SENTENZA N. 286
ANNO 2008
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge 9 dicembre 1941, n. 1383 (Militarizzazione del personale civile e salariato in servizio presso la Regia guardia di finanza e disposizioni penali per i militari del suddetto Corpo), e dell’art. 215 del codice penale militare di pace, promosso con ordinanza dell’11 ottobre 2007 dal Giudice della udienza preliminare del Tribunale dei Termini Imerese nel procedimento penale a carico di Antonino De Fecondo, iscritta al n. 16 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2008.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’11 giugno 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella.
Ritenuto in fatto
Con ordinanza dell’11 ottobre 2007, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Termini Imerese ha sollevato, con riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge 9 dicembre 1941, n. 1383 (Militarizzazione del personale civile e salariato in servizio presso la Regia guardia di finanza e disposizioni penali per i militari del suddetto Corpo), nella parte in cui, dopo avere previsto che il militare della Guardia di Finanza il quale «si appropria o comunque distrae, a profitto proprio o di altri, valori o generi di cui egli, per ragioni del suo ufficio o servizio, abbia l’amministrazione o la custodia o su cui esercita la sorveglianza, soggiace alle pene stabilite dagli articoli 215 e 219 del codice penale militare di pace», non prevede che «tale disposizione non si applica quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita»; e, sempre con riferimento all’art. 3 della Costituzione, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 215 cod. pen. mil. pace nella parte in cui non prevede che «tale disposizione non si applica quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita».
Il rimettente riferisce che, nel corso dell’udienza preliminare celebrata nei confronti di D.F.A., imputato «del delitto p.p. dagli artt. 81 cpv. e 314 cod. pen. perché […..] avendo, per ragioni del suo ufficio, la disponibilità di un’autovettura di servizio e del relativo autista, li utilizzava per fini privati», la difesa dell’imputato ha contestato la qualificazione giuridica effettuata dal pubblico ministero e, ritenendo applicabile alla fattispecie la disposizione di cui all’art. 3 della legge n. 1383 del 1941, ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, affermando che la predetta disposizione determina la devoluzione della cognizione relativa ai reati da essa previsti alla giurisdizione militare.
Secondo il rimettente, mentre l’illegittimo uso personale delle autovetture di servizio è inquadrabile, per la particolare qualifica soggettiva dell’agente, nella speciale previsione dettata dall’art. 3 della legge n. 1383 del 1941, il cui primo comma stabilisce: «Il militare della guardia di finanza che commette una violazione delle leggi finanziare, costituente delitto, o collude con estranei per frodare la finanza, oppure si appropria o comunque distrae, a profitto proprio o di altri, valori o generi di cui egli, per ragioni del suo ufficio o servizio, abbia l'amministrazione o la custodia o su cui eserciti la sorveglianza, soggiace alle pene stabilite dagli articoli 215 e 219 del Codice penale militare di pace, ferme le sanzioni pecuniarie delle leggi speciali»; la condotta del pubblico ufficiale che utilizza a fini privati le prestazioni lavorative di un pubblico dipendente, distogliendolo dalle mansioni istituzionali, deve essere ricondotta, allorché ricorrano gli ulteriori presupposti previsti dalla legge, alla fattispecie di abuso d’ufficio di cui all’art. 323 codice penale, non essendo concepibile l’appropriarsi di una persona o della sua energia lavorativa.
In conclusione, la fattispecie sottoposta all’esame del Tribunale siciliano integrerebbe il concorso formale di due reati: con riferimento all'uso dell’autovettura, il reato di «peculato del militare della Guardia di Finanza» previsto dall’art. 3 della legge n. 1383 del 1941 e, «mancando questo», il reato di peculato militare previsto dall'art. 215 cod. pen. mil. pace; con riferimento all'impiego dell’autista, il reato di abuso d’ufficio previsto dall'art. 323 del codice penale.
Ciò, prosegue il rimettente, determinerebbe un’ipotesi di connessione ai sensi dell’art. 12, lettera b), del codice di rito e, poiché i due reati rientrano nella giurisdizione di giudici diversi, e poiché il reato di abuso d’ufficio, previsto dall’art. 323 cod. pen., sarebbe meno grave di quello di «peculato del militare della Guardia di Finanza» previsto dall’art. 3 della legge n. 1383 del 1941 (come anche di quello previsto dall’art. 215 cod. pen. mil. pace), il Tribunale dovrebbe pronunciare il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, ai sensi dell’art. 20 cod. proc. pen., in relazione al contestato utilizzo dell’autovettura, proseguendo il giudizio limitatamente all’impiego dell’autista.
Lo stesso Tribunale, però, mette in dubbio la legittimità costituzionale sia dell’art. 3 della legge n. 1383 del 1941, relativo al peculato militare degli appartenenti alla Guardia di finanza, che dell’art. 215 del codice penale militare di pace, che definisce la fattispecie del «peculato militare» tout court, per la disparità di trattamento che la disciplina del peculato d’uso contenuta nei predetti articoli presenterebbe rispetto a quella dettata in ambito di reati comuni, laddove l’art. 314 cod. pen. è stato integralmente riformulato dall’art. 1 della legge 26 aprile 1990, n. 86, contenente modifiche in tema dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.
In seguito a tale intervento riformatore infatti, accanto al peculato vero e proprio, caratterizzato dall’appropriazione definitiva del bene, è stata introdotta la fattispecie del peculato cosiddetto d’uso, che si ha quando «il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita», sottoponendola alla ben più mite pena della reclusione da sei mesi a tre anni. A seguito della riforma, invece, è scomparsa la figura del peculato per distrazione, il che non ha però determinato la totale depenalizzazione delle relative condotte, dato che una parte di esse è confluita nella nuova fattispecie di abuso d’ufficio prevista dall’art. 323 del codice penale.
L’intervento riformatore operato con la legge n. 86 del 1990, sottolinea ancora il rimettente, non ha interessato la figura del «peculato militare» prevista dall’art. 215 cod. pen. mil. pace né quella del «peculato del militare della Guardia di Finanza» prevista dall’art. 3 della legge n. 1383 del 1941.
Ciò determina, secondo il Tribunale, una diversità di trattamento tra militari e non militari in materia di peculato, dato che mentre le condotte di appropriazione momentanea commesse da pubblici ufficiali non militari sono soggette ad un trattamento sanzionatorio più mite di quello previsto per le condotte di appropriazione definitiva, le condotte di appropriazione momentanea commesse da militari e, in particolare, da militari appartenenti alla Guardia di Finanza, sono soggette allo stesso trattamento sanzionatorio previsto per le condotte di appropriazione definitiva. Tale disparità di trattamento appare al Tribunale priva di razionale giustificazione e, pertanto, in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione.
Al riguardo, ricorda il rimettente, la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 473 del 1990 – pur pervenendo nella specie ad una declaratoria di inammissibilità della questione posta dal giudice a quo – rilevava che non è «conforme a razionalità che, riformando il peculato comune così come si è visto più sopra, analoga modifica non sia stata apportata a quello militare».
Infine, ricorda il rimettente, con la sentenza n. 448 del 1991, la Corte costituzionale ha dichiarato 1’illegittimità costituzionale dell’art. 215 cod. pen. mil. pace limitatamente alle parole «ovvero lo distrae a profitto proprio o di altri», così equiparando il trattamento delle condotte distrattive poste in essere dal militare alle analoghe condotte poste in essere dal pubblico ufficiale non militare.
Secondo il Tribunale di Termini Imerese, le considerazioni svolte dalla Corte dovrebbero estendersi, da un lato, alla fattispecie di «peculato del militare della Guardia di Finanza» prevista dall’art. 3 della legge n. 1383 del 1941; dall’altro, alle condotte appropriative contrassegnate da un uso momentaneo della cosa cui segue la restituzione della stessa.
Quanto al primo aspetto, la struttura di detta fattispecie, con particolare riferimento alla natura del bene protetto ed alla condotta tipica, non è diversa da quella del peculato comune oggi prevista dall’art. 314 cod. pen. e da quella del peculato militare di cui all’art. 215 cod. pen. mil. pace, prima che queste ultime fossero modificate per effetto, rispettivamente, dell’art. 1 della legge n. 86 del 1990 e della sentenza n. 448 del 1991 della Corte costituzionale.
Inoltre, prosegue il rimettente, va considerato che l’art. 3 della legge n. 1383 del 1941, limitandosi quoad poenam a rinviare all’art. 215 cod. pen. mil. pace, prevede una pena meno grave di quella che era prevista dall’art. 314 cod. pen. prima dell'intervento riformatore operato con l’art. 1 della legge n. 86 del 1990 e che oggi è prevista dal primo comma del riformato art. 314. Di conseguenza, anche per il «peculato del militare della Guardia di Finanzia» deve escludersi, secondo il rimettente, che nell’appartenenza dell’agente e dell’oggetto materiale della condotta al Corpo della Guardia di Finanza possa rinvenirsi una valutazione della fattispecie speciale qui considerata in termini di maggiore gravità rispetto alla fattispecie comune di peculato.
Alla luce dell’evidenziata identità sostanziale tra le fattispecie, così come la mancata estensione delle modifiche apportate al peculato comune dall’art. 1 della legge n. 86 del 1990 al «peculato militare» in genere ed al «peculato del militare della Guardia di Finanza in particolare» appare irrazionale ed ingiustificata in relazione alle condotte distrattive, allo stesso modo e per le stesse ragioni essa appare al rimettente irrazionale ed ingiustificata anche in relazione alle condotte appropriative caratterizzate dall’uso solo momentaneo della cosa, seguito dall'immediata restituzione della stessa.
Per eliminare l’evidenziata disparità e ripristinare l’uniformità di trattamento tra il militare della Guardia di Finanza ed il pubblico ufficiale non militare, pertanto, secondo il Tribunale rimettente sarebbe necessario dichiarare l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, nei termini sopra evidenziati, non solo dell’art. 3 della legge n. 1383 del 1941, ma anche dell’art. 215 cod. pen. mil. pace, visto che la condotta di appropriazione caratterizzata dall’uso momentaneo della cosa posta in essere dal militare della Guardia di Finanza, in assenza dell’art. 3 della legge n. 1383 del 1941, sarebbe comunque attratta nella previsione di cui all’art. 215 cod. pen. mil. pace, così come esso è ancora oggi vigente dopo la dichiarazione di parziale incostituzionalità operata con la sentenza n. 448 del 1991 della Corte costituzionale.
In via subordinata, nell’ipotesi in cui la Corte ritenesse che l’uso momentaneo per fini privati della cosa di cui si dispone per ragioni d’ufficio costituisca una condotta distrattiva e non appropriativa, secondo il rimettente sarebbe sufficiente dichiarare l’illegittimità costituzionale dell'art. 3 della legge n. 1383 del 1941, limitatamente alle parole «o comunque distrae, a profitto proprio o di altri».
L’eventuale accoglimento della questione, secondo il Tribunale di Termini Imerese, determinerebbe, per effetto della disposizione dell’art. 16 cod. pen., l’applicazione delle norme del codice penale comune. Sottraendo l’appropriazione momentanea di cose di cui il militare della Guardia di Finanza dispone per ragioni di servizio alla disciplina dell’art. 3 della legge n. 1383 del 1941 e, gradatamente, dell’art. 215 cod. pen. mil. pace, nonché alla giurisdizione del giudice militare, per ricondurla alla disciplina, più favorevole, dell’art. 314, secondo comma, cod. pen. (ed alla giurisdizione del giudice ordinario), si eliminerebbe l’evidenziata ed ingiustificabile disparità di trattamento.
Con memoria depositata in data 25 febbraio 2008, interveniva nel giudizio di costituzionalità la Presidenza del Consiglio dei ministri, con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, e chiedeva che la questione fosse dichiarata inammissibile per manifesta infondatezza, per l’omesso tentativo da parte del rimettente di offrire una lettura adeguatrice della norma censurata.
Considerato in diritto
1.- Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Termini Imerese dubita, con riferimento all’art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge 9 dicembre 1941, n. 1383 (Militarizzazione del personale civile e salariato in servizio presso la Regia guardia di finanza e disposizioni penali per i militari del suddetto Corpo) nella parte in cui, dopo avere previsto che il militare della Guardia di Finanza il quale «si appropria o comunque distrae, a profitto proprio o di altri, valori o generi di cui egli, per ragioni del suo ufficio o servizio, abbia l’amministrazione o la custodia o su cui esercita la sorveglianza, soggiace alle pene stabilite dagli articoli 215 e 219 del codice penale militare di pace», non prevede che «tale disposizione non si applica quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita».
Il rimettente dubita, inoltre, sempre con riferimento all’art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 215 del codice penale militare di pace nella parte in cui non prevede che «tale disposizione non si applica quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita».
Egli ritiene infatti che, considerando la natura appropriativa della condotta di chi abbia agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa e l’abbia poi restituita, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 3 della legge n. 1383 del 1941, nella parte in cui si riferisce a tale fattispecie, comporterebbe l’attrazione di essa nell’ambito di applicazione dell’art. 215 cod. pen. mil. pace, così come ancora oggi vigente a seguito della dichiarazione di parziale incostituzionalità operata con la sentenza n. 448 del 1991 di questa Corte.
2.- In origine, in entrambi gli ordinamenti penali, quello militare e quello comune, le norme incriminatici del peculato abbracciavano tanto le ipotesi di peculato appropriativo vero e proprio, quanto le ipotesi del peculato per distrazione – ossia quelle caratterizzate dalla utilizzazione della cosa da parte dell’agente in modo difforme dalle finalità per le quali era stata affidata alla sua disponibilità –, sia infine le ipotesi di peculato d’uso, caratterizzate dalla temporanea utilizzazione della cosa da parte dell’agente e dalla sua immediata restituzione. La riforma dei reati contro la pubblica amministrazione, introdotta dalla legge 26 aprile 1990, n. 86 (Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione), nel ridisegnare la disciplina del peculato comune senza apportare le stesse modifiche alla disciplina del peculato militare, ha determinato una alterazione dell’originario equilibrio, realizzando un’oggettiva disparità di trattamento tra le due tipologie di reati, la cui disciplina era in precedenza sostanzialmente omogenea.
Per effetto della legge, infatti, le ipotesi di peculato comune per distrazione sono state espunte dalla sfera di applicazione dell’art. 314 cod. pen., con conseguente parziale riconduzione delle stesse nell’alveo della norma di cui all’art. 323 cod. pen. Contestualmente, è stata attribuita autonoma rilevanza penale al peculato d’uso, disciplinato ora nel secondo comma dell’art. 314 cod. pen., che per tale condotta commina la pena, sensibilmente più mite rispetto a quella prevista per le ipotesi di peculato di cui al primo comma, della reclusione da sei mesi a tre anni.
In tal modo, in ambito di diritto comune, si è riconosciuto un più benevolo trattamento sanzionatorio ad una condotta appropriativa che, per il suo carattere temporaneo, è caratterizzata da un minore grado di offensività rispetto alle ipotesi di appropriazione definitiva. Un’analoga differenziazione non è stata riprodotta nell’ambito dei reati militari oggetto delle odierne censure, per i quali la pena comminata, per tutte le forme di peculato, continua ad essere quella unica della reclusione da due a dieci anni.
Questa Corte, pur senza intervenire sulle norme censurate, per effetto dell’inammissibilità delle questioni sollevate, ha avuto modo più volte di sottolineare la mancanza di ragioni giustificative di una disparità di trattamento, a causa dell’insussistenza di significativi elementi di differenziazione tra il peculato militare, disciplinato dall’art. 215 cod. pen. mil. pace, e il peculato comune.
Con la sentenza n. 4 del 1974 ha affermato che tra i due delitti di peculato sopra indicati sussiste una sostanziale identità, riscontrabile nello stesso testo dei rispettivi articoli, avendo essi in comune l’elemento materiale e l’elemento psicologico ed identici essendo sia il loro contenuto (in entrambi offensivo dello stesso bene che si è voluto proteggere: denaro o cose mobili appartenenti allo Stato), sia l’azione tipica delle due azioni criminose (concretantesi nell’appropriazione o distrazione di beni da parte di soggetti attivi aventi una specifica qualifica).
La successiva sentenza n. 473 del 1990 è intervenuta su una questione di costituzionalità riguardante lo stesso art. 215 cod. pen. mil. pace, con la quale il rimettente, censurando l’intera disciplina sanzionatoria dettata da tale norma, aveva sollecitato l’estensione al peculato militare della pena comminata per il peculato comune. In tale occasione questa Corte ha ribadito la sostanziale omogeneità tra le due fattispecie di peculato, militare e comune, evidenziando la mancanza di peculiarità attinenti alle specifiche esigenze dell’amministrazione militare tali da giustificare la persistente disparità di trattamento. La questione venne tuttavia dichiarata inammissibile, perché l’intervento richiesto in quella circostanza avrebbe determinato una reformatio in peius del peculato militare per le fattispecie diverse da quelle di uso temporaneo, visto che la pena dettata dall’art. 314 cod. pen. è superiore nel minimo rispetto a quella dettata dall’art. 215 cod. pen. mil. pace e avrebbe, inoltre, comportato una grave manipolazione della norma.
Con sentenza n. 448 del 1991, questa Corte, investita della questione di legittimità dell’art. 215 cod. pen. mil. pace, nella parte in cui si riferiva al peculato per distrazione, ne ha dichiarato l’illegittimità parziale, in tal modo sottraendo le condotte distrattive dal raggio di applicazione dell’art. 215 e determinando, in forza del disposto dell’art. 16 cod. pen., l’automatica sussunzione delle condotte medesime nell’ambito del diritto penale comune, con conseguente attribuzione di quelle fattispecie alla giurisdizione ordinaria.
Gli ostacoli che hanno impedito a questa Corte di intervenire nel 1990 sulla citata norma del codice penale militare di pace non insorgono nel caso in esame.
In primo luogo, perché le norme incriminatrici sono censurate solo nella parte in cui si riferiscono al peculato d’uso. Non è ipotizzabile in conseguenza alcun effetto di reformatio in peius.
In secondo luogo, perché la pronuncia invocata dall’odierno rimettente non tende, inammissibilmente, ad ottenere la trasposizione di una sanzione dalla norma incriminatrice di diritto comune, indicata come tertium comparationis, alle due norme applicabili nell’ambito militare, ma mira alla caducazione parziale di due norme incriminatrici speciali.
Entrambe le questioni sono rilevanti per la decisione del giudizio a quo.
La prima questione riguarda la norma incriminatrice delle condotte di peculato della Guardia di Finanza, immediatamente applicabile al giudizio a quo in forza del principio di specialità. La rimozione di tale norma determinerebbe l’inquadramento della fattispecie nell’ambito della previsione generale dell’art. 215 cod. pen. mil. pace, riguardante il peculato militare. Secondo l’interpretazione non implausibile adottata dal rimettente, infatti, con la citata sentenza n. 448 del 1991, relativa al peculato militare per distrazione, questa Corte non avrebbe determinato l’eliminazione del peculato d’uso dalla sfera di operatività della norma, in quanto la condotta tipica di tale ultima figura di reato non sarebbe caratterizzata dalla mera distrazione della cosa dalle finalità per le quali era stata affidata alla disponibilità dell’agente, ma da una vera e propria appropriazione, sia pur temporanea, della stessa. Pertanto, solo la declaratoria di incostituzionalità di entrambe le norme censurate determinerebbe l’invocata applicazione alla fattispecie del più mite trattamento sanzionatorio di cui all’art. 314, cpv., cod. pen. e la conseguente devoluzione della cognizione del reato alla giurisdizione del giudice ordinario.
3.- Nel merito, le sollevate questioni di costituzionalità sono fondate.
Le due norme censurate si riferiscono al peculato d’uso militare e assoggettano tale reato alla stessa pena dettata per il peculato (reclusione da due a dieci anni). La disparità di trattamento rispetto alla disciplina dettata, dopo la legge n. 86 del 1990, per il peculato d’uso comune, di cui all’art. 314, secondo comma, cod. pen., è evidente, perché la riforma ha attribuito a tale condotta autonoma rilevanza penale e l’ha assoggettata a una pena sensibilmente più mite (reclusione da sei mesi a tre anni).
Come già evidenziato da questa Corte nelle sentenze emesse in relazione al reato di cui all’art. 215 cod. pen. mil. pace, ma riferibili, per effetto della loro motivazione, anche al peculato commesso da agente della Guardia di finanza, la descritta disparità di trattamento deve ritenersi priva di ragionevolezza. Le situazioni regolate dalle normative a raffronto, infatti, sono in tutto simili, differenziandosi tra loro unicamente per la qualifica soggettiva del colpevole, ossia l’appartenenza dello stesso all’amministrazione militare.
Orbene, quanto a quest’ultima condizione, non risulta che essa inerisca alle rationes delle norme incriminatici speciali. Non sussistono, cioè, peculiarità relative alle specifiche esigenze dell’amministrazione militare, in grado di giustificare un maggior rigore nel trattamento sanzionatorio del peculato d’uso commesso in ambito militare rispetto all’analoga condotta commessa in altri rami della pubblica amministrazione.
Pertanto, le norme censurate, nel comminare un’unica sanzione penale per tutte le forme di peculato, senza attribuire un autonomo rilievo alla fattispecie del peculato d’uso, che anche in ambito militare presenta, rispetto al peculato vero e proprio, un grado di offensività sensibilmente minore, devono considerarsi entrambe lesive del principio di uguaglianza, di cui all’art. 3 della Costituzione.
Per armonizzare la disciplina del peculato d’uso militare rispetto a quello comune è dunque necessario dichiarare l’illegittimità delle norme censurate nella parte in cui si riferiscono anche al peculato d’uso, secondo la definizione che di tale autonomo reato dà l’art. 314, secondo comma, cod. pen.
La sottrazione di autonoma condotta di reato dal raggio di applicazione delle norme speciali censurate e dalla indifferenziata disciplina sanzionatoria delle diverse forme di peculato da esse dettata determina, in forza del principio di cui all’art. 16 cod. pen., l’attrazione della stessa condotta nell’ambito di applicazione della norma incriminatrice generale di cui all’art. 314, secondo comma, cod. pen., con conseguente eliminazione dell’irragionevole disparità di trattamento.
Ogni altra censura resta assorbita.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 della legge 9 dicembre 1941, n. 1383, nella parte in cui si riferisce al militare della Guardia di finanza che abbia agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa e, dopo l’uso momentaneo, l’abbia immediatamente restituita;
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 215 del codice penale militare di pace nella parte in cui si riferisce anche al militare che abbia agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa e, dopo l’uso momentaneo, l’abbia immediatamente restituita.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Luigi MAZZELLA, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2008.