Sentenza n. 244 del 2022

SENTENZA N. 244

ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Silvana SCIARRA;

Giudici: Daria de PRETIS, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 167 del codice penale militare di pace, promosso dalla Corte di cassazione, sezione prima penale, nel procedimento penale a carico di M. B., con ordinanza del 28 settembre 2021, iscritta al n. 209 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell’anno 2022.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 19 ottobre 2022 il Giudice relatore Francesco Viganò;

deliberato nella camera di consiglio del 19 ottobre 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 28 settembre 2021, la Corte di cassazione, sezione prima penale, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 167 del codice penale militare di pace, censurandolo «nella parte in cui non prevede nell’ipotesi di sabotaggio per temporanea inservibilità attenuazioni della pena per fatti di lieve entità».

1.1.– La Sezione rimettente è investita del ricorso proposto avverso una sentenza della Corte militare d’appello di Roma, che ha dichiarato M. B. colpevole del reato di sabotaggio di opere militari aggravato e continuato (artt. 81, primo comma, del codice penale, 167, primo comma, e 47, numero 2, cod. pen. mil. pace), condannandolo alla pena di sei anni e due mesi di reclusione (all’esito dell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche ritenute prevalenti sulla contestata aggravante), oltre alla degradazione, per avere reso temporaneamente inservibile, con più distinte azioni, un hangar per velivoli militari; condotta realizzata mediante ripetuto accesso ai locali e dispersione di fibre di amianto, tramite avvicinamento di un barattolo, «dal contenuto non conosciuto», al filtro rilevatore di amianto, cui erano conseguiti l’accertamento, da parte dell’Azienda sanitaria locale, della presenza di amianto in misura superiore ai limiti consentiti e l’interdizione dell’accesso ai luoghi.

Disattesi i motivi di ricorso di M. B. attinenti al giudizio di responsabilità penale, e giudicata altresì manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 167 cod. pen. mil. pace – per dedotta sproporzione del trattamento sanzionatorio ivi comminato rispetto a quello contemplato dall’art. 168 del medesimo codice – prospettata dall’imputato in una successiva memoria difensiva, il giudice a quo ritiene che il dubbio di illegittimità costituzionale dell’art. 167 si ponga sotto il diverso profilo della mancata previsione, nella disposizione censurata, di una circostanza attenuante per i fatti di lieve entità.

1.2.– Quanto alla rilevanza delle questioni, la Sezione rimettente osserva che l’accoglimento delle censure di illegittimità costituzionale comporterebbe «l’applicazione dell’elemento circostanziale, con diversa e meno afflittiva determinazione del trattamento sanzionatorio».

1.3.– In ordine alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo ritiene che la disposizione censurata violi gli artt. 3 e 27 Cost., sotto il profilo dei principi di uguaglianza e ragionevolezza, nonché dei canoni di proporzionalità e individualizzazione della pena.

1.3.1.– Sotto il primo profilo, la Sezione rimettente rammenta che l’art. 167 cod. pen. mil. pace punisce con la reclusione in misura non inferiore a otto anni la condotta del militare che, fuori dai casi previsti dagli articoli da 105 a 108 del medesimo codice, distrugge o rende inservibili, in tutto o in parte, anche temporaneamente, navi, aeromobili, convogli, strade, stabilimenti, depositi o altre opere militari o adibite al servizio delle Forze armate dello Stato.

La fattispecie di distruzione o sabotaggio di opere militari di cui all’art. 167 cod. pen. mil. pace sarebbe sovrapponibile, per struttura e tipicità, a quella di distruzione o sabotaggio di opere militari contemplata dall’art. 253 cod. pen., che punisce con la medesima pena le stesse condotte, poste in essere, analogamente, su res militari, differenziandosi da essa solo in relazione al soggetto attivo (nel primo caso, il militare; nel secondo, chiunque).

Al delitto di cui all’art. 253 cod. pen. sarebbe tuttavia applicabile la disposizione dell’art. 311 cod. pen., che consente di diminuire la pena «quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità», laddove analoga circostanza attenuante non è contemplata dall’art. 167 cod. pen. mil. pace. Né si potrebbe ritenere applicabile la diminuente in questione «in via d’interpretazione», «non sussistendo, nel sistema, un controllo di costituzionalità c.d. diffuso», che legittimi il giudice ordinario ad applicare «disposizioni – che pur alimentate da omogeneità e identità di ratio – non sono espressamente richiamate dal precetto della cui legittimità costituzionale si dubita».

In assenza di apprezzabili «elementi di differenziazione tra i due paradigmi normativi (sabotaggio ordinario e militare in senso stretto)», la mancata previsione, per quest’ultimo delitto, della diminuente legata alla lieve entità del fatto – invece applicabile al primo – violerebbe i principi di uguaglianza sostanziale e ragionevolezza.

Pur alla luce della «poliedricità del bene protetto» dall’art. 167 cod. pen. mil. pace, da leggersi «in collegamento con la qualità del soggetto attivo del reato» e la «necessità di tutelare nella sua interezza il servizio militare e la sua integrità», non sarebbe ragionevole la mancata previsione della circostanza attenuante fondata sulla lieve entità del fatto, che «incide sulla portata lesiva concreta ed oggettiva della condotta». Non potrebbe infatti escludersi l’ipotesi di una ridotta offensività della condotta anche in riferimento al sabotaggio posto in essere dal militare, specie ove «il bene sia reso solo temporaneamente inservibile in assenza di un pregiudizio permanente ed irreversibile e di una qualsiasi compromissione di altri beni giuridici tutelati quali il patrimonio, oppure la salute o l’integrità personale».

1.3.2.– Quanto al secondo profilo di censura, il giudice a quo premette che, rispetto alle condotte di sabotaggio – poste in essere tanto dai militari quanto dai civili – la sanzione penale dovrebbe esprimere «un rapporto di proporzione e adeguatezza che sia collegato all’entità concreta dell’aggressione al bene protetto». A tale scopo sarebbe funzionale la diminuente relativa alla lieve entità del fatto, che consente al giudice di adeguare la pena alla concreta offensività della condotta.

Tanto più necessaria sarebbe la previsione dell’attenuante in parola, a fronte di una sanzione – quale è quella comminata dall’art. 167 cod. pen. mil. pace – «fissa e inderogabile» e improntata nello stesso minimo edittale ad «asprezza eccezionale». In difetto della stessa, infatti, la risposta penale rischierebbe di «perdere il suo profilo di duttilità dinamica e di adattarsi solo in parte alla varietà delle situazioni che astrattamente possono rientrare nell’ambito di applicazione del paradigma legale d’incriminazione».

L’impossibilità di mitigare, in funzione del concreto disvalore del fatto, il severo trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 167 cod. pen. mil. pace, determinando l’irrogazione di «una pena non proporzionata alla gravità del fatto (e non percepita come tale dal condannato)», si risolverebbe in un ostacolo alla funzione rieducativa cui le pene devono tendere (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 236 del 2016, n. 68 del 2012, n. 341 del 1994 e n. 343 del 1993).

L’«esigenza di mobilità, o individualizzazione, della sanzione», funzionale a consentire «l’adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti» costituirebbe «naturale attuazione e sviluppo» tanto del principio di uguaglianza, quanto del principio di personalità della responsabilità penale (art. 27, primo comma, Cost.) e della funzione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.) (sono citate le sentenze n. 50 del 1980, n. 104 del 1968 e n. 67 del 1963). Previsioni sanzionatorie rigide non risulterebbero, in linea di principio, «in armonia con il “volto costituzionale” del sistema penale», salvo che, «per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato» (sono richiamate Corte di cassazione, sezione prima penale, ordinanza 6 luglio 2017, n. 52613, e la sentenza n. 222 del 2018 di questa Corte).

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e, comunque, non fondate.

2.1.– L’interveniente sottolinea la peculiarità dello status del personale militare, legato all’amministrazione dello Stato da un rapporto di servizio che, «rispetto a qualunque altra prestazione lavorativa, viene ad assumere una particolare e più intensa connotazione», da intendersi come «fedeltà qualificata, con contenuto più ampio di quello riguardante la totalità dei cittadini ed idonea a fondare doveri più impegnativi nei confronti di chi, essendo tenuto a prestare giuramento, contrae anche un vincolo di ordine morale, che a quelli giuridici si aggiunge» (è citata Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 17 novembre 1994, n. 9746).

Tale speciale status giustificherebbe l’apposizione, da parte del legislatore ordinario, di limitazioni ai diritti – anche di matrice costituzionale – del personale militare, come si evincerebbe dalla sentenza n. 24 del 1989 di questa Corte; dall’art. 19 della legge 4 novembre 2010, n. 183, recante «Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro», che riconosce la specificità del ruolo delle Forze armate nella definizione degli ordinamenti, delle carriere e dei contenuti del rapporto di impiego e della tutela economica, pensionistica e previdenziale; dall’art. 1465, comma 1, del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), ai sensi del quale, per garantire l’assolvimento dei compiti propri delle Forze armate, sono imposte ai militari limitazioni nell’esercizio di alcuni dei diritti che la Costituzione riconosce ai cittadini, nonché l’osservanza di particolari doveri nell’ambito dei principi costituzionali. L’imposizione al personale militare di più pregnanti doveri di comportamento risulterebbe altresì dall’art. 713, comma 2, del d.P.R. 15 marzo 2010, n. 90 (Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246), ai termini del quale il militare deve astenersi, anche fuori dal servizio, da comportamenti che possano comunque condizionare l’esercizio delle sue funzioni e ledere il prestigio dell’istituzione di appartenenza.

2.2.– In questo quadro normativo, del tutto legittima e conforme ai parametri costituzionali si paleserebbe la scelta del legislatore di non prevedere, in relazione al delitto di cui all’art. 167 cod. pen. mil. pace, una circostanza attenuante fondata sulla lieve entità del fatto, a differenza di quanto invece avviene per le condotte di sabotaggio poste in essere dai comuni cittadini.

E invero «ogni appartenente alle Forze armate, a differenza di un privato cittadino, è per definizione il primo responsabile dell’installazione militare nonché deputato alla custodia della stessa, in quanto strumentale all’assolvimento dei superiori compiti di difesa dello Stato e tutela della collettività», sicché «per l’appartenente al “Consorzio Militare” non può rilevare alcuna attenuazione del fatto in funzione delle circostanze contingenti, in quanto già l’aver posto in essere quel comportamento consapevolmente determina una chiara violazione del giuramento prestato e il tradimento di tutti quei valori e principi caratterizzanti lo status di componente delle FF. AA.».

2.3.– Del resto – osserva ancora l’Avvocatura generale dello Stato – nella sentenza n. 215 del 2017 questa Corte ha escluso l’illegittimità costituzionale del differente trattamento sanzionatorio delle condotte di ingiuria poste in essere rispettivamente dal militare (e punite penalmente in forza dell’art. 226 cod. pen. mil. pace) e dal cittadino comune (che, a seguito dell’abrogazione dell’art. 594 cod. pen., incorre nella sola sanzione pecuniaria civile), ponendo l’accento sulla «peculiare posizione del cittadino che entra (attualmente per propria scelta) nell’ordinamento militare, caratterizzato da specifiche regole ed esigenze» e ritenendo non irragionevole imporre al militare «una più rigorosa osservanza di regole di comportamento, anche relative al comune senso civico».

A fronte dunque di comportamenti contrari ai «doveri attinenti al giuramento prestato, tra i quali quelli di correttezza ed esemplarità propri dello status di militare», sarebbe pienamente giustificata la scelta legislativa di non valorizzare la concreta entità del singolo episodio, dando prioritaria considerazione «ai superiori interessi pubblici, nonché alla valutazione delle aspettative della fiducia riposta dallo Stato in ogni operatore militare». Del resto, il giuramento di fedeltà alla Repubblica dell’appartenente alle Forze armate comporterebbe il «rafforzamento, valorizzazione e sublimazione etica dei doveri civili cui è vincolata la generalità dei cittadini»; il che spiegherebbe, nel caso di specie, la maggiore severità della disciplina del codice penale militare di pace rispetto a quella applicabile alla generalità dei consociati.

3.– Con memoria illustrativa depositata in prossimità della camera di consiglio, il Presidente del Consiglio dei ministri ha insistito sulle conclusioni già rassegnate.

A parere dell’Avvocatura generale dello Stato, la «specialità dell’ordinamento militare» e «l’assoluta indispensabilità di tutela di talune specifiche connotazioni del mondo militare» giustificherebbero differenze di disciplina tra legislazione penale militare e legislazione ordinaria, in particolare ove – come nel caso di specie – sussista «uno stretto legame con la salvaguardia del servizio militare e più in generale con il valore della disciplina militare».

La fattispecie incriminatrice di cui all’art. 167 cod. pen. mil. pace, inserita nel Titolo II del Libro II che disciplina i reati contro il servizio militare – quest’ultimo inteso come «prestazione collettiva cui sono tenute le Forze armate» –, sarebbe posta a tutela di beni di uso militare, strumentali all’assolvimento dei compiti istituzionali delle Forze armate, in primis della difesa della Patria, e costituirebbe «applicazione sporadica del principio di integralità». La presenza di siffatta norma incriminatrice sarebbe indispensabile a garantire l’efficienza delle Forze armate e il corretto e tempestivo operato dei loro appartenenti. Del resto, e correlativamente, l’art. 723 del d.P.R. n. 90 del 2010, rubricato «Tenuta e sicurezza delle armi, dei mezzi, dei materiali e delle installazioni militari», porrebbe in capo a ciascun militare specifici doveri di cura e di adozione delle cautele necessarie al fine di impedire il deterioramento, la perdita o la sottrazione di detti beni militari.

L’assenza, nell’art. 167 cod. pen. mil. pace, di una circostanza attenuante per i fatti di lieve entità – invece applicabile al sabotaggio «comune» ex artt. 253 e 311 cod. pen. – si giustificherebbe alla luce delle differenti finalità di tutela che connotano la prima fattispecie rispetto alla seconda. La condotta dell’appartenente alle Forze armate che danneggi, sia pure temporaneamente, il bene oggetto di tutela sarebbe già idonea a compromettere irreversibilmente il rapporto fiduciario con l’amministrazione di appartenenza e, di riflesso, «l’efficienza e la pronta operatività dello strumento militare, anche a detrimento della collettività». La disposizione censurata consentirebbe peraltro, sia pure in diversa forma rispetto alla disciplina «comune», di adeguare la risposta punitiva al caso concreto, con conseguente esclusione di ogni ostacolo alla funzione rieducativa della pena.

La mancata previsione di una diminuente per i fatti di lieve entità si inserirebbe del resto coerentemente nell’ordinamento penale militare che, in caso di condanna alla reclusione di durata non inferiore a cinque anni, prevede tra l’altro l’applicazione della pena accessoria della degradazione, che comporta la privazione della qualità di militare.

In definitiva, la differente disciplina del sabotaggio di opere militari recata dal codice penale militare di pace e dal codice penale – essendo giustificata dalla diversità dei beni giuridici tutelati – sarebbe conforme ai principi di ragionevolezza ed eguaglianza, così come declinati dalla giurisprudenza di questa Corte (sono citate le sentenze n. 46 del 1959, n. 53 del 1958 e n. 15 del 1960) e rappresenterebbe il frutto di un legittimo bilanciamento tra i diritti dell’appartenente alle Forze armate e la necessità di «maggiore realizzazione di altri interessi costituzionalmente garantiti in primis la difesa della Patria», che non comprometterebbe la funzione rieducativa della pena.

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di cassazione, sezione prima penale, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 167 cod. pen. mil. pace, censurandolo «nella parte in cui non prevede nell’ipotesi di sabotaggio per temporanea inservibilità attenuazioni della pena per fatti di lieve entità».

1.1.– L’art. 167, primo comma, cod. pen. mil. pace dispone: «[i]l militare, che, fuori dei casi preveduti dagli articoli 105 a 108, distrugge o rende inservibili, in tutto o in parte, anche temporaneamente, navi, aeromobili, convogli, strade, stabilimenti, depositi o altre opere militari o adibite al servizio delle forze armate dello Stato, è punito con la reclusione non inferiore a otto anni».

1.2.– Il giudice a quo censura, in riferimento ai due parametri costituzionali menzionati, la mancata previsione di una circostanza attenuante per i fatti di lieve entità, limitatamente all’ipotesi della condotta che abbia cagionato la temporanea inservibilità degli oggetti materiali individuati dalla disposizione incriminatrice.

La censura è articolata in due distinti, ma convergenti, profili.

Anzitutto, sotto il profilo di una allegata irragionevole disparità di trattamento rispetto alla parallela figura delittuosa di distruzione o sabotaggio di opere militari prevista dal codice penale comune all’art. 253: figura descritta in maniera identica dal legislatore – salva l’indicazione del soggetto attivo in «chiunque» in luogo del «militare» – e sanzionata anch’essa con la reclusione non inferiore a otto anni, ma alla quale risulta applicabile la circostanza attenuante di cui all’art. 311 cod. pen., che prevede (per effetto della disposizione generale di cui all’art. 65 cod. pen.) la diminuzione della pena fino a un terzo «quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità».

In secondo luogo, anche a prescindere dal raffronto con la parallela disciplina del codice penale, la pena minima di otto anni di reclusione prevista dalla disposizione censurata costituirebbe una previsione di «asprezza eccezionale», suscettibile di condurre all’applicazione nel caso concreto di una pena non proporzionata alla effettiva gravità del fatto, in violazione dei principi di eguaglianza, di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena.

2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, ma ha svolto unicamente argomenti concernenti il merito delle questioni medesime.

L’eccezione va pertanto intesa come mera formula di stile, e deve essere per tale ragione disattesa.

3.– Le questioni sono fondate con riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., congiuntamente considerati.

3.1.– In base alla costante giurisprudenza di questa Corte (per una più estesa ricapitolazione, sentenza n. 112 del 2019, punti da 8.1.2. a 8.1.4. del Considerato in diritto), ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. l’ampia discrezionalità di cui dispone il legislatore nella quantificazione delle pene incontra il proprio limite nella manifesta sproporzione della singola scelta sanzionatoria, sia in relazione alle pene previste per altre figure di reato (sentenze n. 68 del 2012, n. 409 del 1989 e n. 218 del 1974), sia rispetto alla intrinseca gravità delle condotte abbracciate da una singola figura di reato (sentenze n. 73 del 2020, n. 40 del 2019, n. 222 del 2018, n. 236 del 2016 e n. 341 del 1994). Il limite in parola esclude, più in particolare, che la severità della pena comminata dal legislatore possa risultare manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del reato: il che accade, in particolare, ove il legislatore fissi una misura minima della pena troppo elevata, vincolando così il giudice all’inflizione di pene che potrebbero risultare, nel caso concreto, chiaramente eccessive rispetto alla sua gravità (da ultime, sentenze n. 63 del 2022, punto 4.1. del Considerato in diritto, e n. 28 del 2022, punto 6.1. del Considerato in diritto).

3.2.– Numerose sono state, altresì, le pronunce in cui questa Corte ha affrontato censure formulate in riferimento all’art. 3 Cost. e concernenti differenze di trattamento sanzionatorio tra reati militari e reati comuni.

3.2.1.– In diverse occasioni, sono state dichiarate costituzionalmente illegittime previsioni dalle quali discendeva per il militare un trattamento sanzionatorio deteriore rispetto a quello riservato al comune cittadino.

Così, sono state ritenute contrarie all’art. 3 Cost.: la mancata applicazione, in determinate ipotesi, di un’amnistia al peculato militare di cui all’art. 215 cod. pen. mil. pace, e la sua previsione invece per il peculato comune (sentenza n. 4 del 1974); la mancata estensione, da parte dell’art. 49 cod. pen. mil. pace, a tutti i reati militari dell’attenuante della provocazione, prevista dal codice penale comune per la generalità dei reati (sentenza n. 213 del 1984); la persistente punibilità, nell’ordinamento militare, del peculato militare per distrazione, abolita nel diritto penale comune nel 1990 (sentenza n. 448 del 1991); la mancata previsione del rilievo scusante, anche nell’ordinamento militare, dell’ignoranza inevitabile della legge penale, il cui valore esimente nel diritto penale comune era stato riconosciuto dalla sentenza n. 364 del 1988 (sentenza n. 61 del 1995); la mancata estensione di un’amnistia al delitto di truffa militare aggravata e la sua previsione, invece, per il corrispondente reato comune (sentenza n. 272 del 1997); la mancata previsione, nel codice penale militare di pace, di un’ipotesi delittuosa meno grave di peculato d’uso, similmente a quella prevista nel diritto penale comune dall’art. 314, secondo comma, cod. pen. (sentenza n. 286 del 2008); l’inapplicabilità alla diffamazione militare dell’exceptio veritatis disciplinata dall’art. 596, commi terzo, numero 1), e quarto, cod. pen. (sentenza n. 273 del 2009).

In tutte queste occasioni, la differenza di trattamento è stata ritenuta priva di ragionevoli giustificazioni, a fronte della sostanziale identità della condotta, dell’elemento psicologico e del bene giuridico protetto dalle norme poste a raffronto. E ciò sulla base del presupposto – esplicitato da una sentenza con la quale è stata dichiarata costituzionalmente illegittima una differente disciplina in materia processuale per i reati comuni e per quelli militari – che «[l]a Costituzione repubblicana supera radicalmente la logica istituzionalistica dell’ordinamento militare e, ricondotto anche quest’ultimo nell’ambito del generale ordinamento statale, particolarmente rispettoso e garante dei diritti sostanziali e processuali di tutti i cittadini, militari oppur no, definitivamente impedisce che la giurisdizione penale militare si consideri ancora come “continuazione” della “giustizia disciplinare” dei capi militari, tesa a garantire e rafforzare l’ordine e la gerarchia militare contro le violazioni “più gravi”» (sentenza n. 278 del 1987, punto 5 del Considerato in diritto).

3.2.2.– In varie pronunce questa Corte ha invece dichiarato non fondate questioni di legittimità costituzionale ex art. 3 Cost. relative a differenze di trattamento sanzionatorio tra reati comuni e militari, evidenziando la non irragionevolezza di tali distinte discipline. Così, sono state giudicate non incompatibili con la Costituzione: l’inapplicabilità della scriminante degli atti arbitrari del pubblico ufficiale, prevista per delitti di cui agli artt. 336 e seguenti cod. pen., al delitto di insubordinazione con ingiuria di cui all’art. 189, secondo comma, cod. pen. mil. pace (sentenza n. 278 del 1990); la maggior pena stabilita – in forza del combinato disposto degli artt. 196 e 199 cod. pen. mil. pace – per il delitto di minaccia ad inferiore in presenza di militari riuniti per servizio, rispetto a quella prevista dall’art. 336 cod. pen. (sentenza n. 405 del 1994); la maggior pena fissata per il delitto di vilipendio alla bandiera nazionale o altro emblema dello Stato di cui all’art. 83, primo comma, cod. pen. mil. pace rispetto a quella prevista dagli artt. 291 e 292 cod. pen. (sentenza n. 531 del 2000); la perdurante rilevanza penale dell’ingiuria tra militari, pur dopo l’abrogazione, nel 2016, del corrispondente delitto comune di cui all’art. 594 cod. pen., trasformato in illecito civile (sentenza n. 215 del 2017).

In queste pronunce, è stato per lo più sottolineato il legittimo interesse a preservare, nei rapporti intersoggettivi tra i militari (tanto di diverso grado gerarchico, quanto di pari grado), precise «esigenze di coesione dei corpi militari» (sentenza n 45 del 1992, punto 2 del Considerato in diritto), esse stesse strumentali ad esigenze di funzionalità delle Forze armate (sentenza n. 215 del 2017, punto 5.3. del Considerato in diritto); e ciò anche in relazione alla necessità di prevenire episodi di “nonnismo” e «ingiurie di natura sessista, a seguito dell’accesso delle donne al servizio militare» (ancora, sentenza n. 215 del 2017). Esigenze, tutte, che rendevano non irragionevole la diversità di trattamento di volta in volta in questione.

3.2.3.– Da tale copiosa giurisprudenza può evincersi che, in linea di principio, una differenza di trattamento sanzionatorio tra reati militari e corrispondenti reati comuni viola l’art. 3 Cost. allorché essa non appaia sorretta da alcuna ragionevole giustificazione, stante la sostanziale identità della condotta punita, dell’elemento soggettivo e del bene giuridico tutelato. Emblematiche in questo senso le sentenze che censurano differenze di disciplina del peculato “comune” e “militare”: posto che il soggetto attivo in entrambi i reati ha la disponibilità o il possesso di denaro o di cose della pubblica amministrazione per ragioni d’ufficio, il fatto di appropriarsi di tale denaro o cose presenta un disvalore omogeneo tanto nell’ipotesi in cui il soggetto sia un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio “civile”, ovvero un militare.

Differenze di trattamento sanzionatorio tra reati comuni e i corrispondenti reati militari non si pongono invece in contrasto con il principio di uguaglianza in quanto siano giustificabili in ragione della oggettiva diversità degli interessi tutelati dalle disposizioni, comuni e militari, che vengono di volta in volta a raffronto, ovvero del particolare rapporto che lega il soggetto agente al bene tutelato. Emblematiche sono qui le norme incriminatrici che concernono le condotte compiute dal militare nei confronti di altri militari: lo specifico disvalore penale di tali comportamenti non dipende invero dalla loro intrinseca immoralità, né dalla mera violazione del vincolo di fiducia che l’ordinamento ripone sul rispetto della disciplina da parte dei militari; bensì dalla loro oggettiva disfunzionalità rispetto all’interesse al mantenimento di basilari esigenze di coesione all’interno delle Forze armate, a loro volta strumentali rispetto all’efficace svolgimento delle delicatissime funzioni a queste affidate, e conseguentemente rispetto alla loro efficienza e capacità operativa, oltre che dalla speciale dimensione offensiva delle condotte nei confronti dei diritti fondamentali dei singoli militari, particolarmente esposti a fenomeni di “nonnismo” o di discriminazione sessuale (sentenza n. 215 del 2017).

3.3.– È dunque alla luce di tali principi che deve essere vagliata la legittimità costituzionale della disposizione censurata.

3.3.1.– Va preliminarmente osservato che non convince l’assunto del giudice rimettente secondo cui non sarebbe apprezzabile alcun significativo elemento di differenziazione tra la figura delittuosa di sabotaggio comune di cui all’art. 253 cod. pen. e quella di sabotaggio militare, tale da giustificare un loro diverso trattamento sanzionatorio.

Non a torto l’Avvocatura generale dello Stato obietta che ogni appartenente alle Forze armate – a differenza del comune cittadino, soggetto attivo del delitto previsto dall’art. 253 cod. pen. – è responsabile dell’installazione militare e della sua custodia, in particolare ai sensi dell’art. 723 del d.P.R. n. 90 del 2010. Tale rapporto speciale con la res, a sua volta fondato su precisi doveri di diritto pubblico inerenti alla funzione esercitata, ben potrebbe giustificare, in linea di principio, una sanzione più severa a carico di chi la distrugga o renda inservibile.

3.3.2.– Tuttavia, deve convenirsi con il rimettente che la mancata previsione di una causa di attenuazione del trattamento sanzionatorio per i fatti di lieve entità abbracciati dal perimetro applicativo della disposizione censurata viola il principio di proporzionalità della pena, specificamente invocato dal rimettente nel suo secondo profilo di censura.

L’Avvocatura generale dello Stato sostiene, in proposito, che rispetto alla condotta del militare non sarebbe concettualmente ipotizzabile un sabotaggio di lieve entità, in quanto la commissione del fatto sarebbe, da un lato, di per sé indicativa di una «chiara violazione del giuramento prestato e [del] tradimento di tutti quei valori e principi caratterizzanti lo status di componente delle FF. AA.»; e, dall’altro, comprometterebbe irrimediabilmente, oltre che il «rapporto fiduciario sussistente tra il singolo e l’amministrazione di appartenenza», altresì «l’efficienza e la pronta operatività dello strumento militare».

Tali argomenti, tuttavia, non sono persuasivi. Dell’impossibilità di giustificare un trattamento penale di particolare rigore sulla base della mera violazione del giuramento e del vincolo di fedeltà che lega l’autore della condotta al proprio corpo militare si è già detto. Né convince l’argomento secondo cui la condotta di sabotaggio compiuta dal militare comprometterebbe necessariamente in modo rilevante, sul piano oggettivo, l’efficienza e la pronta operatività dello strumento.

In realtà, fatti di lieve entità – in relazione in particolare alla modestia del pregiudizio cagionato alla efficienza operativa delle res oggetto della condotta – sono agevolmente ipotizzabili rispetto alla figura delittuosa all’esame, in ragione della tessitura semantica particolarmente lata delle espressioni utilizzate dal legislatore. La disposizione censurata sanziona, esattamente come quella parallela prevista dal codice penale comune, condotte che spaziano dalla distruzione di navi e aeromobili alla causazione della temporanea inservibilità di qualsiasi opera adibita al servizio delle Forze armate dello Stato: inclusi, ad esempio, apparecchi telegrafici, radiotelegrafici e telefonici (Tribunale supremo militare, sentenza 14 dicembre 1978, n. 339) o elaboratori di dati (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 30 gennaio 1992, n. 3744, con riferimento all’identica dizione utilizzata dall’art. 253 cod. pen.).

In particolare, fatti di lieve entità sono facilmente immaginabili rispetto alle condotte – su cui pone l’accento l’ordinanza di rimessione – consistenti nel rendere meramente «inservibili, in tutto o in parte, anche temporaneamente» le cose elencate tanto nell’art. 167 cod. pen. mil. pace, quanto nell’art. 253 cod. pen.: come nel caso del rifornimento con carburante non idoneo (Tribunale supremo militare, sentenza 13 febbraio 1979, n. 144), o del mancato rifornimento di un automezzo militare (sulla configurabilità del delitto di distruzione o sabotaggio di cui all’art. 167 cod. pen. mil. pace mediante condotte omissive, Tribunale militare di Roma, sentenza 20 marzo 2009, n. 75; Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 20 gennaio 2011, n. 20123).

La previsione nel diverso sistema del codice penale comune della possibilità di una diminuzione della pena fino a un terzo, rispetto a una pena minima eccezionalmente elevata come quella di otto anni di reclusione, opera come una valvola di sicurezza che consente al giudice, rispetto a condotte che non abbiano prodotto danni significativi alla funzionalità del servizio, di evitare l’irrogazione di una sanzione destinata a essere necessariamente eseguita in carcere, per diversi anni, anche laddove sia riconosciuta la sussistenza delle circostanze attenuanti generiche – la cui applicazione non varrebbe comunque a ricondurre la pena entro i limiti che consentono la concessione di misure alternative alla detenzione in fase esecutiva.

L’indisponibilità di un’analoga valvola di sicurezza nel sistema penale militare comporta, invece, che anche rispetto a condotte del militare che non provochino alcun disservizio significativo, il tribunale militare sia vincolato ad applicare la pena della reclusione non inferiore a otto anni, con le conseguenze appena descritte. Un tale trattamento sanzionatorio può risultare, anche per il militare in servizio che pure è titolare di specifici doveri di custodia rispetto all’oggetto materiale della condotta, manifestamente sproporzionato rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto, e comunque incapace di adeguarsi al suo concreto disvalore, con pregiudizio allo stesso principio di individualizzazione della pena e alla sua necessaria funzione rieducativa.

La situazione è, dunque, in larga misura corrispondente a quella oggetto della pronuncia con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. pen. nella parte in cui non prevedeva che la pena da esso comminata fosse diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risultasse di lieve entità. Anche in quell’occasione, questa Corte ha stigmatizzato l’impossibilità, discendente dalla disciplina censurata, di «mitigare – in rapporto ai soli profili oggettivi del fatto (caratteristiche dell’azione criminosa, entità del danno o del pericolo) – una risposta punitiva improntata a eccezionale asprezza e che, proprio per questo, rischia di rivelarsi incapace di adattamento alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale» (sentenza n. 68 del 2012, punto 5 del Considerato in diritto; si vedano, inoltre, le numerose pronunce con cui questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il divieto di prevalenza sulla recidiva reiterata di circostanze attenuanti fondate sulla «lieve entità» del fatto – sentenze n. 143 del 2021 e n. 251 del 2012 –, sulla sua «particolare tenuità» –sentenza n. 105 del 2014 –, sulla sua «minore gravità» – sentenza n. 106 del 2014 –, ovvero sulla «speciale tenuità» – sentenza n. 205 del 2017 –).

3.4.– Al vulnus così accertato non è possibile porre rimedio – come vorrebbe il giudice rimettente – semplicemente estendendo al delitto di cui all’art. 167 cod. pen. mil. pace la circostanza attenuante prevista dall’art. 311 cod. pen., che per quanto si è poc’anzi osservato non costituisce idoneo tertium comparationis, non prestandosi così a essere “importata”, attraverso una pronuncia additiva, all’interno del codice penale militare di pace.

Quest’ultimo già conosce, però, diverse ipotesi in cui, rispetto a gravi reati militari, è previsto che la pena sia diminuita quando il fatto risulti di lieve entità. Ciò accade rispetto ai pur gravissimi reati richiamati dall’art. 102 cod. pen. mil. pace (tra i quali si annoverano, ad esempio, l’alto tradimento e le intelligenze con lo straniero), nonché per i delitti di danneggiamento di edifici militari e di distruzione o deterioramento di cose mobili militari, disciplinati rispettivamente dagli artt. 168 e 169 cod. pen. mil. pace che immediatamente seguono la disposizione in questa sede censurata, e per i quali l’art. 171, numero 2), dello stesso codice prevede che la pena sia «diminuita» «se, per la particolare tenuità del danno, il fatto risulta di lieve entità». In applicazione della disposizione generale di cui all’art. 51, numero 4), cod. pen. mil. pace, il giudice è tenuto in tali ipotesi a diminuire la pena sino a un terzo.

L’estensione alla disposizione censurata della possibilità di attenuazione della pena già prevista dall’art. 171, numero 2), cod. pen. mil. pace, applicabile a figure criminose contigue (anche in relazione alla sostanziale coincidenza dell’interesse protetto) a quella che qui viene in considerazione, costituisce una soluzione idonea a riparare il vulnus accertato da questa Corte.

Tale estensione deve essere limitata al solo frammento dell’art. 167 cod. pen. mil. pace sul quale il giudice rimettente ha appuntato i dubbi di legittimità costituzionale, e cioè alla sola previsione delle condotte di sabotaggio temporaneo (consistenti nel rendere temporaneamente inservibili, in tutto o in parte, le cose elencate dallo stesso art. 167 cod. pen. mil. pace).

3.5.– L’art. 167, primo comma, cod. pen. mil. pace deve, dunque, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede che la pena sia diminuita se il fatto di rendere temporaneamente inservibili, in tutto o in parte, navi, aeromobili, convogli, strade, stabilimenti, depositi o altre opere militari o adibite al servizio delle Forze armate dello Stato risulti, per la particolare tenuità del danno causato, di lieve entità.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 167, primo comma, del codice penale militare di pace, nella parte in cui non prevede che la pena sia diminuita se il fatto di rendere temporaneamente inservibili, in tutto o in parte, navi, aeromobili, convogli, strade, stabilimenti, depositi o altre opere militari o adibite al servizio delle Forze armate dello Stato risulti, per la particolare tenuità del danno causato, di lieve entità.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 ottobre 2022.

F.to:

Silvana SCIARRA, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 2 dicembre 2022.