SENTENZA N. 61
ANNO 1995
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Avv. Ugo SPAGNOLI, Presidente
- Prof. Antonio BALDASSARRE
- Prof. Vincenzo CAIANIELLO
- Avv. Mauro FERRI
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 39 del codice penale militare di pace in relazione all'art. 5 del codice penale promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 21 dicembre 1993 dal Tribunale militare di Padova nel procedimento penale a carico di Cuomo Lazzaro, iscritta al n. 161 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell'anno 1994;
2) ordinanza emessa il 12 aprile 1994 dal Tribunale militare di Padova nel procedimento penale a carico di Motta Ivan, iscritta al n. 450 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell'anno 1994.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell'8 febbraio 1995 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza del 21 dicembre 1993, il Tribunale militare di Padova, dopo aver premesso di procedere nei confronti di un giovane per il reato di mancanza alla chiamata, ha osservato che l'imputato si è difeso asserendo che l'omessa presentazione era dipesa dalla mancata notificazione della cartolina precetto: una evenienza, questa, che, aggiunta all'avvertenza riportata a tergo del modulo della Difesa utilizzato dai Consigli di Leva per l'invio in congedo illimitato provvisorio, nella quale si menziona soltanto l'obbligo di presentarsi alla ricezione della cartolina precetto di chiamata alle armi, ha verosimilmente ingenerato nell'imputato il convincimento che il dovere di presentazione sorga solo a seguito della notificazione del precetto personale, e non, come prescrive l'art. 543, secondo comma, del Regolamento di esecuzione approvato con r.d. 3 aprile 1942, n. 1133, con la pubblicazione del manifesto di chiamata alle armi.
Il Tribunale, dunque, "ripropone" questione di legittimità costituzionale dell'art. 39 del codice penale militare di pace rilevando come questa Corte, pur avendo affermato nella sentenza n. 325 del 1989 che il medesimo art. 39 c.p.m.p. non limita la disciplina dell'errore di fatto sancita dall'art. 47 del codice penale, ha omesso in quella ed in altre pronunce di entrare "nel merito dell'inescusabilità dell'ignoranza di diritto delle norme costitutive dei doveri militari". Nel caso di specie, puntualizza il giudice a quo, l'imputato ha ignorato il contenuto del manifesto, "ma in origine e principalmente ha ignorato la normativa posta dal citato art. 543" e tale ignoranza è considerata incondizionatamente inescusabile dall'art. 39 c.p.m.p. Da qui l'asserita violazione del principio della personalità della responsabilità penale che questa Corte ha gi avuto modo di riconoscere con riferimento all'art. 5 c.p., ed il conseguente auspicio che la medesima statuizione venga ora estesa alla norma oggetto di impugnativa, "trattandosi pur sempre di materia penale".
2. L'identica questione è stata sollevata dal medesimo Tribunale con una successiva ordinanza emessa il 12 aprile 1994. In tale occasione il giudice a quo ha prospettato che la mancata presentazione alle armi da parte dell'imputato è dipesa dal fatto di aver egli erroneamente attribuito alla proposizione di un ricorso straordinario al Capo dello Stato l'effetto di produrre la sospensione della chiamata alle armi; un errore, questo, che secondo il rimettente, "si risolve nell'ignoranza dei doveri dello stato militare, che l'art. 39 c.p.m.p. stabilisce essere incondizionatamente inescusabile". Ritiene in proposito il giudice a quo che non sussista alcuna valida ragione per la quale una indagine sulla colpevolezza, ormai consentita nella generalità dei casi a seguito della declaratoria di parziale illegittimità costituzionale dell'art. 5 c.p., non possa aver rilievo quando si tratti "di normativa, integratrice del precetto penale, che abbia influenza sui doveri dello stato militare (art. 3 Cost.)". Accanto a ci, conclude il rimettente, un simile mancato rilievo di uno stato soggettivo di ignoranza verrebbe a porsi in aperto contrasto "anche con principi basilari sulla responsabilità penale (art. 27, primo comma, Cost.)".
3. Nei giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile per essere la stessa analoga ad altra gi decisa in quel senso da questa Corte.
Considerato in diritto
1. Le ordinanze sottopongono all'esame della Corte l'identica questione: i relativi giudizi vanno pertanto riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.
2. Il Tribunale militare di Padova dubita della legittimità costituzionale dell'art. 39 del codice penale militare di pace, in riferimento all'art. 5 del codice penale, deducendo la violazione degli artt. 3 e 27 della Costituzione. Pi in particolare, nel primo dei due provvedimenti di rimessione (R.O. 161 del 1994) il giudice a quo rileva che "l'intransigenza" che caratterizza la disposizione sottoposta a scrutinio, a norma della quale il militare non può invocare a propria scusa l'ignoranza dei doveri inerenti il suo stato militare, appare in contrasto con il principio di personalità della responsabilità penale nei termini gi affermati da questa Corte con la sentenza n. 364 del 1988 in relazione all'art. 5 del codice penale, ove appunto si è dato rilievo scusante alla ignoranza inevitabile. L'identica pronuncia, pertanto, dovrebbe ora essere estesa all'art. 39 c.p.m.p., "trattandosi pur sempre - osserva il giudice a quo - di materia penale".
3. La norma oggetto di censura risente fortemente di una consolidata impostazione che vede le sue lontane origini in talune disposizioni emanate per la chiamata alle armi nell'esercito sardo-piemontese. Gi nell'Istruzione per l'annuale rassegna dei soldati temporari del 19 ottobre 1839 si stabiliva, infatti, all'art. 5, che "Il pretesto d'ignoranza del tempo e luogo in cui succederà la rassegna non è ammissibile, dacché fu iscritta nel congedo illimitato analoga avvertenza". Sicché, e contrariamente ai criteri che attualmente vigono in materia, la inescusabilità della ignoranza non scaturiva dalla notifica in forma collettiva del provvedimento di chiamata, vale a dire dalla pubblicazione della "notificanza", ma da un avvertimento che assumeva le connotazioni di una diffida personale, in quanto iscritta nel foglio di congedo illimitato. Aspetto, quest'ultimo che presenta singolari profili di attualità, specie se si considerano i più che condivisibili auspici che il giudice a quo formula circa "una maggiore chiarezza nelle informazioni alle reclute, ad esempio con apposita visorio", nel quale invece compare il ben più travisante avvertimento che i militari in congedo illimitato provvisorio hanno l'obbligo di presentarsi" quando riceveranno la cartolina precetto di chiamata alle armi".
Il principio delineato nella Istruzione del 1839 non perse poi la sua validità neppure quando venne introdotta nel 1853 la vocatio ad signa per pubblico manifesto, in quanto il paragrafo 1093 del successivo Regolamento approvato con r.d. 31 marzo 1855, ebbe testualmente a prescrivere che "il pretesto d'ignoranza della chiamata sotto le armi non potrà legittimare la non presentazione o l'indugio dei militari in congedo illimitato a raggiungere il corpo". Da qui l'avvio di un rigoroso e consolidato orientamento giurisprudenziale che, ponendo a fulcro proprio il principio di inescusabilità, era solito derivare da esso il postulato, fatto palese in antiche massime, che "l'ignoranza della chiamata sotto le armi non può servire di scusa a chi poteva e doveva tenersi informato di tutto ci che concerne il servizio militare, non essendovi disposizione di legge che imponga all'Autorità di renderlo personalmente avvertito". Una volta ricondotta, quindi, l'ignoranza del manifesto a violazione di un dovere dello stato militare, e affermato che il dovere di tenersi al corrente della chiamata risultava in concreto violato in tutti i casi in cui se ne fosse verificata l'ignoranza, finiva per divenire conclusione pressoché obbligata quella di ritenere - come in effetti la giurisprudenza ritenne - che l'ignoranza della chiamata disposta per manifesto equivalesse in tutto e per tutto all'ignoranza della legge, cosicché, presumendosi la conoscenza di quest'ultima, allo stesso modo dovesse presumersi, iuris et de iure, la conoscenza della prima.
Nonostante che al principio di inescusabilità della ignoranza, dettato dal par. 1093 del Regolamento del 1855, fosse annesso prevalentemente il valore di canone ermeneutico piuttosto che quello di autonoma fonte precettiva, la mancata riproduzione della norma nei successivi regolamenti del 1877 e del 1890 diede luogo a tali "dubbiezze e perplessità" da indurre le Commissioni incaricate della stesura degli attuali codici militari ad adottare la formulazione poi trasfusa nell'art. 39, al dichiarato fine - come si legge nella relazione della Commissione Ministeriale al progetto definitivo - di "togliere ogni difficoltà in materia di conoscenza dei manifesti di chiamata alle armi, intorno alla quale si è sempre tormentata la giurisprudenza alla ricerca di una norma sicura di responsabilità". Si osservò, a tal proposito, che la norma contenuta nel progetto poteva "risolversi in una condizione di sfavore creata per il militare, per il quale si verrebbe a ritenere non applicabile il principio, affermato dalla legge penale comune, che l'errore su una legge diversa dalla penale, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato, esclude la punibilità (art. 47 cod. pen.)". Ma si rilevò che "l'esigenza pratica" di cui innanzi si è detto "e alla quale l'esperienza impone di attribuire grandissimo valore", consigliava il mantenimento della norma proposta, anche "per ribadire il concetto della inutilità di ogni indagine sulla effettiva conoscenza dei doveri inerenti alle molteplici manifestazioni del servizio militare, ai fini della determinazione del dolo. Si pensi, ad esempio, al caso dei rapporti tra pari grado, quando ad alcuno di essi sia conferita una superiorità in comando: non potrà il militare invocare l'ignoranza di quei doveri di sottomissione al pari grado, disposti dai regolamenti; ed è bene - si affermò - che tale concetto trovi esplicita enunciazione nella legge". Dal testo del progetto venne invece espunto il riferimento alla "ignoranza della legge penale militare", essendo apparso che tale previsione "costituisse la ripetizione di un principio affermato nella legge penale comune (art. 5 del c.p.) e quindi pienamente applicabile nella materia militare, dato il carattere complementare del progetto, senza bisogno di un esplicito richiamo" (v. Relazione della Commissione Ministeriale n. 41).
4. Dai brevi cenni offerti sulla lontana origine della norma e dai lavori preparatori del codice penale militare di pace possono dunque trarsi alcuni spunti utili per l'inquadramento della questione sottoposta all'esame di questa Corte. Il principio di inescusabilità della ignoranza della chiamata, anzitutto, fu coniato all'interno di un sistema che prescindeva dal pubblico manifesto, per saldarsi, invece, al precetto personale che insorgeva all'atto della relativa iscrizione nel foglio di congedo di ciascun militare. Introdotta, poi, la chiamata per manifesto, il principio fu mantenuto dal legislatore per l'esigenza pratica/ di impedire che il militare, accampando a propria scusa l'ignoranza dei regolamenti, potesse dedurre la non conoscenza dei doveri inerenti al proprio stato e sottrarsi, quindi, alle relative sanzioni. Espungendo, pertanto, il riferimento alla inescusabilità della ignoranza della legge penale militare proprio perché "coperto" dalla generale previsione dettata dall'art. 5 c.p., gli autori del codice militare hanno con chiarezza inteso estendere l'area di quel principio, fino a comprendervi qualsiasi fonte non primaria dalla quale possono promanare doveri inerenti allo stato militare la cui inosservanza è dalla legge prevista come reato. In relazione a quelle fonti, dunque, si evoca una indifferenza normativa circa la relativa conoscenza, al punto da rendere configurabile, per le singole fattispecie e con riferimento alla consapevolezza dei doveri che da quelle fonti promanavano, una sorta di dolus in re ipsa, malgrado la "condizione di sfavore creata per il militare" a causa della possibile elusione del principio sancito dall'art. 47 c.p. in tema di rilevanza dell'errore su legge diversa da quella penale.
Da tutto ci è quindi possibile trarre gi una prima conclusione che ben potrà soccorrere come insopprimibile nucleo di riferimento attorno al quale far ruotare la disamina della fondatezza del quesito che il giudice a quo solleva: il principio della inescusabilità della ignoranza dei doveri militari, frutto, come si è visto, di una pi che secolare tradizione dell'ordinamento militare italiano, trova un suo valido aggancio e una sua coerenza sistematica soltanto se correlato alla gerarchia di valori propria dell'epoca in cui fu elaborato il codice penale militare di pace. Un'epoca, quindi, nella quale, anche a voler prescindere dalle peculiarità storiche di quel contesto, non potevano certo trovare adeguato risalto gli ineludibili e fondamentali principi che soltanto la successiva legge fondamentale dello Stato ebbe ad introdurre.
5. Questa Corte ha avuto modo di occuparsi in pi circostanze dell'art. 39 c.p.m.p.
In una prima occasione (v. ordinanza n. 221 del 1987) la questione venne dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza, essendosi ritenuto che entrambi i casi oggetto dei provvedimenti di rimessione si riferivano ad imputati ben a conoscenza del fatto che la chiamata dei giovani di leva avveniva per pubblici manifesti e subordinatamente anche per cartolina precetto. Successivamente (v. ordinanza n. 151 del 1988), la questione venne ancora una volta dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza, ma si sottolineò come la norma impugnata, proprio perché "espressione di ben altra stagione politica", avesse indotto la dottrina e la giurisprudenza dell'epoca ad adoperarsi "per reimpostare la problematica e l'interpretazione" della norma stessa, "in funzione delle nuove
11 luglio 1978 n. 382) in guisa da consentire una possibile correlazione con l'art. 47 ult. co. cod.pen.".
Anche con l'ordinanza n. 787 del 1988 la questione fu dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza ma (e il dato assume non poco risalto) la Corte non mancò di osservare che, ove nel caso di specie fossero davvero venuti in discorso l'ignoranza o l'errore sui doveri inerenti allo stato di militare, "si sarebbe effettivamente allora prospettata una questione di possibile scusabilità sia dell'ignoranza che dell'errore, che si sarebbe potuta esaminare anche in relazione alla sentenza n. 364 del 1988 di questa Corte". Un assunto, dunque, che, seppure enunciato in forma ipotetica, rappresenta comunque un precedente del quale occorre doverosamente tenere conto.
Più articolati sono i passaggi che hanno contrassegnato la sentenza n. 325 del 1989, essendo stata la questione sollevata sotto un duplice profilo riguardante, il primo, l'art. 5 del codice penale e il secondo l'art. 47, primo e terzo comma, dello stesso codice. Quanto al primo profilo, dedotto, stavolta, con espresso richiamo alla sentenza n. 364 del 1988, la Corte ritenne inammissibile la questione sul rilievo che il giudice a quo aveva omesso di precisare se e per quali motivi riteneva potersi prospettare nel caso di specie una ignoranza inevitabile "sulla portata imperativa del manifesto di chiamata", con ci lasciando trasparire la pertinenza della norma al tema che la questione intendeva sollevare e, dunque, la necessità di affrontare il merito ove l'ordinanza di rimessione fosse stata adeguatamente motivata sul punto. Sul secondo degli accennati profili, invece, la Corte, facendo leva su di un recente e condiviso orientamento giurisprudenziale ormai affrancatosi dalla non pi giustificabile "ideologia degli autori del codice", pervenne ad una soluzione interpretativa affermando che "l'errore sulla portata del manifesto, vertendo su un atto amministrativo, è in realtà errore sul presupposto storico per l'attuazione del dovere in concreto" e come tale da qualificare alla stregua di "errore di fatto...che incide sul dolo, secondo i principi del diritto penale militare ex art. 16 del codice penale, rendendo rilevante questo errore anche nell'area dell'art. 39 del codice penale militare di pace". Ed è proprio su quest'ultima linea che hanno poi finito per attestarsi le pi recenti pronunce, tutte di manifesta inammissibilità, relative ad altrettanti giudizi promossi sempre dal Tribunale militare di Padova (v., in particolare, le ordinanze n. 247 del 1991, n. 7 del 1992 e n. 205 del 1994).
6. Le sollecitazioni che il giudice a quo ha insistentemente rivolto a questa Corte al fine di risolvere il quesito se ed in quali limiti debba essere riconosciuto valore scriminante alla ignoranza dei doveri inerenti allo stato militare, svelano, dunque, l'esistenza di un problema di fondo cui la giurisprudenza di questa Corte non ha sin qui offerto adeguata soluzione. Limitare, infatti, la rilevanza dell'errore alla non conoscenza del manifesto di chiamata, inteso questo alla stregua di un mero atto amministrativo idoneo a generare null'altro che il "dovere in concreto" di presentazione alle armi, ed obliterare, per questa via, il rilievo che può assumere l'ignoranza della norma da cui promana il "dovere in astratto", produce l'ineluttabile effetto di dar vita ad un circuito per così dire autodimostrativo che, arrestandosi all'errore finale, prescinde da quella che ne può essere la causa generatrice: l'ignoranza, appunto, della norma regolamentare che fa obbligo alle reclute, abbiano o meno ricevuto la cartolina precetto, di presentarsi comunque "nei giorni stabiliti dal manifesto, la cui pubblicazione vale per essi come precetto personale" (art. 543 del regolamento per l'esecuzione del testo unico delle disposizioni legislative sul reclutamento del regio esercito, Parte seconda, approvato con r.d. 3 aprile 1942, n. 1133). Orbene, nella ordinanza emessa il 21 dicembre 1993 (R.O. 161 del 1994) il Tribunale militare di Padova prospetta proprio una simile evenienza, osservando motivatamente che nel caso di specie la omessa tempestiva presentazione del militare è dipesa, in via principale, non dalla mancata conoscenza del contenuto del manifesto di chiamata, ma dal fatto di aver ignorato la normativa posta dal citato art. 543 del regolamento. Un errore, dunque, tuttora considerato incondizionatamente inescusabile dall'art. 39 c.p.m.p., di cui pertanto si chiede, ancora una volta, la declaratoria di illegittimità costituzionale in riferimento all'art. 5 del codice penale, come dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza n. 364 del 1988.
7. Sono fin troppo note le ragioni che indussero questa Corte a dichiarare, con la appena ricordata sentenza n. 364 del 1988, la parziale illegittimità costituzionale dell'art. 5 del codice penale. Si osservò, infatti, sulla base, anche, di una approfondita ricostruzione storico-sistematica dell'importante tema, condotta alla luce dei valori costituzionali che esso coinvolgeva, che dal principio sancito dall'art. 27, primo comma, della Costituzione, occorreva trarre il corollario che la legittima punibilità di un fatto dovesse "necessariamente includere almeno la colpa dell'agente in relazione agli elementi pi significativi della fattispecie tipica". Collegando poi fra loro i precetti enunciati dal primo e dal terzo comma dell'art. 27 della Carta fondamentale si dedusse "l'illegittimità costituzionale della punizione dei fatti che non risultino essere espressione di consapevole, rimproverabile contrasto con i (od indifferenza ai) valori della convivenza espressi dalle norme penali", osservandosi, a tal proposito, che "ristabilimento dei valori sociali "dispregiati" e l'opera rieducatrice ed ammonitrice sul reo hanno senso soltanto sulla base della dimostrata soggettiva antigiuridicità del fatto". Accanto a ci, si ritenne che l'art. 5 del codice penale fosse in contrasto tanto con il principio di uguaglianza, derivando dalla norma un identico trattamento per situazioni fra loro dissimili, quali sono quella di "chi agisce con la coscienza della illiceità del fatto" rispetto a quella di "chi invece con tale coscienza non opera", quanto con il principio affermato nel secondo comma dell'art. 3 della Costituzione, ben potendo l'ignoranza della legge dipendere o da un fatto dello Stato, che "non abbia reso obiettivamente riconoscibili (o .prevedibili/) alcune leggi", o dalla "mancata rimozione degli .ostacoli/" di cui alla citata previsione costituzionale.
Ma assai più radicalmente, ed è questo l'aspetto che in questa sede maggiormente interessa, si ritenne che l'art. 5 del codice penale violasse "lo spirito stesso dell'intera Carta fondamentale ed i suoi essenziali principi ispiratori", rilevandosi a tale riguardo che "far sorgere l'obbligo giuridico di non commettere il fatto penalmente sanzionato senza alcun riferimento alla consapevolezza dell'agente, considerare violato lo stesso obbligo senza dare alcun rilievo alla conoscenza od ignoranza della legge penale e dell'illiceità del fatto, sottoporre il soggetto agente alla sanzione pi grave senza alcuna prova della sua consapevole ribellione od indifferenza all'ordinamento tutto, equivale a scardinare fondamentali garanzie che lo Stato democratico offre al cittadino ed a strumentalizzare la persona umana, facendola retrocedere dalla posizione prioritaria che essa occupa e deve occupare nella scala dei valori costituzionalmente tutelati".
L'ampiezza di simili principi è dunque tale da investire tutti i temi che tradizionalmente hanno ruotato attorno al precetto della inescusabilità della ignoranza della legge penale. Svilito, infatti, il già criticato dogma della presunzione assoluta di conoscenza, non ha pi senso operare, ai fini che qui rilevano, sottili disamine a margine degli elementi normativi del fatto o procedere a faticose e sempre opinabili distinzioni delle fonti "esterne" alla fattispecie incriminatrice, allo scopo di verificare se le stesse possano o meno qualificarsi come integratrici del precetto penale, onde consentire il trasferimento dell'errore su quest'ultimo, in precedenza del tutto irrilevante, nell'alveo dell'errore su legge extra penale ai sensi dell'art. 47, terzo comma, del codice penale. Una volta stabilito che l'ignoranza sulla legge penale scrimina in tutti i casi in cui la stessa sia risultata inevitabile, è di tutta evidenza che un siffatto principio debba valere anche nelle ipotesi in cui l'ignoranza verta sull'eventuale presupposto normativo della fattispecie incriminatrice, non potendosi certo pervenire al paradosso di ammettere una lettura differenziata dei valori costituzionali che con la citata sentenza si è inteso preservare a seconda delle modalità tecniche attraverso le quali ogni singola fattispecie viene ad essere strutturata. L'ignoranza o l'errore, dunque, sia che esso riguardi la previsione incriminatrice in quanto tale, sia che si rifletta su una disposizione che la norma stessa richiama o pi semplicemente presuppone, assumerà comunque rilievo in tutti i casi in cui la mancata od erronea conoscenza del dato normativo, inteso questo in tutte le sue componenti, sia dipesa da cause che hanno reso inevitabile quella ignoranza o quell'errore. E se tutto ci vale nelle interferenze che possono stabilirsi fra le leggi penali, a fortiori alle medesime conclusioni occorrerà pervenire nel caso in cui l'errore cada su una legge diversa da quella penale e riguardi non il fatto ma l'estensione del precetto.
8. Le conclusioni cui occorre pervenire sono, a questo punto, evidenti. Gi nella ricordata sentenza n. 325 del 1989, infatti, questa Corte non mancò di rilevare come l'interpretazione dell'art. 39 c.p.m.p. quale limite all'efficacia scusante dell'errore su legge extra penale, pur se, "certamente rispondente alla ideologia degli autori del codice", non potesse ritenersi pi giustificabile, "sia perché contraria ai principi fondamentali del diritto penale (che sono principi di civiltà), sia perché nel nuovo ordinamento democratico, anche militare, quei principi sono collegati all'ispirazione di fondo della Costituzione che rende ormai anacronistica quella interpretazione". Ma il punto da affrontare e definitivamente risolvere non sta nell'ignoranza del "dovere in concreto" e, dunque, del fatto inquadrabile nell'area dell'art. 47, terzo comma, del codice penale, ma nel pi radicale errore, o ignoranza, che investa la stessa fonte normativa che quel dovere costituisce "in astratto": errore di diritto, dunque, rispetto al quale l'art. 39 c.p.m.p. introduce una previsione di totale irrilevanza ed inescusabilità che si presenta del tutto impermeabile a qualsiasi tentativo di manipolazione interpretativa. Una siffatta preclusione diviene, allora, inaccettabile per le stesse considerazioni che indussero questa Corte a dichiarare la parziale illegittimità costituzionale dell'art. 5 del codice penale, giacché se l'ignoranza inevitabile di una norma penale esclude la punibilità della condotta, a maggior ragione alla stessa conclusione deve condurre l'ignoranza inevitabile delle ben più flebili, variegate e certo meno conosciute e conoscibili disposizioni regolamentari sulle quali si fondano i molteplici doveri che ineriscono allo stato militare. E ci appare ancor pi doveroso ove si consideri, da un lato, l'impossibilità di sottoporre a scrutinio di costituzionalità tutte le fonti non legislative dalle quali sorgono doveri militari la cui inosservanza è penalmente sanzionata (v., con riferimento proprio al r.d. 3 aprile 1942, n. 1133, l'ordinanza n. 124 del 1973); dall'altro, la fluidità di tali fonti, essendo le stesse suscettibili di mutamenti in funzione delle variabili scelte che l'autorità amministrativa è abilitata a compiere, e, sotto un ultimo ed assorbente profilo, l'impossibilità di far leva su di una supposta specificità dell'ordinamento militare per predicare il mantenimento nel sistema di una norma che, al di l di qualsiasi adeguamento sul piano applicativo, si appalesa ormai in aperto contrasto con i fondamentali valori di uno stato democratico.
Se di specificità dell'ordinamento militare si vuol continuare a parlare agli effetti che qui interessano, ci sarà possibile solo nella ben diversa prospettiva di costruire su di essa una equilibrata elaborazione dei necessari canoni ermeneutici alla cui stregua condurre l'accertamento in concreto se l'ignoranza del dovere sia stata o meno inevitabile; una elaborazione, questa, rispetto alla quale dovranno essere tenuti nel massimo conto i principi che a tale riguardo questa Corte ha enunciato nella pi volte richiamata sentenza n. 364 del 1988 (segnatamente al n. 27), trattandosi di principi di ordine generale la cui validità deve ritenersi senz'altro trasferibile anche nell'area della norma che qui si censura.
L'art. 39 del codice penale militare di pace deve pertanto essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, nella parte in cui non esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza dei doveri inerenti allo stato militare l'ignoranza inevitabile.
9. Diversa è la situazione che il medesimo Tribunale militare di Padova ha prospettato con l'ordinanza emessa il 12 aprile 1994 (R.O. 450 del 1994). In tal caso, infatti, è lo stesso giudice a quo a precisare che l'imputato, il quale "non ha mai avuto l'intenzione di sottrarsi ai suoi obblighi di leva", ha dichiarato "di non essersi tempestivamente presentato in quanto il padre, che curava in esclusiva i rapporti con l'autorità militare, gli aveva detto che la sua partenza era automaticamente sospesa a seguito di proposizione del ricorso straordinario al Capo dello Stato", erroneamente attribuendo a tale atto gli stessi effetti che - secondo una informativa avuta per iscritto dal Distretto Militare di Torino - scaturiscono dalla proposizione del ricorso al T.A.R.
Nel caso di specie, dunque, la mancata presentazione per l'espletamento degli obblighi di leva non può ritenersi scaturita dalla ignoranza dei doveri inerenti allo stato militare, che l'imputato ben conosceva, ma unicamente dal fatto di avere egli erroneamente attribuito ad uno specifico rimedio amministrativo i medesimi effetti sospensivi sulla chiamata alle armi che, secondo le informazioni ricevute dal proprio padre, si sarebbero determinati a seguito del ricorso in sede giurisdizionale. Un errore, dunque, che non cade sul dovere in sè considerato o sulla relativa fonte precettiva, ma che si incentra, pi semplicemente, sui rapporti che legano fra loro il procedimento di gravame e gli effetti dell'atto amministrativo assoggettato a reclamo. La rilevanza di un tale errore sull'esistenza o meno del reato contestato all'imputato va pertanto risolta dal giudice militare alla stregua dei criteri interpretativi adottati dalla giurisprudenza per casi analoghi.
Pertanto la questione proposta deve essere dichiarata inammissibile.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi;
a) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 39 del codice penale militare di pace, nella parte in cui non esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza dei doveri inerenti allo stato militare l'ignoranza inevitabile;
b) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 39 del codice penale militare di pace in relazione all'art. 5 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dal Tribunale militare di Padova con ordinanza del 12 aprile 1994.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, palazzo della Consulta, il 20 febbraio 1995.
Ugo SPAGNOLI, Presidente
Giuliano VASSALLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 24 febbraio 1995.