SENTENZA N. 243
ANNO 1993
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Dott. Francesco GRECO
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 3 e 38 del d.P.R.29 dicembre 1973 n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato); dell'articolo 1, terzo comma, lettera b), della legge 27 maggio 1959 n. 324 (Miglioramenti economici al personale statale in attività ed in quiescenza), nel testo sostituito dall'articolo 1, primo comma, della legge 3 marzo 1960 n. 185; degli articoli 13 e 26 della legge 20 marzo 1975 n. 70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente); dell'articolo 3 della legge 7 luglio 1980 n.299 (Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 7 maggio 1980, n.153, concernente norme per l'attività gestionale e finanziaria degli enti locali per l'anno 1980); dell'articolo 4 della legge 29 maggio 1982 n.297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica); dell'articolo 14 della legge 14 dicembre 1973 n. 829 (Riforma dell'Opera di previdenza a favore del personale dell'Azienda autonoma delle ferrovie dello Stato); dell'articolo 21, quarto comma, della legge 17 maggio 1985 n. 210 (Istituzione dell'ente "Ferrovie dello Stato"); dell'articolo 22 della legge 3 giugno 1975 n.160 (Norme per il miglioramento dei trattamenti pensionistici e per il collegamento alla dinamica salariale); dell'articolo 1, terzo comma, lettere b) e c), della legge 27 maggio 1959 n. 324 (Miglioramenti economici al personale statale in attività ed in quiescenza), nel testo sostituito dall'artico lo 1, primo comma, della legge 3 marzo 1960 n.185; nonchè degli articoli 3, 37 e 38 del d.P.R. 29 dicembre 1973 n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato) e dell'articolo 19 della legge della Regione Sicilia 15 giugno 1988, n.11 (Disciplina dello stato giuridico ed economico del personale dell'Amministrazione regionale per il triennio 1985-1987 e modifiche ed integrazioni alla normativa concernente lo stesso personale), promossi con ordinanze emesse il 17 ottobre 1989 dal Tribunale amministrativo regionale della Puglia, l'8 novembre 1990 dal Tribunale amministrativo regionale dell'Abruzzo, Sezione distaccata di Pescara, il 5 marzo 1990 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, il 19 febbraio 1991 dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, il 28 novembre 1990 dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, il 13 giugno 1991 dal Pretore di Roma, il 4 giugno 1991 dalla Corte di cassazione, il 15 novembre 1991 dal Consiglio di Stato, il 6 novembre 1991 dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, Sezione distaccata di Catania, il 13 dicembre 1991 dal Consiglio di Stato e il 7 febbraio 1992 dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, Sezione distaccata di Catania, rispettivamente iscritte ai nn. 5, 66, 89, 389, 448 e 688 del registro ordinanze 1991 e ai nn.50, 140, 245, 585 e 666 del registro ordinanze 1992 e pubblicate nella Gazzette Ufficiali della Repubblica nn. 5, 8, 9, 23, 27 e 46, prima serie speciale, dell'anno 1991 e nn. 7, 13, 20, 42 e 43, prima serie speciale, dell'anno 1992.
Visti gli atti di costituzione di Tarsia Giacomo, Iacobelli Marcella ed altri, di Basola Nemes Carla Maria, di Archetti Rosa ed altri, di Munafò Trifirò Marina, di Ceraldi Franco ed altri e dell'I.N.A.D.E.L. nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e della Regione Sicilia;
udito nell'udienza pubblica del 18 novembre 1992 il Giudice relatore Ugo Spagnoli;
uditi gli avvocati Franco Agostini per Tarsia Giacomo, Iacobelli Marcella ed altri, Fabio Lorenzoni per Basola Nemes Carla Maria, Carlo Rienzi per Archetti Rosa ed altri, Francesco Mobilia per Munafò Trifirò Marina, Edoardo Ghera e Luciano Ventura per Ceraldi Franco ed altri, Giuseppe La Loggia per l'I.N.A.D.E.L. e gli Avvocati dello Stato Gaetano Zotta e Giuseppe Stipo per il Presidente del Consiglio dei ministri e per la Regione Sicilia.
Ritenuto in fatto
1.- Il Tribunale amministrativo regionale della Puglia con ordinanza del 17 ottobre 1989 (r.o.n. 5 del 1991), quello dell'Abruzzo con ordinanza dell'8 novembre 1990 (r.o.n. 66 del 1991), quello della Lombardia con ordinanza del 28 novembre 1990 (r.o. n. 448 del 1991), il Consiglio di Stato con ordinanza del 15 novembre 1991 (r.o. n. 140 del 1992) e il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, sezione distaccata di Catania, con ordinanza del 7 febbraio 1992 (r.o. n. 666 del 1992), hanno sollevato questione di legittimità costituzionale delle norme che escludono l'indennità integrativa speciale dalla retribuzione da assumere come base di calcolo per la determinazione dell'indennità di buonuscita spettante al personale civile e militare dello Stato. I giudici remittenti denunziano l'ingiustificata disparità di trattamento che tale disciplina determina rispetto al regime generale vigente per il lavoro privato in virtù dell'articolo 2120 cod. civ., nel testo modificato dall'articolo 1 della legge 29 maggio 1982 n. 297, (che stabilisce il carattere omnicomprensivo della retribuzione computabile nel trattamento di fine rapporto), non chè rispetto alla normativa applicabile ad altre categorie di dipendenti pubblici (ed in particolare ai dipendenti degli enti locali per effetto dell'articolo 3 della legge 7 luglio 1980 n.299, secondo cui, a decorrere dal 1° gennaio 1974, l'indennità integrativa speciale corrisposta a tale personale è da computare nell'indennità premio di servizio). In collegamento con la dedotta lesione del principio di uguaglianza, viene denunziata anche la violazione dell'articolo 36 della Costituzione, in ragione della natura retributiva dell'indennità integrativa speciale, e della natura di retribuzione differita da riconoscersi al trattamento di fine servizio, quale che ne sia la denominazione, la disciplina, i meccanismi di provvista finanziaria e il soggetto erogatore.
In talune ordinanze viene fatto riferimento anche all'articolo 38 della Costituzione, in ragione della funzione previdenziale dell'indennità di buonuscita.
Le disposizioni legislative investite da tali censure sono rappresentate dall'articolo 1, terzo comma, lettera b) della legge 27 maggio 1959 n. 324 e successive modificazioni (secondo cui l'indennità integrativa speciale non è computabile agli effetti del trattamento di quiescenza, di previdenza e dell'indennità di licenziamento) e dagli articoli 3 e 38 del d.P.R. 29 dicembre 1973 n. 1032, che, nel definire la "base contributiva" da prendere in considerazione per la determinazione dell'indennità di buonuscita spettante al personale statale, ne escludono l'indennità integrativa speciale, dato che vi comprendono solo lo stipendio, la paga o la retribuzione annui, nonchè alcuni assegni specificatamente indicati e gli altri assegni e indennità previsti dalla legge come utili ai fini del trattamento previdenziale.
L'ordinanza del Consiglio di Stato del 15 novembre 1991 (r.o. n. 140 del 1992) estende l'incidente anche alla lettera c) del citato terzo comma dell'articolo 1, legge n. 324 del 1959 e all'articolo 37 del citato d.P.R. n.1032 del 1973 in ragione dell'esclusione - determinata da tali norme - dell'indennità integrativa speciale dalla contribuzione previdenziale prevista in funzione dell'indennità di buonuscita.
2.- Questione analoga è stata sollevata dai Tribunali amministrativi regionali del Lazio con ordinanza del 5 marzo 1990 (r.o. n. 89 del 1991), da quello della Sicilia con ordinanza del 19 febbraio 1991 (r.o. n. 389 del 1991) e dal Consiglio di Stato con ordinanza del 13 dicembre 1991 (r.o. n.585 del 1991), in relazione all'indennità di anzianità prevista per i dipendenti degli enti pubblici non economici a norma dell'articolo 13 della legge 20 marzo 1975 n. 70.
Le norme che in questo settore escludono l'indennità integrativa speciale dal computo dell'indennità di anzianità e che pertanto vengono sottoposte al vaglio della Corte sono diversamente individuate nelle tre ordinanze di rimessione.
I due Tribunali amministrativi regionali, infatti, denunziano gli articoli 13 e 26, terzo comma, della suddetta legge n. 70 del 1975 (la prima di tali norme commisura l'indennità di anzianità all'ultimo stipendio annuo complessivo e la seconda, secondo l'interpretazione che ne dà la giurisprudenza del Consiglio di Stato, stabilisce che l'indennità integrativa speciale è corrisposta ai dipendenti degli enti pubblici non economici "nella misura e con le forme vigenti per il personale civile dello Stato").
Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, peraltro, coinvolge nella censura anche:
a) l'articolo 4, della legge 29 maggio 1982 n.297, nella parte in cui esclude i dipendenti pubblici dall'applicazione della nuova disciplina generale del trattamento di fine rapporto, pur dichiarata applicabile, dal quarto comma del medesimo articolo 4, "a tutti i rapporti di lavoro subordinato per i quali siano previste forme di indennità di anzianità, di fine lavoro, di buonuscita, comunque denominate e da qualsiasi fonte disciplinate";
b) l'articolo 3, della legge 7 luglio 1980 n.299 che ha riconosciuto la computabilità dell'indennità integrativa speciale nel trattamento di fine servizio per i dipendenti degli enti locali e non anche per tutti i dipendenti pubblici.
Nella citata ordinanza del Consiglio di Stato, invece, la censura è rivolta alle medesime norme che disciplinano l'indennità integrativa speciale e l'indennità di buonuscita per il personale dello Stato (articolo 1 della legge n. 324 del 1959 e articoli 3 e 38 del d.P.R. n.1032 del 1973) ritenute, dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, valevoli anche per la disciplina dei corrispondenti istituti nel settore del parastato.
3.- Analoga questione è stata sollevata dal Pretore di Roma, con ordinanza del 13 giugno 1991 (r.o. n. 688 del 1991), con riferimento all'indennità di buonuscita corrisposta dall'O.P.A.F.S. - Opera di Previdenza e Assistenza per i Ferrovieri dello Stato - al personale dell'Ente Ferrovie dello Stato.
La censura, in questo caso, investe congiuntamente l'articolo 14 della legge 14 dicembre 1973 n. 829, che regola la determinazione dell'indennità di buonuscita in questione, e l'articolo 21, quarto comma, della legge 17 maggio 1985 n. 210, istitutiva dell'Ente Ferrovie dello Stato, secondo cui "fino a quando non sarà disciplinato l'assetto generale del trattamento previdenziale e pensionistico dei lavoratori dipendenti, rimane fermo il trattamento in atto".
4.- Analoga questione è stata sollevata dalla Suprema Corte di Cassazione con ordinanza del 4 giugno 1991 (r.o. n. 50 del 1992) con riferimento al personale già dipendente dell'O.N.M.I. e trasferito, dopo la soppressione di tale ente, alle dipendenze di enti locali. La questione attiene, più precisamente, alla liquidazione di quella parte del trattamento di fine servizio che corrisponde alla durata del rapporto di impiego con l'O.N.M.I. e riguarda soltanto il personale collocato a riposo prima della legge 27 ottobre 1988 n. 482 (che, all'articolo 6, ha disposto, per il personale in oggetto, la ricongiunzione della complessiva anzianità maturata presso l'ente di provenienza ai fini della liquidazione dell'indennità premio di servizio).
I profili prospettati nell'ordinanza, peraltro, sono riferiti alla generalità dei dipendenti pubblici il cui trattamento di buonuscita non prevede il computo dell'indennità integrativa speciale.
Le norme impugnate, infatti, sono rappresentate, congiuntamente:
dall'articolo 22, della legge 3 giugno 1975 n. 160, che assoggetta l'indennità integrativa speciale, a partire dal 1° gennaio 1974, alla contribuzione previdenziale, senza peraltro farne conseguire la computabilità per il calcolo del trattamento previdenziale stesso, e cioè per il calcolo dell'indennità di buonuscita;
b) dal già detto articolo 3, della legge n. 299 del 1980, che, dall'assoggettamento dell'indennità integrativa speciale alla contribuzione previdenziale fa invece discendere la computabilità di essa ai fini del trattamento di fine servizio, ma solo per i dipendenti degli enti locali e non anche per tutti i dipendenti pubblici.
5.- Con ordinanza del 6 novembre 1991 (r.o. n.245 del 1992), infine, il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, sezione distaccata di Catania, denunzia l'illegittimità dell'esclusione dell'indennità integrativa speciale dal computo dell'indennità di buonuscita corrisposta ai dipendenti della Regione siciliana collocati a riposo prima del 1° gennaio 1985.
La norma impugnata è rappresentata in questo caso dall'articolo 19 della legge regionale siciliana 15 giugno 1988 n. 11 che elimina tale esclusione, ma solo per i dipendenti collocati a riposo dopo tale data. Il giudice a quo ritiene che tale discriminazione temporale sia ingiustificata e quindi in contrasto con l'articolo 3 in collegamento con l'articolo 36 della Costituzione.
6.- Gli argomenti esposti nelle ordinanze di rimessione e nelle difese degli ex dipendenti costituiti nel giudizio davanti a questa Corte sono in gran parte comuni.
I giudici a quibus sono consapevoli che questa Corte si è già pronunziata su analoghe questioni (sentenza n. 220 del 1988; ordinanze nn. 639, 869, 915, 1070 e 1072 del 1988; 419 del 1989; 143, 189, 217, 218, 402 e 491 del 1990) dichiarandole inammissibili o manifestamente inammissibili ed affermando che rientra nella discrezionalità legislativa disporre in merito alla determinazione della base retributiva da computare per i trattamenti di fine rapporto nonchè in merito ai modi e alla misura di tali trattamenti.
Talune delle ordinanze di rimessione, (in particolare quella del Consiglio di Stato del 15 novembre 1991, r.o. n. 140 del 1992), esprimono la richiesta di un superamento di tale impostazione, osservando che il riconoscimento della discrezionalità legislativa nella regolamentazione di una determinata materia non può mai valere a precludere il vaglio di costituzionalità volto ad accertare che il legislatore, nell'esercizio della discrezionalità che gli compete, non abbia superato i limiti o violato i principi posti dalla Costituzione.
Tutte le ordinanze, peraltro, ricordano e sottolineano quanto enunciato già nella sentenza n. 220 del 1988, e cioé che appariva "ormai indilazionabile un intervento legislativo volto a ricondurre verso una disciplina omogenea i trattamenti di quiescenza nell'ambito dell'impiego pubblico. Anche se giustificabili alla stregua delle singole disposizioni, dalle quali risulta, il sistema già soffre di sperequazioni sostanziali, che toccano le diverse categorie. L'accentuazione frazionistica attraverso la prosecuzione dello spezzettamento normativo, conseguente ad interventi parziali, limitati e particolari, potrebbe condurre a valutazioni globali della normativa, che, sulla base dell'accentuazione del carattere irrazionale delle singole componenti, imporrebbero una valutazione di illegittimità della normazione complessiva".
Tale monito era stato poi reiterato con le ordinanze nn. 419 del 1989, 143, 189, 217, 218, 402 e 491 del 1990, nelle quali la Corte rivolgeva un "pressante invito al legislatore di procedere ad una sistemazione organica della materia che realizzi l'omogeneità dei trattamenti".
Queste sollecitazioni - rilevano i giudici a quibus - sono rimaste inascoltate dal legislatore, sicchè si impone ora una pronunzia che elimini le disomogeneità che la Corte stessa ha riconosciuto e denunziato.
7.- Svolgendo il tema della dedotta violazione del principio di uguaglianza i giudici remittenti negano che la possibilità di istituire un raffronto tra l'indennità di buonuscita spettante al personale dello Stato, l'indennità di anzianità spettante ai dipendenti degli enti pubblici non economici, l'indennità premio di servizio spettante ai dipendenti locali e il trattamento di fine rapporto spettante ai dipendenti privati sia preclusa dalla diversa natura di tali istituti ovvero dalla diversità della loro disciplina, o dalla diversità dei rapporti di lavoro ai quali essi si collegano.
Con riferimento alla pretesa natura previdenziale dell'indennità di buonuscita e al conseguente meccanismo di alimentazione (mediante contributi parzialmente posti a carico dello stesso lavoratore) e di erogazione (da parte di un istituto previdenziale), si osserva che tale profilo non può valere a legittimare una differenza di trattamento tra impiegati dello Stato e impiegati degli enti locali, posto che anche l'indennità premio di servizio spettante a questi ultimi presenta gli stessi caratteri ed è erogata da un istituto previdenziale sulla base di contributi posti, per una quota, a carico del lavoratore.
La stessa Corte costituzionale - si afferma - ha successivamente disatteso tale impostazione, allorquando, con le sentenze nn. 763 e 821 del 1988, ha dichiarato illegittime talune norme che regolavano l'indennità premio di servizio corrisposta dall'I.N.A.D.E.L. in maniera deteriore rispetto alla disciplina dell'indennità di buonuscita corri sposta dall'E.N.P.A.S.. Non si comprenderebbe - rileva in particolare la Corte di cassazione - la ragione per cui la parificazione tra la posizione dei dipendenti degli enti locali e quella dei dipendenti dello Stato non debba essere attuata anche nel senso opposto, eliminando cioè quelle disposizioni che negano ai dipendenti statali (e a quelli ad essi assimilati) diritti inerenti al trattamento di fine rapporto che sono invece accordati ai dipendenti pubblici iscritti all'I.N.A.D.E.L..
Il medesimo profilo viene invece ritenuto inconferente per ciò che riguarda l'indennità di anzianità spettante al personale degli enti pubblici economici a norma dell'articolo 13 della legge n. 70 del 1975. Le ordinanze e le difese che si riferiscono a tale comparto sottolineano, infatti, che la suddetta indennità di anzianità, esattamente alla pari del trattamento di fine rapporto previsto per i lavoratori privati, è corrisposta dallo stesso datore ed è posta integralmente a suo carico, sicchè non sarebbe in alcun modo possibile dubitare della totale identità dei due istituti.
Più in generale le ordinanze di rimessione (ed in particolare quelle del Consiglio di Stato) sostengono che la funzione previdenziale eventualmente attribuibile all'indennità di buonuscita non varrebbe comunque a negarne la natura di retribuzione differita, ormai riconosciuta - anche dalla Corte costituzionale - come propria di tutti i trattamenti di fine rapporto. I quali sono connotati - è vero - da notevoli diversità di regolamentazione - in relazione alla diversità delle loro origini storiche, peraltro superata dalla successiva evoluzione legislativa - ma tutti rappresentano, in realtà il risultato dell'accantonamento di una quota di retribuzione (presso lo stesso datore di lavoro ovvero presso un apposito ente: un'ipotesi, quest'ultima, che l'articolo 2123 prevedeva del resto anche per il rapporto di lavoro privato) da corrispondere una tantum al momento della cessazione del rapporto per sopperire alle esigenze che a tale evento si collegano. E la previsione, per alcuni di tali trattamenti di fine rapporto, di meccanismi di stampo previdenziale - ovvero basati su versamenti contributivi ad un ente esterno al rapporto di lavoro - è un dato che attiene alla strumentazione prescelta per la realizzazione finanziaria dell'istituto, ma a nulla vale per differenziarne la funzione o per escluderne la comune natura di retribuzione differita. In argomento l'ordinanza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio (r.o. n. 89 del 1991) ricorda che ciò è stato rilevato dalla stessa Corte, con l'esplicita affermazione che "tra le indennità di fine rapporto possono bensì sussistere differenze di dettaglio inerenti alle peculiarità proprie di ciascuna, ma nella sostanza esse sono analoghe ed omogenee per finalità da realizzare sicchè la loro disciplina sostanziale e fondamentale non può essere differente" (sentenza n. 763 del 1988).
Nè potrebbe valere, al fine di legittimare o comunque rendere insindacabili le denunziate disparità di trattamento, addurre la diversità dei rapporti di lavoro ai quali si collegano i trattamenti posti a raffronto. Tale argomento - rilevano i giudici a quibus - non può evidentemente essere speso rispetto alla comparazione con il premio di servizio corrisposto dall'I.N.A.D.E.L., dal momento che pubblico impiego statale, pubblico impiego alle dipendenze di enti pubblici non economici e pubblico impiego alle dipendenze di enti locali non presentano, nei reciproci confronti, alcuna differenza che sia idonea a giustificare la disparità in esame. Ed anzi lo stesso legislatore - osserva la difesa privata nel giudizio promosso dall'ordinanza del Pretore di Roma (r.o. n. 688 del 1991) - con l'articolo 4 della legge quadro sul pubblico impiego (n.93 del 1983) ha inteso imporre espressamente il criterio dell'omogeneizzazione e della perequazione come principio fondamentale dell'ordinamento legislativo dello Stato.
Ma - si afferma in talune ordinanze (ed in particolare in quella emessa dal Consiglio di Stato il 13 dicembre 1991, r.o. n. 585 del 1992) - il raffronto all'interno del pubblico impiego - che pur rivela già di per sè la denunziata discriminazione a danno dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici non economici - non è sufficiente.
Il quadro di riferimento da assumere, per accertare se esiste un trattamento previsto in via generale ed ordinaria rispetto al quale quello riservato a tali due categorie è ingiustificatamente deteriore, è rappresentato dall'intero mondo del lavoro, sia privato che pubblico, atteso che la nostra Costituzione non consente, in alcuna sua norma, di affermare una diversità strutturale o tanto meno ontologica tra rapporto di lavoro privato e pubblico.
É indiscutibile - osserva il giudice amministrativo - che la disciplina dei singoli rapporti di lavoro speciali sia rimessa alla discrezionalità del legislatore, ma appunto l'uso di tale discrezionalità solleva dubbi di costituzionalità nella misura in cui si discosti dal quadro generale di riferimento attraverso eccezioni ingiustificatamente deteriori. E il quadro di riferimento "ordinario", nel senso sopra accennato, in relazione al quale giudicare della eccezionalità di un trattamento, è costituito, nel settore giuslavoristico allargato, da:
1)riconoscimento del diritto ad un trattamento di fine rapporto considerato quale retribuzione differita;
2) inclusione nel concetto di retribuzione di qualsiasi meccanismo economico atto a salvaguardare la retribuzione stessa dai danni prodotti dall'inflazione.
In talune ordinanze e in talune difese private (in particolare in quella svolta nel giudizio relativo all'indennità di buonuscita erogata dal- l'O.P.A.F.S., r.o. n. 688 del 1991) si osserva che anche qui si è in presenza di un principio generale enunciato dallo stesso legislatore anche se poi dallo stesso contraddetto: il già ricordato quarto comma dell'articolo 4 della legge n. 297 del 1982, infatti, enuncia la validità della nuova disciplina del trattamento di fine rapporto per "tutti i rapporti di lavoro subordinato per i quali siano previste forme di indennità di anzianità, di fine lavoro, di buonuscita, comunque denominate e da qualsiasi fonte disciplinate". Una formulazione questa - si osserva - dalla quale si evince chiaramente la volontà del legislatore di affermare un principio di validità generale, applicabile a tutte le categorie di rapporti, privati e pubblici; sicchè il successivo sesto comma, secondo cui resta ferma la disciplina legislativa del trattamento di fine servizio dei dipendenti pubblici, appare rappresentare una contraddizione interna non razionale e non giustificabile.
La piena legittimità di una comparazione con la disciplina del trattamento di fine rapporto applicabile al settore privato viene poi sostenuta dalle ordinanze concernenti i dipendenti degli enti pubblici non economici (ed in particolare dalla citata ordinanza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, r.o. n. 89 del 1991) sotto lo specifico e già menzionato profilo della piena identità di struttura tra l'indennità di anzianità di cui all'articolo 13 della legge n. 70 del 1975 e il trattamento di fine rapporto di cui all'articolo 2120 cod. civ..
Infine, l'argomento della presunta diversità tra impiego pubblico e lavoro privato viene giudicato a priori inidoneo a giustificare il trattamento deteriore riservato ai dipendenti dell'ente Ferrovie dello Stato, il cui rapporto - come sottolineano l'ordinanza del Pretore di Roma e la difesa svolta dalle parti private nel conseguente giudizio - ha natura privatistica.
Talune ordinanze affrontano anche la tesi secondo cui la diversità di disciplina tra il regime I.N.A.D.E.L. ed il regime applicabile agli altri dipendenti pubblici sarebbe collegata al fatto (espressamente enunciato nell'articolo 3 della legge n. 299 del 1980 e richiamato dalla sentenza n.220 del 1988) che nel primo di tali comparti l'indennità integrativa speciale è assoggettata alla contribuzione cosiddetta previdenziale, mentre negli altri non lo è. Al riguardo viene affermato (in particolare nell'ordinanza di rimessione della Cassazione, r.o. n. 50 del 1992) che, a norma dell'articolo 22 della legge n. 160 del 1975 l'indennità integrativa speciale spettante agli impiegati dello Stato (e quindi anche quella spettante a tutti i dipendenti pubblici) è stata assoggettata alla contribuzione cosiddetta previdenziale a decorrere dal 1° gennaio 1974. Nè può ritenersi che il citato articolo 22 concerne soltanto la contribuzione relativa agli assegni familiari: l'articolo 12 della legge n. 153 del 1969, cui tale norma fa riferimento, detta infatti prescrizioni che sono state sempre ritenute di valenza generale, e cioé applicabili a qualunque forma di contribuzione, ed in tal senso - riferisce il giudice a quo - l'articolo 22 è stato di fatto applicato dalle amministrazioni interessate.
Diversa è invece l'argomentazione svolta su questo punto dal Consiglio di Stato, con l'ordinanza del 15 novembre 1991 (r.o. n. 140 del 1992). Premessa la natura incontestabilmente retributiva dell'indennità integrativa speciale e premesso altresì il principio che la retribuzione cui fa riferimento l'articolo 36, primo comma della Costituzione è la retribuzione lorda, comprensiva cioé degli oneri tributari e delle contribuzioni previdenziali, sia per la parte gravante sul lavoratore che per quella facente carico all'Amministrazione, il giudice a quo afferma che le norme impugnate appaiono in contrasto con il suddetto articolo 36, primo comma, proprio per il fatto di escludere che l'indennità integrativa speciale sia maggiorata della contribuzione previdenziale a carico dell'Amministrazione oltrechè per la conseguenziale riduzione della retribuzione globale che così si determina con riferimento alla misura del trattamento di fine servizio.
Infine, nell'ordinanza di rimessione del Pretore di Roma (r.o. n. 688 del 1991) si pone in rilievo che l'esclusione dell'indennità integrativa speciale dal computo del trattamento di fine servizio non può essere considerata alla stregua di una di quelle differenziazioni di dettaglio che legittimamente (perchè rientranti nella incensurabile discrezionalità legislativa) possono registrarsi nella disciplina di istituti analoghi ma inseriti in regimi normativi molto diversificati tra loro, quali sono quelli che regolano le varie categorie di rapporti di lavoro pubblico e privato.
Infatti - si osserva - l'eliminazione, dal trattamento accantonato e corrisposto in via differita, di una voce retributiva a carattere fisso e permanente, espressamente intesa a conservare il potere d'acquisto reale dei salari e degli stipendi e che, progressivamente, è venuta a rappresentare una quota sempre maggiore, quando non maggioritaria, della retribuzione effettiva - si risolve anche, necessariamente, in una violazione del principio di proporzionalità della retribuzione (differita) con la qualità e quantità del lavoro prestato.
Tale rilievo viene poi posto in relazione all'evoluzione della disciplina legislativa dell'indennità integrativa speciale (ripercorsa in modo particolarmente analitico nelle difese che in questo giudizio hanno svolto gli ex dipendenti dell'ente Ferrovie dello Stato): quest'ultima si è venuta sempre più omologando all'indennità di contingenza corrisposta ai privati, così evidenziando l'irrazionalità della diversità delle relative discipline per quanto concerne la computabilità nei trattamenti di fine servizio (dei quali, in parallelo, è venuta progressivamente ad evidenziarsi l'identità di natura e funzione, pur nella diversità delle articolazioni normative).
8.- Nei giudizi davanti a questa Corte, esclusi quelli relativi alle ordinanze iscritte ai nn.245 e 666 del 1992, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura Generale dello Stato richiamando, per quanto riguarda le questioni relative all'indennità di buonuscita, le numerose pronunzie di inammissibilità già intervenute sul punto.
Con riferimento, invece, alle questioni attinenti all'indennità di anzianità di cui all'articolo 13 della legge n. 70 del 1975, l'Avvocatura sostiene che vale anche per essa il medesimo giudizio di inammissibilità "essendo di esclusiva competenza del legislatore determinare, in relazione alla struttura complessiva della retribuzione e dei trattamenti di fine rapporto e pensionistici, nell'ambito di ciascun sistema retributivo e previdenziale, la misura dei vari tipi di indennità dovute al dipendente al termine del rapporto di lavoro e non essendo comparabile, a detto fine, la posizione dei dipendenti degli enti pubblici di cui alla legge n. 70 del 1975, con quella dei dipendenti privati, nè con quella dei dipendenti iscritti all'I.N.A.D.E.L., appartenendo essi a sistemi differenziati".
Nel merito, l'Avvocatura ha sostenuto che la questione di legittimità costituzionale in esame è da considerare infondata per difetto della identità delle posizioni dei dipendenti pubblici e privati che hanno diritto al trattamento di fine rapporto, avuto riguardo sia alla eterogeneità dei rapporti, sia alla diversità strutturale degli istituti in questione.
Nè potrebbe essere validamente operato un raffronto con l'indennità di fine servizio corrisposta dall'I.N.A.D.E.L. ai suoi iscritti, perchè la struttura stessa dei due sistemi previdenziali è diversa e non confrontabile.
Ricorda l'Avvocatura che la Corte ha più volte affermato che ai fini dell'articolo 3 della Costituzione è determinante, per impedire una valutazione comparativa, la diversità strutturale delle indennità raffrontate. Pur apparendo le stesse equivalenti sia per finalità, che per struttura, non è tuttavia possibile istituire il raffronto per la diversità della regolamentazione dei rapporti cui esse accedono. Invero, come è stato rilevato con la sentenza n. 26 del 1980, "non sussiste, sia riguardo al trattamento economico in attività di servizio, sia riguardo al sistema contributivo preordinato al trattamento di quiescenza, quella parità di situazioni che è il presupposto per la valutazione della legittimità costituzionale, in riferimento all'articolo 3 della Costituzione, di una diversità di disciplina". Ed infatti "la dedotta valutazione comparativa non può essere limitata a singole disposizioni dei due diversi sistemi, anche se possa risultare una diversità di trattamento, in quanto le norme particolari considerate non possono essere avulse dal sistema cui ineriscono".
Quanto poi la disciplina del trattamento di fine rapporto sia differente, tanto da impedire qualsiasi possibilità di raffronto fra l'indennità di fine servizio corrisposta dall'I.N.A.D.E.L., e l'indennità di anzianità corrisposta dall'ente pubblico datore di lavoro, risulta evidente - secondo l'Avvocatura - se solo si pone mente ai seguenti fattori: a) la diversa natura delle due indennità, quella dell'I.N.A.D.E.L., avente fini previdenziali, e la seconda, avente natura retributiva; b) nel sistema I.N.A.D.E.L. il lavoratore contribuisce con l'ente locale ad accantonare le somme che costituiranno la provvista per il pagamento dell'indennità, mentre nel regime della legge n. 70 del 1975 l'indennità di anzianità è a totale carico dell'ente datore di lavoro; c) nel sistema I.N.A.D.E.L. è appunto l'ente previdenziale a dover corrispondere l'indennità, essendo l'obbligo dell'ente locale assolto con il versamento periodico dei relativi contributi; nel secondo caso è l'ente datore di lavoro debitore dell'indennità di anzianità.
Che poi il trattamento di fine servizio dell'impiego privato e quello degli impiegati degli enti pubblici di cui alla legge n. 70 del 1975 siano strutturalmente diversi e non confrontabili fra di loro, è dimostrato non soltanto dal fatto che l'indennità integrativa speciale ha natura previdenziale, ma anche dalla circostanza che nell'impiego privato l'indennità di anzianità è costituita da quote di retribuzione accantonate dal datore di lavoro e indicizzate secondo le disposizioni di cui alla legge n. 297 del 1982, mentre quella spettante agli impiegati pubblici in questione viene attribuita sulla base dell'ultimo stipendio percepito dagli interessati all'atto della cessazione del servizio. Il che è certamente un vantaggio di notevole consistenza, che è arduo valutare e quantificare per raffrontarlo col trattamento di fine servizio dell'impiego privato.
In relazione alla ipotizzata violazione dell'articolo 36 della Costituzione, l'Avvocatura osserva che l'indennità integrativa speciale, ha natura previdenziale e non retributiva, diversamente da quanto accade invece per la contingenza nell'impiego privato.
Sicchè, anche a voler condividere la tesi secondo cui la retribuzione differita rappresenta nel vigente ordinamento costituzionale un'entità fatta oggetto, sul piano morale e su quello patrimoniale, di particolare protezione, deve considerarsi che l'indennità integrativa speciale non ha natura retributiva. Sarebbe poi abbastanza problematico ritenere che il mancato computo della medesima nell'indennità di anzianità possa essere in contrasto con il precetto costituzionale posto a presidio della sufficienza del corrispettivo da lavoro subordinato "ad assicurare a se e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa", quando ci si trova di fronte alla corresponsione di una somma una tantum per le ben note finalità previdenziali.
Secondo l'Avvocatura, infine, le questioni poste dalle ordinanze di rimessione appaiono in contrasto con l'articolo 81 della Costituzione, in quanto tendono ad integrare una norma di legge (articolo 14 della legge n.829 del 1973), imponendo ad un ente pubblico nuove e maggiori spese senza la indicazione dei mezzi per farne fronte.
9.- Nel giudizio promosso dall'ordinanza della Cassazione (r.o. n. 50 del 1992) si è costituito l'I.N.A.D.E.L., chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e richiamando a tal fine le pronunzie di questa Corte nn. 220 del 1988 e 402 del 1990 (quest'ultima relativa proprio al personale dell'O.N.M.I. transitato alle dipendenze di altri enti).
L'Istituto ricorda che, dovendo il legislatore disciplinare il trattamento di fine rapporto (dato che esso era diverso per l'O.N.M.I. e per gli enti locali), è stato disposto dall'articolo 9 della legge 23 dicembre 1975, n.698 che esso debba computarsi con due distinti calcoli: per il periodo di servizio presso l'O.N.M.I. sulla base del regolamento organico per il trattamento di quiescenza del relativo personale (che non prevedeva il computo dell'indennità integrativa speciale), e per il periodo di servizio presso l'ente locale, sulla base del trattamento I.N.A.D.E.L. vigente per il personale degli enti locali presso cui i dipendenti ex O.N.M.I. erano stati trasferiti.
Tale disciplina - osserva l'I.N.A.D.E.L. - rientra nella legittima discrezionalità del legislatore riguardo alla disciplina dei vari e diversi rapporti di impiego pubblico. É da rilevare, del resto, che il fatto che l'ex dipendente O.N.M.I. transitato presso un ente locale abbia diritto a due diversi trattamenti previdenziali per il periodo di servizio prestato presso l'ente locale; e il fatto che il trattamento relativo al primo servizio sia diverso da quello che gli sarebbe spettato se fosse stato dipendente statale o da ente locale, altro non concretizza che un trattamento diverso di due situazioni giuridiche diverse.
10.- Nel giudizio promosso con l'ordinanza del Tribunale amministrativo regionale della Sicilia del 6 novembre 1991 (r.o. n. 245 del 1992), relativa al personale di quella regione è intervenuto il Presidente della Giunta della Regione siciliana, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, sostenendo la manifesta infondatezza della questione e ricordando, a tal fine, che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, "non può contrastare con il principio di uguaglianza un differenziato trattamento applicato alla stessa categoria di soggetti, ma in momenti diversi nel tempo, perchè lo stesso fluire di questo costituisce di per sè un elemento diversificatore in rapporto a situazioni concernenti sia gli stessi soggetti come gli altri componenti dell'aggregato sociale" (sentenze nn. 138 del 1977 e 138 del 1979; la Corte si era del resto pronunziata in senso conforme, in precedenza, con le sentenze nn. 57 del 1973 e 92 del 1975 ed il medesimo indirizzo è stato poi ribadito con la recente ordinanza n. 395 del 1990).
1l.- I giudizi relativi alle ordinanze iscritte ai nn. 5, 66, 448, 89 e 389 del registro ordinanze 1991 sono stati da ultimo chiamati all'udienza pubblica del 19 novembre 1991.
All'esito della discussione, la Corte, con ordinanza istruttoria del 16 dicembre 1991 - ritenuta la necessità di accertare - mediante una comparazione complessiva delle indennità di fine rapporto vigenti nei vari settori del lavoro subordinato - l'incidenza sostanziale, negli ultimi cinque anni, della inclusione o esclusione dell'indennità integrativa speciale nel calcolo dell'indennità di fine rapporto prevista in ciascun settore, in relazione alle diverse discipline di tali indennità, nonchè all'eventuale variare nel tempo della incidenza percentuale della indennità integrativa sulla retribuzione complessiva - dispose che la Presidenza del Consiglio dei ministri, anche tramite i ministri competenti e l'I.S.T.A.T., fornisse alla Corte costituzionale le informazioni necessarie per accertare: a) quale è attualmente e quale sia stata in ciascuno degli ultimi cinque anni l'incidenza percentuale dell'indennità integrativa speciale sulla retribuzione complessiva (omnicomprensiva) dei dipendenti civili e militari dello Stato ai quali si applica il regime E.N.P.A.S., nonchè per i dipendenti degli enti pubblici non economici soggetti alla disciplina di cui alla legge 20 marzo 1975, n.70; b) quale è attualmente e quale sia stato in ciascuno degli ultimi cinque anni, per i lavoratori cessati dal servizio (distintamente per i lavoratori del settore privato o il cui rapporto sia comunque di diritto privato, per coloro ai quali si applica il regime E.N.P.A.S., per coloro ai quali si applica la legge 20 marzo 1975, n. 70 e per coloro ai quali si applica il regime I.N.A.D.E.L.), il rapporto medio tra l'ammontare complessivo del trattamento di fine rapporto, diviso per il numero degli anni di servizio presi in considerazione per il calcolo di esso, e l'ultima retribuzione annua omnicomprensiva.
La Presidenza del Consiglio ha trasmesso in più riprese le risposte che alcune delle Amministrazioni interessate avevano fornito al quesito. In particolare, il Dipartimento per la funzione pubblica ha comunicato una relazione tecnica sugli effetti finanziari derivanti dall'inclusione dell'indennità integrativa speciale nel computo dell'indennità di buonuscita del personale iscritto all'E.N.P.A.S. e alle altre gestioni previdenziali interessate (O.P.A.F.S. e I.P.O.S.T.) e del personale degli enti pubblici non economici. Dal Ministero di grazia e giustizia sono pervenute le risposte relative al personale degli uffici notificazioni, esecuzioni e protesti nonchè al personale degli archivi notarili e al personale dell'amministrazione penitenziaria. Le prime due risposte sono peraltro limitate alla parte del quesito relativa all'incidenza percentuale dell'indennità integrativa speciale sulla retribuzione complessiva. Dalla prima, che riguarda personale inquadrato nei livelli dal Vo al VIIo, si evince che tale incidenza è pari ad una quota che - a seconda degli anni e dei livelli - va dal 46 al 64 per cento. Dalla seconda, che riguarda personale con qualifica di dirigente o di funzionario, si ricava che la suddetta incidenza percentuale è pari al 19 - 20 per cento per i dirigenti, mentre per i funzionari è variata negli anni dal 45 al 36 per cento. Per il personale dell'amministrazione penitenziaria, infine, l'indennità integrativa speciale rappresenta in media il 57 per cento della retribuzione mentre per lo stesso personale il rapporto medio tra l'ammontare complessivo del trattamento di fine rapporto e l'ultima retribuzione annua omnicomprensiva è del 3,1 per cento.
L'Istituto Nazionale di Statistica ha riferito di non essere in grado di rispondere al quesito sulla base dei dati in suo possesso ed ha aggiunto che, per fornire le informazioni richieste, sarebbe necessaria l'esecuzione di un'indagine e di elaborazioni ad hoc, ovvero, in alternativa, la costruzione di un modello simulativo.
Il Ministro del tesoro, insieme alla prospettazione di alcune valutazioni giuridiche in ordine alle questioni sottoposte all'esame della Corte, ha comunicato i dati, riferiti al complesso dei dipendenti iscritti all'E.N.P.A.S. e all'I.N.A.D.E.L. e ai dipendenti del parastato, concernenti l'incidenza percentuale, anno per anno, dell'indennità integrativa speciale sulla retribuzione lorda omnicomprensiva e al rapporto esistente tra la quota del trattamento di fine rapporto riferibile ad un anno di servizio e l'ultima retribuzione annua lorda omnicomprensiva.
Considerato in diritto
1- Le questioni sottoposte all'esame della Corte dalle ordinanze in epigrafe sono analoghe o connesse: i relativi giudizi pertanto possono essere riuniti e decisi con unica sentenza.
Esse, pur partendo da diverse angolazioni normative, hanno per oggetto la esclusione della indennità integrativa speciale dal trattamento di fine rapporto percepito dai dipendenti (civili e militari) dello Stato e degli enti pubblici non economi ci, dai dipendenti delle Ferrovie dello Stato, nonchè dagli ex dipendenti dell'O.N.M.I. trasferiti agli enti locali dopo la soppressione di tale organismo. Aspetti particolari presenta la questione sollevata dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia - Sezione distaccata di Catania - con ordinanza del 6 novembre 1991 (r.o. n. 245 del 1992) con la quale viene impugnato l'articolo 19 della legge Regionale siciliana 15 giugno 1988 n. 11, che dispone, a favore dei dipendenti della Regione, il computo, nella indennità di buonuscita, dell'indennità di contingenza o di altra analoga indennità in godimento all'atto della cessazione dal servizio, ma solo a decorrere dal 1° gennaio 1985, con esclusione, quindi, di coloro il cui rapporto sia cessato prima di tale data. Salvo quest'ultima questione, che sarà esaminata in seguito, tutte le altre censure possono essere valutate congiuntamente perchè pongono in sostanza un comune problema.
2.- Sostengono i giudici a quibus che all'indennità integrativa speciale - introdotta con la legge 27 maggio 1959 n. 324 a favore di tutti i dipendenti pubblici - è da riconoscere, per la sua funzione di adeguamento della retribuzione al costo della vita, natura retributiva, al pari della indennità di contingenza prevista per i dipendenti privati.
Nonostante ciò, essa non è calcolata nè nel trattamento di fine rapporto dei dipendenti civili e militari dello Stato (indennità di buonuscita) nè in quello dei dipendenti degli enti non economici di cui alla legge 20 marzo 1975 n. 70 (indennità di anzianità): essa invece viene computata - in forza dell'articolo 3 della legge 7 luglio 1980 n. 289 - nell'indennità premio di servizio corrisposta ai dipendenti degli enti locali iscritti all'I.N.A.D.E.L., nonchè - sotto forma di indennità di contingenza - nel trattamento di fine rapporto dei dipendenti privati.
Muovendo da tali premesse tutti i giudici remittenti hanno prospettato a questa Corte il dubbio sulla conformità a Costituzione delle varie norme che nei diversi ordinamenti escludono o non ricomprendono l'indennità integrativa speciale nel calcolo delle indennità di fine rapporto dei dipendenti statali e parastatali, e ciò sia con riferimento all'articolo 3 della Costituzione - per la disparità di trattamento che in tal modo si determina rispetto ai dipendenti pubblici e privati per i quali tale computo è previsto - sia con riguardo all'articolo 36 della Costituzione - per la violazione dei principi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione - in ragione della natura retributiva dell'indennità integrativa speciale e della natura di retribuzione differita del trattamento di fine rapporto. Con riferimento al principio di uguaglianza i giudici negano che la possibilità di istituire un raffronto tra l'indennità di buonuscita spettante al personale dello Stato, l'indennità di anzianità spettante ai dipendenti degli enti pubblici non economici, l'indennità premio di servizio spettante ai dipendenti degli enti locali e il trattamento di fine rapporto spettante ai dipendenti privati, sia preclusa dalla differente loro disciplina o dalla diversità dei rapporti di lavoro ai quali si collegano. Più in generale, le ordinanze di remissione sostengono che la funzione previdenziale eventualmente attribuibile all'indennità di buonuscita non verrebbe comunque a negarne la natura di retribuzione differita ormai riconosciuta - anche da questa Corte - come propria di tutti i trattamenti di fine rapporto, nè la comune funzione economico-sociale. Inoltre, l'ordinanza di rimessione della Corte di cassazione ravvisa un particolare motivo di violazione del principio di uguaglianza nel fatto che per i dipendenti dello Stato l'indennità integrativa speciale, pur non essendo computata nell'indennità di buonuscita, sarebbe assoggettata alla relativa contribuzione, a norma dell'articolo 22, secondo comma, della legge 3 giugno 1975 n.160.
Oltre ai parametri sopraindicati, invocati da tutte le ordinanze di rimessione, le questioni sollevate hanno assunto a riferimento anche l'articolo 38 della Costituzione, in ragione della funzione previdenziale dell'indennità di buonuscita; gli articoli 1, 4 e 35 della Costituzione, che assicurano ad ogni attività lavorativa pari tutela e dignità, e gli articoli 97 e 98 della Costituzione, che tutelano l'efficienza e la funzionalità della pubblica amministrazione.
I giudici a quibus si dichiarano consapevoli che questa Corte si è già espressa su analoghe questioni dichiarandole inammissibili o manifestamente inammissibili, in quanto rientrerebbe nella discrezionalità legislativa disporre in merito alla determinazione della base retributiva da computare per i trattamenti di fine rapporto; essi tuttavia fanno riferimento alla esigenza espressa dalla Corte nella sentenza n. 220 del 1988 - e ribadita da successive ordinanze - di ricondurre verso una disciplina omogenea i trattamenti di quiescenza nell'ambito dell'impiego pubblico e, constatato come tale esigenza non abbia ancora trovato soddisfazione, chiedono una pronunzia nel merito atta ad eliminare la rilevata disomogeneità.
Di conseguenza, quasi tutte le ordinanze di remissione prospettano una pronunzia che dichiari la illegittimità delle norme impugnate (e precisamente l'articolo 1, terzo comma, lettere b) e c), della legge 27 maggio 1959 n. 324 nel testo sostituito dall'articolo 1, primo comma, della legge 3 marzo 1960 n.185; gli articoli 3, 37 e 38 del d.P.R. 29 dicembre 1973 n. 1032; l'articolo 22 della legge 3 giugno 1975 n. 160; l'articolo 3 della legge 7 luglio 1980 n. 299; gli articoli 13 e 26 della legge 20 marzo 1975 n. 70; l'articolo 4 della legge 29 maggio 1982 n. 297; l'articolo 14 della legge 14 dicembre 1973 n. 829; l'articolo 21, quarto comma, della legge 17 maggio 1985 n. 210) nella parte in cui non prevedono o escludono l'indennità integrativa speciale dal computo dell'indennità di buonuscita dei dipendenti statali o dell'indennità di anzianità del parastato. L'articolo 4 della legge 29 maggio 1982 n. 297 è invece impugnato nella par te in cui esclude i dipendenti pubblici dalle nuove norme in materia di trattamento di fine rapporto. Infine le ordinanze r.o. nn. 140 del 1992, 688 del 1991 e 666 del 1992 impugnano per intero le varie disposizioni sopra ricordate.
3.- Come ricordano i giudici a quibus, questa Corte ha già preso in esame la questione ora sottoposta al suo giudizio e, con la sentenza n. 220 del 1988, l'ha dichiarata inammissibile, sia con riferimento all'articolo 3 che agli articoli 36 e 38 della Costituzione, reputando rimessa alla discrezionalità del legislatore la determinazione della base utile ai fini dei trattamenti di quiescenza.
La Corte ha comunque in tale occasione rilevato che per effetto del mancato computo dell'indennità integrativa speciale nella buonuscita si era creata una "discrasia ... tra retribuzione complessiva dei dipendenti statali e retribuzione utile ai fini della determinazione dell'indennità di buonuscita", e che - per quanto riguarda le sollevate questioni di legittimità costituzionale - appariva "ormai indilazionabile un intervento legislativo volto a ricondurre verso una disciplina omogenea i trattamenti di quiescenza nell'ambito dell'impiego pubblico".
Ha ancora aggiunto che "il sistema già soffre di sperequazioni sostanziali che toccano le diverse categorie" e che interventi che si esaurissero in provvedimenti parziali, limitati e particolari, accentuando il carattere irrazionale delle singole componenti, avrebbero potuto imporre una valutazione di illegittimità della normazione complessiva.
Con la sentenza n. 763 del 1988, la Corte ha ribadito e precisato che "la permanenza e la continuazione del carattere irrazionale di singole componenti, in una valutazione globale della normativa avrebbe potuto imporre una declaratoria di illegittimità costituzionale di disposizioni difformi e violatrici dei diritti dei lavoratori". Con l'ordinanza n. 419 del 1989, la Corte ha avvertito che permaneva "pressante" l'invito già rivolto al legislatore, indicando - in relazione ai problemi di carattere economico che si sarebbero aperti - la strada di interventi generali da realizzare gradualmente. Ulteriori inviti (o moniti) sono stati rivolti al legislatore con l'ordinanza n. 143 del 1990 e poi ancora con le ordinanze nn. 189, 217, 218, 402 e 491 dello stesso anno.
La Corte non ritiene - a differenza di quanto sostenuto e richiesto dall'Avvocatura Generale dello Stato - di dover continuare a pronunziare altre decisioni di inammissibilità fondate sul rispetto della discrezionalità del legislatore, nè di esprimere ulteriori moniti.
Permanendo, infatti, ed essendosi anzi aggravato, per il decorrere del tempo, lo stato di irrazionalità e le sperequazioni chiaramente denunziate dalla sentenza n. 220 del 1988, una pronunzia che ancora una volta rimettesse il superamento di queste situazioni, che incidono su valori costituzionali, all'intervento del legislatore - inutilmente a lungo sollecitato - non potrebbe non apparire - come è stato rilevato in dottrina - come abdicazione alle funzioni del giudice delle leggi e non potrebbe non risolversi nella protezione non già della discrezionalità del legislatore, ma della sua inerzia.
4.- Nè ad una pronunzia di inammissibilità diversamente motivata, o addirittura di infondatezza, possono indurre le considerazioni espresse dall'Avvocatura Generale dello Stato, riferite, per un verso, alla peculiare natura delle indennità di fine rapporto in questione, che indurrebbe ad escludere la violazione dell'articolo 3 della Costituzione; per altro verso, alla natura non retributiva dell'indennità integrativa speciale, che porterebbe a ritenere insussistente la violazione dell'artico lo 36 della Costituzione.
Per quanto riguarda la natura delle indennità di fine rapporto occorre innanzitutto ricordare l'evoluzione subita nel tempo da questo istituto - originariamente inteso e regolato come premio alla fedeltà del dipendente - sino all'attuale affermazione della sua natura retributiva con funzione previdenziale.
Nel settore del lavoro privato questa evoluzione si è compiuta già per effetto dell'articolo 9 della legge 15 luglio 1966 n.604 e della giurisprudenza della Corte a partire dalla sentenza n. 75 del 1968 - che hanno portato a riconoscere il diritto all'indennità di anzianità in tutti i casi di cessazione del rapporto di lavoro e indipendentemente dai motivi di risoluzione dello stesso - ed è stata ulteriormente confermata dai successivi interventi innovativi (legge 29 maggio 1982 n. 297) che, introducendo un meccanismo di computo per quote, consentono di sottolineare la proporzionalità del trattamento di fine rapporto alle attività effettivamente svolte.
Più complessa è stata l'evoluzione della natura delle indennità di fine rapporto nel pubblico impiego, per la coesistenza di discipline differenziate, alcune delle quali fondate su un sistema di contribuzione e sulla erogazione delle indennità da parte di apposite strutture amministrative. Così mentre per l'indennità di anzianità corrisposta al personale degli enti pubblici non economici dallo stesso soggetto datore di lavoro e a totale suo carico è stato agevole il riconoscimento della natura retributiva (sentenza n. 220 del 1988), è prevalsa per un certo tempo la tendenza ad attribuire natura previdenziale alle indennità di fine rapporto degli altri dipendenti pubblici. Ma anche su questo terreno profonda è stata l'evoluzione dell'istituto, determinata dall'intervento del legislatore e stimolata dalla giurisprudenza costituzionale, con la progressiva erosione della rilevanza e della portata dei vari indici che inducevano ad escludere la natura retributiva della indennità di buonuscita e della indennità premio di servizio.
Tale evoluzione, per quest'ultima indennità, è particolarmente messa in luce dalle sentenze nn. 471 del 1989 e 319 del 1991, le quali riconoscono che essa, come indennità di fine rapporto, ha definitivamente acquisito natura di retribuzione differita con funzione previdenziale, secondo un paradigma ribadito successivamente dalle sentenze nn. 63 e 439 del 1992 e 99 del 1993.
Quanto alla natura dell'indennità di buonuscita dei dipendenti statali, la più recente giurisprudenza, pur rilevandone spesso le particolarità di disciplina rispetto ad altri istituti analoghi, ha abbandonato l'iniziale orientamento propenso a riconoscere ad essa natura solo previdenziale ed è per venuta a ricondurla alla categoria generale dei trattamenti di fine rapporto.
Invero, non può negarsi che la natura retributiva propria dell'indennità di fine rapporto permane e vale quali che siano i soggetti tenuti ad erogare il trattamento (il medesimo datore di lavoro o un terzo), quale che sia il meccanismo di alimentazione della provvista (contributi o accantonamenti) quali che siano i soggetti su cui grava l'onere contributivo in senso lato (il datore di lavoro, il lavoratore o entrambi).
Il soggetto erogatore non ha alcun rilievo in ordine alla identificazione della natura e della funzione giuridico-sociale che il trattamento svolge per il lavoratore stesso: tale profilo, infatti, riguarda il soggetto investito del potere-dovere di gestire i fondi di risparmio che l'istituto determina.
è ha rilievo il fatto che la provvista avvenga mediante contributi o accantonamenti: l'assoluta equivalenza funzionale delle due forme è dimostrata dall'articolo 2123 del codice civile, che autorizza il datore di lavoro ad adempiere in tutto o in parte ai suoi obblighi in materia di indennità di anzianità facendo ricorso a forme di previdenza equivalenti.
Infine non ha rilievo il fatto che i contributi siano tutti o parte a carico del datore di lavoro: quale che ne sia l'imputazione contabile, l'onere contributivo fa parte del costo del lavoro, per cui ciò che il datore versa come contributo non lo dà come retribuzione corrente e il lavoratore riceve in meno come retribuzione corrente ciò che serve ad alimentare il suo futuro trattamento di fine rapporto.
Pertanto, anche per i dipendenti dello Stato - e non solo del parastato - deve essere confermata la natura di retribuzione differita con funzione previdenziale della indennità di fine rapporto: funzione che è quella di far superare al lavoratore le difficoltà economiche conseguenti al venir meno del trattamento retributivo per effetto della cessazione del rapporto di lavoro.
5.- La giurisprudenza di questa Corte, sulla base della asserita diversità di natura e di disciplina delle varie indennità di fine rapporto, ha per lungo tempo affermato che esse non erano utilmente raffrontabili in vista del controllo sul rispetto del principio di eguaglianza (v. ancora la sentenza n. 220 del 1988 e l'ordinanza n. 135 del 1988, ma anche le significative eccezioni rappresentate dalle sentenze nn. 115 del 1979 e 110 del 1981).
Più recentemente, peraltro, la stessa Corte, riconoscendo con sempre maggiore determinazione la raggiunta sostanziale omogeneità, quanto a natura e funzione, delle indennità in questione, ha ammesso la possibilità di istituire tra di esse confronti e comparazioni.
In particolare, con riguardo alla indennità premio di servizio e a quella di buonuscita, la sentenza n. 763 del 1988, dopo aver sottolineato come, nonostante le differenze di dettaglio inerenti alle peculiarità proprie di ciascuna, esse fossero ormai divenute - anche in seguito a interventi legislativi e per effetto della giurisprudenza - analoghe ed omogenee per finalità da realizzare, ha valutato nel merito l'eccepita disparità di trattamento relativamente alla disciplina dei presupposti per conseguire le indennità, ritenendo la costituzionalmente illegittima perchè priva di adeguata e razionale giustificazione. Il medesimo orientamento è stato successivamente ribadito con le decisioni nn. 821 del 1988, 63 e 439 del 1992.
Nell'ambito di una impostazione più generale, la sentenza n. 99 del 1993, ponendo espressamente in evidenza la loro comune natura di retribuzione differita, ha ritenuto comparabili tutti i trattamenti di fine rapporto, sia nella sfera del settore pubblico, sia tra questa e quella del settore privato.
Questa sentenza registra così quel più ampio processo di assimilazione che tende ormai a permeare l'intero assetto del rapporto di lavoro dipendente, come dimostra il d.P.R. 3 febbraio 1993 n. 29 che, in attuazione della delega disposta dall'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992 n. 421 ha avviato la c.d. privatizzazione del rapporto d'impiego pubblico, stabilendo che i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni delle sezioni II e III, capo I, titolo II del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro nell'impresa, in quanto compatibili con la specialità del rapporto e il perseguimento degli interessi generali nei termini definiti dal decreto medesimo. Il fatto che tale decreto contestualmente disponga che, in attesa di una nuova regolamentazione contrattuale della materia, resti ferma per i dipendenti pubblici la disciplina vigente in materia di trattamenti di fine rapporto, non smentisce la nuova impostazione, dal momento che riguarda una disposizione transitoria: in particolare, non contraddice il rilevato processo di generale omogeneizzazione della natura di tali trattamenti.
Si può quindi, in definitiva, affermare che le indennità di fine rapporto, nonostante le diversità di regolamentazione, costituiscono ormai, una categoria unitaria connotata da identità di natura e funzione e dalla generale applicazione a qualunque tipo di rapporto di lavoro subordinato e a qualunque ipotesi di cessazione del medesimo.
I rilievi espressi, pertanto, dalla Avvocatura dello Stato in ordine alla non invocabilità dell'articolo 3 della Costituzione per la non comparabilità dei trattamenti di fine rapporto qui in discussione, non hanno fondamento.
6.- Parimenti non condivisibili sono le deduzioni che l'Avvocatura ha formulato per sostenere l'inapplicabilità dell'articolo 36 della Costituzione, argomentando che l'indennità integrativa speciale, non ha natura retributiva ma previdenziale, sicchè la sua esclusione non potrebbe porsi in contrasto con il precetto costituzionale posto a presidio della sufficienza del corrispettivo del lavoro subordinato.
La premessa di tale argomentazione è invero priva di fondamento, non essendovi ormai dubbio che l'indennità integrativa speciale abbia evidente carattere retributivo.
Anche questa indennità, istituita con la legge n. 324 del 1959 a favore di tutti i dipendenti del settore pubblico, ha subìto nel corso degli anni una profonda trasformazione.
Concepita in origine come elemento contingente ed esterno alla retribuzione, esente da qualsiasi ritenuta, compresa quella erariale, e non concorrente a formare reddito complessivo ai fini dell'imposta complementare, non cedibile, non pignorabile, non computabile ai fini di quiescenza, di previdenza e di indennità di buonuscita, corrisposta infine solo in relazione al periodo di lavoro realmente effettuato, l'indennità integrativa speciale ha assunto nel tempo caratteristiche nettamente diverse.
Ciò è avvenuto a seguito di una serie di interventi legislativi, quali quelli ricordati in diverse ordinanze di rimessione, che, ferma rimanendo la funzione di adeguamento della retribuzione al costo della vita, hanno soppresso tutti i connotati enunziati nella legge originaria, con l'unica esclusione della sua non computabilità nella indennità di buonuscita.
Gli effetti di questo processo sono stati recepiti dalla giurisprudenza di questa Corte che, con la sentenza n. 115 del 1990, ha affermato la pignorabilità, sequestrabilità e cedibilità della stessa non essendovi "dubbio che l'indennità integrativa speciale è da considerare un elemento della retribuzione complessiva del pubblico dipendente così come l'indennità di contingenza lo è per i dipendenti privati".
7.- Tutto ciò premesso, occorre ora valutare l'effettiva esistenza della lesione dei parametri costituzionali invocati da parte dei giudici remittenti.
La rilevata identità di natura e di funzione delle indennità di fine rapporto in esame esclude - in ragione del principio di uguaglianza stabilito dall'articolo 3 della Costituzione - che le varietà di struttura e di disciplina che esse presentano nei vari settori del lavoro subordinato possano tradursi in sperequazioni sostanziali, salvo che queste ultime non siano razionalmente collegabili a specifiche diversità delle situazioni regolate, tali da giustificare una diversa considerazione delle esigenze alle quali si riferisce la funzione economico- sociale dell'istituto.
Mentre nel campo del lavoro privato il disegno di graduale unificazione e di equiparazione dei trattamenti di fine rapporto per tutte le categorie di lavoratori è stato portato a compimento con la legge n. 297 del 1982 ed in particolare con l'articolo 5 di detta legge, nell'ambito del pubblico impiego continuano a sussistere, nonostante i numerosi interventi correttivi della Corte, sistemi, meccanismi e strutture differenti da settore a settore.
É di competenza del legislatore valutare l'opportunità del mantenimento di sistemi differenziati nell'ambito del pubblico impiego, ma tale discrezionalità incontra un primo limite nel principio di uguaglianza, nel senso che, nonostante le diverse articolazioni normative, i trattamenti di fine lavoro del pubblico impiego debbono comunque essere equivalenti, essendo essi, come si è rilevato più sopra, omogenei per natura e finalità da realizzare e non essendo ipotizzabile, tra i vari settori del pubblico impiego, diversità sostanziali tali da giustificare una differenziata considerazione delle esigenze sottese a tali finalità. Ma è subito da precisare che, se il vincolo che il principio di uguaglianza impone al legislatore di osservare riguarda l'equivalenza dei vari trattamenti di fine lavoro, anche la valutazione comparativa diretta a vagliare il rispetto o meno di tale principio deve analogamente riferirsi soltanto ai risultati complessivi dei vari meccanismi e non può invece limitarsi a singole disposizioni, avulse dalla specifica disciplina in cui ciascuna di esse si colloca (sentenza n. 220 del 1988).
Un secondo limite alla discrezionalità del legislatore discende dalla rilevata comune natura retributiva delle indennità in oggetto, nel senso che la disciplina di esse non può essere tale da ledere il principio di proporzionalità rispetto alla quantità e qualità del lavoro, nè il principio di sufficienza rispetto alle particolari esigenze di vita che tali indennità sono dirette a fronteggiare.
8.- Con riferimento ad entrambi i parametri costituzionali sopra accennati - quello dell'articolo 3 e quello dell'articolo 36 - l'inclusione o meno dell'indennità integrativa speciale nella base di calcolo dei trattamenti di fine lavoro presenta aspetti peculiari, che dipendono dai caratteri e dalla funzione di tale indennità e che pongono il problema in termini diversi rispetto a qualunque altra differenza normativa inerente alle modalità di determinazione dei trattamenti stessi.
Occorre considerare, al riguardo, che l'indennità integrativa speciale è una voce retributiva che, per come è stata regolata, ha avuto la caratteristica di crescere nel tempo non solo in cifra, ma anche, nella generalità dei casi, in rapporto al complesso della retribuzione, specialmente in ragione dei processi inflattivi che si sono verificati nell'ultimo ventennio. É così accaduto che la quota di retribuzione rappresentata dall'indennità integrativa speciale è divenuta sempre maggiore con il passare degli anni (e questo - come si dirà - è stato particolarmente evidente per le retribuzioni dei livelli bassi e medi). Ciò ha comportato che l'esclusione dell'indennità integrativa speciale dal computo delle indennità di fine rapporto ha provocato effetti di depauperamento di tali indennità sempre maggiori e non più compensati - nel paragone con la disciplina dei trattamenti di fine lavoro di altri settori ed in particolare nel paragone con l'indennità premio di servizio corrisposta dall'I.N.A.D.E.L. - da altri più favorevoli fattori di calcolo, quali, in particolare, quello relativo alla quota della retribuzione annuale da moltiplicare per il numero degli anni di servizio. L'equilibrio che prima poteva ipotizzarsi tra i vari trattamenti nonostante la diversità dei relativi sistemi si è quindi progressivamente alterato - ed è destinato ad alterarsi sempre di più con il passare del tempo - senza che a questo fenomeno corrisponda alcuna razionale giustificazione ed in particolare senza che abbiano subìto modificazione alcuna quelle eventuali "peculiarità" dei vari rapporti di impiego, che potevano, in ipotesi, giustificare le differenze iniziali, allorquando queste ultime erano ancora configurabili come differenze di dettaglio.
9.- La sperequazione tra i diversi settori del pubblico impiego che si è venuta in tal modo a determinare e ad aggravarsi progressivamente si riproduce poi anche all'interno di ciascuno dei settori nei quali l'indennità integrativa speciale è esclusa dal computo del trattamento di fine lavoro, poichè tale esclusione incide sulle retribuzioni più basse in misura proporzionalmente maggiore di quanto essa non incida sulle retribuzioni più alte.
Infatti, l'indennità integrativa speciale maturata fino all'entrata in vigore del d.P.R.1o febbraio 1986 n. 13, è corrisposta in misura sostanzialmente uguale, in cifra, per tutti i dipendenti pubblici, quale che sia il loro livello retributivo, mentre con tale decreto è stata prevista, per gli adeguamenti successivi alla sua entrata in vigore, una indicizzazione solo parziale della parte di retribuzione eccedente un determinato ammontare- base, uguale per tutti, che viene invece rivalutato integralmente. Ciò implica che l'indennità integrativa speciale costituisce, per i livelli più bassi, una quota della retribuzione complessiva molto più alta (attualmente tale quota supera talora anche la metà) di quella che essa rappresenta per i livelli più elevati, come bene è evidenziato dai risultati dell'indagine istruttoria già riferiti al paragrafo 11 della narrativa in fatto. E ne consegue, automaticamente, che l'esclusione dell'indennità integrativa speciale depaupera i trattamenti di fine lavoro, in rapporto alla retribuzione complessiva, in misura proporzionalmente maggiore per i livelli retributivi più bassi rispetto a quelli più alti, per i quali operano incisivi meccanismi di compensazione.
La disciplina in esame, pertanto, produce non soltanto disparità sostanziali tra l'uno e l'altro settore del pubblico impiego, ma anche disparità interne a ciascun settore; e queste ultime sono particolarmente irragionevoli e particolarmente ingiuste, perchè volte a danno delle categorie meno abbienti.
10.- Con riferimento al principio di proporzionalità di cui all'articolo 36 della Costituzione, va ricordato quanto già si è detto e cioé che l'indennità di fine rapporto - proprio in ragione della sua funzione e della sua natura - è sempre rapportata alla retribuzione e alla durata del rapporto e quindi, attraverso questi due parametri, alla quantità e alla qualità del lavoro.
L'esclusione dell'indennità integrativa speciale dalla base di calcolo del trattamento di fine lavoro, proprio per le già accennate caratteristiche di tale indennità, fa sì che il rapporto tra trattamento di fine lavoro e retribuzione vada riducendosi automaticamente con il passare del tempo, senza che ciò corrisponda ad una riduzione della qualità o della quantità del lavoro. Ne consegue una lesione del principio di proporzionalità stabilito dall'articolo 36. Ciò è stato già rilevato da questa Corte con la sentenza n. 142 del 1980, secondo cui l'esclusione della contingenza dal computo dell'indennità di anzianità spettante ai lavoratori privati (esclusione disposta dal decreto-legge n. 12 del 1977, convertito, con modificazioni, nella legge n. 91 del 1977), anche se nel breve periodo non arrecava offesa in misura censurabile al criterio di proporzionalità stabilito dall'articolo 36 della Costituzione, con il progredire del tempo, in difetto di congrue compensazioni, avrebbe rischiato di determinare squilibri più gravi di quelli in atto, il che avrebbe obbligato il legislatore a por mano ad adeguati bilanciamenti al fine di evitare offesa non solo agli articoli 3 e 36, ma anche all'articolo 38 della Costituzione.
Più in generale, infatti, occorre considerare che l'indennità integrativa speciale è uno strumento per adeguare il valore reale della retribuzione alle variazioni del valore reale della moneta cagionate dall'inflazione.
Tale adeguamento - in qualunque modo attuato - è essenziale per conservare il rapporto di proporzionalità, garantito dall'articolo 36, tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro, posto che tale rapporto richiede ovvia mente di essere riferito ai valori reali di entrambi i suoi termini. L'adeguamento delle retribuzioni alle variazioni del costo della vita può essere perseguito con una molteplicità di strumenti: ma se - e nella misura in cui - la legge o la contrattazione abbiano scelto la via degli adeguamenti automatici, obliterarli significa ledere il rapporto di proporzionalità costituzionalmente necessitato.
1l.- Il principio di sufficienza assume un autonomo rilievo per le retribuzioni più basse, in relazione alle quali l'indennità integrativa speciale - riferita come essa è alle variazioni del costo della vita - assolve anche ad una ineliminabile funzione di conservare alla retribuzione reale quella capacità di assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa che costituisce il secondo e più strettamente cogente criterio stabilito dall'articolo 36 della Costituzione.
Questa considerazione induce a rilevare che l'esclusione dell'indennità integrativa speciale dall'indennità di buonuscita o dall'indennità di anzianità è potenzialmente idonea ad incidere - per le retribuzioni più basse - sullo stesso criterio di sufficienza, rapportato alle specifiche e già dette funzioni "previdenziali" che tale istituto retributivo è deputato ad assolvere.
12.- Le considerazioni svolte dimostrano che l'esclusione in toto dell'indennità integrativa speciale dal calcolo dei trattamenti di fine rapporto qui in discussione produce sostanziali e ingiustificabili sperequazioni e impedisce il pieno rispetto dei principi costituzionali della proporzionalità e sufficienza della retribuzione, anche differita, del lavoro dipendente.
Di conseguenza le norme legislative dalle quali consegue tale esclusione - e cioé i combinati disposti dell'articolo 1, terzo comma, lettere b) e c), della legge 27 maggio 1959 n. 324 con gli articoli 3 e 38 del d.P.R. 29 dicembre 1973 n. 1032; con gli articoli 13 e 26 della legge 20 marzo 1975 n.70 e con gli articoli 14 della legge 14 dicembre 1973 n. 829 e 21 della legge 17 maggio 1985 n. 210 - debbono essere dichiarate costituzionalmente illegittime per contrasto con gli articoli 3 e 36 della Costituzione, con l'assorbimento delle altre censure.
Tale dichiarazione non può, peraltro, tradursi in una pronunzia meramente caducatoria, come sembra invece auspicare il Tribunale amministrativo regionale dell'Abruzzo (r.o. n.66 del 1991): anche a prescindere dai dubbi che potrebbero sorgere circa il rispetto dei limiti effettivi dell'impugnativa, decisiva in contrario è la considerazione che una simile pronunzia, colpendo il globale sistema di calcolo dei diversi trattamenti di fine rapporto, paralizzerebbe la stessa corresponsione delle indennità attualmente dovute, così determinando gravi lesioni degli articoli 3, 36 e 38 della Costituzione.
L'adeguamento alla legalità costituzionale non si può ottenere neppure - al contrario di quanto ritiene la maggior parte dei giudici a quibus - mediante una pronunzia additiva di questa Corte alla quale consegua un puro e semplice inserimento dell'indennità in questione nella base di computo del trattamento di fine rapporto. Una simile operazione compenserebbe lo squilibrio già evidenziato, ma - rimanendo invariate tutte le altre modalità di calcolo delle indennità di fine rapporto, come pure le discipline attinenti ai contributi a carico dei lavoratori e dei datori di lavoro - ne potrebbe creare altri, anche se in direzione opposta, nei confronti di entrambi i settori del lavoro subordinato qui addotti come termini di comparazione e cioé sia nei confronti del lavoro privato, sia nei confronti del pubblico impiego alle dipendenze degli enti locali.
L'indennità di buonuscita e l'indennità di anzianità del parastato, infatti, sono calcolate sulla base dell'ultima retribuzione (che è di regola la più alta), mentre il trattamento di fine rapporto regolato dalla legge n. 297 del 1982 si determina sulla base delle retribuzioni concretamente percepite durante il servizio, sia pur rivalutate di anno in anno in base ad una quota dell'indice ISTAT.
L'ipotesi di soluzione in esame, quindi, farebbe sì che nell'impiego statale e parastale l'indennità di fine rapporto sarebbe tutta calcolata sull'ultima retribuzione comprensiva dell'ultima indennità integrativa speciale, con evidente, notevole e non giustificato vantaggio rispetto al settore privato.
Ma uno squilibrio verrebbe a determinarsi anche rispetto al regime I.N.A.D.E.L., nel quale l'indennità integrativa speciale è compresa nella base di calcolo dell'indennità premio di servizio secondo l'ammontare raggiunto nell'ultimo anno del rapporto, ma la quota della retribuzione annua che viene computata è inferiore, essendo pari ad un quindicesimo dell'ottanta per cento, anzichè ad un dodicesimo dell'ottanta per cento, come è per l'impiego statale o ad un dodicesimo del cento per cento, come è per l'impiego nel parastato. Il maggior favore sarebbe poi ancor più evidente per il regime gestito per l'O.P.A.F.S., in cui il numero degli anni di servizio per il quale va moltiplicata la quota retributiva annua è aumentato di un quinto rispetto agli anni di servizio effettivo.
Orbene non appare congruo che una pronunzia che intenda porre rimedio ad una violazione del principio di uguaglianza, crei a sua volta disuguaglianze, sia pure di segno opposto. E comunque un simile risultato non sarebbe conforme a quell'indirizzo di omogeneizzazione che invece la Corte ha chiesto al legislatore di seguire.
13.- Escluso, pertanto, il ricorso alla ipotesi ora esaminata, ed esclusa altresì la caducazione integrale della normativa impugnata, al fine di ricondurre quest'ultima a piena conformità ai principi costituzionali occorre invece che il computo dell'indennità integrativa speciale nel calcolo dei trattamenti di fine rapporto avvenga in modo da assicurare - insieme al rispetto del principio di proporzionalità e di sufficienza - una effettiva e ragionevole equivalenza nel risultato complessivo, senza la quale continuerebbe a sussistere - sia pure in forma diversa - una ulteriore situazione di squilibrio.
Simile risultato non può essere perseguito se non approntando - tenendo conto della diversità dei sistemi di gestione, alimentazione ed erogazione - appositi meccanismi idonei a realizzare l'equivalenza delle indennità di fine rapporto qui considerate: non solo quindi all'interno del settore del pubblico impiego, ma anche, in prospettiva, nei confronti del lavoro privato, in considerazione del ricordato processo di assimilazione in corso, delineato dal decreto legislativo n. 29 del 1993 e della esigenza di una graduale eliminazione delle differenze che ancora si registrano tra i due settori del lavoro subordinato e che non trovino giustificazione nella specialità delle situazioni.
La determinazione di tali meccanismi spetta al legislatore anche in vista dell'adozione delle scelte di politica economica necessarie al reperimento delle indispensabili risorse finanziarie.
É riservato al suo discrezionale apprezzamento - nel rispetto del canone di ragionevolezza e degli altri principi costituzionali - di determinare i livelli sui quali attestare la perequazione tra i diversi trattamenti, in relazione ai vari elementi che li costituiscono, tenendo in debito conto i contributi e gli accantonamenti posti dalla legge a carico dei lavoratori, in rapporto a quelli corrisposti dall'amministrazione, e, più in generale, equilibrando e compensando vantaggi e svantaggi che emergono dalle vigenti normative riguardo alle modalità di calcolo delle indennità (retribuzione base, divisore applicato, numero delle annualità da computare, e così via).
Detti meccanismi di riequilibrio e di compensazione dovranno essere modellati in modo tale da perseguire anche l'obiettivo di uniformare i trattamenti di fine lavoro ai principi di proporzionalità e di sufficienza di cui all'articolo 36 della Costituzione, considerando la rimarcata diversa valenza che l'esclusione dell'indennità integrativa speciale ha avuto ed ha nei confronti di coloro che sono collocati ai livelli meno elevati della scala retributiva, rispetto a coloro che si trovano più in alto. Pertanto, le compressioni nel computo dell'indennità integrativa speciale nel trattamento di fine rapporto che siano eventualmente indispensabili al fine di realizzare la perequazione, non potranno incidere sulle posizioni dei soggetti meno retribuiti, per i quali occorre comunque evitare che si verifichino pregiudizi al principio della sufficienza della retribuzione e alla funzione previdenziale dell'indennità di fine rapporto.
Si tratta, infine, come già detto, di superare tendenzialmente gli squilibri che esistono nei trattamenti di fine rapporto tra lavoratori pubblici e privati.
Stante la necessaria valutazione di tutti i principi e gli interessi in gioco, la complessiva omogeneizzazione delle prestazioni di fine rapporto potrà richiedere di essere realizzata secondo moduli improntati al principio di gradualità (cfr., tra le più recenti, le decisioni nn. 419 del 1989; 101, 260, 401 e 422 del 1990; 119 del 1991) nei quali trovino adeguata considerazione la concreta disponibilità dei mezzi finanziari, e l'esigenza di perequare con priorità - anche in relazione a situazioni pregresse - i trattamenti corrispondenti alle retribuzioni più basse per le quali l'attuale situazione normativa lede il principio della sufficienza e pregiudica l'effettività della funzione previdenziale.
14.- Pertanto, la dichiarazione di incostituzionalità colpisce le norme impugnate nella parte in cui non prevedono meccanismi di computo dell'indennità integrativa speciale nei trattamenti di fine rapporto considerati. Tali meccanismi saranno realizzati dal legislatore secondo scelte discrezionali che rispettino i principi indicati specificamente nel paragrafo precedente.
Questa dichiarazione comporta il riconoscimento della titolarità - in capo ai soggetti interessati - del diritto ad un adeguato computo dell'indennità integrativa speciale ai fini della determinazione del loro trattamento di fine rapporto. Spetta però al legislatore, determinando la misura, i modi e i tempi di detto computo, rendere in concreto realizzabile il diritto medesimo.
Poichè dunque l'intervento del legislatore - in forza della presente dichiarazione di illegittimità costituzionale - è necessario per reintegrare l'ordine costituzionale violato, esso deve avvenire con adeguata tempestività. Considerato che lo stesso legislatore dovrà provvedere al reperimento e alla destinazione delle risorse occorrenti a far fronte agli oneri finanziari che ne conseguono, la predisposizione dei suddetti meccanismi di omogeneizzazione dovrà essere avviata in occasione della prossima legge finanziaria, o comunque nella prima occasione utile per l'impostazione e la formulazione di scelte globali della politica di bilancio.
Naturalmente ove ciò non avvenisse, oppure se i tempi del graduale adeguamento alla legalità costituzionale si prolungassero oltre ogni ragionevole limite, ovvero, se i principi enunciati nella presente decisione risultassero disattesi, questa Corte, se nuovamente investita del problema, non potrebbe non adottare le decisioni a quella situazione appropriate.
15.- Individuata nel combinato disposto delle disposizioni sopraindicate la fonte diretta delle violazioni così riconosciute le censure riferite alle altre norme impugnate - e cioé articolo 37 del d.P.R. 29 dicembre 1973 n.1032, articolo 22 legge 3 giugno 1975 n. 160, articolo 3 legge 7 luglio 1980 n. 299, articolo 4 legge 29 maggio 1982 n. 297 - vanno dichiarate inammissibili.
16.- Deve infine essere dichiarata non fondata la questione concernente l'articolo 19 della legge regionale siciliana 15 giugno 1988 n. 11, sollevata dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, Sezione distaccata di Catania, (r.o. n. 245 del 1992), che lamenta il contrasto di quest'ultima con l'articolo 3 in collegamento con l'articolo 36 della Costituzione, perchè, nell'introdurre il computo, nella indennità di buonuscita, dell'indennità di contingenza o di altra analoga indennità in godimento all'atto della cessazione dal servizio, fa decorrere l'applicazione del beneficio dal 1° gennaio 1985, senza alcun riferimento ai rapporti pregressi. La questione così proposta riguarda pertanto non la disparità di trattamento tra diverse categorie di lavoratori subordinati, ma tra lavoratori appartenenti alla medesima categoria, il cui trattamento sia differenziato soltanto in ragione della data della cessazione dal servizio.
Questa Corte ha più volte statuito in casi analoghi che "non può contrastare con il principio di uguaglianza un differenziato trattamento applicato alla stessa categoria di soggetti, ma in momenti diversi nel tempo, perchè lo stesso fluire di questo costituisce di per sè un elemento diversificatore" (cfr., tra le tante, le pronunzie nn. 504 del 1988; 190, 272, 395 del 1990, etc.). D'altra parte nel caso presente la data del 1° gennaio 1985 non può ritenersi arbitraria o comunque incongrua, dal momento che coincide con il termine di decorrenza del nuovo ordinamento giuridico ed economico del personale improntato al principio della contrattazione collettiva, inaugurato con la legge regionale 29 ottobre 1985 n. 41 e di cui la legge impugnata costituisce attuazione per il triennio 1985- 1987.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l'illegittimità costituzionale dei combinati disposti dell'articolo 1, terzo comma, lettere b) e c), della legge 27 maggio 1959 n.324 (Miglioramenti economici al personale statale in attività ed in quiescenza) con gli articoli 3 e 38 del d.P.R.29 dicembre 1973 n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato); con gli articoli 13 e 26 della legge 20 marzo 1975 n. 70 (Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente) e con gli articoli 14 della legge 14 dicembre 1973 n. 829 (Riforma dell'Opera di previdenza a favore del personale dell'Azienda autonoma delle ferrovie dello Stato) e 21 della legge 17 maggio 1985 n. 210 (Istituzione dell'ente "Ferrovie dello Stato"), nella parte in cui non prevedono, per i trattamenti di fine rapporto ivi considerati, meccanismi legislativi di computo dell'indennità integrativa speciale secondo i principi ed i tempi indicati in motivazione;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 22 della legge 3 giugno 1975 n. 160 (Norme per il miglioramento dei trattamenti pensionistici e per il collegamento alla dinamica salariale), dell'articolo 3 della legge 7 luglio 1980 n. 299 (Conversione in legge, con modificazioni, del D.L.7 maggio 1980 n. 153, concernente norme per l'attività gestionale e finanziaria degli enti locali per l'anno 1980), e dell'articolo 4 della legge 29 maggio 1982 n. 297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica), sollevate in riferimento agli arti coli 3, 36 e 38 della Costituzione, dalla Corte di cassazione e dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con le ordinanze indicate in epigrafe;
3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 19 della legge regionale siciliana 15 giugno 1988 n. 11 (Disciplina dello stato giuridico ed economico del personale dell'Amministrazione regionale per il triennio 1985-1987 e modifiche ed integrazioni alla normativa concernente lo stesso personale), sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 36 della Costituzione dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, Sezione distaccata di Catania, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 05/05/93.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Ugo SPAGNOLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 19/05/93.