Sentenza n. 112 del 2019

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SENTENZA N. 112

ANNO 2019

 

Commenti alla decisione di

 

I. G. L., Proporzionalità della pena, sanzioni amministrative ed oggetto della confisca in una pronuncia di accoglimento della Corte costituzionale in materia di insider trading, per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo

 

II. Adele Anzon Demmig, Applicazioni virtuose della nuova "dottrina” sulla "doppia pregiudizialità” in tema di diritti fondamentali (in margine alle decisioni nn. 112 e 117/2019), per g.c. dell’Osservatorio AIC

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI;

Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 187-sexies e 187-quinquiesdecies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), introdotti, rispettivamente, dall’art. 9, comma 2, lettere a) e b), della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), promosso dalla Corte di cassazione, sezione seconda civile, nel procedimento vertente tra D. B. e la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), con ordinanza del 16 febbraio 2018, iscritta al n. 54 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2018.

Visti l’atto di costituzione di D. B., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 5 marzo 2019 il Giudice relatore Francesco Viganò;

uditi l’avvocato Renzo Ristuccia per D. B. e l’avvocato dello Stato Pio Giovanni Marrone per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 16 febbraio 2018, la Corte di cassazione, sezione seconda civile, ha sollevato – in riferimento agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e all’art. 14, comma 3, lettera g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, nonché in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera b), della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), «nella parte in cui detto articolo sanziona la condotta consistente nel non ottemperare tempestivamente alle richieste della CONSOB o nel ritardare l’esercizio delle sue funzioni anche nei confronti di colui al quale la medesima CONSOB, nell’esercizio delle funzioni di vigilanza, contesti un abuso di informazioni privilegiate».

Con la medesima ordinanza, la Corte di cassazione ha altresì sollevato – in riferimento agli artt. 3, 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, firmato a Parigi il 20 maggio 1952, ratificato e reso esecutivo con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 17 e 49 CDFUE – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera a), della legge n. 62 del 2005, «nella parte in cui esso assoggetta a confisca per equivalente non soltanto il profitto dell’illecito ma anche i mezzi impiegati per commetterlo, ossia l’intero prodotto dell’illecito».

Dal momento che – come si dirà più innanzi (Considerato in diritto, punto 1.1.) – questa Corte ritiene di dover sospendere il giudizio sulle questioni di legittimità aventi ad oggetto l’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, con conseguente necessità di definire in questa sede soltanto le questioni concernenti l’art. 187-sexies del medesimo decreto legislativo, saranno qui esposti, nel prosieguo, i soli argomenti spesi nell’ordinanza di rimessione e negli atti del presente giudizio in relazione a tali questioni.

1.1.– Il procedimento a quo trae origine da un provvedimento sanzionatorio emesso il 2 maggio 2012, con il quale la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB) ha irrogato nei confronti di D. B., tra l’altro, una sanzione pecuniaria di 200.000 euro in relazione all’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate previsto dall’art. 187-bis, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 58 del 1998, nella versione vigente all’epoca dei fatti, con riguardo all’acquisto, effettuato da D. B. nel febbraio 2009, di 30.000 azioni di una società quotata della quale era socio e consigliere di amministrazione, sulla base del possesso dell’informazione privilegiata relativa all’imminente lancio di un’offerta pubblica di acquisto volontaria e totalitaria di tale società, promossa da altra società costituita ad hoc e della quale egli stesso era socio.

In relazione a tale operazione, la CONSOB ha altresì disposto nei confronti di D. B. la confisca di beni immobili fino a concorrenza dell’importo di 149.760 euro, pari all’intero valore delle azioni acquistate mediante la condotta sopra descritta, ai sensi dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998.

D. B. ha proposto opposizione avanti alla Corte d’appello di Roma avverso il provvedimento sanzionatorio della CONSOB.

La Corte d’appello di Roma ha tuttavia rigettato l’opposizione, confermando così il provvedimento sanzionatorio adottato dalla CONSOB, con sentenza depositata il 20 novembre 2013.

Contro tale sentenza D. B. ha quindi proposto il ricorso per cassazione che ha dato origine al presente procedimento incidentale di legittimità costituzionale.

1.2.– Secondo il giudice a quo, l’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 sarebbe, in particolare, di dubbia compatibilità con la Costituzione nella parte in cui assoggetta a confisca per equivalente «non soltanto il profitto dell’illecito, ma l’intero prodotto dell’illecito, vale a dire l’equivalente della somma del profitto dell’illecito (ossia la plusvalenza ritratta dalle illecite operazioni di trading) e dei mezzi impiegati per realizzare l’illecito (ossia il denaro o le altre utilità impiegate dall’agente per finanziare dette operazioni di trading)».

1.3.– Ad avviso del rimettente, le questioni concernenti l’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 sarebbero, anzitutto, rilevanti nel giudizio a quo.

Espone la Corte di cassazione che D. B., essendo in possesso di un’informazione privilegiata, aveva «speso € 123.175,07 (beni utilizzati per commettere l’illecito) per acquistare titoli da cui [aveva] ricavato € 149.760 (prodotto dell’illecito), ritraendo dall’operazione di trading una plusvalenza di € 26.580 (profitto dell’illecito)».

Sulla base dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, in questa sede censurato, la CONSOB ha disposto la confisca di beni immobili sino a concorrenza dell’importo di 149.760 euro, equivalente al prodotto dell’illecito; prodotto che sarebbe a sua volta pari «alla somma del profitto ritratto dall’illecito e dei mezzi impiegati per commetterlo».

Secondo la sezione rimettente, l’accoglimento delle questioni di legittimità prospettate determinerebbe, allora, la necessità di rideterminare l’importo della confisca per equivalente nella somma di 26.580 euro, pari al solo profitto dell’illecito.

1.4.– Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente muove dal presupposto interpretativo, condiviso dalla giurisprudenza della Corte di cassazione e di questa stessa Corte, che la confisca per equivalente applicata nel caso di specie costituisca misura ablativa dalla natura «eminentemente sanzionatoria», in ragione della sua connotazione «prevalentemente afflittiva». Essa colpirebbe infatti beni privi di rapporto di pertinenzialità con l’illecito, ciò che ne marcherebbe la netta distinzione rispetto alla confisca diretta, la quale reagirebbe invece «alla pericolosità indotta nell’autore dell’illecito dalla disponibilità dei beni utilizzati per commetterlo e dei beni dal medesimo ricavati».

Secondo il giudice a quo, l’illegittimità costituzionale della confisca obbligatoria del prodotto dell’illecito discenderebbe, in sostanza, dalla «mancanza di proporzionalità tra la misura del sacrificio imposta al sanzionato e le finalità pubbliche da perseguire». Il suo importo risulterebbe infatti, «in relazione al profitto realizzato in una specifica operazione di trading, […] inversamente proporzionale al vantaggio concretamente derivato all’agente dall’uso di una informazione privilegiata, vale a dire inversamente proporzionale al tasso di profitto dell’operazione stessa; infatti, il tasso di profitto generato da una operazione di trading realizzata abusando di informazioni privilegiate è tanto maggiore quanto minore è l’entità dei mezzi che l’agente ha impiegato (e pertanto vengono assoggettati a confisca) per conseguire il profitto ritratto dall’operazione stessa».

Il rimettente dubita, allora, della compatibilità di tale misura con l’art. 3 Cost., in relazione tanto alle caratteristiche di potenziale eccessività della misura, quanto alla mancanza di un rapporto predefinito tra il valore dei beni suscettibili di confisca e il profitto realizzato dall’agente.

Il difetto di proporzionalità della misura desterebbe, d’altra parte, dubbi anche in ordine alla sua conformità con le esigenze di tutela del diritto di proprietà, riconosciuto, a livello nazionale, dall’art. 42 Cost. e, a livello sovranazionale, dall’art. 1 Prot. addiz. CEDU (quest’ultimo rilevante nell’ordinamento italiano tramite l’art. 117, primo comma, Cost.), in particolare «sotto il profilo dell’inadeguato bilanciamento tra la tutela del diritto di proprietà e le ragioni di interesse generale» che giustificano la misura della confisca.

Infine, le medesime ragioni evidenzierebbero la non manifesta infondatezza dei dubbi di compatibilità della misura in questione con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 17 e 49 CDFUE. L’art. 17 CDFUE tutela, infatti, il diritto di proprietà in termini analoghi all’art. 1 Prot. addiz. CEDU; mentre l’art. 49, paragrafo 3, CDFUE sancisce il principio della proporzionalità delle pene, che secondo il rimettente ben potrebbe essere ritenuto applicabile anche alle sanzioni non formalmente qualificate come pene, ma aventi natura penale secondo i criteri Engel.

1.5.– A parere del giudice a quo, i dubbi da ultimo evidenziati, relativi alla possibile incompatibilità della disciplina censurata con gli artt. 17 e 49 CDFUE, renderebbero necessario un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE per chiarire: a) se a tali disposizioni debba riconoscersi «efficacia diretta nell’ordinamento degli Stati membri, con conseguente dovere di non applicazione delle norme interne con le norme contrastanti»; b) se le nozioni di «reato» e «pena» contenute nell’art. 49 CDFUE «vadano riferite alle previsioni sanzionatorie formalmente qualificate come penali nell’ordinamento dei singoli Stati membri, oppure vadano intese in conformità alla nozione di "materia penale” elaborata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in riferimento agli articoli 6 e 7 CEDU»; e, infine, c) se gli artt. 17 e 49 CDFUE vadano interpretati nel senso che «impongano di ritenere non proporzionata una confisca per equivalente il cui oggetto non sia limitato all’equivalente del profitto ricavato dalle illecite operazioni di trading, ma si estenda anche all’equivalente dei mezzi impiegati per realizzare tali operazioni».

La sezione rimettente ritiene peraltro che – versandosi nella specie in una ipotesi di «doppia pregiudizialità», stanti gli evidenziati dubbi di compatibilità della disposizione censurata sia la Costituzione, sia con la Carta – debba procedersi in prima battuta all’incidente di costituzionalità, secondo le indicazioni offerte da questa Corte con la sentenza n. 269 del 2017.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni prospettate siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.

2.1.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce anzitutto l’inammissibilità delle questioni, in quanto tendenti a ottenere, mediante una pronuncia di natura additivo-manipolativa, l’introduzione nell’ordinamento di una nuova fattispecie di confisca, limitata al profitto ricavato dall’illecito. Siffatto intervento rientrerebbe in un’area riservata alla discrezionalità del legislatore, come confermato dalla circostanza che l’art. 8, comma 3, lettera g), della legge 25 ottobre 2017, n. 163 (Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea - Legge di delegazione europea 2016-2017) ha delegato il Governo a rivedere l’art. 187-sexies del decreto legislativo in parola, limitando la confisca al solo profitto dell’illecito.

2.2.– La questione sarebbe, inoltre, inammissibile anche sotto il profilo dell’omessa considerazione, da parte del rimettente, della giurisprudenza delle Sezioni unite penali della Corte di cassazione (sono citate le sentenze 30 gennaio 2014, n. 10561 e 21 luglio 2015, n. 31617), secondo cui la confisca avente a oggetto denaro o altri beni fungibili non potrebbe qualificarsi come confisca per equivalente, bensì come confisca diretta. In base a detta giurisprudenza, verrebbe meno il presupposto interpretativo da cui ha preso le mosse il rimettente, relativo alla natura afflittiva della confisca per equivalente di cui all’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998.

3.– Si è costituito in giudizio D. B., chiedendo l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale prospettate.

La parte – dopo aver ribadito gli argomenti già sviluppati nell’ordinanza di rimessione – sottolinea come la sproporzione della confisca in esame rispetto alla gravità degli illeciti cui si correla sia stata riconosciuta sia dalla CONSOB, nella propria relazione annuale per il 2012, sia dallo stesso legislatore: il quale – dapprima con la legge 9 luglio 2015, n. 114 (Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea - Legge di delegazione europea 2014), rimasta inattuata, e poi con la già menzionata legge n. 163 del 2017 – ha delegato il Governo a limitare la confisca di cui all’art. 187-sexies al solo profitto dell’illecito.

Osserva inoltre la parte costituita che l’art. 1 Prot. addiz. CEDU impone la ricerca di un equilibrio tra pubblico interesse e sacrificio della proprietà e che, in base a detto principio, la Corte EDU ha ritenuto contrarie alla garanzia convenzionale talune fattispecie di confisca che realizzavano una ingerenza sproporzionata nel diritto di proprietà.

4.– La CONSOB, parte controricorrente nel procedimento a quo, non si è costituita in questo giudizio.

5.– Nella propria memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, l’Avvocatura generale dello Stato ha chiesto la restituzione degli atti al giudice a quo affinché valuti l’incidenza dello ius superveniens rappresentato dalla modifica dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 operata dall’art. 4, comma 14, del decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 107, recante «Norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 596/2014, relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva 2003/6/CE e le direttive 2003/124/UE, 2003/125/CE e 2004/72/CE».

Ad avviso dell’Avvocatura generale, l’espunzione dal testo dell’art. 187-sexies, comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998 del riferimento ai «beni utilizzati» per commettere l’illecito, e la corrispondente limitazione dell’oggetto della confisca al «prodotto o […] profitto» dell’illecito, determinerebbero un mutamento sostanziale del quadro normativo di riferimento, tale da imporre al giudice rimettente una nuova valutazione della rilevanza della questione di costituzionalità. Quest’ultima sarebbe stata infatti sollevata sul presupposto della confiscabilità, ai sensi della antecedente formulazione del comma 1 dell’art. 187-sexies, non soltanto del profitto dell’illecito, ma anche dei mezzi impiegati per la commissione di quest’ultimo.

6.– Nella propria memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, la parte costituita ha invece sostenuto che l’entrata in vigore del d.lgs. n. 107 del 2018, che ha modificato il testo della disposizione censurata, non priverebbe di rilevanza le questioni sottoposte a questa Corte. La novella ha infatti espunto dal testo dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 il solo riferimento ai «beni utilizzati» per commettere l’illecito, mantenendo intatta la confiscabilità «del prodotto o del profitto».

Ad avviso della parte costituita, militerebbe in favore della decisione nel merito delle questioni da parte di questa Corte anche l’attuale incertezza sull’applicabilità del principio della retroattività della legge più favorevole all’incolpato alle sanzioni amministrative in materia di abusi di mercato. La difesa di D. B. sottolinea, sul punto, come la giurisprudenza di legittimità sia, allo stato, orientata in senso nettamente contrario. Se tale fosse la prospettiva corretta, la restituzione degli atti al giudice a quo sarebbe del tutto inutile, posto che questi non potrebbe comunque fare applicazione della disposizione sopravvenuta.

La parte costituita evidenzia, infine, l’inconferenza del richiamo, operato dall’Avvocatura dello Stato, alle sentenze della Corte di cassazione con cui si è affermato che la confisca di somme di denaro ha natura di confisca diretta e non per equivalente, dal momento che – nel caso che ha originato il giudizio a quo – il provvedimento di confisca è stato eseguito non già su somme di denaro, bensì su beni immobili.

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di cassazione, sezione seconda civile, ha sollevato due distinti gruppi di questioni di legittimità costituzionale concernenti, rispettivamente, gli artt. 187-quinquiesdecies e 187-sexies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52).

1.1.– Preliminarmente, va disposta la separazione del giudizio relativamente alle questioni aventi ad oggetto l’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, in relazione alle quali questa Corte ritiene di dover promuovere, con separata ordinanza, rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), come modificato dall'art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130.

Oggetto della presente sentenza sono, pertanto, le sole questioni che concernono l’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998.

2.– La sezione rimettente solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera a), della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), «nella parte in cui esso assoggetta a confisca per equivalente non soltanto il profitto dell’illecito ma anche i mezzi impiegati per commetterlo, ossia l’intero prodotto dell’illecito».

Il giudice a quo dubita che tale disposizione contrasti: in primo luogo, con gli artt. 3 e 42 della Costituzione; in secondo luogo, con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo con legge 4 agosto 1955, n. 848; in terzo luogo, con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 17 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.

3.– L’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo che era in vigore al momento dei fatti e che è oggetto delle odierne censure di legittimità costituzionale, prevedeva al comma 1 che «[l]’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal presente capo importa sempre la confisca del prodotto o del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo», e al comma 2 che «[q]ualora non sia possibile eseguire la confisca a norma del comma 1, la stessa può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente».

Il giudice a quo ritiene che la confisca di somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente non solo al «profitto» ricavato dall’illecito, ma anche al «prodotto» dell’illecito stesso – ritenuto pari alla somma del «profitto» e dei «beni utilizzati per commetterlo» – si risolverebbe in una sanzione "punitiva” di carattere sproporzionato rispetto al disvalore dell’illecito, e comunque in una compressione eccessiva del diritto di proprietà dell’autore dell’illecito.

Da ciò deriverebbero i vulnera ai parametri costituzionali ed europei (questi ultimi per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.) invocati dal rimettente.

In particolare, il carattere sproporzionato per eccesso della misura sarebbe suscettibile, secondo il giudice a quo, di tradursi in una violazione tanto dell’art. 3 Cost., quanto delle norme che – a livello costituzionale ed europeo – tutelano il diritto di proprietà: l’art. 42 Cost., da un lato; l’art. 1 Prot. addiz. CEDU e l’art. 17 CDFUE, dall’altro.

Inoltre, dalla natura sostanzialmente "punitiva” della confisca in parola discenderebbe una possibile violazione dell’art. 49 CDFUE, che sancisce il principio per cui «[l]e pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato»; principio che, secondo il rimettente, ben potrebbe essere esteso anche alle sanzioni di carattere sostanzialmente "punitivo” come quella all’esame.

4.– Ha carattere pregiudiziale rispetto all’esame del merito delle questioni, e delle stesse ulteriori eccezioni proposte dall’Avvocatura generale dello Stato, la richiesta da quest’ultima formulata di restituzione degli atti al giudice a quo affinché valuti la permanente rilevanza delle questioni alla luce dello ius superveniens, rappresentato dalle modifiche apportate alla disposizione censurata dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 107, recante «Norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 596/2014, relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva 2003/6/CE e le direttive 2003/124/UE, 2003/125/CE e 2004/72/CE».

La richiesta non può essere accolta, dovendosi senz’altro escludere – per le ragioni che si andranno subito a chiarire – che l’eventuale applicazione della disposizione novellata nel caso concreto possa produrre effetti in mitius rispetto alla previgente disciplina, in questa sede censurata.

4.1.– Nel testo risultante dalle modifiche apportate dal d.lgs. n. 107 del 2018, il comma 1 dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 recita: «[l]’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal presente capo importa la confisca del prodotto o del profitto dell’illecito». Il comma 2 – che prevede la confisca di somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente – è rimasto invariato rispetto al testo previgente.

Due sono, dunque, le modifiche apportate dal d.lgs. n. 107 del 2018 al comma 1 dell’art. 187-sexies: è scomparso l’avverbio «sempre», che seguiva il verbo «importa»; ed è venuto meno il riferimento ai «beni utilizzati» per commettere l’illecito.

4.2.– Dal testo novellato è stato espunto, anzitutto, l’avverbio «sempre» che compariva nella precedente formulazione.

Non pare, tuttavia, che da ciò possa evincersi – nel silenzio serbato dai lavori preparatori e dalla stessa legge 25 ottobre 2017, n. 163 (Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea - Legge di delegazione europea 2016-2017) – una volontà del legislatore delegato di trasformare in meramente facoltativa una misura che in precedenza era, inequivocabilmente, prevista come obbligatoria. La locuzione «importa» allude, oggi come ieri, a un vero e proprio obbligo a carico della Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB) di procedere alla confisca, da esercitare senza alcuno spazio per apprezzamenti discrezionali sulla opportunità o meno di applicare la misura a chi sia stato ritenuto responsabile della commissione di un illecito previsto dal Titolo I-bis, Capo III, del d.lgs. n. 58 del 1998.

Ne consegue che, sotto questo profilo, la novella non innova rispetto al contenuto precettivo della previgente disposizione.

4.3.– Dal testo riformulato è poi scomparso il riferimento ai «beni utilizzati» per commettere l’illecito.

Prima facie, tale eliminazione potrebbe produrre effetti nel caso oggetto del giudizio a quo, dal momento che la CONSOB ha espressamente qualificato l’importo di 149.470 euro oggetto del provvedimento di confisca come importo equivalente al «prodotto» dell’illecito, a sua volta pari alla somma del «profitto» ricavato dall’illecito e dei «beni utilizzati» per commetterlo. Di talché potrebbe ipotizzarsi che, ove si assumesse in via interpretativa l’efficacia retroattiva della novella del 2018 (che nulla dispone circa la propria efficacia intertemporale), l’espunzione dei «beni utilizzati» per commettere l’illecito dagli oggetti della confisca in esame comporti la necessità di rideterminare l’importo complessivo della misura adottata dalla CONSOB nel caso di specie.

Una più attenta considerazione del provvedimento sanzionatorio oggetto del giudizio a quo conduce, tuttavia, a una differente conclusione.

Come già evidenziato (Ritenuto in fatto, punto 1.4.), la CONSOB ha contestato a D. B. di avere acquistato 30.000 azioni della società di cui era amministratore al prezzo complessivo di 123.175,07 euro, essendo in possesso di un’informazione privilegiata, relativa all’imminente lancio di un’offerta pubblica di acquisto volontaria e totalitaria di tale società da parte di altra società di cui lo stesso D. B. era socio. Secondo la prospettazione della CONSOB, al momento della diffusione della notizia del lancio dell’offerta pubblica di acquisto, il valore delle azioni acquistate da D. B. – calcolato sulla base del loro prezzo ufficiale in quella data – si sarebbe innalzato a 149.760 euro complessivi; ciò che avrebbe consentito allo stesso di realizzare un risparmio, rispetto al prezzo che avrebbe dovuto pagare per acquisire quei titoli al momento del lancio dell’offerta pubblica di acquisto, pari a 26.580 euro.

Nell’ottica della CONSOB, dunque, l’importo di 149.760 euro, oggetto di confisca, è equivalente al valore complessivo delle azioni acquistate in precedenza da D. B. sulla base dell’informazione privilegiata di cui egli disponeva, le quali costituivano il «prodotto» della sua condotta illecita; valore a sua volta determinato sulla base del loro prezzo ufficiale determinato al momento del lancio dell’offerta pubblica di acquisto.

In tale prospettiva, risulta evidente che il venir meno della possibilità di confiscare un importo pari ai «beni utilizzati» per commettere l’illecito (nella prospettiva della CONSOB, il denaro originariamente investito per l’acquisto delle 30.000 azioni, pari a 123.175,07 euro) lascerebbe comunque intatto l’obbligo di confiscare il valore equivalente all’intero «prodotto» della condotta, rappresentato dalle azioni acquistate da D. B.: e dunque un valore che la CONSOB ha calcolato, per l’appunto, nella somma di 149.760, confiscata nel caso di specie.

In altre parole, e in termini più generali, il persistente obbligo di confiscare l’intero «prodotto», o il suo valore equivalente, di una condotta di insider trading fa sì che, anche dopo la novella del 2018, continui a essere oggetto di confisca obbligatoria l’intero ammontare degli strumenti finanziari acquistati da chi disponga di un’informazione privilegiata, ovvero – nel caso in cui essi siano stati nel frattempo rivenduti – l’intero loro valore, e non semplicemente il vantaggio economico realizzato mediante l’operazione finanziaria.

5.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito, altresì, l’inammissibilità delle questioni prospettate, che tenderebbero a ottenere, mediante una pronuncia di natura additivo-manipolativa, l’introduzione nell’ordinamento di una nuova fattispecie di confisca, limitata al profitto ricavato dall’illecito; ciò che rientrerebbe invece nelle esclusive prerogative del legislatore.

L’eccezione è infondata.

Questa Corte ha, invero, dichiarato inammissibile una precedente questione di legittimità costituzionale dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 mirante a riconoscere «all’autorità amministrativa (in sede di irrogazione) e al giudice (nell’ambito del giudizio di opposizione) il potere di "graduare” la misura "in rapporto alla gravità in concreto della violazione commessa”», in base alle stesse istanze di proporzionalità della sanzione che vengono invocate in questa sede. Questa Corte ritenne allora che il petitum assumesse «il carattere di una "novità di sistema”: circostanza che lo colloca al di fuori dell’area del sindacato di legittimità costituzionale, per rimetterlo alle eventuali e future soluzioni di riforma, affidate in via esclusiva alle scelte del legislatore» (sentenza n. 252 del 2012). Il carattere "creativo” della soluzione in quell’occasione prospettata dal giudice rimettente discendeva, in effetti, dalla richiesta di introdurre un elemento di flessibilità nel quantum confiscabile in relazione alla concreta gravità dell’illecito: soluzione reputata inconciliabile con la natura "fissa” della confisca, che – nel vigente sistema normativo – può essere obbligatoria o facoltativa, ma non consente graduazioni quantitative affidate alla valutazione discrezionale dell’autorità che dispone la misura (ancora, sentenza n. 252 del 2012).

Il petitum delle odierne questioni di legittimità costituzionale è però del tutto diverso, essendo finalizzato a ottenere una pronuncia non già additivo-manipolativa, come quella cui mirava l’ordinanza di rimessione decisa con la sentenza n. 252 del 2012, bensì parzialmente ablativa. Il giudice a quo chiede infatti, in sostanza, che dall’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 siano eliminati il riferimento ai «mezzi impiegati [recte: beni utilizzati] per commetter[e]» l’illecito, nonché al «prodotto» dell’illecito medesimo, con conseguente conservazione della sola parte della disposizione concernente il «profitto».

L’intervento sollecitato mira, dunque, semplicemente, a ridurre gli oggetti della confisca prevista dalla disposizione censurata; confisca che resterebbe però obbligatoria per la parte residua, relativa al profitto dell’illecito, che dovrebbe essere interamente confiscato (in via diretta o per equivalente). Nessuna manipolazione "creativa” deriverebbe, pertanto, dall’eventuale accoglimento delle questioni ora prospettate, che risultano pertanto – sotto questo profilo – ammissibili.

6.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, infine, che il giudice a quo avrebbe errato nel considerare la confisca applicata nel caso di specie come confisca per equivalente, dovendo invece la stessa essere qualificata come confisca diretta, in quanto avente a oggetto somme di denaro.

Nemmeno questa eccezione è fondata.

A prescindere dalla considerazione che, come si evince dagli atti di causa, nel caso di specie la misura ablativa ha attinto due immobili di proprietà di D. B. e non già somme di denaro, occorre rilevare che la CONSOB ha espressamente indicato come «prodotto» dell’illecito le azioni acquistate da D. B., le quali però non sono state direttamente sottoposte a confisca. La misura ablativa ha, piuttosto, attinto beni di valore corrispondente a quello delle azioni acquistate, sino a concorrenza dell’importo pari – appunto – al valore di quelle azioni, sulla base del loro prezzo ufficiale al momento del lancio dell’offerta pubblica di acquisto.

Non v’è dubbio, pertanto, che l’ablazione patrimoniale di cui è causa si debba qualificare come confisca per equivalente del prodotto dell’illecito.

7.– Pur in assenza di una specifica eccezione sul punto, va infine affermata – in conformità ai principi espressi nelle sentenze n. 269 del 2017, n. 20 del 2019 e n. 63 del 2019 – l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale prospettate con riferimento agli artt. 17 e 49 CDFUE, per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.: questioni che questa Corte ha il compito di vagliare, essendo stata a ciò sollecitata dal giudice a quo.

8.– Nel merito, le questioni sono fondate, in relazione a tutti i parametri invocati.

In materia penale, la giurisprudenza di questa Corte considera costituzionalmente illegittime pene manifestamente sproporzionate per eccesso in relazione alla gravità del reato, in ragione del loro contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. (infra, punto 8.1.). Sanzioni amministrative manifestamente sproporzionate per eccesso rispetto alla gravità dell’illecito violano, dal canto loro, l’art. 3 Cost. in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti di volta in volta incisi dalla sanzione, nonché – nell’ambito del diritto dell’Unione europea – l’art. 49, paragrafo 3, CDFUE (infra, punto 8.2.). La confisca per equivalente del «prodotto» degli illeciti previsti dal Titolo I-bis, Capo III, del d. lgs. n. 58 del 1998 e dei «beni utilizzati» per commetterli conduce a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati per eccesso rispetto alla gravità degli illeciti in questione (infra, punto 8.3.). Il rischio di eccessi punitivi conseguenti alla previsione dell’obbligatorietà della confisca del «prodotto» degli illeciti amministrativi in questione e dei «beni utilizzati» per commetterli era stato del resto da tempo rilevato da questa Corte e dalla stessa CONSOB, tanto che il legislatore – mediante la legge n. 163 del 2017 – aveva delegato il Governo a rivedere la disposizione qui censurata, prevedendo la confisca del solo «profitto» derivato dagli illeciti in questione (infra, punto 8.4.). La dichiarazione di illegittimità costituzionale in parte qua della disposizione censurata non è, d’altra parte, in contrasto con gli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione europea, che impongono soltanto la confisca del profitto che l’autore abbia ricavato dagli illeciti in questione (infra, punto 8.5.).

8.1.– Come già si è osservato, il nucleo essenziale delle censure sollevate dal giudice a quo concerne il carattere sproporzionato della sanzione costituita dalla confisca per equivalente del «prodotto» dell’illecito di insider trading e dei «beni utilizzati» per commetterlo, e la sua correlativa eccessiva incidenza sul diritto di proprietà dell’autore dell’illecito.

La giurisprudenza di questa Corte ha avuto varie occasioni di confrontarsi con il quesito se, e in che limiti, sia possibile un sindacato di legittimità costituzionale sulle tipologie e sulla misura di sanzioni amministrative alla luce del criterio di proporzionalità della sanzione. Tuttavia, l’angolo visuale pressoché esclusivo dal quale tali questioni sono state affrontate è stato soltanto quello del divieto di automatismi legislativi nell’applicazione della sanzione (infra, punto 8.2.2.): divieto che costituisce soltanto uno dei profili che vengono in considerazione nella questione oggi all’esame di questa Corte.

Numerose – e assai più variegate nella tipologia di valutazioni effettuate dalla Corte – sono, invece, le pronunce che concernono la parallela questione del sindacato sulle scelte sanzionatorie del legislatore in materia penale, sulla quale conviene anzitutto brevemente soffermarsi.

8.1.1. – Nell’ambito del diritto penale, la costante giurisprudenza di questa Corte riconosce un’ampia discrezionalità al legislatore nella determinazione delle pene da comminare per ciascun reato. Tale discrezionalità si estende in linea di principio al quomodo così come al quantum della pena, essendo riservata al legislatore – in forza dello stesso art. 25, secondo comma, Cost. – la scelta delle pene più adeguate allo scopo di tutelare i beni giuridici tutelati da ciascuna norma incriminatrice, nonché la determinazione dei loro limiti minimi e massimi.

Tale discrezionalità è soggetta, tuttavia, a una serie di vincoli derivanti dalla Costituzione, tra i quali il divieto di comminare pene manifestamente sproporzionate per eccesso, che viene in questa sede in considerazione.

8.1.2.– Il sindacato sulla proporzionalità della pena si è storicamente affermato, nella giurisprudenza di questa Corte, anzitutto sotto il profilo del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. Da tale principio si è tratta la naturale implicazione relativa alla necessità che a fatti di diverso disvalore corrispondano diverse reazioni sanzionatorie; con conseguente atteggiarsi del giudizio di legittimità costituzionale sulla misura della pena secondo uno schema triadico, imperniato attorno al confronto tra la previsione sanzionatoria censurata e quella apprestata per altra figura di reato di pari o addirittura maggiore gravità, assunta quale tertium comparationis (sentenze n. 68 del 2012, n. 409 del 1989 e n. 218 del 1974, nonché – sotto il duplice profilo del contrasto con gli artt. 3 e 8 Cost. – sentenze n. 327 del 2002, n. 508 del 2000 e n. 329 del 1997).

8.1.3.– La valorizzazione, accanto all’art. 3 Cost., del parametro rappresentato dall’art. 27, terzo comma, Cost. – e in particolare del necessario orientamento alla rieducazione che la pena deve possedere – ha condotto in altre pronunce questa Corte (a partire dalle sentenze n. 343 del 1993, n. 422 del 1993 e n. 341 del 1994) a estendere il proprio sindacato anche a ipotesi in cui la pena comminata dal legislatore appaia manifestamente sproporzionata non tanto in rapporto alle pene previste per altre figure di reato, quanto piuttosto in rapporto – direttamente – alla gravità delle condotte abbracciate dalla fattispecie astratta, senza che sia più necessaria l’evocazione di alcuno specifico tertium comparationis da parte del rimettente, se non al limitato fine di assistere questa Corte nell’individuazione del trattamento sanzionatorio che possa sostituirsi, in attesa di un sempre possibile intervento del legislatore, a quello dichiarato incostituzionale (in questo senso, in particolare, sentenze n. 40 del 2019, n. 222 del 2018 e n. 236 del 2016). Ciò nella consapevolezza che pene eccessivamente severe tendono a essere percepite come ingiuste dal condannato, e finiscono così per risolversi in un ostacolo alla sua rieducazione (sentenza n. 68 del 2012).

Nella stessa ottica debbono, d’altra parte, essere lette le numerose pronunce che hanno inciso sull’art. 69, ultimo comma, del codice penale, in ragione dell’esigenza di evitare l’irrogazione in concreto di pene sproporzionate per eccesso per effetto del divieto di prevalenza di talune circostanze attenuanti sulle aggravanti indicate in quella disposizione (sentenze n. 205 del 2017, nn. 106 e 105 del 2014 e n. 251 del 2012).

8.1.4.– La considerazione, accanto all’art. 3 Cost., del principio di personalità della responsabilità penale sancito dal primo comma dell’art. 27 Cost. – da leggersi anch’esso alla luce della necessaria funzione rieducativa della pena di cui al terzo comma dello stesso art. 27 Cost. – è inoltre alla base dell’ulteriore canone della necessaria individualizzazione della pena, pure enucleato da una risalente giurisprudenza di questa Corte, che si oppone in linea di principio alla previsione di pene fisse nel loro ammontare (sentenza n. 222 del 2018, che richiama in senso conforme le sentenze n. 50 del 1980, n. 104 del 1968 e n. 67 del 1963). Tale canone esige che – nel passaggio dalla comminatoria astratta operata dal legislatore alla sua concreta inflizione da parte del giudice – la pena si atteggi come risposta proporzionata anche alla concreta gravità, oggettiva e soggettiva, del singolo fatto di reato; il che comporta, almeno di regola, la necessità dell’attribuzione al giudice di un potere discrezionale nella determinazione della pena nel caso concreto, entro un minimo e un massimo predeterminati dal legislatore.

8.2.– Occorre a questo punto vagliare se, ed eventualmente in che limiti, tali principi possano essere ritenuti applicabili anche alla materia, che viene qui in considerazione, delle sanzioni amministrative.

8.2.1.– Questa Corte ha esteso in molteplici occasioni alle sanzioni amministrative di carattere sostanzialmente "punitivo” talune garanzie riservate dalla Costituzione alla materia penale.

Ciò è accaduto, in particolare, in relazione ad una serie di corollari del principio nullum crimen, nulla poena sine lege enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost., quali il divieto di retroattività delle modifiche sanzionatorie in peius (sentenze n. 223 del 2018, n. 68 del 2017, n. 276 del 2016, n. 104 del 2014 e n. 196 del 2010), della sufficiente precisione del precetto sanzionato (sentenze n. 121 del 2018 e n. 78 del 1967), nonché della retroattività delle modifiche sanzionatorie in mitius (sentenza n. 63 del 2019).

Una tale estensione non è avvenuta, invece, in relazione ai principi in materia di responsabilità penale stabiliti dall’art. 27 Cost. (sentenza n. 281 del 2013 e ordinanza n. 169 del 2013). Tali principi – a cominciare dalla necessaria funzione rieducativa della pena – appaiono infatti strettamente connessi alla logica della pena privativa, o quanto meno limitativa, della libertà personale, attorno alla quale è tutt’oggi costruito il sistema sanzionatorio penale, e che resta sempre più o meno direttamente sullo sfondo anche nell’ipotesi in cui vengano irrogate pene di natura diversa, come rimedio di ultima istanza in caso di inadempimento degli obblighi da esse derivanti.

8.2.2.– Cionondimeno, non può dubitarsi che il principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità dell’illecito sia applicabile anche alla generalità delle sanzioni amministrative.

Come anticipato, questa Corte ha già, in numerose occasioni, invocato tale principio – anche in relazione a misure delle quali veniva espressamente negata la natura "punitiva” (come nel caso deciso dalla sentenza n. 22 del 2018) – a fondamento di dichiarazioni di illegittimità costituzionale di automatismi sanzionatori, ritenuti non conformi al principio in questione proprio perché esso postula «l’adeguatezza della sanzione al caso concreto»; adeguatezza che «non può essere raggiunta se non attraverso la concreta valutazione degli specifici comportamenti messi in atto nella commissione dell’illecito» (sentenza n. 161 del 2018; nello stesso senso, ex multis, sentenze n. 268 del 2016 e n. 170 del 2015).

8.2.3.– Il principio di proporzionalità della sanzione possiede, peraltro, potenzialità applicative che eccedono l’orizzonte degli automatismi legislativi, come dimostra proprio la giurisprudenza relativa alla materia penale appena rammentata, e i cui principali approdi sono estensibili anche alla materia delle sanzioni amministrative, rispetto alla quale – peraltro – il principio in parola non trae la propria base normativa dal combinato disposto degli artt. 3 e 27 Cost., bensì dall’art. 3 Cost. in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti di volta in volta incisi dalla sanzione.

Non erra, pertanto, il giudice rimettente nell’identificare nel combinato disposto degli artt. 3 e 42 Cost. il fondamento domestico del principio di proporzionalità di una sanzione che, come la confisca di cui è discorso, incide in senso limitativo sul diritto di proprietà dell’autore dell’illecito; né erra nell’identificare negli artt. 1 Prot. addiz. CEDU e nell’art. 17 CDFUE i fondamenti, rispettivamente, nel diritto della Convenzione e dell’Unione europea, del principio in questione, in quanto riferito a una sanzione patrimoniale.

8.2.4.– A tali basi normative parrebbe altresì affiancarsi, nell’ambito del diritto dell’Unione europea, l’art. 49, paragrafo 3, CDFUE.

Ancorché il testo di tale disposizione faccia riferimento alle «pene» e al «reato», la Corte di giustizia dell’Unione europea ha recentemente considerato applicabile tale principio all’insieme delle sanzioni – penali e amministrative, queste ultime anch’esse di carattere "punitivo” – irrogate in seguito alla commissione di un fatto di manipolazione del mercato, ai fini della verifica del rispetto del diverso principio del ne bis in idem (Corte di giustizia, sentenza 20 marzo 2018, Garlsson Real Estate SA e altri, in causa C-537/16, paragrafo 56). Ciò in coerenza con la Spiegazione relativa all’art. 49 CDFUE, ove si chiarisce che «[i]l paragrafo 3 riprende il principio generale della proporzionalità dei reati e delle pene sancito dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità»: giurisprudenza, quest’ultima, formatasi esclusivamente in materia di sanzioni amministrative applicate dalle istituzioni comunitarie.

Lo stesso art. 49, paragrafo 3, CDFUE è stato del resto recentemente invocato dalla Sezioni unite civili della Corte di cassazione a fondamento dell’affermazione secondo cui anche forme di risarcimento con funzione prevalentemente deterrente come i "punitive damages” eventualmente disposti da una sentenza straniera debbono comunque rispettare il principio di proporzionalità per poter essere riconosciuti nel nostro ordinamento (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 5 luglio 2017, n. 16601).

8.2.5.– La stessa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha, in alcune sentenze su cui ha giustamente richiamato l’attenzione la parte privata, ritenuto illegittime – al metro dell’art. 1 Prot. addiz. CEDU – confische amministrative aventi ad oggetto l’intero ammontare di denaro che non era stato dichiarato alla dogana, e non soltanto l’importo dei diritti doganali evasi. E ciò proprio in relazione al carattere manifestamente sproporzionato di simili misure rispetto ai pur legittimi fini perseguiti dallo Stato, in relazione alla concreta gravità degli illeciti che di volta in volta venivano in considerazione, tenuto conto anche del fatto che le misure ablative in questione si sommavano alle sanzioni pecuniarie irrogate per l’omessa dichiarazione delle somme (Corte EDU, sentenze 31 gennaio 2017, Boljević contro Croazia; 26 febbraio 2009, Grifhorst contro Francia, paragrafi 87 e seguenti; 5 febbraio 2009, Gabrić contro Croazia paragrafi 34 e seguenti; 9 luglio 2009, Moon contro Francia, paragrafi 46 e seguenti; 6 novembre 2008, Ismayilov contro Russia).

8.3.– È, dunque, sulla base di tali principi che deve essere scrutinata la legittimità costituzionale della disposizione censurata, che impone la confisca alternativa, diretta o per equivalente, del «prodotto» o del «profitto» degli illeciti previsti dal Titolo I-bis, Capo III, del d.lgs. n. 58 del 1998, oltre che dei «beni utilizzati» per commettere gli illeciti medesimi.

8.3.1.– Secondo le consolidate coordinate penalistiche, delle quali il lessico utilizzato nella disposizione censurata è debitrice, «prodotto» di un illecito è «il risultato empirico dell’illecito, cioè le cose create, trasformate, adulterate o acquistate mediante il reato» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 marzo 2008, n. 26654). In altre parole, costituiscono «prodotto» tutte le cose materiali che, in una prospettiva puramente causale, "derivano” dalla commissione dell’illecito medesimo. È pertanto «prodotto» del reato il documento contraffatto, il nastro contenente la registrazione di una conversazione illegittimamente intercettata, la cosa acquistata da chi ne conosceva l’origine delittuosa.

In questa logica, il «prodotto» di un illecito come l’abuso di informazioni privilegiate – che consiste, nel suo nucleo essenziale, nel compimento di operazioni di compravendita di strumenti finanziari da parte di chi possieda un’informazione ancora riservata, la cui successiva diffusione al pubblico potrebbe determinare una variazione del prezzo di tali strumenti – non può che essere rappresentato dall’insieme degli strumenti acquistati, ovvero dall’intera somma ricavata dalla loro vendita (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 6 aprile 2018, n. 8590).

8.3.2.– Il «profitto» è, invece, l’utilità economica conseguita mediante la commissione dell’illecito. Nelle ipotesi di acquisto di strumenti finanziari, il profitto consiste dunque nel risultato economico dell’operazione valutato nel momento in cui l’informazione privilegiata della quale l’agente disponeva diviene pubblica, calcolato più in particolare sottraendo al valore degli strumenti finanziari acquistati il costo effettivamente sostenuto dall’autore per compiere l’operazione, così da quantificare l’effettivo "guadagno” (in termini finanziari, la "plusvalenza”) ovvero, come nel caso di specie, il "risparmio di spesa” che l’agente abbia tratto dall’operazione.

Nelle ipotesi di vendita di strumenti finanziari sulla base di un’informazione privilegiata, il «profitto» conseguito non potrà invece che identificarsi nella "perdita evitata” in rapporto al successivo deprezzamento degli strumenti, conseguente alla diffusione dell’informazione medesima; e dunque andrà calcolato sulla base della differenza tra il corrispettivo ottenuto dalla vendita degli strumenti finanziari, e il loro successivo (diminuito) valore. Conclusione, questa, suggerita anche da un’interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, avuto riguardo in particolare al Regolamento (UE) n. 596/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, relativo agli abusi di mercato (regolamento sugli abusi di mercato) e che abroga la direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e le direttive 2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE della Commissione: regolamento il cui art. 30, paragrafo 2, lettera b), impone agli Stati membri l’obbligo di prevedere «la restituzione dei guadagni realizzati o delle perdite evitate grazie alla violazione, per quanto possano essere determinati».

8.3.3.– Quanto infine ai «beni utilizzati» per commettere l’illecito, in tema di abusi di mercato essi – lungi dal poter essere identificati nei tradizionali instrumenta sceleris, in genere rappresentati da cose intrinsecamente pericolose se lasciate nella disponibilità del reo, come negli esempi di scuola del grimaldello o della stampante di monete false – non possono che consistere nelle somme di denaro investite nella transazione, ovvero negli strumenti finanziari alienati dall’autore.

8.3.4.– Da tutto ciò consegue che, in tema di abusi di mercato, mentre l’ablazione del «profitto» ha una mera funzione ripristinatoria della situazione patrimoniale precedente in capo all’autore, la confisca del «prodotto» – identificato nell’intero ammontare degli strumenti acquistati dall’autore, ovvero nell’intera somma ricavata dalla loro alienazione – così come quella dei «beni utilizzati» per commettere l’illecito – identificati nelle somme di denaro investite nella transazione, ovvero negli strumenti finanziari alienati dall’autore – hanno un effetto peggiorativo rispetto alla situazione patrimoniale del trasgressore.

Tali forme di confisca assumono pertanto una connotazione "punitiva”, infliggendo all’autore dell’illecito una limitazione al diritto di proprietà di portata superiore (e, di regola, assai superiore) a quella che deriverebbe dalla mera ablazione dell’ingiusto vantaggio economico ricavato dall’illecito.

Muovendo da questa prospettiva, del resto, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha recentemente affermato la natura "punitiva” – e non meramente ripristinatoria – della misura, funzionalmente analoga a quella ora in considerazione, del «disgorgement» applicato dalla Security Exchange Commission (SEC) in materia di abusi di mercato; e ciò proprio in quanto tale misura – estendendosi all’intero risultato della transazione illecita – eccede, di regola, il valore del vantaggio economico che l’autore ha tratto dalla transazione stessa (Corte suprema degli Stati Uniti, sentenza 5 giugno 2017, Kokesh contro Security Exchange Commission).

8.3.5.– Nel vigente sistema sanzionatorio degli abusi di mercato, la (predominante) componente "punitiva” insita nella confisca del «prodotto» dell’illecito e dei «beni utilizzati» per commetterlo si aggiunge all’afflizione determinata dalle altre sanzioni previste dal d.lgs. n. 58 del 1998 e, in particolare, dalla sanzione amministrativa pecuniaria. Una sanzione, quest’ultima, la cui cornice edittale è essa pure di eccezionale severità, potendo giungere sino ad un massimo (oggi) di cinque milioni di euro, aumentabili in presenza di particolari circostanze fino al triplo, ovvero fino al maggiore importo di dieci volte il profitto conseguito ovvero le perdite evitate per effetto dell’illecito.

8.3.6.– A giudizio di questa Corte, la combinazione tra una sanzione pecuniaria di eccezionale severità, ma graduabile in funzione della concreta gravità dell’illecito e delle condizioni economiche dell’autore dell’infrazione, e una ulteriore sanzione anch’essa di carattere "punitivo” come quella rappresentata dalla confisca del prodotto e dei beni utilizzati per commettere l’illecito, che per di più non consente all’autorità amministrativa e poi al giudice alcuna modulazione quantitativa, necessariamente conduce, nella prassi applicativa, a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati.

Simili risultati sono emblematicamente illustrati dal caso oggetto del giudizio a quo, in cui l’autore di una condotta di insider trading è stato punito con una sanzione pecuniaria di 200.000 euro, che si è aggiunta alla confisca per equivalente dell’intero valore delle azioni acquistate avvalendosi di un’informazione privilegiata, pari a ulteriori 149.760 euro, a fronte di un vantaggio economico di 26.580 euro conseguito dall’operazione. A conti fatti, la componente "punitiva” di tale complessiva sanzione – risultante dalla somma tra la sanzione pecuniaria e la confisca di ciò che eccede rispetto al profitto tratto dall’operazione – è qui pari a circa tredici volte tale profitto: un coefficiente che non può che apparire manifestamente eccessivo rispetto ai legittimi scopi di prevenzione generale e speciale perseguiti dalla norma che vieta l’insider trading.

8.4.– Nel dichiarare inammissibile la questione di costituzionalità dell’art 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 all’epoca sollevata, questa Corte aveva del resto già riconosciuto che quello delle «conseguenze ultra modum che possono scaturire, in determinati contesti, dalla previsione della confisca obbligatoria, non solo del profitto, ma anche dei beni strumentali alla commissione dell’illecito» costituisce un «problema in sé reale e avvertito, da sottoporre all’attenzione del legislatore» (sentenza n. 252 del 2012), al quale tuttavia la Corte non ritenne in quell’occasione di poter porre direttamente rimedio in considerazione della peculiare formulazione del petitum allora sottopostole (supra, punto 5).

L’ammonimento di questa Corte non era sfuggito alla CONSOB, la quale – come giustamente rammentato dalla difesa della parte privata – aveva richiamato il legislatore, nella propria Relazione annuale per il 2012, all’opportunità di riformare «l’attuale disciplina della confisca obbligatoria (art. 187-sexies), suscettibile di rivelarsi […] particolarmente afflittiva e non proporzionata all’effettiva gravità dell’illecito accertato», auspicando l’introduzione di coefficienti di graduabilità del quantum della sanzione, in grado di assicurarne la commisurazione individualizzata in relazione alla gravità concreta dell’illecito medesimo.

A tale sollecitazione il legislatore ha in effetti risposto con la legge n. 163 del 2017, che, all’art. 8, comma 3, lettera g), ha delegato il Governo a rivedere l’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 «in modo tale da assicurare l’adeguatezza della confisca, prevedendo che essa abbia ad oggetto, anche per equivalente, il profitto derivato dalle previsioni del regolamento (UE) n. 596/2014»: formulazione, questa, che non fa più alcuna menzione né del «prodotto» dell’illecito, né dei «beni utilizzati» per commetterlo, considerati evidentemente forieri di eccessi sanzionatori.

A fronte poi della predisposizione da parte del Governo di uno schema di decreto che eliminava bensì la previsione della confisca dei «beni utilizzati» per commettere l’illecito, ma non quella del «prodotto» dell’illecito medesimo, il Commissario della CONSOB, sentito il 17 luglio 2018 in audizione dalle Commissioni riunite Giustizia e Finanze della Camera, auspicò l’accoglimento da parte del legislatore delegato della «posizione già espressa dal Parlamento e fatta propria dalla CONSOB», prevedendo «la confisca limitatamente al profitto delle violazioni in materia di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione, di cui agli artt. 187-bis e 187-ter» del d.lgs. 58 del 1998.

Il legislatore delegato non ha, tuttavia, accolto tale auspicio, riconfermando nel novellato art. 187-sexies del d. lgs. n. 58 del 1998, come modificato dal d.lgs. n. 107 del 2018, la confiscabilità tanto del «profitto» quanto del «prodotto» dell’illecito, con ciò riproponendo nella nuova disposizione i vizi che affliggevano quella previgente.

La diversa struttura dell’odierna questione di legittimità costituzionale rispetto a quella decisa con la menzionata sentenza n. 252 del 2012 consente, ora, a questa Corte di porre rimedio a tali vizi di legittimità costituzionale, attraverso una pronuncia di carattere parzialmente ablativo in grado di ovviare alle conseguenze «ultra modum» che discendono dalla disciplina censurata.

8.5.– Né l’odierna pronuncia incontra alcun ostacolo nel diritto dell’Unione europea, il quale non impone la confisca del «prodotto» dell’illecito e dei «beni utilizzati» per commetterlo.

Come anticipato, infatti, il vigente Regolamento n. 596/2014 richiede soltanto agli Stati membri – all’art. 30, paragrafo 2, lettera b) – di prevedere «la restituzione dei guadagni realizzati o delle perdite evitate grazie alla violazione, per quanto possano essere determinati».

Come risulta anche dalle diverse versioni linguistiche del testo («the disgorgement of the profits gained or losses avoided», in inglese; «la restitution de l’avantage retiré de cette violation ou des pertes qu’elle a permis d’éviter», in francese; «den Einzug der infolge des Verstoßes erzielten Gewinne oder vermiedene Verluste», in tedesco; «la restitución de los beneficios obtenidos o de las pérdidas evitadas», in spagnolo), il regolamento in parola allude senza equivoco al solo "vantaggio economico” (in termini di guadagno o di perdita evitata) ottenuto dal compimento di un’operazione in condizioni di asimmetria informativa e in violazione di un dovere di astensione – per effetto del possesso di un’informazione privilegiata – rispetto alla generalità degli operatori nel mercato degli strumenti finanziari.

9.– Da quanto precede consegue l’illegittimità costituzionale della previsione della confisca obbligatoria del «prodotto» dell’illecito amministrativo e dei «beni utilizzati» per commetterlo, in ragione del suo contrasto con gli artt. 3, 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, nonché degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 17 e 49, paragrafo 3, CDFUE.

Il giudice a quo parrebbe, invero, circoscrivere il petitum alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della sola previsione della loro confisca per equivalente. Al riguardo, va tuttavia considerato che l’effetto manifestamente sproporzionato della confisca in oggetto – esattamente posto in luce dall’ordinanza di rimessione – non dipende dal fatto che la misura abbia ad oggetto direttamente i beni o il denaro ricavati dalla transazione o utilizzati nella transazione stessa, ovvero beni o denaro di valore equivalente; quanto, piuttosto, dalla stessa previsione dell’obbligo di procedere alla confisca del «prodotto» dell’illecito e dei «beni utilizzati» per commetterlo.

Va, pertanto, dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 187-sexies, del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera a), della legge n. 62 del 2005, nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del «prodotto» dell’illecito e dei «beni utilizzati» per commetterlo, e non del solo «profitto».

10.– La presente dichiarazione di illegittimità costituzionale deve essere estesa, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), all’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nella versione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 4, comma 14, del d.lgs. n. 107 del 2018, nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del «prodotto» dell’illecito, e non del solo profitto, per contrasto con tutti i parametri invocati nell’ordinanza di rimessione.

Nonostante la già ricordata disposizione della legge delega n. 163 del 2017 (supra, punto 8.4.), che delegava il Governo a rivedere l’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 limitando l’oggetto della confisca ivi prevista al solo «profitto derivato dalle previsioni del regolamento (UE) n. 596/2014», il d.lgs. n. 107 del 2018 ha invece confermato la confisca obbligatoria, in via alternativa, del «profitto» o del «prodotto» dell’illecito, espungendo soltanto il riferimento ai «beni utilizzati» per commetterlo, presente nella versione previgente.

In tal modo, il legislatore delegato ha riprodotto, seppure parzialmente, una disposizione che si espone ai medesimi vizi di legittimità costituzionale che affliggono la disciplina previgente. Anche tale disposizione deve pertanto essere dichiarata, in via consequenziale, costituzionalmente illegittima in parte qua.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dispone la separazione del giudizio promosso dalla Corte di cassazione, sezione seconda civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe, riservando a separata pronuncia la decisione delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), sollevate in riferimento agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e all’art. 14, comma 3, lettera g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, nonché in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007;

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera a), della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, e non del solo profitto;

3) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nella versione risultante dalle modifiche apportate dall’art. 4, comma 14, del decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 107, recante «Norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 596/2014, relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva 2003/6/CE e le direttive 2003/124/UE, 2003/125/CE e 2004/72/CE», nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito, e non del solo profitto.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 marzo 2019.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 maggio 2019.