Sentenza n. 448 del 1991

 

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SENTENZA N. 448

ANNO 1991

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Dott. Aldo CORASANITI                                         Presidente

Prof. Giuseppe BORZELLINO                                   Giudice

Dott. Francesco GRECO                                                 “

Prof. Gabriele PESCATORE                                           “

Avv. Ugo SPAGNOLI                                                    “

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA                               “

Prof. Antonio BALDASSARRE                                     “

Prof. Vincenzo CAIANIELLO                                       “

Avv. Mauro FERRI                                                         “

Prof. Luigi MENGONI                                                    “

Prof. Enzo CHELI                                                           “

Dott. Renato GRANATA                                                “

Prof. Giuliano VASSALLI                                              “

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 215 del codice penale militare di pace, promosso con ordinanza emessa il 26 febbraio 1991 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Palermo nel procedimento penale a carico di Fiorini Egisto ed altri, iscritta al n. 346 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell'anno 1991;

Udito nella camera di consiglio del 6 novembre 1991 il Giudice relatore Ugo Spagnoli;

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di un procedimento penale per fatti nei quali la pubblica accusa ravvisava ipotesi di peculato per distrazione "pura" (uso di somme destinate alla cassa corrente per scopi diversi da quelli prescritti), il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Palermo ha sollevato, in riferimento all'art. 3 Cost., una questione di legittimità costituzionale dell'art. 215 del cod. pen. mil. di pace, limitatamente alla parte in cui prevede la punibilità per chi "distrae a profitto proprio od altrui" denaro o altra cosa mobile appartenente all'Amministrazione militare.

Il giudice rimettente muove dal presupposto dell'intervenuta abolizione, per effetto della legge 26 aprile 1990, n. 86 di riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, dell'ipotesi di peculato per distrazione "pura", sicché la relativa condotta non risulta oggi punibile, per i pubblici ufficiali civili, salvo che rientri nella nuova previsione del peculato d'uso (art. 314, secondo comma, cod. pen., nuovo testo) ovvero in quella residuale dell'abuso d'ufficio. Non essendosi disposto nello stesso modo per il peculato militare, ne risulterebbe un'evidente disparità di trattamento tra due condotte analoghe.

Ad avviso del giudice a quo, ad una pronuncia in tal senso non sarebbe di ostacolo il rilievo - formulato da questa Corte nella sentenza n. 473 del 1990 in riferimento ad analoga censura concernente il peculato d'uso - per cui "durante la fase transitoria (intercorrente tra la dichiarazione di incostituzionalità e l'entrata in vigore di nuove norme in materia la cui emanazione spetta al legislatore) il pubblico ufficiale militare, per l'ipotesi di cui alla prima parte dell'art. 314 c.p. (che poi è quella stessa dell'art. 215 c.p.m.p.), resterebbe esposto all'aumento di un anno del minimo della pena che non sarebbe più, come ora, da due a dieci anni bensì da 3 a dieci anni di reclusione. Effetto peggiorativo che la Corte non può determinare ....". Invero, nel caso di abolizione dell'ipotesi di peculato per distrazione, l'eventuale utilizzo di somme per fini diversi da quelli prestabiliti, da parte del pubblico ufficiale militare, avrebbe le stesse conseguenze previste per l'analoga condotta da parte del pubblico ufficiale civile e, cioè, o la mancanza di qualsiasi responsabilità penale ovvero la minore responsabilità derivante dal reato di abuso di ufficio.

2. - Il Presidente del Consiglio dei ministri non è intervenuto nel giudizio.

 

Considerato in diritto

 

1. - Muovendo dal presupposto che, con le "Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione" introdotte con la legge 26 aprile 1990, n. 86 è stata, tra l'altro, disposta, con l'art. 1, l'abolizione della figura del peculato per distrazione, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale militare di Palermo dubita della legittimità costituzionale dell'art. 215 del codice penale militare di pace, limitatamente all'ipotesi, ivi prevista, del peculato militare per distrazione (ovvero lo distrae a profitto proprio o di altri), sostenendo che la perdurante punibilità delle condotte dei militari in essa incluse comporta, in danno di costoro, una disparità di trattamento rispetto alle analoghe condotte dei pubblici ufficiali civili e contrasta perciò col principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Costituzione.

2. - La questione è fondata.

Va premesso che l'abolizione della figura del peculato per distrazione non ha affatto significato decriminalizzazione di tutte le condotte che nella stessa venivano ricomprese, dato che molte di esse - come emerge dai lavori preparatori della legge n. 86 del 1990 ed è stato rilevato dalla dottrina - rientrano oggi nella nuova e più ampia figura del delitto di abuso d'ufficio introdotta con l'art. 13 di detta legge, che ha sostituito l'art. 323 del codice penale. È noto, infatti, - a prescindere da più sottili precisazioni, che non interessano in questa sede - che sull'individuazione della "distrazione" penalmente rilevante coesistevano due opzioni interpretative: ritenendosi, talora, che vi rientrasse anche la illegittima destinazione della cosa per finalità bensì proprie della pubblica amministrazione ma non corrispondenti a quelle imposte dalla disciplina amministrativa; talaltra, che vi fossero ricompresi solo i casi di destinazione indebita di risorse pubbliche al di fuori dei fini istituzionali dell'ente. In questa seconda ipotesi la "distrazione", in quanto comporta un'illecita utilizzazione dei poteri di ufficio (e quindi un "abuso") e mira a procurare all'agente o a terzi un vantaggio (o un danno) qualificabile come "ingiusto", integra - secondo la più accreditata dottrina - il delitto configurato nel nuovo testo dell'art. 323 cod. pen.: sicché è solo con riguardo alla prima ipotesi, di destinazione interna alle finalità istituzionali dell'ente, che l'abolitio criminis può dirsi verificata.

Sotto altro profilo, poi, i fatti di uso momentaneo della cosa appartenente alla pubblica amministrazione, seguito dalla sua immediata restituzione, che talora venivano qualificati come "distrazione" pur se implicanti una temporanea appropriazione, non hanno perduto rilevanza penale, dato che rientrano nell'ipotesi attenuata di peculato prevista nel secondo comma del novellato art. 314 cod. pen.

3. - Poiché l'ordinanza di rimessione muove da considerazioni analoghe, la questione sollevata s'incentra nella mancata estensione al peculato militare della suesposta delimitazione dell'area della punibilità delle condotte prima rientranti nel peculato comune.

Questa Corte, nella sentenza n. 473 del 1990, ha già ritenuto non essere conforme a razionalità che le modifiche introdotte per il peculato comune con la legge n. 86 del 1990 non siano state estese al peculato militare. E ciò, nella considerazione - già espressa, proprio a proposito del peculato per distrazione, nella sentenza n. 4 del 1974 - della "sostanziale identità della fattispecie di cui all'art. 314 c. p. (vecchio testo) con quella di cui all'art. 215 c.p.m.p.". I due reati, infatti, "hanno in comune l'elemento materiale e l'elemento psicologico. Identico è, infatti, il loro contenuto, in entrambi offensivo dello stesso bene che si è voluto proteggere: denaro e cose mobili appartenenti allo Stato;" identica altresì, la condotta tipica delle due fattispecie criminose, "concretantesi nell'appropriazione o distrazione di beni da parte di soggetti attivi aventi una specifica qualifica (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio e militare incaricato di funzioni amministrative o di comando)". Né una valutazione diversa delle due fattispecie può essere desunta da "particolari ragioni inerenti all'amministrazione militare": anzi, quella del peculato militare è stata dal legislatore considerata meno grave, dato che è per esso comminata una sanzione che, nel minimo "è inferiore di ben un anno a quella prevista per il peculato comune".

Nel caso in esame, d'altra parte, all'omogeneizzazione della disciplina non ostano le ragioni che, in occasione della sentenza n. 473 del 1990, hanno precluso l'accoglimento della questione allora sollevata, concernente la mancata introduzione, anche nell'art. 215 cod. pen. mil. di pace, dell'ipotesi attenuata del peculato d'uso contenuta nel nuovo testo dell'art. 314 cod. pen. La caducazione, in forza della declaratoria di illegittimità costituzionale, della norma incriminatrice speciale del peculato militare per distrazione comporta infatti non un vuoto di disciplina, né una non consentita introduzione di nuove fattispecie incriminatrici, bensì la regolamentazione disposta dall'art. 16 cod. pen., e cioè l'applicazione delle norme del codice penale comune alle materie regolate da leggi penali speciali - quali il codice penale militare di pace - in quanto, come nel caso, non sia da queste (più) stabilito altrimenti. Di conseguenza, le condotte dei militari dianzi punite a titolo di peculato militare per distrazione resteranno punibili se ed in quanto integrino le fattispecie descritte nei novellati artt. 314, secondo comma e 323 cod. pen.; altrimenti, resteranno non punibili al pari delle corrispondenti condotte dei pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio civili, con ciò eliminandosi la denunciata, ingiustificabile disparità di trattamento.

 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 215 del codice penale militare di pace, limitatamente alle parole: "ovvero lo distrae a profitto proprio o di altri".

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 dicembre 1991.

 

Aldo CORASANITI - Giuseppe BORZELLINO - Francesco GRECO - Gabriele PESCATORE - Ugo SPAGNOLI - Francesco Paolo CASAVOLA - Antonio BALDASSARRE - Vincenzo CAIANIELLO - Mauro FERRI - Luigi MENGONI - Enzo CHELI - Renato GRANATA - Giuliano VASSALLI.

 

Depositata in cancelleria il 13 dicembre 1991.