanto già previsto dallo Statuto della
Città di Carrara del 1574 di Alberico Malaspina; tale editto avrebbe poi
riconosciuto, in via generale, alle stesse vicinanze il diritto allo
sfruttamento del sottosuolo agrario, che veniva ad essere "coltivato” dai
"vicini”, in base ad una concessione livellaria rilasciata dalla vicinanza;
infine, intervenendo a dirimere una vertenza proposta dalla vicinanza di
Torano, che lamentava occupazioni illegittime dei suoi agri da parte dei vicini
e di estranei, si sarebbe limitato, in via eccezionale, a esonerare in perpetuo
i possessori dei beni iscritti negli estimi da oltre un ventennio dal
versamento di qualsiasi corrispettivo pecuniario alle vicinanze, come
controprestazione dell’utilizzo degli agri, in forza di un diritto feudale di regalia.
Il richiamato editto,
dunque, avrebbe confermato il diritto dei privati all’escavazione, ma non
avrebbe trasferito la proprietà dei beni, anche perché al regnante su delega
dell’imperatore non spettava disporre dei diritti di proprietà, ma era riservato
esclusivamente il diritto allo sfruttamento dei giacimenti minerari ricompresi
negli agri vicinali stessi.
Pertanto,
nell’esercizio del suo potere regalistico sui marmi carraresi, la duchessa non
avrebbe potuto disporre di ciò di cui non era titolare, dovendo invece
necessariamente limitarsi a disporre in ordine allo sfruttamento del sottosuolo
minerario.
In definitiva, secondo
la Regione, per le cave insistenti negli agri vicinali non iscritte all’estimo,
ovvero iscritte a nome di un privato da meno di venti anni, l’editto avrebbe
previsto che le vicinanze concedessero lo sfruttamento della cava dietro
pagamento di un canone; invece, per le cave iscritte all’estimo, a nome di un
privato, da oltre vent’anni, la duchessa – in sanatoria ed in via del tutto
eccezionale – avrebbe deciso di inibire azioni di recupero da parte delle
vicinanze rispetto al diritto allo sfruttamento delle cave, concedendo ai loro
possessori il diritto di godimento in perpetuo delle stesse e sottraendoli alla
regola dell’onerosità delle concessioni, in forza del diritto feudale di
regalia sui marmi.
L’editto teresiano,
pertanto, avrebbe sancito la regola del regime concessorio
per lo sfruttamento di tutte le cave di marmo del Comune di Carrara proprio in
ragione della proprietà pubblica delle stesse; la differenza tra le cave con
iscrizione ultraventennale all’estimo e le altre consisterebbe unicamente – ad
avviso della Regione – nella fonte del provvedimento concessorio,
dal momento che per i beni estimati la concessione era stata rilasciata
direttamente dal sovrano con l’editto del 1751, mentre per tutte le altre cave,
pur insistenti negli agri marmiferi, la concessione veniva rilasciata dalle
vicinanze prima e, in seguito alla loro soppressione, dal Comune.
Secondo la disciplina
contenuta nella legislazione estense, dunque, entrambe le concessioni
riguarderebbero comunque beni di proprietà vicinale, oggi comunale, in regime
di indisponibilità, costituendo i «beni estimati» una species della più generale
categoria degli agri marmiferi.
3.3.2.– La Regione, inoltre,
sottolinea che da un punto di vista "fisico”, gli agri marmiferi di Carrara, in
assoluta prevalenza, sono cave miste con presenza "indistinta” di agri
intestati al catasto in capo al Comune e agri cosiddetti estimati. Pertanto,
ove si ritenesse di dover sottrarre i beni estimati al regime concessorio, si determinerebbe l’impossibilità di procedere
con gara anche per i restanti agri marmiferi.
3.3.3.– Peraltro, ad avviso
della difesa regionale, la proprietà pubblica delle cave di marmo del
comprensorio apuano sarebbe stata ulteriormente ribadita dal r.d. n. 1443 del
1927, che all’art. 64, ultimo comma, ha attribuito ai Comuni di Massa e Carrara
il potere regolamentare in ordine ai propri agri marmiferi, sancendo in via definitiva
la specialità delle cave apuane di marmo rispetto a tutte le altre cave del
territorio nazionale.
Ciò troverebbe conferma
nella sentenza della Corte di cassazione 24 maggio 1954, n. 1679, secondo la quale
gli agri marmiferi «hanno un regime analogo a quello delle altre cave quando
siano sottratte al proprietario del suolo per essere concesse a terzi,
divenendo beni patrimoniali indisponibili».
Alla luce di queste
risultanze, sarebbe evidente come i «beni estimati», già secondo la disciplina
estense, rientrino nel patrimonio indisponibile comunale al pari di tutte le
altre cave insistenti sugli agri marmiferi di Carrara, con conseguente
legittimo assoggettamento alle norme dei regolamenti comunali.
3.3.4.– La legge regionale di
cui si tratta, inoltre, avrebbe dettato la disciplina in una materia
pacificamente attribuita alla competenza delle Regioni, sia prima, sia dopo la
riforma del Titolo V del 2001.
Con l’impugnato art.
32, comma 2, infatti, la Regione avrebbe preso atto della natura pubblica della
proprietà dei «beni estimati», limitandosi a introdurre una norma meramente
ricognitiva di disposizioni già presenti nella disciplina statale di
riferimento in tema di agri marmiferi del Comune di Carrara.
D’altra parte, secondo
la difesa regionale, questa Corte, con la richiamata sentenza n. 488 del
1995, avrebbe riconosciuto la legittimità costituzionale di leggi regionali
che, in applicazione del regime concessorio,
intervengano a modificare i rapporti in corso, costituiti come perpetui e
gratuiti nel sistema estense, in coerenza con i principi della onerosità e
temporaneità delle concessioni, già sanciti dal r.d. n. 1443 del 1927.
4.– Sono intervenute le
società Omya , Guglielmo Vennai
, Caro e Colombi , Società Escavazione Marmi SEM , Successori Adolfo Corsi
Carrara srl e Marbo srl, affermando il proprio interesse ad agire e la propria
legittimazione e chiedendo che la Corte, ritenuta l’ammissibilità degli
interventi, accolga le richieste della parte ricorrente.
Ciascuna delle parti in
prossimità dell’udienza ha depositato memorie in cui ha ribadito le conclusioni
già rassegnate.
5.– Nell’ambito di un
giudizio civile promosso contro il Comune di Carrara da alcune società private
proprietarie di agri marmiferi – cosiddetti «beni estimati» – ubicati nel
territorio comunale, per l’accertamento del diritto di proprietà di tali beni
in capo alle stesse, il Tribunale ordinario di Massa, con ordinanza del 17
marzo 2016 (r.o. n. 96 del 2016), ha sollevato
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 2, della legge
della Regione Toscana n. 35 del 2015, in riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97, 102, 111, 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Primo Protocollo
addizionale alla Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU),
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848, nonché in riferimento all’art. 117, secondo comma,
lettera l), e terzo comma, Cost.
5.1.– Riferisce il Tribunale
che, ad avviso delle società attrici, la norma censurata, ricomprendendo nel
patrimonio indisponibile comunale i «beni estimati» di cui all’editto di Maria
Teresa Cybo Malaspina del 1751, nonostante essi
risultino, allo stato, oggetto di proprietà privata, sarebbe sostanzialmente
volta a realizzare un’espropriazione di tali beni.
Secondo il giudice a quo, la norma sarebbe volta a
realizzare una «ricognizione» di quei beni, cui i Comuni di Massa e Carrara
dovrebbero provvedere entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge.
Tuttavia, essa non avrebbe portata ricognitiva, ma innovativa, posto che
intende disciplinare per il futuro il regime di tali beni, assegnando loro un
assetto diverso da quello attuale, in contrasto con gli atti che ne hanno
determinato l’odierna situazione.
5.1.1.– Nel ricostruire il contesto
normativo di riferimento, il Tribunale rimettente osserva che i «beni estimati»
sono pervenuti agli attuali proprietari sia a seguito di atti di compravendita
tra privati, sia a seguito di atti di fusione tra società, sia a seguito di
decisioni giurisdizionali; e che fin dall’emanazione dell’editto teresiano sono
stati considerati beni di natura privata.
Ai sensi del richiamato
editto, infatti, «Se l’allibrazione delle medesime è
seguita venti anni prima della presente Nostra ordinazione, niun
diritto pretendere mai più possa sopra di esse, o sopra i loro Possessori, la
vicinanza ne’ di cui agri sono situate non altrimenti che se a favore dei
possessori medesimi militasse l’immemorabile, o la centennaria
o concorresse a prò loro un titolo il più legittimo
che immaginare si possa».
Il rimettente,
peraltro, osserva come l’editto del 1751 sia venuto a regolamentare una
situazione che già vedeva molti «beni estimati», quelli cioè iscritti negli
estimi dei particolari da almeno venti anni, come beni di proprietà privata, di
derivazione allodiale, oggetto di attività estrattiva.
5.1.2.– A conferma della
natura privata di tali beni, vengono altresì richiamati l’art. 11 dell’editto
di Maria Teresa Cybo Malaspina del 21 dicembre 1771,
l’art. 7 del decreto n. 246 sulle miniere del 9 agosto 1808, i punti VII e VIII
della notificazione governatoriale (Petrozzani) del
24 settembre 1823 e l’art. 2, comma 13, lettera h), della notificazione governatoriale del 14 luglio 1846.
Più di recente, ad
avviso del giudice a quo, anche altre
fonti normative presupporrebbero una distinzione tra agri marmiferi di
proprietà comunale e agri marmiferi di proprietà privata. A riguardo, vengono
citati l’art. l della legge della Regione Toscana 5 dicembre 1995, n. 104
(Disciplina degli agri marmiferi di proprietà dei Comuni di Massa e Carrara),
la legge della Regione Toscana 3 novembre 1998, n. 78 (Testo Unico in materia
di cave, torbiere, miniere, recupero di aree escavate e riutilizzo di residui
recuperabili) ed il regolamento per la concessione degli agri marmiferi
comunali del Comune di Carrara, approvato con delibera n. 61 del 21 luglio 2005
(modificativo del primo regolamento comunale adottato il 29 dicembre 1994).
Secondo il rimettente,
la stessa legge regionale n. 35 del 2015 presupporrebbe implicitamente tale
doppio regime, allorché prevede la stipula con il privato «di una convenzione
per l’utilizzo del bene quale patrimonio indisponibile comunale» (art. 38,
comma 6).
Anche la relazione
della Commissione di esperti incaricata dal Comune di Carrara di predisporre
una relazione sulla condizione giuridica degli agri marmiferi comunali, avrebbe
espressamente riconosciuto il diritto di proprietà privata sui «beni estimati».
A riprova della libera
circolazione tra privati, che avrebbe da sempre caratterizzato tali beni,
vengono altresì richiamate una serie di decisioni giurisdizionali in tal senso.
5.2.– Quanto alla rilevanza
della questione, il rimettente osserva come la domanda abbia ad oggetto
l’accertamento dell’esistenza del diritto di proprietà in capo alle società
attrici rispetto ai «beni estimati», mentre la norma impugnata ne assume la
titolarità in capo all’ente pubblico convenuto.
Ad avviso del giudice a quo, non sarebbe neppure possibile
una interpretazione costituzionalmente orientata che consenta di non ritenere
la norma in contrasto con i parametri costituzionali.
Infatti, sia la
ricostruzione storica dei trasferimenti a seguito dei quali le società attrici
si affermano proprietarie dei «beni estimati», sia l’esistenza delle decisioni
giurisdizionali richiamate, evidenzierebbero come tali beni siano stati da
sempre ritenuti suscettibili di libera circolazione tra privati secondo le
ordinarie regole della proprietà privata, a differenza degli agri marmiferi
comunali.
Osserva il rimettente
come il regime differenziato riservato agli agri marmiferi comunali, da una
parte, ed ai «beni estimati», dall’altra, venga confermato anche dalla diversa
regolamentazione operata per gli uni e per gli altri dallo stesso Comune di
Carrara.
In proposito, secondo
il giudice a quo, l’assunto del
Comune secondo cui la legge regionale n. 35 del 2015 si sarebbe «limitata a
esternare (dichiarare) la natura che detti beni posseggono ex se e cioè in ragione della loro provenienza [...]», sarebbe
incompatibile con la ricostruzione storica delle vicende dei «beni estimati»;
essa, al contrario, confermerebbe la tesi delle società attrici circa il
plurisecolare riconoscimento di un diritto di piena proprietà a favore dei
privati sui beni in questione.
Piuttosto, ad avviso
del rimettente, il significato della norma avrebbe una portata ben più ampia di
quella ricollegabile all’espressione utilizzata, proprio in virtù dell’attuale
assetto dei beni, incompatibile con una mera attività di «ricognizione».
Nonostante la sua
formulazione testuale, la norma impugnata sarebbe diretta ad operare un vero e
proprio trasferimento al patrimonio indisponibile comunale della proprietà di
tali beni dai soggetti privati che li hanno a vario titolo acquistati; ciò
comporterebbe, secondo il rimettente, la rilevanza della questione ai fini
dell’accoglimento o del rigetto della domanda.
5.3.– In ordine alla non
manifesta infondatezza, il giudice a quo
deduce in primo luogo il contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in quanto la regolamentazione
della proprietà privata apparterrebbe indiscutibilmente alla potestà
legislativa dello Stato in materia di «ordinamento civile».
Peraltro, secondo il
rimettente, una disciplina come quella posta in essere dalla Regione con la
norma impugnata non sarebbe stata consentita neppure al legislatore statale,
posto che lo Stato potrebbe incidere in via diretta sulla proprietà privata
solo nelle forme e con i limiti della legislazione sull’espropriazione per
pubblica utilità.
5.3.1.– Viene poi
denunciato il contrasto con l’art. 117, comma 3, Cost., perché nella materia
del «governo del territorio», in cui sarebbe ricompresa la disciplina degli
agri marmiferi, l’espropriazione verrebbe in rilievo solo in quanto attività
strumentale all’acquisizione di suoli per la realizzazione di opere pubbliche,
mentre nel caso in esame il trasferimento dei «beni estimati» al patrimonio
indisponibile comunale sarebbe finalizzato al mero incremento patrimoniale in
favore dell’ente pubblico.
5.3.2.– La norma
censurata violerebbe, altresì, gli artt. 42, secondo e terzo comma, e 97 Cost.,
in quanto realizzerebbe il trasferimento coattivo di quelle proprietà dai
privati al patrimonio indisponibile comunale e dunque determinerebbe una sorta
di espropriazione di quei beni in un caso non previsto dalla legge, senza
indennizzo e senza l’indicazione di un motivo d’interesse generale che la
giustifichi; essa, inoltre, realizzerebbe tale effetto espropriativo in difetto
di un regolare procedimento amministrativo governato dai principi di buon
andamento e imparzialità.
5.3.3.– Sarebbe, inoltre,
violato l’art. 3 Cost., sia perché la norma impugnata sottrarrebbe i «beni
estimati» privati, costituiti dagli agri marmiferi, solo ai proprietari di tali
beni ubicati nei comuni di Massa e di Carrara; sia perché realizzerebbe
l’espropriazione dei soli «beni estimati» costituiti da cave, e non dei «beni
estimati» costituiti da terreni agricoli o da beni destinati ad usi diversi.
5.3.4.– Viene altresì
denunciato il contrasto con l’art. 117, comma l, Cost., in relazione all’art. l
del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, in quanto la norma impugnata
esproprierebbe di fatto i «beni estimati», senza indicare le ragioni di utilità
sociale ad essa sottese e senza prevedere alcun indennizzo.
5.3.5.– La norma impugnata,
infine, violerebbe gli artt. 24, 42, 102 e 111 Cost., perché, nel caso in cui
si volesse riconoscere ad essa una funzione regolatrice del conflitto tra ente
pubblico e privati titolari del diritto di proprietà sui «beni estimati», il
legislatore regionale si sarebbe indebitamente sostituito al giudice ordinario
nella pretesa di risolvere, al di fuori di un processo regolato dalla legge, il
conflitto esistente tra soggetti dell’ordinamento.
Peraltro, ad avviso del
giudice a quo, sarebbe fuorviante il
richiamo effettuato nei lavori preparatori della legge regionale censurata alla
sentenza n. 488
del 1995, della quale la legge regionale n. 35 del 2015 sarebbe attuazione.
Quella decisione, infatti, riguarderebbe i soli rapporti concessori relativi
agli agri marmiferi di proprietà dei Comuni, senza alcun riferimento agli agri
marmiferi di proprietà privata. Il fatto che la pronuncia non si occupi degli
agri marmiferi costituenti «beni estimati» confermerebbe, secondo il
rimettente, la distinzione esistente tra agri marmiferi di proprietà dei Comuni
e agri marmiferi di proprietà privata.
5.4.– In conclusione, secondo
il giudice a quo, non sarebbe
possibile ritenere che la norma non incida su beni attualmente di proprietà
privata, sul presupposto che solo «alcuni cavatori» riterrebbero sussistente il
diritto di proprietà in capo a soggetti privati, poiché il riconoscimento in
capo ai privati del diritto di proprietà sui «beni estimati» sarebbe stato
oggetto di numerosi provvedimenti giurisdizionali, oltre che di rogiti notarili
di trasferimento.
Neppure sarebbe
possibile ricondurre la questione nell’ambito dei rapporti di concessione,
posto che per i «beni estimati» non risulta che il Comune abbia mai chiesto, né
imposto, il pagamento di canoni.
6.– Con atto depositato il
6 giugno 2016, è intervenuto il Presidente della Regione Toscana deducendo
l’inammissibilità e l’infondatezza della questione.
6.1.– La Regione eccepisce,
in primo luogo, l’irrilevanza della questione, in quanto il rimettente
muoverebbe dall’erroneo presupposto interpretativo che il censurato art. 32,
comma 2, sia una norma innovativa, la quale, prevedendo per la prima volta la
titolarità pubblica dei «beni estimati», ne determinerebbe la sostanziale
espropriazione, al di fuori delle garanzie procedimentali previste
dall’ordinamento per gli espropri.
Al contrario, secondo
la difesa regionale, la norma impugnata non avrebbe introdotto alcuna
innovazione in materia di ordinamento civile, ma avrebbe solo preso atto della
natura già pubblica della proprietà dei «beni estimati», limitandosi a
prevedere, nell’ambito della generale disciplina delle cave, una norma
meramente ricognitiva di disposizioni già presenti nella disciplina statale di
riferimento in tema di agri marmiferi del Comune di Carrara.
Di conseguenza, secondo
la Regione, la lamentata lesione del diritto di proprietà privata dei «beni
estimati», non deriverebbe dalla norma regionale, ma dalla disciplina statale
di riferimento, che fin dai tempi dell’ordinamento preunitario affermerebbe
l’appartenenza al demanio comunale di tali beni.
6.2.– Nel merito, la Regione
deduce l’infondatezza della questione sollevata in riferimento all’art. 117,
secondo comma, lettera l), Cost.,
svolgendo i medesimi argomenti già illustrati nell’atto di costituzione nel
giudizio in via principale.
6.2.1.– Quanto alla censura
relativa alla violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., il richiamo a tale
parametro sarebbe del tutto inconferente, in quanto l’oggetto della disciplina
recata dalla norma impugnata non afferirebbe alla materia del «governo del
territorio», ma per l’appunto a quella delle «cave», di competenza residuale
delle Regioni ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost.
6.2.2.– Del pari non fondata
sarebbe la questione sollevata in riferimento agli artt. 42, secondo e terzo
comma, Cost., nonché all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. l
del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, in quanto la norma impugnata non
avrebbe inciso in alcun modo sulla proprietà privata dei «beni estimati»,
trattandosi di beni di proprietà pubblica che costituirebbero una species della più
generale categoria degli agri marmiferi.
6.2.3.– Neppure sarebbe
violato l’art. 97 Cost., perché la norma impugnata non avrebbe realizzato alcun
effetto espropriativo, avendo ad oggetto la regolamentazione del rapporto concessorio di beni pubblici, in conformità ai principi
statali e comunitari vigenti.
6.2.4.– Ugualmente
priva di pregio sarebbe la censura relativa alla violazione dell’art. 3 Cost.,
perché la norma impugnata non avrebbe determinato alcuna sottrazione dalla
titolarità dei privati dei «beni estimati», rientrando questi nel patrimonio
del Comune al pari degli agri marmiferi; d’altra parte, secondo la Regione, la
circostanza che i «beni estimati» siano un unicum
presente solo nel Comune di Carrara, giustificherebbe il loro espresso richiamo
ad opera della disposizione censurata e determinerebbe la non identità delle
situazioni messe a confronto dal rimettente.
6.2.5.– Infine, ad avviso
della Regione, neanche la censura relativa alla violazione degli artt. 42,
secondo e terzo comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del
Primo Protocollo addizionale alla CEDU [recte: agli artt.
24, 42, 102 e 111 Cost.], sarebbe fondata, in quanto il censurato art. 32,
comma 2, si limiterebbe a prendere atto della proprietà pubblica dei «beni
estimati», senza operare alcuna indebita sostituzione rispetto all’autorità
giudiziaria.
Che poi il Comune non
abbia mai chiesto il pagamento di canoni in relazione a tali beni
dimostrerebbe, ad avviso della Regione, l’indebito arricchimento, senza titolo,
da parte delle società che operano nel comprensorio lapideo apuano, e
giustificherebbe, pertanto, l’intervento del legislatore regionale a tutela del
corretto utilizzo del patrimonio pubblico.
6.3.– Con una memoria
depositata in prossimità dell’udienza, la Regione Toscana ha insistito affinché
la questione sia dichiarata irrilevante o comunque infondata.
7.– Con atto depositato il
7 giugno 2016, si sono costituite le società Omya e Cave Statuario srl, chiedendo
l’accoglimento della questione.
7.1.– Osservano le parti
private come i diritti di proprietà sugli agri marmiferi costituenti «beni
estimati», di cui esse risultano titolari, abbiano circolato da secoli secondo
il regime dei beni oggetto di proprietà privata. Esse hanno acquistato tali
diritti a titolo derivativo in forza di atti negoziali o di atti
giurisdizionali, oppure a titolo originario, per usucapione accertata in sede
giurisdizionale.
Ad avviso delle parti
private, gli atti di trasferimento indicati nell’ordinanza di rimessione
testimonierebbero come la norma impugnata costituisca un elemento di rottura
rispetto al diritto vivente, al di fuori di ogni potere attribuito alle Regioni
e con grave pregiudizio di diritti fondamentali, quali il diritto di proprietà.
7.1.1.– Secondo le parti private,
l’editto teresiano del 1751 avrebbe risolto una controversia tra una vicinanza
ed alcuni soggetti privati che avevano iscritto le loro cave agli estimi dei
particolari, senza tuttavia pagare la
«colletta».
La vicinanza avrebbe
rivendicato i propri diritti sulle cave e, quindi, anche la facoltà di aprirle.
L’editto non si sarebbe limitato a risolvere la controversia, accogliendo le
ragioni dei «particolari», ma avrebbe dettato la disciplina per il futuro.
Sarebbe evidente la
volontà del sovrano, laddove nega alle vicinanze qualsiasi pretesa non solo
verso i possessori, ma anche sopra le cave («sopra di esse»), se iscritte agli
estimi («allibrazione») da vent’anni; d’altra parte,
il riferimento così ampio all’immemorabile o alla centennaria, nonché ad ogni altro titolo, «il più legittimo
che immaginare si possa», confermerebbe il riconoscimento dell’esistenza di un
diritto di piena proprietà, in ragione del quale i «beni estimati» sarebbero
sempre stati considerati di proprietà privata.
7.1.2.– Inoltre, anche
nel periodo antecedente all’editto del 1751, vi erano proprietà di cave
trasferite o comunque soggette a vicende traslative, tra le quali vi erano
proprietà allodiali e beni riconducibili direttamente alla definizione di «beni
estimati», iscritti negli estimi come beni intestati a privati; tutti i beni
sarebbero poi confluiti nella categoria più ampia dei «beni estimati»,
all’interno dei quali sarebbe oggi impossibile distinguere le proprietà
allodiali dagli originari «beni estimati».
7.1.3.– La difesa delle parti
private elenca, altresì, una serie di atti normativi posteriori all’editto del
1751 che fanno riferimento direttamente, o indirettamente, a cave di proprietà
di privati, evidenziando come anche le fonti normative successive abbiano
sempre considerato i «beni estimati» di proprietà privata.
7.1.4.– Nel periodo
post-unitario, inoltre, la dottrina sarebbe stata pacifica nell’ammettere la
proprietà privata dei «beni estimati»; e anche la Commissione istituita dal
Comune di Carrara per redigere il primo regolamento degli agri marmiferi, non
avrebbe dubitato del fatto che i «beni estimati» siano pacificamente da
considerarsi beni di proprietà privata.
7.1.5.– Le parti private
riportano, altresì, una serie di pronunce giurisdizionali dalle quali la natura
privata di tali beni risulterebbe pacifica; evidenziano, inoltre, che in favore
del regime proprietario di tali beni deporrebbero sia la precedente
legislazione regionale (art. 1 della legge regionale n. 104 del 1995), sia il
regolamento degli agri marmiferi del Comune di Carrara, il quale non avrebbe
mai richiesto il pagamento del canone concessorio sui
«beni estimati».
7.2.– Pertanto, secondo le
parti private, sia la legislazione preesistente alla legge regionale n. 35 del
2015, sia il diritto vivente, sia la prassi amministrativa, avrebbero da sempre
considerato i «beni estimati» come beni di proprietà privata, riconoscendo che
essi non appartengono al patrimonio indisponibile comunale. Esse, dunque,
aderiscono in toto alle conclusioni
rassegnate dal Tribunale ordinario di Massa, concludendo per l’accoglimento
della questione.
7.3.– Le parti private,
inoltre, hanno rivolto istanza di trattazione congiunta e riunione del presente
giudizio con quello di cui al ricorso n. 60 del 2015, in ragione della comunanza
delle norme impugnate e delle questioni sollevate.
7.4.– Con memoria depositata
in prossimità dell’udienza, le parti private, deducendo l’erroneità della
ricostruzione del Comune di Carrara e della Regione Toscana, insistono nelle
conclusioni già rassegnate nell’atto di costituzione.
8.– Con atto depositato il
7 giugno 2016, si è costituito il Comune di Carrara deducendo l’inammissibilità
e l’infondatezza della questione.
8.1.– La difesa comunale
eccepisce, in primo luogo, l’irrilevanza della questione per l’erroneo
presupposto interpretativo da cui avrebbe mosso il rimettente. L’impugnato art.
32, comma 2, infatti, non avrebbe carattere innovativo, ma meramente
ricognitivo di pregresse disposizioni già vigenti nell’ordinamento giuridico in
tema di agri marmiferi comunali.
8.1.1.– Anche laddove si
ritenesse che la questione inerente la natura dei «beni estimati» sia
opinabile, ciò renderebbe comunque inammissibile la prospettata questione di
illegittimità costituzionale. La difesa comunale, infatti, osserva che le
società attrici hanno proposto un’azione di accertamento del proprio diritto di
proprietà con riferimento a certi beni; a fronte di tale domanda, il Comune ne
ha rivendicato la piena proprietà, non perché tale proprietà sia stata dichiarata
da una legge regionale, ma perché tale è la natura propria dei «beni estimati»,
in virtù delle caratteristiche che essi posseggono.
La questione sollevata
risulterebbe, al più, condizionata alla eventualità che la ricostruzione
"pubblicistica” della natura dei «beni estimati» sia errata, il che renderebbe
assolutamente evidente il difetto di attuale rilevanza della questione.
Ad avviso del Comune,
l’assunto del giudice a quo sulla
natura privata dei beni estimati sarebbe del tutto apodittico; il thema decidendum
sarebbe quello dell’accertamento della natura di tali beni, che prescinderebbe
dal contenuto della legge regionale n. 35 del 2015 e al quale il rimettente si
sarebbe sottratto.
8.2.– Nel merito, il Comune
deduce l’infondatezza di tutte le questioni con motivazioni analoghe a quelle
addotte dalla difesa regionale.
8.3.– Con memoria depositata
in prossimità dell’udienza, il Comune di Carrara ha insistito affinché la
questione di legittimità costituzionale sia dichiarata irrilevante e comunque
infondata.
Considerato in diritto
1.– Il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, ha promosso, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 2, della legge della Regione
Toscana 25 marzo 2015, n. 35 (Disposizioni in materia di cave. Modifiche alla
l.r. 78/1998, l.r. 10/2010 e l.r. 65/2014).
Ad avviso della difesa
statale, tale disposizione, nell’includere i beni estimati nel patrimonio
indisponibile comunale, nonostante consistenti elementi facciano ritenere che
essi siano oggetto di proprietà privata, colmerebbe una lacuna nell’ordinamento
civile italiano, violando la competenza esclusiva dello Stato in materia di «ordinamento
civile».
Il richiamato art. 32,
comma 2, viene altresì censurato dal Tribunale ordinario di Massa, con
ordinanza del 17 marzo 2016, in riferimento allo stesso art. 117, secondo
comma, lettera l), Cost., nonché agli
artt. 3, 24, 42, 97, 102, 111, 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1
del Primo Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre
1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (CEDU), e
117, terzo comma, Cost.
2.– I due giudizi hanno ad
oggetto la medesima disposizione e pongono questioni in gran parte analoghe,
sicché possono essere riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia.
3.– In via preliminare va ribadita
l’inammissibilità, nel giudizio promosso con ricorso del Presidente del
Consiglio dei ministri, dell’intervento delle società Omya
, Guglielmo Vennai , Caro e Colombi , Società
Escavazione Marmi SEM , Successori Adolfo Corsi Carrara srl
e Marbo srl.
Deve essere pertanto
confermata l’ordinanza, pronunciata nel corso dell’udienza pubblica e allegata
alla presente sentenza, adottata in conformità della costante giurisprudenza di
questa Corte, secondo cui il giudizio di legittimità costituzionale delle
leggi, promosso in via d’azione, si svolge esclusivamente tra soggetti titolari
di potestà legislativa e non ammette l’intervento di soggetti che ne siano
privi, fermi restando per costoro, ove ne ricorrano i presupposti, gli altri
mezzi di tutela giurisdizionale eventualmente esperibili (ex plurimis, sentenze n. 118
e n. 31 del 2015,
n. 210 del 2014,
n. 285, n. 220 e n. 118 del 2013,
n. 245, n. 114 e n. 105 del 2012,
n. 69 e n. 33 del 2011,
n. 278 del 2010).
D’altra parte, non
risultano neppure pertinenti i precedenti citati dalla difesa delle parti
private (sentenze
n. 344 del 2005 e n. 353 del 2001),
i quali, ancorché relativi a giudizi in via principale, riguardano pur sempre
interventi spiegati da soggetti titolari di potestà legislativa; né è
pertinente l’ulteriore giurisprudenza costituzionale richiamata, che non
riguarda l’intervento nei giudizi in via principale.
4.– Ancora in via
preliminare devono essere esaminate le eccezioni di inammissibilità sollevate
dalle parti.
4.1.– Nel giudizio in via
principale la Regione ha eccepito, in primo luogo, l’inammissibilità del
ricorso per insufficiente ricostruzione del quadro normativo, in quanto lo
Stato avrebbe sollevato la questione muovendo dall’erroneo presupposto che la
legislazione estense sia stata abrogata dalla legge mineraria del 1927.
È bensì
vero che questa Corte ha smentito una simile interpretazione, chiarendo come
l’art. 64 del r.d. n. 1443 del 1927 abbia «mantenuto in vigore la legislazione
preunitaria solo in via transitoria, fino al giorno dell’entrata in vigore dei
detti regolamenti» (sentenza n. 488 del
1995), e che, dunque, l’effetto abrogativo della legislazione estense debba
essere ricondotto al regolamento comunale, non alla legge del 1927; nondimeno,
l’erroneità del presupposto interpretativo dal quale muove il ricorrente
sarebbe eventualmente motivo di non fondatezza, non di inammissibilità della
questione (sentenza
n. 117 del 2015).
L’eccezione,
pertanto, non può essere accolta.
4.2.– Non merita
accoglimento neppure l’ulteriore eccezione sollevata dalla Regione, secondo la
quale il ricorso sarebbe inammissibile per genericità delle censure.
Il ricorrente, infatti,
non si è limitato a richiamare genericamente l’art. 117, secondo comma, lettera
l), Cost., ma ha evidenziato come la
natura giuridica dei beni estimati fosse controversa, dando conto degli opposti
orientamenti dottrinali formulati a riguardo; ed ha altresì specificato la
ragione per cui l’inclusione dei beni estimati nel patrimonio indisponibile dei
Comuni di Massa e Carrara violerebbe il parametro costituzionale,
individuandola nell’aver il legislatore regionale indebitamente colmato una
lacuna dell’ordinamento in materia civilistica.
A ben vedere, dunque,
«Il ricorso – ancorché conciso – rende […] ben identificabili i termini delle
questioni proposte, individuando le disposizioni impugnate, i parametri evocati
e le ragioni dei dubbi di legittimità costituzionale» (sentenza n. 241 del
2012).
4.3.– Nel giudizio in via
incidentale, poi, sia la Regione, sia il Comune di Carrara, hanno eccepito
l’irrilevanza della questione, deducendo che si tratterebbe di una norma
meramente ricognitiva, che non avrebbe introdotto nell’ordinamento una regola
precettiva autonoma.
Neppure questa
eccezione è fondata.
Secondo la costante
giurisprudenza di questa Corte «[i]l giudizio di rilevanza […] è riservato al
giudice rimettente, sì che l’intervento della Corte deve limitarsi ad accertare
l’esistenza di una motivazione sufficiente, non palesemente erronea o
contraddittoria, senza spingersi fino ad un esame autonomo degli elementi che
hanno portato il giudice a quo a
determinate conclusioni. In altre parole, nel giudizio di costituzionalità, ai
fini dell’apprezzamento della rilevanza, ciò che conta è la valutazione che il
rimettente deve fare in ordine alla possibilità che il procedimento pendente
possa o meno essere definito indipendentemente dalla soluzione della questione
sollevata, potendo la Corte interferire su tale valutazione solo se essa, a
prima vista, appaia assolutamente priva di fondamento (ex plurimis,
sentenze n. 91
del 2013, n.
41 del 2011 e n.
270 del 2010)» (sentenza n. 71 del
2015).
Un simile presupposto
non si verifica nel caso di specie, in quanto il rimettente ha motivato in
maniera non implausibile circa la portata innovativa della norma impugnata,
soprattutto rispetto ad un assetto normativo e giurisprudenziale che, fino a
quel momento, avrebbe a suo avviso consolidato l’opposta configurazione dei
beni estimati come beni privati.
5.– Nel merito, la
questione relativa alla violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., è fondata.
5.1.– Con la legge regionale n. 35 del 2015 la Regione Toscana ha dettato
un’organica disciplina dell’attività estrattiva nell’ottica di salvaguardare,
come risulta dallo stesso preambolo della legge, le «particolarità storiche,
giuridiche ed economiche che caratterizzano i beni compresi nel suo
territorio», tra i quali rientrano anche i cosiddetti beni estimati, di cui
all’editto della duchessa Maria Teresa Cybo Malaspina
del 1° febbraio 1751.
I beni
estimati sono cave di limitate dimensioni territoriali, le quali, in ragione
delle peculiari caratteristiche morfologiche che le contraddistinguono, non
sono ormai coltivabili singolarmente e risultano in parte incorporate
all’interno di una stessa unità produttiva insieme a cave pubbliche, soggette a
concessioni comunali.
Davanti
alle moderne tecnologie che rendono sempre più opportuna, ai fini
dell’efficienza dell’attività estrattiva, la gestione comune di cave contigue,
anche se assoggettate a regimi giuridici diversi; davanti alle disfunzioni
dovute a tale diversità di regime ed insite nell’esperimento della procedura di
gara per una soltanto di esse; e davanti infine alle sempre più avvertite
esigenze ambientali che richiedono rigorose regole di tutela, comuni per tutte
le cave, il legislatore regionale ha ritenuto di poterle sottoporre ad un
medesimo regime concessorio, sulla premessa che i
beni estimati appartengano al patrimonio
indisponibile del Comune.
5.2.– È ben possibile che tale premessa sia la più conforme all’intento e alla ratio dell’editto teresiano del 1751,
che venne adottato dalla sovrana nella non modificata cornice dello statuto
dato a Carrara dal suo predecessore Alberico nel 1574.
In base
allo statuto tutti gli agri marmiferi erano di proprietà delle antiche
vicinanze, da chiunque fossero detenuti e utilizzati, e i detentori erano
perciò tenuti al pagamento alle vicinanze dell’annuale livello.
L’editto di
Maria Teresa si limitava a cancellare l’obbligo del livello per le cave per le
quali esso non fosse stato pagato da più di venti anni. Le cave così identificate
vennero definite «beni estimati».
Quali
fossero tali beni e quale dovesse essere il loro effettivo regime giuridico fu
materia di controversia negli anni successivi.
Dopo venti anni,
un nuovo editto – la cosiddetta legge delle usurpazioni del 1771 – affidò ad
un’apposita commissione il compito di effettuare una ricognizione dei beni
vicinali e di recuperare quelli indebitamente occupati, ma questo lavoro non
ebbe alcun seguito.
Una nuova commissione
fu istituita dalla notificazione governatoriale Petrozzani
del 1823 per verificare la legittimità del possesso di tutte le cave, ma anche
questa si concluse senza esito. Né la situazione mutò con il nuovo catasto
terreni del 1905. Il Comune distinse le cave in tre diverse tipologie – cave in
concessione, concordate e contestate – ma non si attivò presso i possessori
affinché chiedessero il rilascio delle concessioni, né avviò le procedure per
regolarizzare i mappali contestati.
Nel 1928 una nuova
ordinanza del Podestà fissò un termine di trenta giorni per la presentazione
delle domande di rilascio delle concessioni. Le domande furono raccolte e
catalogate, ma ancora una volta, come nei precedenti tentativi di riordino, non
si arrivò ad un risultato utile.
Nel 1955 la
commissione di esperti incaricata dal Comune di predisporre il regolamento per
la concessione degli agri marmiferi comunali, ai sensi dell’art. 64, comma 3,
del regio decreto 29 luglio 1927, n. 1443 (Norme di carattere legislativo per
disciplinare la ricerca e la coltivazione delle miniere nel Regno), qualificò i
beni estimati come beni di proprietà privata; nondimeno il Comune, fino al
1994, non adottò alcun regolamento.
Le vicende
successive all’editto del 1751, dunque, sono segnate da una sequenza di
plurisecolari inefficienze dell’amministrazione, che hanno impedito le
verifiche e gli accertamenti necessari a porre ordine alla materia.
5.3.– Tuttavia, è un dato storicamente incontrovertibile che nel diritto vivente
venutosi a consolidare nei secoli diciannovesimo e ventesimo, i beni estimati
non sono trattati come beni appartenenti al patrimonio indisponibile del
Comune, al quale dal 1812 erano stati trasferiti i beni delle vicinanze allora
abolite.
È un fatto
che il Comune di Carrara non ha mai incluso i beni estimati tra quelli
appartenenti al proprio patrimonio indisponibile; e che, quando, nel 1994, ha
adottato il suo primo regolamento che, ai sensi della legge mineraria del 1927,
poneva fine alla vigente legislazione estense, quei beni non sono stati
trattati.
La stessa
legge regionale 5 dicembre 1995, n. 104 (Disciplina degli agri marmiferi dei
Comuni di Massa e Carrara), con cui la Regione ha per la prima volta
disciplinato la materia – istituendo, fra l’altro, un nuovo sistema concessorio di matrice regionale, con il quale viene reciso
ogni legame con il livello estense – qualifica gli agri marmiferi di Massa e
Carrara come beni del patrimonio indisponibile comunale «se di essi il Comune
risulti proprietario ai sensi delle normative in atto all’entrata in vigore
della presente» (art. 1, commi 1 e 2).
Di
conseguenza, la riconduzione dei beni estimati ai beni del patrimonio
indisponibile del Comune operata dall’impugnato art. 32, comma 2, si configura
alla stregua di un’interpretazione autentica dell’editto di Maria Teresa,
effettuata con legge della Regione, in palese contrasto con tutta la prassi
precedente. Ciò, in base alla giurisprudenza di questa Corte, esula, nella
materia, dalle competenze della Regione.
Infatti, «come
precisato da questa Corte con la sentenza n. 232 del
2006, la potestà di interpretazione autentica spetta a chi sia titolare
della funzione legislativa nella materia cui la norma è riconducibile» (sentenza n. 290 del
2009). Ed è innegabile che l’individuazione della natura pubblica o privata
dei beni appartiene all’«ordinamento civile».
Pertanto,
la Regione ha ecceduto i limiti della propria competenza legislativa, violando
l’art. 117, secondo comma, lettera l),
Cost. Il che è accaduto non in ragione degli interessi pubblici che il
legislatore regionale ha inteso tutelare, ma perché a tale tutela la Regione
deve, se lo ritiene, provvedere con le competenze che possiede, non con
competenze che costituzionalmente non le spettano.
6.– Restano assorbiti gli
ulteriori profili di censura.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i
giudizi,
dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 32, comma 2, della legge della Regione Toscana 25
marzo 2015, n. 35 (Disposizioni in materia di cave. Modifiche alla l.r.
78/1998, l.r. 10/2010 e l.r. 65/2014), per la parte in cui qualifica la natura
giuridica di beni estimati.
Così deciso
in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20
settembre 2016.
F.to:
Paolo GROSSI,
Presidente
Giuliano AMATO,
Redattore
Roberto MILANA,
Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 24 ottobre 2016.
Allegato:
Ordinanza
letta all’udienza del 20 settembre 2016