Sentenza n. 250 del 2018

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SENTENZA N. 250

ANNO 2018

 

 REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-      Giorgio                       LATTANZI                                       Presidente

-      Aldo                           CAROSI                                            Giudice

-      Marta                          CARTABIA                                              ”

-      Mario Rosario             MORELLI                                                 ”

-      Giancarlo                    CORAGGIO                                             ”

-      Giuliano                      AMATO                                                    ”

-      Silvana                        SCIARRA                                                 ”

-      Daria                           de PRETIS                                                 ”

-      Nicolò                         ZANON                                                     ”

-      Franco                         MODUGNO                                              ”

-      Augusto Antonio        BARBERA                                                ”

-      Giulio                          PROSPERETTI                                         ”

-      Giovanni                     AMOROSO                                               ”

-      Francesco                    VIGANÒ                                                   ”

-      Luca                            ANTONINI                                               ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 231, secondo comma, del codice penale, e degli artt. 676, comma 1, e 679, comma 1, del codice di procedura penale, promosso dal Magistrato di sorveglianza di Napoli nel procedimento penale a carico di P. V., con ordinanza del 2 maggio 2017, iscritta al n. 116 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 21 novembre 2018 il Giudice relatore Giovanni Amoroso.

Ritenuto in fatto

1.− Il Magistrato di sorveglianza di Napoli, con ordinanza del 2 maggio 2017, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo e secondo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 231, secondo comma, del codice penale, «alla luce del disposto» degli artt. 676, comma 1, e 679, comma 1, del codice di procedura penale, «nella parte in cui, in caso di trasgressioni degli obblighi imposti dalla libertà vigilata, non consente al magistrato di sorveglianza di applicare la misura di sicurezza patrimoniale della confisca imponendo, invece, l’applicazione della misura di sicurezza detentiva con assegnazione a una casa di lavoro o ad una colonia agricola».

Il giudice rimettente riferisce di dover decidere, ai sensi dell’art. 231, secondo comma, cod. pen., sulla richiesta di aggravamento per trasgressione delle prescrizioni imposte con la misura di sicurezza della libertà vigilata, nei confronti di V. P., al quale il Magistrato di sorveglianza di Spoleto, con ordinanza del 24 febbraio 2015, aveva applicato la predetta misura di sicurezza per anni tre.

In particolare, il rimettente dà atto che dall’espletata istruttoria è emerso che V. P. ha numerosi precedenti penali per il reato di detenzione illegale di armi e munizioni (commesso nel 1991 e nel 1998), di appropriazione indebita (nel 1990), di ricettazione (nel 1991) e di associazione per delinquere di cui all’art. 416-bis cod. pen. (dal 1994 al 2008) e che, dalle informative agli atti, sono risultate reiterate violazioni della misura di sicurezza della libertà vigilata. In più occasioni, infatti, egli non ha ottemperato all’obbligo di firma, fornendo certificazioni mediche non comprovate, e più volte è stato trovato, in occasione del controllo, in compagnia di pregiudicati.

Riferisce, altresì, che a seguito delle molteplici violazioni V. P. è stato diffidato al puntuale rispetto delle prescrizioni sia in data 18 settembre 2015, che in data 2 dicembre 2015.

Il rimettente, inoltre, dà atto che, nel procedimento per l’aggravamento, la difesa di V. P. ha chiesto l’applicazione della misura di sicurezza patrimoniale della confisca, anzichè della misura di sicurezza detentiva dell’assegnazione alla casa di lavoro.

Il giudice a quo osserva come tale richiesta, volta a evitare l’applicazione della misura di sicurezza detentiva, non possa trovare accoglimento alla luce della normativa vigente, atteso che il magistrato di sorveglianza ha competenza sulle misure di sicurezza ad esclusione della sola confisca.

2.− Tutto ciò premesso, il giudice rimettente ritiene che il combinato disposto delle norme censurate sia in contrasto con gli indicati parametri costituzionali.

In particolare, gli artt. 231 cod. pen., 676 e 679 cod. proc. pen. – «nella parte in cui non consentono l’applicazione della misura di sicurezza patrimoniale della confisca in sede di aggravamento della misura di sicurezza personale della libertà vigilata, imponendo l’applicazione della misura di sicurezza detentiva della casa di lavoro o della colonia agricola, per carenza di competenza» del magistrato di sorveglianza – violerebbero l’art. 3 Cost., in quanto sarebbe «irragionevole un sistema penal-processual-penitenziario, in cui il magistrato di sorveglianza si ritrova ad aver competenza su tutte le misure di sicurezza detentive e non detentive, personali e patrimoniali, eccetto la confisca», attribuita alla competenza del giudice dell’esecuzione; l’art. 13, primo e secondo comma, Cost., in quanto «il rigido “automatismo” della regola legale […], nel caso di trasgressione degli obblighi della libertà vigilata» impone di applicare la misura detentiva (assegnazione a una colonia agricola o a una casa di lavoro), anziché la meno grave misura di sicurezza della confisca, si porrebbe in contrasto con l’esigenza del «“minore sacrificio necessario”» della libertà personale; e infine, l’art 24, secondo comma, Cost., sotto il profilo del diritto di difesa, «alla luce della inutilità di azionare qualunque strumento difensivo quanto alla individuazione della misura di sicurezza da applicare, una volta attualizzata la pericolosità sociale a seguito della gravità della trasgressione commessa».

3.− L’Avvocatura generale dello Stato, in rappresentanza e difesa dell’intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri, ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità delle questioni, in quanto il rimettente non avrebbe sufficientemente descritto la fattispecie concreta e non avrebbe adeguatamente motivato la loro rilevanza.

Nel merito, le questioni sarebbero non fondate, perché l’art. 231 cod. pen. prevede una reazione graduata dell’ordinamento alla violazione della misura della libertà vigilata, conferendo al magistrato di sorveglianza la facoltà, in particolare, di aggiungere una cauzione alla misura stessa, per assicurarne il rispetto.

Considerato in diritto

1.− Il Magistrato di sorveglianza di Napoli, con ordinanza del 2 maggio 2017, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo e secondo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 231, secondo comma, del codice penale, «alla luce del disposto» degli artt. 676, comma 1, e 679, comma 1, del codice di procedura penale, «nella parte in cui, in caso di trasgressioni degli obblighi imposti dalla libertà vigilata, non consente al magistrato di sorveglianza di applicare la misura di sicurezza patrimoniale della confisca imponendo, invece, l’applicazione della misura di sicurezza detentiva con assegnazione a una casa di lavoro o ad una colonia agricola».

Deve egli decidere, ai sensi dell’art. 231, secondo comma, cod. pen., sulla richiesta di aggravamento della misura della libertà vigilata a causa delle ripetute trasgressioni delle prescrizioni poste con il provvedimento di assoggettamento a essa.

Riferisce il giudice rimettente che il difensore del sottoposto alla misura ha chiesto che la sua sostituzione con altra misura più grave avvenga, ex art. 231, secondo comma, cod. pen., mediante l’applicazione della confisca – il cui oggetto, peraltro, non risulta precisato – piuttosto che con l’assegnazione alla casa di lavoro o alla colonia agricola.

Ritiene il giudice che, integrando le contestate ripetute violazioni un caso di «particolare gravità della trasgressione», quale previsto dal secondo comma del citato art. 231, l’aggravamento della misura non potrebbe consistere altro che nella sostituzione della libertà vigilata con l’assegnazione a una casa di lavoro o a una colonia agricola, ossia con una misura di privazione della libertà personale. Da ciò, la sostanziale «obbligatorietà del ricorso a misure detentive» che «appare del tutto sproporzionata e non giustificabile».

Il rimettente dubita della legittimità costituzionale di tale asserita rigidità dell’art. 231, secondo comma, cod. pen. e chiede che questa Corte, con una pronuncia di incostituzionalità anche degli artt. 676, comma 1, e 679, comma 1, cod. proc. pen., modifichi la regola sulla competenza ad adottare la confisca, quale misura di sicurezza a carattere patrimoniale, consentendo al magistrato di sorveglianza di applicare quest’ultima, meno afflittiva dell’assegnazione alla casa di lavoro o a una colonia agricola. Sicché, solleva le questioni di legittimità costituzionale delle citate disposizioni nella parte in cui non consentono l’applicazione della confisca in sede di aggravamento della misura di sicurezza personale della libertà vigilata, per carenza di competenza del magistrato di sorveglianza a disporla, così non lasciando al giudice altra opzione che quella dell’adozione della misura di sicurezza detentiva della casa di lavoro oppure di quella della colonia agricola.

Da una parte, secondo il giudice rimettente, sarebbe irragionevole (e perciò contrario all’art. 3 Cost.) che solo per la confisca, anch’essa misura di sicurezza, il magistrato di sorveglianza non sia competente alla sua adozione, dal momento che egli lo è per l’adozione di tutte le altre misure di sicurezza.

D’altra parte, l’ineluttabilità di applicare una misura detentiva – l’assegnazione a una casa di lavoro oppure a una colonia agricola – come aggravamento di una misura non detentiva, quale la libertà vigilata, rappresenterebbe una scelta illogica e lesiva della libertà personale con incidenza anche sul diritto di difesa (e perciò contraria agli artt. 13, primo e secondo comma, e 24, secondo comma, Cost.).

2.− Va innanzi tutto respinta l’eccezione di inammissibilità delle questioni sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato.

Il giudice rimettente ha individuato e descritto la fattispecie nei termini sopra riportati e ha motivato la rilevanza delle questioni in modo plausibile; rilevanza che è insita nel fatto che egli è chiamato ad applicare l’art. 231, secondo comma, cod. pen., in combinato disposto con gli artt. 676, comma 1, e 679, comma 1, cod. proc. pen., la cui legittimità costituzionale contesta, con diffuse argomentazioni, sì da offrire una sufficiente motivazione anche del dubbio di costituzionalità.

È invero rimasto in ombra quale sarebbe in concreto l’oggetto del provvedimento di confisca richiesto dal difensore in sostituzione della libertà vigilata, pur di evitare l’applicazione di una misura di sicurezza a carattere detentivo. Questa incertezza però non ridonda di per sé sola in ambiguità della prospettazione delle questioni, che sono ammissibili sotto questo profilo, anche se poi – come si vedrà – la prima questione di cui infra sub 4 risulta essere, per altra ragione, manifestamente inammissibile.

3.− Il dubbio di legittimità costituzionale investe le disposizioni sopra citate: a) l’art. 231, secondo comma, cod. pen., che prevede l’aggravamento della misura di sicurezza della libertà vigilata per trasgressione degli obblighi imposti; b) gli artt. 676, comma 1, e 679, comma 1, cod. proc. pen., che dettano la regola di competenza rispettivamente del giudice dell’esecuzione e del magistrato di sorveglianza, espressamente prevedendo per il primo ed escludendo per il secondo la competenza ad adottare la misura di sicurezza della confisca.

Sono quindi identificabili due questioni di legittimità costituzionale, ancorché strettamente connesse, in via gradata, secondo la prospettazione del giudice rimettente, ma comunque ben distinte; connessione predicata nel senso che l’accoglimento della questione sub b), con l’attribuzione al magistrato di sorveglianza della competenza ad adottare la misura di sicurezza della confisca, consentirebbe – secondo il giudice rimettente – di colmare l’asserito deficit di tutela della libertà personale – e così risolvere anche la questione sub a) – perché l’aggravamento della misura della libertà vigilata non necessariamente comporterebbe l’assegnazione alla casa di lavoro o alla colonia agricola, ma potrebbe sfociare in un provvedimento di confisca.

Ma la questione sub a) ha comunque una sua distinta autonomia, non necessariamente schermata dall’altra questione.

Anche i parametri evocati dal giudice rimettente sono distintamente riferibili all’una e all’altra questione: la regola di competenza è censurata con riferimento al principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.; la regola dell’aggravamento della misura di sicurezza della libertà vigilata è contestata con riguardo agli artt. 13, primo e secondo comma, e 24 Cost., essenzialmente per il dedotto vulnus alla libertà personale.

4.− Va logicamente esaminata per prima la questione di legittimità costituzionale degli artt. 676, comma 1, e 679, comma 1, cod. proc. pen., sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.

La questione è manifestamente inammissibile.

L’art. 676, comma 1, cod. proc. pen., prevede che il giudice dell’esecuzione è competente a decidere in ordine alla confisca o alla restituzione delle cose sequestrate, mentre, secondo il disposto dell’art. 679, comma 1, cod. proc. pen., il magistrato di sorveglianza è competente su ogni misura di sicurezza ad esclusione della confisca. Sicché alla regola generale che assegna al magistrato di sorveglianza tale competenza, si giustappone l’eccezione della competenza del giudice dell’esecuzione per la sola confisca, quanto alle misure di sicurezza.

Tale complessivo criterio di competenza rientra nella discrezionalità del legislatore, che è ampia nella materia processuale (ex multis, sentenze n. 65 del 2014 e n. 216 del 2013; ordinanze n. 48 del 2014 e n. 190 del 2013) e che, nella fattispecie, è stata esercitata in modo del tutto coerente e immune da difetti di ragionevolezza.

La misura della confisca ex art. 240 cod. pen., sia quella facoltativa di cui al primo comma (relativa alle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e alle cose che ne sono il prodotto o il profitto), sia quella obbligatoria di cui al secondo comma (relativa, in particolare, al prezzo del reato e alle cose, la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisce reato), è infatti strettamente connessa all’accertamento del reato commesso. È pertanto logicamente conseguenziale che competente a disporla, sia non già il magistrato di sorveglianza ma – peraltro limitatamente alla confisca obbligatoria (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 20 aprile 2012-10 maggio 2012, n. 17546) – il giudice che ha competenza sull’esecuzione della sentenza.

Pertanto, l’intervento richiesto alla Corte, teso a riconoscere la competenza a disporre la confisca anche in capo al magistrato di sorveglianza, sia pure ai fini dell’aggravamento della libertà vigilata, assumerebbe il carattere di una “novità di sistema”, e risulterebbe collocato al di fuori dell’area del sindacato di legittimità costituzionale, rimesso piuttosto a scelte di riforma affidate al legislatore (sentenze n. 252 del 2012 e n. 274 del 2011; ordinanza n. 145 del 2007).

5.− La questione di legittimità costituzionale dell’art. 231, secondo comma, cod. pen., sollevata in riferimento all’art. 13, primo e secondo comma, Cost., non è fondata nei termini seguenti.

Il nucleo centrale della censura, spogliata delle inammissibili considerazioni che fa il giudice rimettente per rivendicare la competenza ad adottare la confisca, sta nella denunciata criticità della disposizione censurata quanto all’ipotesi – ritenuta nella specie sussistente – della «particolare gravità della trasgressione» degli obblighi della libertà vigilata; obblighi derivanti dalle prescrizioni imposte dal giudice, non tipizzate altrimenti che per essere «idonee ad evitare le occasioni di nuovi reati» (art. 228, secondo comma).

Da ciò dovrebbe conseguire, nella logica dell’aggravamento della misura sottesa alla disposizione censurata, la sostituzione della libertà vigilata con altra misura più incisiva e di più stringente contrasto della pericolosità sociale.

Nella prospettazione del giudice rimettente la libertà vigilata non può essere sostituita altrimenti che con una misura di sicurezza aggravata, quale l’assegnazione a una colonia agricola oppure a una casa di lavoro. Ossia vi sarebbe una rigida ineludibilità di un siffatto aggravamento, tenuto conto del catalogo delle misure di sicurezza di cui all’art. 215 cod. pen. che, di fatto, riduce la scelta del magistrato di sorveglianza all’assegnazione alla casa di lavoro oppure alla colonia agricola; le quali, infatti, sono le uniche due misure richiamate dal censurato secondo comma dell’art. 231 cod. pen.

Questa possibile sostituzione di una misura di sorveglianza non detentiva con una detentiva appare al giudice rimettente del tutto sproporzionata, in ragione della ben maggiore afflittività della misura di sicurezza detentiva che incide sulla libertà personale.

Vi sarebbe un salto eccessivo e sproporzionato tra la violazione, seppur di particolare gravità, delle prescrizioni della misura di sicurezza della libertà vigilata e la privazione della libertà in cui consiste l’assegnazione alla casa di lavoro o alla colonia agricola.

6.− Della disposizione censurata è tuttavia possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto della libertà personale, diritto fondamentale e inviolabile, che può soffrire la limitazione di forme di detenzione, qual è l’assegnazione sia a una casa di lavoro, sia a una colonia agricola, solo nello stretto rispetto del principio di riserva assoluta di legge di cui all’art. 13, secondo comma, Cost. (da ultimo, sentenza n. 180 del 2018).

Già la formulazione testuale dell’art. 231, secondo comma, cod. pen., esclude ogni automatismo che sarebbe ex se lesivo della libertà personale: il giudice «può» – non già deve – sostituire alla libertà vigilata l’assegnazione a una colonia agricola o a una casa di lavoro, avuto riguardo alla «particolare gravità della trasgressione o al ripetersi della medesima».

Questa facoltà non può comunque intendersi come generica discrezionalità del giudice.

Con riferimento ad altra misura di sicurezza, parimente segregante qual è l’assegnazione a una casa di cura e di custodia (art. 219 cod. pen.), questa Corte ha affermato in generale che «risulta ormai presente nella disciplina sulle misure di sicurezza il principio secondo il quale si deve escludere l’automatismo che impone al giudice di disporre comunque la misura detentiva, anche quando una misura meno drastica, e in particolare una misura più elastica e non segregante come la libertà vigilata, accompagnata da prescrizioni stabilite dal giudice medesimo, si riveli capace, in concreto, di soddisfare contemporaneamente le esigenze di cura e tutela della persona interessata e di controllo della sua pericolosità sociale» (sentenza n. 208 del 2009).

Ispirate a questo stesso principio sono le pronunce di questa Corte (sentenze n. 253 del 2003 e n. 367 del 2004) che, esaminando altre misure di sicurezza limitative della libertà personale, hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale rispettivamente dell’art. 222 cod. pen. (sul ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario) e dell’art. 206 cod. pen. (sull’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza), nella parte in cui non consentono al giudice di adottare, in luogo delle misure previste da essi, una misura di sicurezza non detentiva idonea ad assicurare alla persona inferma di mente cure adeguate e a contenere la sua pericolosità sociale.

Emerge, quindi, in modo netto la residualità della misura di sicurezza detentiva quale extrema ratio, in sintonia peraltro con analogo principio in materia di custodia cautelare in carcere, che parimenti può perseguire una finalità di prevenzione della commissione di gravi delitti (art. 274, comma 1, lettera c, cod. proc. pen.); principio, affermato in varie pronunce di questa Corte (ex plurimis, sentenza n. 57 del 2013), che ha sempre richiesto che il giudice verifichi prima se le esigenze cautelari non possano essere soddisfatte con altre misure meno limitative della libertà personale.

Si ha, pertanto, che nella fattispecie del censurato secondo comma dell’art. 231 cod. pen., la facoltà, ivi prevista, del giudice di adottare la misura di sicurezza detentiva è condizionata al rispetto del principio suddetto: solo dopo aver escluso l’idoneità di ogni altra misura di sicurezza non detentiva, il giudice, sul presupposto della perdurante pericolosità sociale del sottoposto alla misura, «può» – come prevede la disposizione – sostituire la libertà vigilata con l’assegnazione alla casa di lavoro o alla colonia agricola.

Ciò significa, anche, che ben può il giudice, che ritenga una misura di sicurezza detentiva essere, allo stato, sproporzionata ed eccedente le finalità di prevenzione, limitarsi ad aggravare la stessa libertà vigilata, inasprendo le prescrizioni ex art. 228, secondo comma, cod. pen., così rimanendo nell’ambito delle misure di sicurezza non detentive.

7.− Così interpretata la disposizione censurata, le conseguenze dell’aggravamento della misura di sicurezza della libertà vigilata, a causa della violazione delle sue prescrizioni «di particolare gravità», si declinano secondo un criterio di progressività e proporzionalità, che vede come residuale, dopo la possibile ripetuta adozione della stessa misura con prescrizioni maggiormente restrittive, la possibilità dell’assegnazione a una casa di lavoro o a una colonia agricola, sì da non recare offesa all’inviolabilità della libertà personale di chi a essa è assoggettato (art. 13, primo e secondo comma, Cost.) e senza altresì incidere sul diritto di difesa di quest’ultimo (art. 24 Cost.).

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 676, comma 1, e 679, comma 1, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Magistrato di sorveglianza di Napoli, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 231, secondo comma, del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 13, primo e secondo comma, e 24, secondo comma, Cost., dal Magistrato di sorveglianza di Napoli, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 novembre 2018.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Giovanni AMOROSO, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 27 dicembre 2018.