SENTENZA N. 73
ANNO 2020
Commento alla decisione di
Guglielmo Leo
per g.c. di Sistema Penale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Marta CARTABIA;
Giudici: Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, promosso dal Tribunale ordinario di Reggio Calabria, nel procedimento penale a carico di V. M. e V. V., con ordinanza del 29 gennaio 2019, iscritta al n. 121 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito il Giudice relatore Francesco Viganò nella camera di consiglio del 6 aprile 2020, svolta ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 24 marzo 2020, punto 1), lettera a);
deliberato nella camera di consiglio del 7 aprile 2020.
1.– Con ordinanza del 29 gennaio 2019, il Tribunale ordinario di Reggio Calabria ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, primo e terzo comma, e 32 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante del vizio parziale di mente di cui all’art. 89 cod. pen. sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.
1.1.– Il giudice rimettente premette di essere chiamato a giudicare, in sede di giudizio abbreviato, della responsabilità penale di V. M. e V. V., imputati del reato di furto pluriaggravato di cui agli artt. 624, 625, numeri 2) e 7), e 61, numero 5), cod. pen., commesso in concorso tra loro.
A entrambi gli imputati è stata contestata la recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale, in relazione a plurimi precedenti per reati contro il patrimonio, alcuni dei quali commessi anche in epoca relativamente recente.
D’altra parte, dalla perizia psichiatrica disposta dal giudice è emersa per entrambi gli imputati un’infermità mentale tale da scemare grandemente la capacità di intendere e di volere senza, tuttavia, escluderla, essendo state riscontrate «alterazioni psicopatologiche che soddisfano i criteri diagnostici per il Disturbo della Personalità», nonché le «stimmate psicologiche di un Disturbo da Abuso di Sostanze (oppiacei), oggidì in parziale remissione».
Quanto in particolare a V. M., la relazione peritale ha evidenziato «un importante sbilanciamento depressivo dell’asse affettivo e la presenza […] di tratti personologici marcatamente disarmonici», nonché «severe disarmonie dell’organizzazione fondamentale della personalità» che «fanno assumere una connotazione disforica alla sofferenza affettiva e, assai probabilmente, facilitano l’emergere di condotte regressive finalizzate all’ottenimento di immediata gratificazione e prive di adeguata valutazione del rischio che esse comportano»; il tutto in un «quadro di Depressione Persistente».
Quanto a V. V., il perito ha rimarcato un quadro di «disturbo della personalità con tratti misti del primo e del secondo raggruppamento (particolarmente rilevanti i tratti schizotipico, narcisistico, istrionico, antisociale)», unitamente a «povertà dell’empatia» e «insistita convinzione di essere meritevole di particolare considerazione».
Interrogato in udienza sulla rilevanza delle patologie riscontrate rispetto all’eziologia delle condotte contestate, il perito ha aggiunto che tali patologie, pur non apparendo tanto destrutturanti da giustificare un giudizio medico-legale di totale abolizione della capacità di intendere e di volere, incidono «specialmente [su] quelle parti del funzionamento mentale che vengono definite funzioni esecutive, quindi capacità di programmazione, valutazione, valutazione inferenziale, criteri di appropriatezza e di opportunità, pesatura del rischio anche rispetto all’utile personale».
Il rimettente riferisce, infine, che in due occasioni V. V. era stato prosciolto da precedenti imputazioni per vizio totale di mente, mentre in altra circostanza – malgrado la contestazione della recidiva reiterata – il giudice aveva ritenuto prevalente l’attenuante del vizio parziale di mente, applicando la relativa diminuzione di pena. Nei confronti di V. M., poi, era stata riconosciuta in almeno una occasione l’attenuante del vizio parziale di mente, ritenuta equivalente alla contestata recidiva reiterata.
1.2.– Su richiesta del pubblico ministero, alla quale si è associata la difesa degli imputati, il giudice a quo ha sollevato le questioni di legittimità costituzionale sopra formulate, aventi a oggetto in sostanza il divieto – desumibile dall’art. 69, quarto comma, cod. pen. – di prevalenza dell’attenuante del vizio parziale di mente sull’aggravante della recidiva reiterata.
1.3.– Quanto alla rilevanza delle questioni, il rimettente ritiene di non potere, allo stato degli atti, escludere tout court nei confronti di V. M. e V. V. la recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale, così come ad essi contestata.
Entrambi gli imputati hanno infatti plurimi precedenti per reati contro il patrimonio (rapina, furto tentato e consumato, ricettazione, danneggiamento), alcuni dei quali intervenuti anche in epoca relativamente recente e, in ogni caso, nel quinquennio precedente alla commissione del fatto per il quale si procede. Nei confronti di entrambi, d’altronde, in più occasioni è già stata riconosciuta la recidiva (reiterata), ed applicato il relativo aumento di pena.
Osserva il rimettente che «sussist[o]no senz’altro, nel caso di specie, gli indici rivelatori di una relazione qualificata tra i descritti precedenti ed il nuovo illecito, per il quale si procede (il furto in concorso di due pluviali in rame), trattandosi di reati della stessa indole, omogenei dal punto di vista del bene giuridico offeso, posti in essere nel tempo, senza che possa ravvisarsi una qualche soluzione di continuità nella perpetrazione di condotte antigiuridiche da parte di entrambi gli imputati».
Il giudice a quo ritiene pertanto, in accordo con l’orientamento espresso in materia dalla giurisprudenza costituzionale (è citata la sentenza n. 192 del 2007) e di legittimità (sono citate le sentenze della Corte di cassazione, sezioni unite penali, 27 maggio-5 ottobre 2010, n. 35738, e 24 febbraio-24 maggio 2011, n. 20798), che nel caso di specie la reiterazione dell’illecito, «al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali», sia effettivo sintomo tanto di una maggiore colpevolezza, quanto di una più elevata capacità a delinquere dei due imputati.
Ed invero, accanto ad una più accentuata pericolosità sociale, i numerosi precedenti specifici, posti in essere con analoghe modalità, lascerebbero emergere una «peculiare insensibilità degli imputati nei confronti delle condanne precedentemente riportate e dell’implicito monito a non violare più la legge, in esse contenuto, comportando un maggiore addebito anche in termini di rimproverabilità soggettiva».
D’altra parte, le patologie mentali riscontrate in sede di perizia sembrerebbero aver avuto un sicuro rilievo nella genesi delle condotte delittuose poste in essere dai due imputati.
Ad avviso del rimettente, tuttavia, la ridotta capacità di intendere e di volere degli imputati al momento del fatto non potrebbe valere ad escludere tout court l’applicabilità della recidiva reiterata nei loro confronti. Una tale soluzione presupporrebbe infatti l’impossibilità di «muovere nei loro riguardi un addebito di maggiore rimproverabilità soggettiva», e dunque l’affermazione che le patologie riscontrate negli imputati abbiano avuto «un valore tanto determinante nella genesi del reato da escludere che, nel caso di specie, gli stessi potessero essere sufficientemente sensibilizzati e motivati dai moniti provenienti dalle condanne riportate in precedenza». Il che, secondo il giudice a quo, non potrebbe essere sostenuto nel caso di specie.
Tanto più che – osserva il rimettente – la soluzione di un’automatica non applicazione della recidiva nei confronti di imputati affetti da patologie mentali che ne riducano la capacità di intendere e di volere finirebbe per sovrapporre indebitamente due piani diversi nella struttura stessa del reato. L’attenuante del vizio parziale di mente atterrebbe infatti «al piano dell’imputabilità, che della colpevolezza […] è un presupposto, senza confondersi con essa», concernendo più precisamente la possibilità del soggetto di essere motivato, «almeno in parte e secondo criteri di normalità psico-fisica», dalle norme di divieto. Di talché, «[a]nche laddove si riconosca un ruolo decisivo nell’eziologia del reato alla condizione di seminfermità mentale […], ben diverso può essere, nel caso concreto, l’addebito in termini di colpevolezza nei confronti di un soggetto parzialmente incapace (e quindi, parzialmente capace) che abbia nel passato, anche recente, commesso plurimi reati della stessa specie di quello per cui si procede, rispetto a quello inerente un soggetto, parimenti seminfermo, a carico del quale non vi siano precedenti o vi siano precedenti non altrettanto significativi». La stessa giurisprudenza di legittimità avallerebbe, del resto, tale impostazione, escludendo ogni incompatibilità in linea di principio tra vizio parziale di mente e recidiva (è citata Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 9 giugno-28 settembre 2010, n. 35006).
La compatibilità in linea di principio tra vizio parziale di mente e recidiva, peraltro, non escluderebbe di per sé la possibilità di ritenere quest’ultima subvalente nel caso concreto, laddove un tale esito non fosse precluso dalla disposizione censurata.
Dal che la rilevanza delle questioni prospettate.
1.4.– Quanto alla non manifesta infondatezza di tali questioni, rileva il rimettente che l’applicazione dell’automatismo di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen. condurrebbe ad individuare la pena, al più, entro la cornice edittale prevista dall’art. 624 cod. pen., restando esclusa la possibilità di adeguarla all’effettiva gravità del fatto e alle particolari condizioni personali degli imputati, attraverso il riconoscimento (precluso dalla norma censurata) della prevalenza dell’attenuante del vizio parziale di mente rispetto alla recidiva reiterata.
Il giudice a quo sottolinea, invero, che la giurisprudenza di questa Corte riconosce la legittimità costituzionale di deroghe al regime ordinario del bilanciamento tra circostanze; ma evidenzia che – secondo la medesima giurisprudenza – tali deroghe non devono trasmodare «nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio» (è citata la sentenza n. 68 del 2012), né possono «giungere a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale» (è citata la sentenza n. 251 del 2012).
Il rimettente richiama, quindi, le ormai numerose pronunce di questa Corte che hanno dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen. in relazione a specifiche circostanze attenuanti, evidenziando come tali pronunce si siano sinora sempre riferite ad attenuanti a effetto speciale e di natura oggettiva, espressive di «un forte scarto nell’offensività della condotta delittuosa» ovvero, nel caso dell’attenuante di cui all’art. 73, comma 7, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), connesse al ravvedimento post delictum del reo. A parte quest’ultimo caso, tutte le restanti pronunce hanno valorizzato il principio di offensività e la connessa prospettiva di un “diritto penale del fatto”, la quale escluderebbe che aspetti relativi alla maggiore colpevolezza o pericolosità dell’agente «possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo» (è citata, ancora, la sentenza n. 251 del 2012).
Cionondimeno, il divieto di prevalenza della circostanza – a effetto comune, e di natura soggettiva – del vizio parziale di mente appare al giudice a quo anch’esso di dubbia compatibilità con i principi di ragionevolezza, personalità della responsabilità penale e proporzionalità della pena, di cui agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost.
L’effetto comune dell’attenuante che viene qui in rilievo non sarebbe, anzitutto, preclusivo dell’esame delle questioni, posto che l’irragionevolezza di un «vaglio individualizzante della responsabilità del singolo individuo», adeguatamente riflesso dalla misura della pena, resterebbe tale – ove sussistente – indipendentemente dalla «più o meno ampia distanza quoad poenam, rispetto al tipo base», che il riconoscimento dell’attenuante comporta.
Osserva, d’altra parte, il rimettente che le «circostanze inerenti la persona del colpevole», tra le quali si iscrive il vizio parziale di mente, hanno sempre goduto di un particolare status nell’impianto del codice penale, che – nella sua versione originaria, anteriore alla novella del decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale) – le sottraeva in radice al bilanciamento con le circostanze aggravanti.
L’impossibilità, oggi, di graduare il trattamento sanzionatorio rispetto ai disturbi della personalità dell’agente si tradurrebbe, allora, in una violazione dei principi di ragionevolezza e individualizzazione della pena, nonché nel mancato rispetto della finalità rieducativa della pena, che implica la necessaria proporzionalità della pena rispetto alla «concreta gravità del fatto, nonché alla personalità e colpevolezza dell’autore, tale da poter costituire il punto di partenza di un legittimo – ed auspicabilmente proficuo – percorso rieducativo».
Infine, la disposizione censurata violerebbe altresì l’art. 32 Cost., dal momento che il soggetto semi-imputabile per vizio di mente dovrebbe ricevere dall’ordinamento una «risposta alla commissione di un fatto reato che sia non solo funzionale alla rieducazione ma, anche e soprattutto, improntata alla tutela della [sua] salute».
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili e, comunque, infondate.
2.1.– Esse sarebbero, anzitutto, irrilevanti per insufficiente descrizione della fattispecie oggetto del giudizio.
Come osservato da questa Corte nella sentenza n. 120 del 2017 e nella successiva ordinanza n. 145 del 2018, l’applicazione della recidiva presuppone che il giudice verifichi in concreto se la reiterazione dell’illecito sia sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore. Una simile verifica, però, non sarebbe stata compiutamente svolta dal giudice a quo, il quale non avrebbe adeguatamente motivato se gli imputati avessero avuto «piena capacità di recepire il messaggio specialpreventivo» derivante dalle precedenti condanne pronunciate nei loro confronti.
2.2.– Nel merito, le questioni sarebbero infondate.
L’Avvocatura generale dello Stato rammenta in proposito che la giurisprudenza costituzionale ha «più volte censurato l’art. 69 c. 4 c.p. in esame, senza negarne però radicalmente la compatibilità costituzionale, ma sempre verificando, caso per caso, se la presunzione assoluta sottesa al divieto di prevalenza fosse giustificata in rapporto alle specifiche attenuanti volta a volta in esame; lasciando così impregiudicata la possibilità astratta che la condizione personale di recidiva reiterata, nell’economia complessiva di ciascun concreto episodio di reato, abbia un peso tale da giustificare l’eliminazione iuris et de iure degli effetti diminuenti delle particolari circostanze attenuanti con cui essa viene a concorrere».
Nel caso in esame, il divieto di prevalenza troverebbe giustificazione anche in considerazione della modesta incidenza dell’attenuante in questione sul trattamento sanzionatorio complessivo, non potendo comunque tale divieto essere considerato manifestamente irragionevole o arbitrario.
La disposizione censurata, inoltre, non contrasterebbe con il principio di personalità della responsabilità penale né con la finalità rieducativa della pena, che non si opporrebbero di per sé a inasprimenti del trattamento sanzionatorio connessi alla recidiva dell’imputato. Il legislatore avrebbe qui «inteso sanzionare il fenomeno della recidiva reiterata […] in quanto il fatto stesso della persistenza nelle condotte antisociali, quali che esse siano, dimostra che la funzione rieducativa non ha potuto efficacemente esplicarsi nei confronti del soggetto, e quindi è necessario assicurare la possibilità (quantomeno escludendo la prevalenza di determinate attenuanti) che, attraverso l’applicazione della pena, tale funzione trovi una nuova occasione di svolgimento».
Si tratterebbe, in conclusione, di una scelta discrezionale del legislatore, immune dalle censure formulate dal giudice rimettente.
Dovrebbe infine escludersi ogni profilo di contrasto con l’art. 32 Cost., dal momento che «[l]’impossibilità di far prevalere la seminfermità mentale sulla recidiva reiterata […] incide soltanto quoad poenam» e non «sul diritto alla salute dell’imputato che ben può essere tutelato mediante la sottoposizione alla misura di sicurezza del ricovero nella casa di cura o di custodia».
1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale ordinario di Reggio Calabria ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, primo e terzo comma, e 32 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante del vizio parziale di mente di cui all’art. 89 cod. pen. sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.
In sostanza, la disposizione censurata impedirebbe al giudice di determinare una pena proporzionata rispetto alla concreta gravità del reato, e pertanto adeguata al grado di responsabilità “personale” del suo autore, non consentendo di tenere adeguatamente conto – attraverso il riconoscimento della prevalenza dell’attenuante del vizio parziale di mente rispetto all’aggravante della recidiva reiterata – della minore possibilità di essere motivato dalle norme di divieto da parte di chi risulti affetto da patologie o disturbi della personalità che, seppur non escludendola del tutto, diminuiscano grandemente la sua capacità di intendere e di volere.
Secondo il giudice rimettente, la disposizione censurata violerebbe altresì l’art. 32 Cost., non consentendo al giudice di determinare una pena funzionale non solo alla rieducazione del condannato, ma anche alla tutela della sua salute.
2.– La disposizione censurata, nella versione attualmente in vigore, è – come è noto – il frutto di una duplice stratificazione normativa rispetto al testo originario del codice penale.
Nella versione del 1930, l’art. 69, quarto comma, cod. pen. sottraeva tout court alle regole sul bilanciamento enunciate nei commi precedenti le «circostanze inerenti alla persona del colpevole» e «qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato». L’art. 70, secondo comma, cod. pen. disponeva poi – e tuttora dispone – che per «circostanze inerenti alla persona del colpevole» si intendono quelle riguardanti l’imputabilità e la recidiva. Il legislatore intendeva, in tal modo, assicurare che il giudice fosse in ogni caso tenuto ad applicare separatamente le diminuzioni (o gli aggravamenti) di pena correlati alla capacità di intendere e di volere, tra i quali la diminuzione di cui all’art. 89 cod. pen. in questa sede in discussione, così come gli aggravamenti di pena dipendenti dalla recidiva.
Il quarto comma dell’art. 69 cod. pen. fu modificato una prima volta a mezzo del decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito, con modificazioni, nella legge 7 giugno 1974, n. 220, che estese il meccanismo del bilanciamento disciplinato nei commi precedenti a tutte le circostanze, comprese quelle inerenti alla persona del colpevole: conferendo così al giudice il potere di applicare, o non applicare, i relativi aumenti o diminuzioni di pena, in presenza di circostanze di segno contrario, ritenute equivalenti o prevalenti.
Infine, la legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione) modificò nuovamente la disposizione, introducendo il divieto di prevalenza di qualsiasi circostanza attenuante, inclusa la diminuente del vizio parziale di mente, nell’ipotesi – tra l’altro – di recidiva reiterata; precludendo così in modo assoluto al giudice di applicare, in tal caso, la relativa diminuzione di pena.
Come meglio si dirà più innanzi (infra, 4.1.), il testo risultante dalla legge n. 251 del 2005 è stato già oggetto di numerose dichiarazioni di illegittimità costituzionale, che hanno restaurato il potere discrezionale del giudice di ritenere prevalenti, rispetto alla recidiva reiterata, varie circostanze attenuanti nominativamente individuate. Le odierne questioni di legittimità costituzionale mirano a ripristinare tale potere discrezionale anche con riferimento alla circostanza attenuante del vizio parziale di mente.
3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per insufficiente descrizione della fattispecie oggetto del giudizio, non avendo in particolare il rimettente chiarito se gli imputati avessero avuto «piena capacità di recepire il messaggio specialpreventivo» derivante dalle precedenti condanne, e dunque se fosse giustificata nei loro confronti l’applicazione della recidiva.
L’eccezione non è fondata.
È ben vero che l’applicazione della recidiva, come da tempo chiarito dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, in tanto si giustifica in quanto il nuovo delitto, commesso da chi sia già stato condannato per precedenti delitti non colposi, sia in concreto espressivo non solo di una maggiore pericolosità criminale, ma anche di un maggior grado di colpevolezza, legato alla maggiore rimproverabilità della decisione di violare la legge penale nonostante l’ammonimento individuale scaturente dalle precedenti condanne (sentenza n. 192 del 2007 e poi, ex plurimis, sentenza n. 185 del 2015; Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 maggio-5 ottobre 2010, n. 35738, nonché, inter alia, sezione sesta penale, sentenza 28 giugno-5 agosto 2016, n. 34670); maggiore rimproverabilità che non può essere presunta in via generale sulla base del solo fatto delle precedenti condanne, dovendo – ad esempio – essere esclusa allorché il nuovo delitto sia stato commesso dopo un lungo lasso di tempo dal precedente, o allorché abbia caratteristiche affatto diverse.
Ed è ben vero, altresì, che questa Corte, con la sentenza n. 120 del 2017 e poi con l’ordinanza n. 145 del 2018, ha ritenuto irrilevanti questioni analoghe a quella ora all’esame, non avendo i giudici rimettenti, in quelle occasioni, chiarito le ragioni per le quali avevano ritenuto applicabile la recidiva, sotto il profilo specifico della maggiore colpevolezza rivelata dalla decisione di commettere il delitto, nonostante il contestuale riconoscimento della presenza nel reo di gravi patologie o disturbi della personalità, che necessariamente anch’essi incidevano – ma in direzione opposta rispetto alla ritenuta recidiva – sul grado della sua colpevolezza.
Tuttavia, in questo caso il giudice a quo motiva ampiamente sulle ragioni per le quali, a suo avviso, gli imputati non potevano non essere consapevoli dell’ammonimento rappresentato dalle numerose condanne pronunciate nei loro confronti, talune delle quali in epoca molto recente, per reati omogenei a quello per il quale sono ora rinviati a giudizio; ciò che dimostrerebbe la loro peculiare (e specialmente riprovevole) insensibilità nei confronti della legge penale, e assieme giustificherebbe l’applicazione nei loro confronti dell’aggravante di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. L’applicazione della recidiva – sempre ad avviso del rimettente – non contrasterebbe peraltro con il contestuale riconoscimento in loro favore di un vizio parziale di mente tale da scemare grandemente in loro la capacità di intendere e di volere, e tale in particolare da ridurre la loro capacità di orientare la condotta secondo criteri di «appropriatezza e di opportunità», oltre che di «pesatura del rischio». Le due valutazioni si collocherebbero, in effetti, su piani differenti, non risultando comunque mutualmente escludentisi. Dopodiché il giudice potrebbe e dovrebbe comunque “pesare” entrambi questi dati ai fini della valutazione della gravità del reato, e della conseguente determinazione di un trattamento sanzionatorio effettivamente proporzionato e calibrato sulla personalità dei suoi autori. Operazione, quest’ultima, che sarebbe però irragionevolmente preclusa dal divieto di prevalenza dell’attenuante del vizio parziale di mente, contenuto nella disposizione censurata; con conseguente rilevanza delle questioni di legittimità formulate.
Così sinteticamente riassunta, la linea argomentativa del giudice a quo in punto di rilevanza appare a questa Corte senz’altro plausibile, al di là della condivisibilità o meno, sul piano teorico, della (notoriamente controversa) ricostruzione dell’imputabilità come mero presupposto del giudizio di colpevolezza, ovvero come elemento costitutivo di tale categoria dogmatica.
Ciò basta per ritenere ammissibili le questioni prospettate (ex multis, sentenza n. 250 del 2018).
4.– Nel merito, le questioni sollevate con riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., che devono qui essere esaminate congiuntamente, sono fondate.
4.1.– Questa Corte ha più volte affermato che deroghe al regime ordinario del bilanciamento tra circostanze, come disciplinato in via generale dall’art. 69 cod. pen., sono costituzionalmente ammissibili e rientrano nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore, risultando sindacabili soltanto ove «trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio» (sentenza n. 68 del 2012; in senso conforme, sentenza n. 88 del 2019), non potendo però giungere in alcun caso «a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti sulla strutturazione della responsabilità penale» (sentenza n. 251 del 2012).
Sulla base di tali criteri, questa Corte ha già dichiarato in varie occasioni l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza di altrettante circostanze attenuanti particolarmente significative ai fini della determinazione della gravità concreta del reato. Nella maggior parte dei casi, come correttamente evidenzia il rimettente, si è trattato di circostanze espressive di un minor disvalore del fatto dal punto di vista della sua dimensione offensiva: così la «lieve entità» nel delitto di produzione e traffico illecito di stupefacenti (sentenza n. 251 del 2012), i casi di «particolare tenuità» nel delitto di ricettazione (sentenza n. 105 del 2014), i casi di «minore gravità» nel delitto di violenza sessuale (sentenza n. 106 del 2014), il «danno patrimoniale di speciale tenuità» nei delitti di bancarotta e ricorso abusivo al credito (sentenza n. 205 del 2017). Nella sola sentenza n. 74 del 2016, la dichiarazione di illegittimità ha invece colpito il divieto di prevalenza di una circostanza – l’essersi il reo adoperato per evitare che il delitto di produzione e traffico di stupefacenti sia portato a conseguenze ulteriori – che mira invece a premiare l’imputato per la propria condotta post delictum; circostanza che è stata comunque ritenuta «significativa, anche perché comporta il distacco dell’autore del reato dall’ambiente criminale nel quale la sua attività in materia di stupefacenti era inserita e trovava alimento, e lo espone non di rado a pericolose ritorsioni, determinando così una situazione di fatto tale da indurre in molti casi un cambiamento di vita».
4.2.– Le questioni ora sottoposte all’attenzione di questa Corte concernono una circostanza attenuante espressiva non già – sul piano oggettivo – di una minore offensività del fatto rispetto agli interessi protetti dalla norma penale, né di una finalità premiale rispetto a condotte post delictum, quanto piuttosto della ridotta rimproverabilità soggettiva dell’autore; ridotta rimproverabilità che deriva, qui, dal suo minore grado di discernimento circa il disvalore della propria condotta e dalla sua minore capacità di controllo dei propri impulsi, in ragione delle patologie o disturbi che lo affliggono (e che devono essere tali, per espressa indicazione legislativa, da «scemare grandemente» la sua capacità di intendere e di volere: art. 89 cod. pen.).
Ora, il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del reato, da tempo affermato da questa Corte sulla base di una lettura congiunta degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. (a partire almeno dalla sentenza n. 343 del 1993; in senso conforme, ex multis, sentenze n. 40 del 2019, n. 233 del 2018, n. 236 del 2016), esige in via generale che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo (sentenza n. 222 del 2018). E il quantum di disvalore soggettivo dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volontà criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile.
Tra tali fattori si colloca, in posizione eminente, proprio la presenza di patologie o disturbi significativi della personalità (così come definiti da Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 25 gennaio-8 marzo 2005, n. 9163), come quelli che la scienza medico-forense stima idonei a diminuire, pur senza escluderla totalmente, la capacità di intendere e di volere dell’autore del reato. In tali ipotesi, l’autore può sì essere punito per aver commesso un reato che avrebbe pur sempre potuto – secondo la valutazione dell’ordinamento – evitare, attraverso un maggiore sforzo della volontà; ma al tempo stesso merita una punizione meno severa rispetto a quella applicabile nei confronti di chi si sia determinato a compiere una condotta identica, in condizioni di normalità psichica.
Il principio di proporzionalità della pena desumibile dagli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. esige insomma, in via generale, che al minor grado di rimproverabilità soggettiva corrisponda una pena inferiore rispetto a quella che sarebbe applicabile a parità di disvalore oggettivo del fatto, «in modo da assicurare altresì che la pena appaia una risposta – oltre che non sproporzionata – il più possibile “individualizzata”, e dunque calibrata sulla situazione del singolo condannato, in attuazione del mandato costituzionale di “personalità” della responsabilità penale di cui all’art. 27, primo comma, Cost.» (sentenza n. 222 del 2018).
4.3.– La disciplina censurata in questa sede vieta in modo assoluto al giudice di ritenere prevalente la circostanza attenuante del vizio parziale di mente in presenza dello specifico indicatore di maggiore colpevolezza (e maggiore pericolosità) del reo rappresentato dalla recidiva reiterata; laddove tale maggiore colpevolezza si fonda, a sua volta, sull’assunto secondo cui normalmente merita un maggiore rimprovero chi non rinuncia alla commissione di nuovi reati, pur essendo già stato destinatario di un ammonimento individualizzato sul proprio dovere di rispettare la legge penale, indirizzatogli con le precedenti condanne.
Nonostante il carattere facoltativo dell’aggravante, un tale inderogabile divieto di prevalenza non può essere ritenuto compatibile con l’esigenza, di rango costituzionale, di determinazione di una pena proporzionata e calibrata sull’effettiva personalità del reo, esigenza che deve essere considerata espressiva – con le parole della sentenza n. 251 del 2012 – di precisi «equilibri costituzionalmente imposti sulla strutturazione della responsabilità penale». Tale divieto, infatti, non consente al giudice di stabilire, nei confronti del semi-infermo di mente, una pena inferiore a quella che dovrebbe essere inflitta per un reato di pari gravità oggettiva, ma commesso da una persona che abbia agito in condizioni di normalità psichica, e pertanto pienamente capace – al momento del fatto – di rispondere all’ammonimento lanciato dall’ordinamento, rinunciando alla commissione del reato. E ciò anche laddove il giudice – come nel caso del giudizio a quo – ritenga che le patologie o i disturbi riscontrati nel reo abbiano inciso a tal punto sulla sua personalità, da rendergli assai più difficile la decisione di astenersi dalla commissione di nuovi reati, nonostante l’ammonimento lanciatogli con le precedenti condanne.
Il divieto in esame d’altra parte comporta una indebita parificazione sotto il profilo sanzionatorio di fatti di disvalore essenzialmente diverso, in ragione del diverso grado di rimproverabilità soggettiva che li connota: con un risultato che la giurisprudenza di questa Corte ha da tempi ormai risalenti considerato di per sé contrario all’art. 3 Cost. (sentenza n. 26 del 1979), prima ancora che alla finalità rieducativa e all’esigenza di “personalizzazione” della pena.
Non osta a tale conclusione la natura di circostanza a effetto comune dell’attenuante di cui all’art. 89 cod. pen., che determina – ai sensi dell’art. 65 cod. pen. – la diminuzione fino a un terzo della pena che dovrebbe essere altrimenti inflitta. A prescindere dalla considerazione che l’entità concreta della diminuzione di pena dipende ovviamente dall’entità della pena base – ben potendo tale diminuzione tradursi, rispetto ai delitti più gravi, in vari anni di reclusione in meno –, va infatti ribadito che la circostanza attenuante in parola mira ad adeguare il quantum del trattamento sanzionatorio alla significativa riduzione della rimproverabilità soggettiva dell’agente, ed è pertanto riconducibile a un connotato di sistema di un diritto penale “costituzionalmente orientato”, così come ricostruito dalla giurisprudenza di questa Corte: giurisprudenza che – dalla sentenza n. 364 del 1988 in poi – individua nella rimproverabilità soggettiva un presupposto essenziale dell’an dell’imputazione del fatto al suo autore, e conseguentemente dell’applicazione della pena nei suoi confronti.
4.4.– La conclusione appena raggiunta non comporta il sacrificio delle esigenze di tutela della collettività contro l’accentuata pericolosità sociale espressa dal recidivo reiterato.
Se infatti è indubbio che il quantum della pena debba adeguatamente riflettere il grado di rimproverabilità soggettiva dell’agente, cionondimeno il diritto vigente consente, nei confronti di chi sia stato condannato a una pena diminuita in ragione della sua infermità psichica, l’applicazione di una misura di sicurezza, da individuarsi secondo i criteri oggi indicati dall’art. 3-ter, comma 4, del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211 (Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri), convertito, con modificazioni, nella legge 17 febbraio 2012, n. 9. La misura di sicurezza, non avendo alcun connotato “punitivo”, non è subordinata alla rimproverabilità soggettiva del suo destinatario, bensì alla sua persistente pericolosità sociale, che deve peraltro, ai sensi dell’art. 679 del codice di procedura penale, essere oggetto di vaglio caso per caso da parte del magistrato di sorveglianza una volta che la pena sia stata scontata (sentenze n. 1102 del 1988 e n. 249 del 1983). D’altra parte, la misura di sicurezza dovrebbe auspicabilmente essere conformata in modo da assicurare, assieme, un efficace contenimento della pericolosità sociale del condannato e adeguati trattamenti delle patologie o disturbi di cui è affetto (secondo il medesimo principio espresso dalla sentenza n. 253 del 2003, in relazione al soggetto totalmente infermo di mente), nonché fattivo sostegno rispetto alla finalità del suo «riadattamento alla vita sociale» – obiettivo quest’ultimo che, come recentemente rammentato dalla sentenza n. 24 del 2020, il legislatore espressamente ascrive alla libertà vigilata (art. 228, quarto comma, cod. pen.), ma che riflette un principio certamente estensibile, nell’attuale quadro costituzionale, alla generalità delle misure di sicurezza.
Una razionale sinergia tra pene e misure di sicurezza – purtroppo solo in minima parte realizzata nella prassi – potrebbe così consentire un’adeguata prevenzione del rischio di commissione di nuovi reati da parte del condannato affetto da vizio parziale di mente, senza indebite forzature della fisionomia costituzionale della pena, intesa come reazione proporzionata dell’ordinamento a un fatto di reato (oggettivamente) offensivo e (soggettivamente) rimproverabile al suo autore.
5.– Resta assorbita la questione formulata in riferimento all’art. 32 Cost.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 89 cod. pen. sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 aprile 2020.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Francesco VIGANÒ, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2020.