SENTENZA N. 112
ANNO 2019
Commenti
alla decisione di
I. G. L., Proporzionalità
della pena, sanzioni amministrative ed oggetto della confisca in una pronuncia
di accoglimento della Corte costituzionale in materia di insider trading, per
g.c. di Diritto
Penale Contemporaneo
II. Adele Anzon Demmig, Applicazioni
virtuose della nuova "dottrina” sulla "doppia pregiudizialità” in tema di
diritti fondamentali (in margine alle decisioni nn. 112
e 117/2019), per g.c. dell’Osservatorio AIC
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
composta
dai signori:
Presidente:
Giorgio LATTANZI;
Giudici:
Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,
Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO,
Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco
VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nel
giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 187-sexies e
187-quinquiesdecies del decreto
legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia
di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6
febbraio 1996, n. 52), introdotti, rispettivamente, dall’art. 9, comma 2,
lettere a) e b), della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per
l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità
europee. Legge comunitaria 2004), promosso dalla Corte di cassazione,
sezione seconda civile, nel procedimento vertente tra D. B. e la Commissione
nazionale per le società e la borsa (CONSOB), con ordinanza
del 16 febbraio 2018, iscritta al n. 54 del registro ordinanze 2018 e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie
speciale, dell’anno 2018.
Visti
l’atto di costituzione di D. B., nonché l’atto di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito
nell’udienza pubblica del 5 marzo 2019 il Giudice relatore Francesco Viganò;
uditi
l’avvocato Renzo Ristuccia per D. B. e l’avvocato
dello Stato Pio Giovanni Marrone per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.–
Con ordinanza del 16 febbraio 2018, la Corte di cassazione, sezione seconda
civile, ha sollevato – in riferimento agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo in relazione all’art.
6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e all’art.
14, comma 3, lettera g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici
adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con la
legge 25 ottobre 1977, n. 881, nonché in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.,
in relazione all’art.
47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata
a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 –
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del
decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia
di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6
febbraio 1996, n. 52), nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma
2, lettera b), della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per
l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità
europee. Legge comunitaria 2004), «nella parte in cui detto articolo sanziona
la condotta consistente nel non ottemperare tempestivamente alle richieste
della CONSOB o nel ritardare l’esercizio delle sue funzioni anche nei confronti
di colui al quale la medesima CONSOB, nell’esercizio delle funzioni di
vigilanza, contesti un abuso di informazioni privilegiate».
Con
la medesima ordinanza, la Corte di cassazione ha altresì sollevato – in
riferimento agli artt.
3, 42 e 117, primo comma, Cost.,
quest’ultimo in relazione all’art.
1 del Protocollo addizionale alla CEDU, firmato a Parigi il 20 maggio 1952,
ratificato e reso esecutivo con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché in riferimento
agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.,
in relazione agli artt.
17 e 49 CDFUE – questioni di legittimità costituzionale dell’art.
187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo originariamente introdotto
dall’art. 9, comma 2, lettera a), della legge n. 62 del 2005, «nella parte in
cui esso assoggetta a confisca per equivalente non soltanto il profitto
dell’illecito ma anche i mezzi impiegati per commetterlo, ossia l’intero
prodotto dell’illecito».
Dal
momento che – come si dirà più innanzi (Considerato in diritto, punto 1.1.) –
questa Corte ritiene di dover sospendere il giudizio sulle questioni di
legittimità aventi ad oggetto l’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del
1998, con conseguente necessità di definire in questa sede soltanto le
questioni concernenti l’art. 187-sexies del medesimo decreto legislativo,
saranno qui esposti, nel prosieguo, i soli argomenti spesi nell’ordinanza di
rimessione e negli atti del presente giudizio in relazione a tali questioni.
1.1.–
Il procedimento a quo trae origine da un provvedimento sanzionatorio emesso il
2 maggio 2012, con il quale la Commissione nazionale per le società e la borsa
(CONSOB) ha irrogato nei confronti di D. B., tra l’altro, una sanzione
pecuniaria di 200.000 euro in relazione all’illecito amministrativo di abuso di
informazioni privilegiate previsto dall’art. 187-bis, comma 1, lettera a), del
d.lgs. n. 58 del 1998, nella versione vigente all’epoca dei fatti, con riguardo
all’acquisto, effettuato da D. B. nel febbraio 2009, di 30.000 azioni di una
società quotata della quale era socio e consigliere di amministrazione, sulla
base del possesso dell’informazione privilegiata relativa all’imminente lancio
di un’offerta pubblica di acquisto volontaria e totalitaria di tale società,
promossa da altra società costituita ad hoc e della quale egli stesso era socio.
In
relazione a tale operazione, la CONSOB ha altresì disposto nei confronti di D.
B. la confisca di beni immobili fino a concorrenza dell’importo di 149.760
euro, pari all’intero valore delle azioni acquistate mediante la condotta sopra
descritta, ai sensi dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998.
D. B.
ha proposto opposizione avanti alla Corte d’appello di Roma avverso il
provvedimento sanzionatorio della CONSOB.
La
Corte d’appello di Roma ha tuttavia rigettato l’opposizione, confermando così il
provvedimento sanzionatorio adottato dalla CONSOB, con sentenza depositata il
20 novembre 2013.
Contro
tale sentenza D. B. ha quindi proposto il ricorso per cassazione che ha dato
origine al presente procedimento incidentale di legittimità costituzionale.
1.2.–
Secondo il giudice a quo, l’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 sarebbe,
in particolare, di dubbia compatibilità con la Costituzione nella parte in cui
assoggetta a confisca per equivalente «non soltanto il profitto dell’illecito,
ma l’intero prodotto dell’illecito, vale a dire l’equivalente della somma del
profitto dell’illecito (ossia la plusvalenza ritratta dalle illecite operazioni
di trading) e dei mezzi impiegati per realizzare l’illecito (ossia il denaro o
le altre utilità impiegate dall’agente per finanziare dette operazioni di
trading)».
1.3.–
Ad avviso del rimettente, le questioni concernenti l’art. 187-sexies del d.lgs.
n. 58 del 1998 sarebbero, anzitutto, rilevanti nel giudizio a quo.
Espone
la Corte di cassazione che D. B., essendo in possesso di un’informazione
privilegiata, aveva «speso € 123.175,07 (beni utilizzati per commettere
l’illecito) per acquistare titoli da cui [aveva] ricavato € 149.760 (prodotto
dell’illecito), ritraendo dall’operazione di trading una plusvalenza di €
26.580 (profitto dell’illecito)».
Sulla
base dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, in questa sede censurato,
la CONSOB ha disposto la confisca di beni immobili sino a concorrenza
dell’importo di 149.760 euro, equivalente al prodotto dell’illecito; prodotto
che sarebbe a sua volta pari «alla somma del profitto ritratto dall’illecito e
dei mezzi impiegati per commetterlo».
Secondo
la sezione rimettente, l’accoglimento delle questioni di legittimità
prospettate determinerebbe, allora, la necessità di rideterminare l’importo
della confisca per equivalente nella somma di 26.580 euro, pari al solo
profitto dell’illecito.
1.4.–
Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente muove dal
presupposto interpretativo, condiviso dalla giurisprudenza della Corte di
cassazione e di questa stessa Corte, che la confisca per equivalente applicata
nel caso di specie costituisca misura ablativa dalla natura «eminentemente
sanzionatoria», in ragione della sua connotazione «prevalentemente afflittiva».
Essa colpirebbe infatti beni privi di rapporto di pertinenzialità con
l’illecito, ciò che ne marcherebbe la netta distinzione rispetto alla confisca
diretta, la quale reagirebbe invece «alla pericolosità indotta nell’autore
dell’illecito dalla disponibilità dei beni utilizzati per commetterlo e dei
beni dal medesimo ricavati».
Secondo
il giudice a quo, l’illegittimità costituzionale della confisca obbligatoria
del prodotto dell’illecito discenderebbe, in sostanza, dalla «mancanza di
proporzionalità tra la misura del sacrificio imposta al sanzionato e le
finalità pubbliche da perseguire». Il suo importo risulterebbe infatti, «in
relazione al profitto realizzato in una specifica operazione di trading, […]
inversamente proporzionale al vantaggio concretamente derivato all’agente
dall’uso di una informazione privilegiata, vale a dire inversamente
proporzionale al tasso di profitto dell’operazione stessa; infatti, il tasso di
profitto generato da una operazione di trading realizzata abusando di informazioni
privilegiate è tanto maggiore quanto minore è l’entità dei mezzi che l’agente
ha impiegato (e pertanto vengono assoggettati a confisca) per conseguire il
profitto ritratto dall’operazione stessa».
Il
rimettente dubita, allora, della compatibilità di tale misura con l’art. 3 Cost., in
relazione tanto alle caratteristiche di potenziale eccessività della misura,
quanto alla mancanza di un rapporto predefinito tra il valore dei beni suscettibili
di confisca e il profitto realizzato dall’agente.
Il
difetto di proporzionalità della misura desterebbe, d’altra parte, dubbi anche
in ordine alla sua conformità con le esigenze di tutela del diritto di
proprietà, riconosciuto, a livello nazionale, dall’art. 42 Cost. e, a
livello sovranazionale, dall’art.
1 Prot. addiz. CEDU
(quest’ultimo rilevante nell’ordinamento italiano tramite l’art. 117, primo comma,
Cost.), in particolare «sotto il profilo dell’inadeguato bilanciamento tra
la tutela del diritto di proprietà e le ragioni di interesse generale» che
giustificano la misura della confisca.
Infine,
le medesime ragioni evidenzierebbero la non manifesta infondatezza dei dubbi di
compatibilità della misura in questione con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.,
in relazione agli artt.
17 e 49 CDFUE. L’art. 17 CDFUE tutela, infatti, il diritto di proprietà in
termini analoghi all’art. 1 Prot. addiz. CEDU; mentre
l’art. 49, paragrafo 3, CDFUE sancisce il principio della proporzionalità delle
pene, che secondo il rimettente ben potrebbe essere ritenuto applicabile anche
alle sanzioni non formalmente qualificate come pene, ma aventi natura penale
secondo i criteri Engel.
1.5.–
A parere del giudice a quo, i dubbi da ultimo evidenziati, relativi alla
possibile incompatibilità della disciplina censurata con gli artt. 17 e 49
CDFUE, renderebbero necessario un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia
UE per chiarire: a) se a tali disposizioni debba riconoscersi «efficacia
diretta nell’ordinamento degli Stati membri, con conseguente dovere di non
applicazione delle norme interne con le norme contrastanti»; b) se le nozioni
di «reato» e «pena» contenute nell’art. 49 CDFUE «vadano riferite alle
previsioni sanzionatorie formalmente qualificate come penali nell’ordinamento
dei singoli Stati membri, oppure vadano intese in conformità alla nozione di
"materia penale” elaborata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in
riferimento agli articoli 6 e 7 CEDU»; e, infine, c) se gli artt. 17 e 49 CDFUE
vadano interpretati nel senso che «impongano di ritenere non proporzionata una
confisca per equivalente il cui oggetto non sia limitato all’equivalente del
profitto ricavato dalle illecite operazioni di trading, ma si estenda anche
all’equivalente dei mezzi impiegati per realizzare tali operazioni».
La
sezione rimettente ritiene peraltro che – versandosi nella specie in una
ipotesi di «doppia pregiudizialità», stanti gli evidenziati dubbi di
compatibilità della disposizione censurata sia la Costituzione, sia con la
Carta – debba procedersi in prima battuta all’incidente di costituzionalità,
secondo le indicazioni offerte da questa Corte con la sentenza n. 269 del
2017.
2.– È
intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato
e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni
prospettate siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.
2.1.–
L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce anzitutto l’inammissibilità delle
questioni, in quanto tendenti a ottenere, mediante una pronuncia di natura
additivo-manipolativa, l’introduzione nell’ordinamento di una nuova fattispecie
di confisca, limitata al profitto ricavato dall’illecito. Siffatto intervento
rientrerebbe in un’area riservata alla discrezionalità del legislatore, come
confermato dalla circostanza che l’art. 8, comma 3, lettera g), della legge 25
ottobre 2017, n. 163 (Delega al Governo per il recepimento delle direttive
europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea - Legge di delegazione
europea 2016-2017) ha delegato il Governo a rivedere l’art. 187-sexies del
decreto legislativo in parola, limitando la confisca al solo profitto
dell’illecito.
2.2.–
La questione sarebbe, inoltre, inammissibile anche sotto il profilo dell’omessa
considerazione, da parte del rimettente, della giurisprudenza delle Sezioni
unite penali della Corte di cassazione (sono citate le sentenze 30 gennaio
2014, n. 10561 e 21 luglio 2015, n. 31617), secondo cui la confisca avente a
oggetto denaro o altri beni fungibili non potrebbe qualificarsi come confisca
per equivalente, bensì come confisca diretta. In base a detta giurisprudenza,
verrebbe meno il presupposto interpretativo da cui ha preso le mosse il
rimettente, relativo alla natura afflittiva della confisca per equivalente di
cui all’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998.
3.–
Si è costituito in giudizio D. B., chiedendo l’accoglimento delle questioni di
legittimità costituzionale prospettate.
La
parte – dopo aver ribadito gli argomenti già sviluppati nell’ordinanza di
rimessione – sottolinea come la sproporzione della confisca in esame rispetto
alla gravità degli illeciti cui si correla sia stata riconosciuta sia dalla
CONSOB, nella propria relazione annuale per il 2012, sia dallo stesso
legislatore: il quale – dapprima con la legge 9 luglio 2015, n. 114 (Delega al
Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti
dell’Unione europea - Legge di delegazione europea 2014), rimasta inattuata, e
poi con la già menzionata legge n. 163 del 2017 – ha delegato il Governo a
limitare la confisca di cui all’art. 187-sexies al solo profitto dell’illecito.
Osserva
inoltre la parte costituita che l’art. 1 Prot. addiz.
CEDU impone la ricerca di un equilibrio tra pubblico interesse e sacrificio
della proprietà e che, in base a detto principio, la Corte EDU ha ritenuto
contrarie alla garanzia convenzionale talune fattispecie di confisca che
realizzavano una ingerenza sproporzionata nel diritto di proprietà.
4.–
La CONSOB, parte controricorrente nel procedimento a quo, non si è costituita
in questo giudizio.
5.–
Nella propria memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica,
l’Avvocatura generale dello Stato ha chiesto la restituzione degli atti al
giudice a quo affinché valuti l’incidenza dello ius superveniens rappresentato dalla modifica dell’art.
187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 operata dall’art. 4, comma 14, del decreto
legislativo 10 agosto 2018, n. 107, recante «Norme di adeguamento della
normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 596/2014,
relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva 2003/6/CE e le
direttive 2003/124/UE, 2003/125/CE e 2004/72/CE».
Ad
avviso dell’Avvocatura generale, l’espunzione dal testo dell’art. 187-sexies,
comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998 del riferimento ai «beni utilizzati» per
commettere l’illecito, e la corrispondente limitazione dell’oggetto della
confisca al «prodotto o […] profitto» dell’illecito, determinerebbero un
mutamento sostanziale del quadro normativo di riferimento, tale da imporre al
giudice rimettente una nuova valutazione della rilevanza della questione di
costituzionalità. Quest’ultima sarebbe stata infatti sollevata sul presupposto
della confiscabilità, ai sensi della antecedente
formulazione del comma 1 dell’art. 187-sexies, non soltanto del profitto
dell’illecito, ma anche dei mezzi impiegati per la commissione di quest’ultimo.
6.–
Nella propria memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, la parte
costituita ha invece sostenuto che l’entrata in vigore del d.lgs. n. 107 del
2018, che ha modificato il testo della disposizione censurata, non priverebbe
di rilevanza le questioni sottoposte a questa Corte. La novella ha infatti
espunto dal testo dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 il solo
riferimento ai «beni utilizzati» per commettere l’illecito, mantenendo intatta
la confiscabilità «del prodotto o del profitto».
Ad
avviso della parte costituita, militerebbe in favore della decisione nel merito
delle questioni da parte di questa Corte anche l’attuale incertezza
sull’applicabilità del principio della retroattività della legge più favorevole
all’incolpato alle sanzioni amministrative in materia di abusi di mercato. La
difesa di D. B. sottolinea, sul punto, come la giurisprudenza di legittimità
sia, allo stato, orientata in senso nettamente contrario. Se tale fosse la
prospettiva corretta, la restituzione degli atti al giudice a quo sarebbe del
tutto inutile, posto che questi non potrebbe comunque fare applicazione della
disposizione sopravvenuta.
La
parte costituita evidenzia, infine, l’inconferenza
del richiamo, operato dall’Avvocatura dello Stato, alle sentenze della Corte di
cassazione con cui si è affermato che la confisca di somme di denaro ha natura
di confisca diretta e non per equivalente, dal momento che – nel caso che ha
originato il giudizio a quo – il provvedimento di confisca è stato eseguito non
già su somme di denaro, bensì su beni immobili.
Considerato in diritto
1.–
Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di cassazione, sezione seconda
civile, ha sollevato due distinti gruppi di questioni di legittimità
costituzionale concernenti, rispettivamente, gli artt. 187-quinquiesdecies e
187-sexies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle
disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli
8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52).
1.1.–
Preliminarmente, va disposta la separazione del giudizio relativamente alle
questioni aventi ad oggetto l’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del
1998, in relazione alle quali questa Corte ritiene di dover promuovere, con
separata ordinanza, rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione
europea ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione
europea (TFUE), come modificato dall'art. 2 del Trattato di Lisbona del 13
dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130.
Oggetto
della presente sentenza sono, pertanto, le sole questioni che concernono l’art.
187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998.
2.–
La sezione rimettente solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art.
187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo originariamente introdotto
dall’art. 9, comma 2, lettera a), della legge 18 aprile 2005, n. 62
(Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza
dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), «nella parte in cui
esso assoggetta a confisca per equivalente non soltanto il profitto
dell’illecito ma anche i mezzi impiegati per commetterlo, ossia l’intero
prodotto dell’illecito».
Il
giudice a quo dubita che tale disposizione contrasti: in primo luogo, con gli
artt. 3 e 42 della Costituzione; in secondo luogo, con l’art. 117, primo comma,
Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU),
firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo con legge 4
agosto 1955, n. 848; in terzo luogo, con gli artt. 11 e 117, primo comma,
Cost., in relazione agli artt. 17 e 49 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a
Strasburgo il 12 dicembre 2007.
3.–
L’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo che era in vigore al momento
dei fatti e che è oggetto delle odierne censure di legittimità costituzionale,
prevedeva al comma 1 che «[l]’applicazione delle sanzioni amministrative
pecuniarie previste dal presente capo importa sempre la confisca del prodotto o
del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo», e al comma 2
che «[q]ualora non sia possibile eseguire la confisca
a norma del comma 1, la stessa può avere ad oggetto somme di denaro, beni o
altre utilità di valore equivalente».
Il
giudice a quo ritiene che la confisca di somme di denaro, beni o altre utilità
di valore equivalente non solo al «profitto» ricavato dall’illecito, ma anche
al «prodotto» dell’illecito stesso – ritenuto pari alla somma del «profitto» e
dei «beni utilizzati per commetterlo» – si risolverebbe in una sanzione
"punitiva” di carattere sproporzionato rispetto al disvalore dell’illecito, e
comunque in una compressione eccessiva del diritto di proprietà dell’autore
dell’illecito.
Da
ciò deriverebbero i vulnera ai parametri costituzionali ed europei (questi
ultimi per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.) invocati dal
rimettente.
In
particolare, il carattere sproporzionato per eccesso della misura sarebbe
suscettibile, secondo il giudice a quo, di tradursi in una violazione tanto
dell’art. 3 Cost., quanto delle norme che – a livello costituzionale ed europeo
– tutelano il diritto di proprietà: l’art. 42 Cost., da un lato; l’art. 1 Prot.
addiz. CEDU e l’art. 17 CDFUE, dall’altro.
Inoltre,
dalla natura sostanzialmente "punitiva” della confisca in parola discenderebbe
una possibile violazione dell’art. 49 CDFUE, che sancisce il principio per cui
«[l]e pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato»;
principio che, secondo il rimettente, ben potrebbe essere esteso anche alle
sanzioni di carattere sostanzialmente "punitivo” come quella all’esame.
4.–
Ha carattere pregiudiziale rispetto all’esame del merito delle questioni, e
delle stesse ulteriori eccezioni proposte dall’Avvocatura generale dello Stato,
la richiesta da quest’ultima formulata di restituzione degli atti al giudice a
quo affinché valuti la permanente rilevanza delle questioni alla luce dello ius superveniens, rappresentato
dalle modifiche apportate alla disposizione censurata dal decreto legislativo
10 agosto 2018, n. 107, recante «Norme di adeguamento della normativa nazionale
alle disposizioni del regolamento (UE) n. 596/2014, relativo agli abusi di
mercato e che abroga la direttiva 2003/6/CE e le direttive 2003/124/UE,
2003/125/CE e 2004/72/CE».
La
richiesta non può essere accolta, dovendosi senz’altro escludere – per le
ragioni che si andranno subito a chiarire – che l’eventuale applicazione della
disposizione novellata nel caso concreto possa produrre effetti in mitius rispetto alla previgente disciplina, in questa sede
censurata.
4.1.–
Nel testo risultante dalle modifiche apportate dal d.lgs. n. 107 del 2018, il
comma 1 dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 recita:
«[l]’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal
presente capo importa la confisca del prodotto o del profitto dell’illecito».
Il comma 2 – che prevede la confisca di somme di denaro, beni o altre utilità
di valore equivalente – è rimasto invariato rispetto al testo previgente.
Due
sono, dunque, le modifiche apportate dal d.lgs. n. 107 del 2018 al comma 1
dell’art. 187-sexies: è scomparso l’avverbio «sempre», che seguiva il verbo
«importa»; ed è venuto meno il riferimento ai «beni utilizzati» per commettere
l’illecito.
4.2.–
Dal testo novellato è stato espunto, anzitutto, l’avverbio «sempre» che
compariva nella precedente formulazione.
Non
pare, tuttavia, che da ciò possa evincersi – nel silenzio serbato dai lavori
preparatori e dalla stessa legge 25 ottobre 2017, n. 163 (Delega al Governo per
il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione
europea - Legge di delegazione europea 2016-2017) – una volontà del legislatore
delegato di trasformare in meramente facoltativa una misura che in precedenza
era, inequivocabilmente, prevista come obbligatoria. La locuzione «importa»
allude, oggi come ieri, a un vero e proprio obbligo a carico della Commissione
nazionale per le società e la borsa (CONSOB) di procedere alla confisca, da
esercitare senza alcuno spazio per apprezzamenti discrezionali sulla
opportunità o meno di applicare la misura a chi sia stato ritenuto responsabile
della commissione di un illecito previsto dal Titolo I-bis, Capo III, del
d.lgs. n. 58 del 1998.
Ne
consegue che, sotto questo profilo, la novella non innova rispetto al contenuto
precettivo della previgente disposizione.
4.3.–
Dal testo riformulato è poi scomparso il riferimento ai «beni utilizzati» per
commettere l’illecito.
Prima
facie, tale eliminazione potrebbe produrre effetti
nel caso oggetto del giudizio a quo, dal momento che la CONSOB ha espressamente
qualificato l’importo di 149.470 euro oggetto del provvedimento di confisca
come importo equivalente al «prodotto» dell’illecito, a sua volta pari alla
somma del «profitto» ricavato dall’illecito e dei «beni utilizzati» per
commetterlo. Di talché potrebbe ipotizzarsi che, ove si assumesse in via
interpretativa l’efficacia retroattiva della novella del 2018 (che nulla
dispone circa la propria efficacia intertemporale), l’espunzione dei «beni
utilizzati» per commettere l’illecito dagli oggetti della confisca in esame
comporti la necessità di rideterminare l’importo complessivo della misura
adottata dalla CONSOB nel caso di specie.
Una
più attenta considerazione del provvedimento sanzionatorio oggetto del giudizio
a quo conduce, tuttavia, a una differente conclusione.
Come
già evidenziato (Ritenuto in fatto, punto 1.4.), la CONSOB ha contestato a D.
B. di avere acquistato 30.000 azioni della società di cui era amministratore al
prezzo complessivo di 123.175,07 euro, essendo in possesso di un’informazione
privilegiata, relativa all’imminente lancio di un’offerta pubblica di acquisto
volontaria e totalitaria di tale società da parte di altra società di cui lo
stesso D. B. era socio. Secondo la prospettazione della CONSOB, al momento
della diffusione della notizia del lancio dell’offerta pubblica di acquisto, il
valore delle azioni acquistate da D. B. – calcolato sulla base del loro prezzo
ufficiale in quella data – si sarebbe innalzato a 149.760 euro complessivi; ciò
che avrebbe consentito allo stesso di realizzare un risparmio, rispetto al
prezzo che avrebbe dovuto pagare per acquisire quei titoli al momento del
lancio dell’offerta pubblica di acquisto, pari a 26.580 euro.
Nell’ottica
della CONSOB, dunque, l’importo di 149.760 euro, oggetto di confisca, è
equivalente al valore complessivo delle azioni acquistate in precedenza da D.
B. sulla base dell’informazione privilegiata di cui egli disponeva, le quali
costituivano il «prodotto» della sua condotta illecita; valore a sua volta
determinato sulla base del loro prezzo ufficiale determinato al momento del
lancio dell’offerta pubblica di acquisto.
In
tale prospettiva, risulta evidente che il venir meno della possibilità di
confiscare un importo pari ai «beni utilizzati» per commettere l’illecito
(nella prospettiva della CONSOB, il denaro originariamente investito per
l’acquisto delle 30.000 azioni, pari a 123.175,07 euro) lascerebbe comunque
intatto l’obbligo di confiscare il valore equivalente all’intero «prodotto»
della condotta, rappresentato dalle azioni acquistate da D. B.: e dunque un
valore che la CONSOB ha calcolato, per l’appunto, nella somma di 149.760,
confiscata nel caso di specie.
In
altre parole, e in termini più generali, il persistente obbligo di confiscare
l’intero «prodotto», o il suo valore equivalente, di una condotta di insider
trading fa sì che, anche dopo la novella del 2018, continui a essere oggetto di
confisca obbligatoria l’intero ammontare degli strumenti finanziari acquistati
da chi disponga di un’informazione privilegiata, ovvero – nel caso in cui essi
siano stati nel frattempo rivenduti – l’intero loro valore, e non semplicemente
il vantaggio economico realizzato mediante l’operazione finanziaria.
5.–
L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito, altresì, l’inammissibilità delle
questioni prospettate, che tenderebbero a ottenere, mediante una pronuncia di
natura additivo-manipolativa, l’introduzione nell’ordinamento di una nuova
fattispecie di confisca, limitata al profitto ricavato dall’illecito; ciò che
rientrerebbe invece nelle esclusive prerogative del legislatore.
L’eccezione
è infondata.
Questa
Corte ha, invero, dichiarato inammissibile una precedente questione di
legittimità costituzionale dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998
mirante a riconoscere «all’autorità amministrativa (in sede di irrogazione) e
al giudice (nell’ambito del giudizio di opposizione) il potere di "graduare” la
misura "in rapporto alla gravità in concreto della violazione commessa”», in
base alle stesse istanze di proporzionalità della sanzione che vengono invocate
in questa sede. Questa Corte ritenne allora che il petitum
assumesse «il carattere di una "novità di sistema”: circostanza che lo colloca
al di fuori dell’area del sindacato di legittimità costituzionale, per
rimetterlo alle eventuali e future soluzioni di riforma, affidate in via
esclusiva alle scelte del legislatore» (sentenza n. 252 del
2012). Il carattere "creativo” della soluzione in quell’occasione
prospettata dal giudice rimettente discendeva, in effetti, dalla richiesta di
introdurre un elemento di flessibilità nel quantum confiscabile in relazione
alla concreta gravità dell’illecito: soluzione reputata inconciliabile con la
natura "fissa” della confisca, che – nel vigente sistema normativo – può essere
obbligatoria o facoltativa, ma non consente graduazioni quantitative affidate
alla valutazione discrezionale dell’autorità che dispone la misura (ancora, sentenza n. 252 del
2012).
Il petitum delle odierne questioni di legittimità
costituzionale è però del tutto diverso, essendo finalizzato a ottenere una
pronuncia non già additivo-manipolativa, come quella cui mirava l’ordinanza di
rimessione decisa con la sentenza n. 252 del
2012, bensì parzialmente ablativa. Il giudice a quo chiede infatti, in
sostanza, che dall’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 siano eliminati il
riferimento ai «mezzi impiegati [recte: beni
utilizzati] per commetter[e]» l’illecito, nonché al «prodotto» dell’illecito
medesimo, con conseguente conservazione della sola parte della disposizione
concernente il «profitto».
L’intervento
sollecitato mira, dunque, semplicemente, a ridurre gli oggetti della confisca
prevista dalla disposizione censurata; confisca che resterebbe però
obbligatoria per la parte residua, relativa al profitto dell’illecito, che dovrebbe
essere interamente confiscato (in via diretta o per equivalente). Nessuna
manipolazione "creativa” deriverebbe, pertanto, dall’eventuale accoglimento
delle questioni ora prospettate, che risultano pertanto – sotto questo profilo
– ammissibili.
6.– L’Avvocatura
generale dello Stato eccepisce, infine, che il giudice a quo avrebbe errato nel
considerare la confisca applicata nel caso di specie come confisca per
equivalente, dovendo invece la stessa essere qualificata come confisca diretta,
in quanto avente a oggetto somme di denaro.
Nemmeno
questa eccezione è fondata.
A
prescindere dalla considerazione che, come si evince dagli atti di causa, nel
caso di specie la misura ablativa ha attinto due immobili di proprietà di D. B.
e non già somme di denaro, occorre rilevare che la CONSOB ha espressamente
indicato come «prodotto» dell’illecito le azioni acquistate da D. B., le quali
però non sono state direttamente sottoposte a confisca. La misura ablativa ha,
piuttosto, attinto beni di valore corrispondente a quello delle azioni
acquistate, sino a concorrenza dell’importo pari – appunto – al valore di
quelle azioni, sulla base del loro prezzo ufficiale al momento del lancio
dell’offerta pubblica di acquisto.
Non
v’è dubbio, pertanto, che l’ablazione patrimoniale di cui è causa si debba
qualificare come confisca per equivalente del prodotto dell’illecito.
7.–
Pur in assenza di una specifica eccezione sul punto, va infine affermata – in
conformità ai principi espressi nelle sentenze n. 269 del
2017, n. 20
del 2019 e n.
63 del 2019 – l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale
prospettate con riferimento agli artt. 17 e 49 CDFUE, per il tramite degli
artt. 11 e 117, primo comma, Cost.: questioni che questa Corte ha il compito di
vagliare, essendo stata a ciò sollecitata dal giudice a quo.
8.–
Nel merito, le questioni sono fondate, in relazione a tutti i parametri
invocati.
In
materia penale, la giurisprudenza di questa Corte considera costituzionalmente
illegittime pene manifestamente sproporzionate per eccesso in relazione alla
gravità del reato, in ragione del loro contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.
(infra, punto 8.1.). Sanzioni amministrative manifestamente sproporzionate per
eccesso rispetto alla gravità dell’illecito violano, dal canto loro, l’art. 3
Cost. in combinato disposto con le norme costituzionali che tutelano i diritti
di volta in volta incisi dalla sanzione, nonché – nell’ambito del diritto
dell’Unione europea – l’art. 49, paragrafo 3, CDFUE (infra, punto 8.2.). La
confisca per equivalente del «prodotto» degli illeciti previsti dal Titolo
I-bis, Capo III, del d. lgs. n. 58 del 1998 e dei «beni utilizzati» per
commetterli conduce a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati per
eccesso rispetto alla gravità degli illeciti in questione (infra, punto 8.3.).
Il rischio di eccessi punitivi conseguenti alla previsione dell’obbligatorietà
della confisca del «prodotto» degli illeciti amministrativi in questione e dei
«beni utilizzati» per commetterli era stato del resto da tempo rilevato da
questa Corte e dalla stessa CONSOB, tanto che il legislatore – mediante la
legge n. 163 del 2017 – aveva delegato il Governo a rivedere la disposizione
qui censurata, prevedendo la confisca del solo «profitto» derivato dagli
illeciti in questione (infra, punto 8.4.). La dichiarazione di illegittimità
costituzionale in parte qua della disposizione censurata non è, d’altra parte,
in contrasto con gli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione europea, che
impongono soltanto la confisca del profitto che l’autore abbia ricavato dagli
illeciti in questione (infra, punto 8.5.).
8.1.–
Come già si è osservato, il nucleo essenziale delle censure sollevate dal
giudice a quo concerne il carattere sproporzionato della sanzione costituita
dalla confisca per equivalente del «prodotto» dell’illecito di insider trading
e dei «beni utilizzati» per commetterlo, e la sua correlativa eccessiva
incidenza sul diritto di proprietà dell’autore dell’illecito.
La
giurisprudenza di questa Corte ha avuto varie occasioni di confrontarsi con il
quesito se, e in che limiti, sia possibile un sindacato di legittimità
costituzionale sulle tipologie e sulla misura di sanzioni amministrative alla
luce del criterio di proporzionalità della sanzione. Tuttavia, l’angolo visuale
pressoché esclusivo dal quale tali questioni sono state affrontate è stato
soltanto quello del divieto di automatismi legislativi nell’applicazione della
sanzione (infra, punto 8.2.2.): divieto che costituisce soltanto uno dei
profili che vengono in considerazione nella questione oggi all’esame di questa
Corte.
Numerose
– e assai più variegate nella tipologia di valutazioni effettuate dalla Corte –
sono, invece, le pronunce che concernono la parallela questione del sindacato
sulle scelte sanzionatorie del legislatore in materia penale, sulla quale
conviene anzitutto brevemente soffermarsi.
8.1.1.
– Nell’ambito del diritto penale, la costante giurisprudenza di questa Corte
riconosce un’ampia discrezionalità al legislatore nella determinazione delle
pene da comminare per ciascun reato. Tale discrezionalità si estende in linea
di principio al quomodo così come al quantum della
pena, essendo riservata al legislatore – in forza dello stesso art. 25, secondo
comma, Cost. – la scelta delle pene più adeguate allo scopo di tutelare i beni
giuridici tutelati da ciascuna norma incriminatrice, nonché la determinazione
dei loro limiti minimi e massimi.
Tale
discrezionalità è soggetta, tuttavia, a una serie di vincoli derivanti dalla
Costituzione, tra i quali il divieto di comminare pene manifestamente
sproporzionate per eccesso, che viene in questa sede in considerazione.
8.1.2.–
Il sindacato sulla proporzionalità della pena si è storicamente affermato,
nella giurisprudenza di questa Corte, anzitutto sotto il profilo del principio
di eguaglianza ex art. 3 Cost. Da tale principio si è tratta la naturale
implicazione relativa alla necessità che a fatti di diverso disvalore
corrispondano diverse reazioni sanzionatorie; con conseguente atteggiarsi del
giudizio di legittimità costituzionale sulla misura della pena secondo uno
schema triadico, imperniato attorno al confronto tra la previsione
sanzionatoria censurata e quella apprestata per altra figura di reato di pari o
addirittura maggiore gravità, assunta quale tertium comparationis (sentenze n. 68 del
2012, n. 409
del 1989 e n.
218 del 1974, nonché – sotto il duplice profilo del contrasto con gli artt.
3 e 8 Cost. – sentenze
n. 327 del 2002, n. 508 del 2000
e n. 329 del
1997).
8.1.3.–
La valorizzazione, accanto all’art. 3 Cost., del parametro rappresentato
dall’art. 27, terzo comma, Cost. – e in particolare del necessario orientamento
alla rieducazione che la pena deve possedere – ha condotto in altre pronunce
questa Corte (a partire dalle sentenze n. 343 del
1993, n. 422
del 1993 e n.
341 del 1994) a estendere il proprio sindacato anche a ipotesi in cui la
pena comminata dal legislatore appaia manifestamente sproporzionata non tanto
in rapporto alle pene previste per altre figure di reato, quanto piuttosto in
rapporto – direttamente – alla gravità delle condotte abbracciate dalla
fattispecie astratta, senza che sia più necessaria l’evocazione di alcuno
specifico tertium comparationis
da parte del rimettente, se non al limitato fine di assistere questa Corte
nell’individuazione del trattamento sanzionatorio che possa sostituirsi, in
attesa di un sempre possibile intervento del legislatore, a quello dichiarato
incostituzionale (in questo senso, in particolare, sentenze n. 40 del
2019, n. 222
del 2018 e n.
236 del 2016). Ciò nella consapevolezza che pene eccessivamente severe
tendono a essere percepite come ingiuste dal condannato, e finiscono così per
risolversi in un ostacolo alla sua rieducazione (sentenza n. 68 del
2012).
Nella
stessa ottica debbono, d’altra parte, essere lette le numerose pronunce che
hanno inciso sull’art. 69, ultimo comma, del codice penale, in ragione dell’esigenza
di evitare l’irrogazione in concreto di pene sproporzionate per eccesso per
effetto del divieto di prevalenza di talune circostanze attenuanti sulle
aggravanti indicate in quella disposizione (sentenze n. 205 del
2017, nn. 106 e 105 del 2014 e n. 251 del 2012).
8.1.4.–
La considerazione, accanto all’art. 3 Cost., del principio di personalità della
responsabilità penale sancito dal primo comma dell’art. 27 Cost. – da leggersi
anch’esso alla luce della necessaria funzione rieducativa della pena di cui al
terzo comma dello stesso art. 27 Cost. – è inoltre alla base dell’ulteriore
canone della necessaria individualizzazione della pena, pure enucleato da una
risalente giurisprudenza di questa Corte, che si oppone in linea di principio alla
previsione di pene fisse nel loro ammontare (sentenza n. 222 del
2018, che richiama in senso conforme le sentenze n. 50 del
1980, n. 104
del 1968 e n.
67 del 1963). Tale canone esige che – nel passaggio dalla comminatoria
astratta operata dal legislatore alla sua concreta inflizione da parte del
giudice – la pena si atteggi come risposta proporzionata anche alla concreta
gravità, oggettiva e soggettiva, del singolo fatto di reato; il che comporta,
almeno di regola, la necessità dell’attribuzione al giudice di un potere
discrezionale nella determinazione della pena nel caso concreto, entro un
minimo e un massimo predeterminati dal legislatore.
8.2.–
Occorre a questo punto vagliare se, ed eventualmente in che limiti, tali
principi possano essere ritenuti applicabili anche alla materia, che viene qui
in considerazione, delle sanzioni amministrative.
8.2.1.–
Questa Corte ha esteso in molteplici occasioni alle sanzioni amministrative di
carattere sostanzialmente "punitivo” talune garanzie riservate dalla
Costituzione alla materia penale.
Ciò è
accaduto, in particolare, in relazione ad una serie di corollari del principio nullum crimen, nulla poena sine lege enunciato dall’art. 25, secondo comma,
Cost., quali il divieto di retroattività delle modifiche sanzionatorie in peius (sentenze n. 223 del
2018, n. 68
del 2017, n.
276 del 2016, n.
104 del 2014 e n. 196 del 2010),
della sufficiente precisione del precetto sanzionato (sentenze n. 121 del
2018 e n. 78
del 1967), nonché della retroattività delle modifiche sanzionatorie in mitius (sentenza n. 63 del
2019).
Una
tale estensione non è avvenuta, invece, in relazione ai principi in materia di
responsabilità penale stabiliti dall’art. 27 Cost. (sentenza n. 281 del
2013 e ordinanza
n. 169 del 2013). Tali principi – a cominciare dalla necessaria funzione rieducativa
della pena – appaiono infatti strettamente connessi alla logica della pena
privativa, o quanto meno limitativa, della libertà personale, attorno alla
quale è tutt’oggi costruito il sistema sanzionatorio penale, e che resta sempre
più o meno direttamente sullo sfondo anche nell’ipotesi in cui vengano irrogate
pene di natura diversa, come rimedio di ultima istanza in caso di inadempimento
degli obblighi da esse derivanti.
8.2.2.–
Cionondimeno, non può dubitarsi che il principio di proporzionalità della
sanzione rispetto alla gravità dell’illecito sia applicabile anche alla
generalità delle sanzioni amministrative.
Come
anticipato, questa Corte ha già, in numerose occasioni, invocato tale principio
– anche in relazione a misure delle quali veniva espressamente negata la natura
"punitiva” (come nel caso deciso dalla sentenza n. 22 del
2018) – a fondamento di dichiarazioni di illegittimità costituzionale di
automatismi sanzionatori, ritenuti non conformi al principio in questione
proprio perché esso postula «l’adeguatezza della sanzione al caso concreto»;
adeguatezza che «non può essere raggiunta se non attraverso la concreta
valutazione degli specifici comportamenti messi in atto nella commissione
dell’illecito» (sentenza
n. 161 del 2018; nello stesso senso, ex multis, sentenze n. 268 del
2016 e n.
170 del 2015).
8.2.3.–
Il principio di proporzionalità della sanzione possiede, peraltro, potenzialità
applicative che eccedono l’orizzonte degli automatismi legislativi, come
dimostra proprio la giurisprudenza relativa alla materia penale appena
rammentata, e i cui principali approdi sono estensibili anche alla materia
delle sanzioni amministrative, rispetto alla quale – peraltro – il principio in
parola non trae la propria base normativa dal combinato disposto degli artt. 3
e 27 Cost., bensì dall’art. 3 Cost. in combinato disposto con le norme
costituzionali che tutelano i diritti di volta in volta incisi dalla sanzione.
Non
erra, pertanto, il giudice rimettente nell’identificare nel combinato disposto
degli artt. 3 e 42 Cost. il fondamento domestico del principio di
proporzionalità di una sanzione che, come la confisca di cui è discorso, incide
in senso limitativo sul diritto di proprietà dell’autore dell’illecito; né erra
nell’identificare negli artt. 1 Prot. addiz. CEDU e
nell’art. 17 CDFUE i fondamenti, rispettivamente, nel diritto della Convenzione
e dell’Unione europea, del principio in questione, in quanto riferito a una
sanzione patrimoniale.
8.2.4.–
A tali basi normative parrebbe altresì affiancarsi, nell’ambito del diritto
dell’Unione europea, l’art. 49, paragrafo 3, CDFUE.
Ancorché
il testo di tale disposizione faccia riferimento alle «pene» e al «reato», la
Corte di giustizia dell’Unione europea ha recentemente considerato applicabile
tale principio all’insieme delle sanzioni – penali e amministrative, queste
ultime anch’esse di carattere "punitivo” – irrogate in seguito alla commissione
di un fatto di manipolazione del mercato, ai fini della verifica del rispetto
del diverso principio del ne bis in idem (Corte
di giustizia, sentenza 20 marzo 2018, Garlsson Real Estate SA e altri, in causa C-537/16, paragrafo
56). Ciò in coerenza con la Spiegazione relativa all’art. 49 CDFUE, ove si
chiarisce che «[i]l paragrafo 3 riprende il principio generale della
proporzionalità dei reati e delle pene sancito dalle tradizioni costituzionali
comuni agli Stati membri e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle
Comunità»: giurisprudenza, quest’ultima, formatasi esclusivamente in materia di
sanzioni amministrative applicate dalle istituzioni comunitarie.
Lo
stesso art. 49, paragrafo 3, CDFUE è stato del resto recentemente invocato dalla
Sezioni unite civili della Corte di cassazione a fondamento dell’affermazione
secondo cui anche forme di risarcimento con funzione prevalentemente deterrente
come i "punitive damages” eventualmente disposti da
una sentenza straniera debbono comunque rispettare il principio di
proporzionalità per poter essere riconosciuti nel nostro ordinamento (Corte di
cassazione, sezioni unite civili, sentenza 5 luglio 2017, n. 16601).
8.2.5.–
La stessa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha, in
alcune sentenze su cui ha giustamente richiamato l’attenzione la parte privata,
ritenuto illegittime – al metro dell’art. 1 Prot. addiz.
CEDU – confische amministrative aventi ad oggetto l’intero ammontare di denaro
che non era stato dichiarato alla dogana, e non soltanto l’importo dei diritti
doganali evasi. E ciò proprio in relazione al carattere manifestamente
sproporzionato di simili misure rispetto ai pur legittimi fini perseguiti dallo
Stato, in relazione alla concreta gravità degli illeciti che di volta in volta
venivano in considerazione, tenuto conto anche del fatto che le misure ablative
in questione si sommavano alle sanzioni pecuniarie irrogate per l’omessa
dichiarazione delle somme (Corte
EDU, sentenze 31 gennaio 2017, Boljević contro
Croazia; 26 febbraio
2009, Grifhorst contro Francia, paragrafi 87 e
seguenti; 5 febbraio 2009, Gabrić contro Croazia paragrafi 34 e seguenti; 9 luglio 2009, Moon contro
Francia, paragrafi 46 e seguenti; 6 novembre 2008, Ismayilov contro Russia).
8.3.–
È, dunque, sulla base di tali principi che deve essere scrutinata la
legittimità costituzionale della disposizione censurata, che impone la confisca
alternativa, diretta o per equivalente, del «prodotto» o del «profitto» degli
illeciti previsti dal Titolo I-bis, Capo III, del d.lgs. n. 58 del 1998, oltre
che dei «beni utilizzati» per commettere gli illeciti medesimi.
8.3.1.–
Secondo le consolidate coordinate penalistiche, delle quali il lessico
utilizzato nella disposizione censurata è debitrice, «prodotto» di un illecito
è «il risultato empirico dell’illecito, cioè le cose create, trasformate,
adulterate o acquistate mediante il reato» (Corte di cassazione, sezioni unite
penali, sentenza 27 marzo 2008, n. 26654). In altre parole, costituiscono
«prodotto» tutte le cose materiali che, in una prospettiva puramente causale,
"derivano” dalla commissione dell’illecito medesimo. È pertanto «prodotto» del
reato il documento contraffatto, il nastro contenente la registrazione di una
conversazione illegittimamente intercettata, la cosa acquistata da chi ne
conosceva l’origine delittuosa.
In
questa logica, il «prodotto» di un illecito come l’abuso di informazioni
privilegiate – che consiste, nel suo nucleo essenziale, nel compimento di
operazioni di compravendita di strumenti finanziari da parte di chi possieda
un’informazione ancora riservata, la cui successiva diffusione al pubblico
potrebbe determinare una variazione del prezzo di tali strumenti – non può che
essere rappresentato dall’insieme degli strumenti acquistati, ovvero
dall’intera somma ricavata dalla loro vendita (Corte di cassazione, sezione
prima civile, sentenza 6 aprile 2018, n. 8590).
8.3.2.–
Il «profitto» è, invece, l’utilità economica conseguita mediante la commissione
dell’illecito. Nelle ipotesi di acquisto di strumenti finanziari, il profitto
consiste dunque nel risultato economico dell’operazione valutato nel momento in
cui l’informazione privilegiata della quale l’agente disponeva diviene
pubblica, calcolato più in particolare sottraendo al valore degli strumenti
finanziari acquistati il costo effettivamente sostenuto dall’autore per
compiere l’operazione, così da quantificare l’effettivo "guadagno” (in termini
finanziari, la "plusvalenza”) ovvero, come nel caso di specie, il "risparmio di
spesa” che l’agente abbia tratto dall’operazione.
Nelle
ipotesi di vendita di strumenti finanziari sulla base di un’informazione
privilegiata, il «profitto» conseguito non potrà invece che identificarsi nella
"perdita evitata” in rapporto al successivo deprezzamento degli strumenti,
conseguente alla diffusione dell’informazione medesima; e dunque andrà
calcolato sulla base della differenza tra il corrispettivo ottenuto dalla
vendita degli strumenti finanziari, e il loro successivo (diminuito) valore.
Conclusione, questa, suggerita anche da un’interpretazione conforme al diritto
dell’Unione europea dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, avuto
riguardo in particolare al Regolamento (UE) n. 596/2014 del Parlamento europeo
e del Consiglio, del 16 aprile 2014, relativo agli abusi di mercato
(regolamento sugli abusi di mercato) e che abroga la direttiva 2003/6/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio e le direttive 2003/124/CE, 2003/125/CE e
2004/72/CE della Commissione: regolamento il cui art. 30, paragrafo 2, lettera
b), impone agli Stati membri l’obbligo di prevedere «la restituzione dei
guadagni realizzati o delle perdite evitate grazie alla violazione, per quanto
possano essere determinati».
8.3.3.–
Quanto infine ai «beni utilizzati» per commettere l’illecito, in tema di abusi
di mercato essi – lungi dal poter essere identificati nei tradizionali instrumenta sceleris, in genere
rappresentati da cose intrinsecamente pericolose se lasciate nella
disponibilità del reo, come negli esempi di scuola del grimaldello o della
stampante di monete false – non possono che consistere nelle somme di denaro
investite nella transazione, ovvero negli strumenti finanziari alienati
dall’autore.
8.3.4.–
Da tutto ciò consegue che, in tema di abusi di mercato, mentre l’ablazione del
«profitto» ha una mera funzione ripristinatoria della situazione patrimoniale
precedente in capo all’autore, la confisca del «prodotto» – identificato
nell’intero ammontare degli strumenti acquistati dall’autore, ovvero nell’intera
somma ricavata dalla loro alienazione – così come quella dei «beni utilizzati»
per commettere l’illecito – identificati nelle somme di denaro investite nella
transazione, ovvero negli strumenti finanziari alienati dall’autore – hanno un
effetto peggiorativo rispetto alla situazione patrimoniale del trasgressore.
Tali
forme di confisca assumono pertanto una connotazione "punitiva”, infliggendo
all’autore dell’illecito una limitazione al diritto di proprietà di portata
superiore (e, di regola, assai superiore) a quella che deriverebbe dalla mera
ablazione dell’ingiusto vantaggio economico ricavato dall’illecito.
Muovendo
da questa prospettiva, del resto, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha
recentemente affermato la natura "punitiva” – e non meramente ripristinatoria –
della misura, funzionalmente analoga a quella ora in considerazione, del «disgorgement» applicato dalla Security Exchange Commission (SEC) in materia di abusi di mercato; e ciò
proprio in quanto tale misura – estendendosi all’intero risultato della
transazione illecita – eccede, di regola, il valore del vantaggio economico che
l’autore ha tratto dalla transazione stessa (Corte
suprema degli Stati Uniti, sentenza 5 giugno 2017, Kokesh
contro Security Exchange Commission).
8.3.5.–
Nel vigente sistema sanzionatorio degli abusi di mercato, la (predominante)
componente "punitiva” insita nella confisca del «prodotto» dell’illecito e dei
«beni utilizzati» per commetterlo si aggiunge all’afflizione determinata dalle
altre sanzioni previste dal d.lgs. n. 58 del 1998 e, in particolare, dalla
sanzione amministrativa pecuniaria. Una sanzione, quest’ultima, la cui cornice
edittale è essa pure di eccezionale severità, potendo giungere sino ad un
massimo (oggi) di cinque milioni di euro, aumentabili in presenza di
particolari circostanze fino al triplo, ovvero fino al maggiore importo di
dieci volte il profitto conseguito ovvero le perdite evitate per effetto
dell’illecito.
8.3.6.–
A giudizio di questa Corte, la combinazione tra una sanzione pecuniaria di
eccezionale severità, ma graduabile in funzione della concreta gravità
dell’illecito e delle condizioni economiche dell’autore dell’infrazione, e una
ulteriore sanzione anch’essa di carattere "punitivo” come quella rappresentata
dalla confisca del prodotto e dei beni utilizzati per commettere l’illecito,
che per di più non consente all’autorità amministrativa e poi al giudice alcuna
modulazione quantitativa, necessariamente conduce, nella prassi applicativa, a
risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati.
Simili
risultati sono emblematicamente illustrati dal caso oggetto del giudizio a quo,
in cui l’autore di una condotta di insider trading è stato punito con una
sanzione pecuniaria di 200.000 euro, che si è aggiunta alla confisca per
equivalente dell’intero valore delle azioni acquistate avvalendosi di
un’informazione privilegiata, pari a ulteriori 149.760 euro, a fronte di un
vantaggio economico di 26.580 euro conseguito dall’operazione. A conti fatti,
la componente "punitiva” di tale complessiva sanzione – risultante dalla somma
tra la sanzione pecuniaria e la confisca di ciò che eccede rispetto al profitto
tratto dall’operazione – è qui pari a circa tredici volte tale profitto: un
coefficiente che non può che apparire manifestamente eccessivo rispetto ai
legittimi scopi di prevenzione generale e speciale perseguiti dalla norma che
vieta l’insider trading.
8.4.–
Nel dichiarare inammissibile la questione di costituzionalità dell’art
187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 all’epoca sollevata, questa Corte aveva
del resto già riconosciuto che quello delle «conseguenze ultra modum che possono scaturire, in determinati contesti, dalla
previsione della confisca obbligatoria, non solo del profitto, ma anche dei
beni strumentali alla commissione dell’illecito» costituisce un «problema in sé
reale e avvertito, da sottoporre all’attenzione del legislatore» (sentenza n. 252 del
2012), al quale tuttavia la Corte non ritenne in quell’occasione di poter
porre direttamente rimedio in considerazione della peculiare formulazione del petitum allora sottopostole (supra,
punto 5).
L’ammonimento
di questa Corte non era sfuggito alla CONSOB, la quale – come giustamente
rammentato dalla difesa della parte privata – aveva richiamato il legislatore,
nella propria Relazione annuale per il 2012, all’opportunità di riformare
«l’attuale disciplina della confisca obbligatoria (art. 187-sexies),
suscettibile di rivelarsi […] particolarmente afflittiva e non proporzionata
all’effettiva gravità dell’illecito accertato», auspicando l’introduzione di
coefficienti di graduabilità del quantum della sanzione, in grado di
assicurarne la commisurazione individualizzata in relazione alla gravità
concreta dell’illecito medesimo.
A
tale sollecitazione il legislatore ha in effetti risposto con la legge n. 163
del 2017, che, all’art. 8, comma 3, lettera g), ha delegato il Governo a
rivedere l’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 «in modo tale da
assicurare l’adeguatezza della confisca, prevedendo che essa abbia ad oggetto,
anche per equivalente, il profitto derivato dalle previsioni del regolamento
(UE) n. 596/2014»: formulazione, questa, che non fa più alcuna menzione né del
«prodotto» dell’illecito, né dei «beni utilizzati» per commetterlo, considerati
evidentemente forieri di eccessi sanzionatori.
A
fronte poi della predisposizione da parte del Governo di uno schema di decreto
che eliminava bensì la previsione della confisca dei «beni utilizzati» per
commettere l’illecito, ma non quella del «prodotto» dell’illecito medesimo, il
Commissario della CONSOB, sentito il 17 luglio 2018 in audizione dalle
Commissioni riunite Giustizia e Finanze della Camera, auspicò l’accoglimento da
parte del legislatore delegato della «posizione già espressa dal Parlamento e
fatta propria dalla CONSOB», prevedendo «la confisca limitatamente al profitto
delle violazioni in materia di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione,
di cui agli artt. 187-bis e 187-ter» del d.lgs. 58 del 1998.
Il
legislatore delegato non ha, tuttavia, accolto tale auspicio, riconfermando nel
novellato art. 187-sexies del d. lgs. n. 58 del 1998, come modificato dal
d.lgs. n. 107 del 2018, la confiscabilità tanto del
«profitto» quanto del «prodotto» dell’illecito, con ciò riproponendo nella
nuova disposizione i vizi che affliggevano quella previgente.
La
diversa struttura dell’odierna questione di legittimità costituzionale rispetto
a quella decisa con la menzionata sentenza n. 252 del
2012 consente, ora, a questa Corte di porre rimedio a tali vizi di
legittimità costituzionale, attraverso una pronuncia di carattere parzialmente
ablativo in grado di ovviare alle conseguenze «ultra modum»
che discendono dalla disciplina censurata.
8.5.–
Né l’odierna pronuncia incontra alcun ostacolo nel diritto dell’Unione europea,
il quale non impone la confisca del «prodotto» dell’illecito e dei «beni
utilizzati» per commetterlo.
Come
anticipato, infatti, il vigente Regolamento n. 596/2014 richiede soltanto agli
Stati membri – all’art. 30, paragrafo 2, lettera b) – di prevedere «la restituzione
dei guadagni realizzati o delle perdite evitate grazie alla violazione, per
quanto possano essere determinati».
Come
risulta anche dalle diverse versioni linguistiche del testo («the disgorgement of the profits gained or losses avoided», in inglese; «la restitution de l’avantage retiré de cette violation ou des
pertes qu’elle a permis d’éviter», in francese;
«den Einzug der infolge des Verstoßes
erzielten Gewinne oder vermiedene Verluste», in tedesco; «la restitución
de los beneficios obtenidos o de las pérdidas evitadas», in spagnolo),
il regolamento in parola allude senza equivoco al solo "vantaggio economico”
(in termini di guadagno o di perdita evitata) ottenuto dal compimento di
un’operazione in condizioni di asimmetria informativa e in violazione di un
dovere di astensione – per effetto del possesso di un’informazione privilegiata
– rispetto alla generalità degli operatori nel mercato degli strumenti
finanziari.
9.–
Da quanto precede consegue l’illegittimità costituzionale della previsione
della confisca obbligatoria del «prodotto» dell’illecito amministrativo e dei
«beni utilizzati» per commetterlo, in ragione del suo contrasto con gli artt.
3, 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, nonché degli artt. 11 e 117, primo comma,
Cost. in relazione agli artt. 17 e 49, paragrafo 3, CDFUE.
Il
giudice a quo parrebbe, invero, circoscrivere il petitum
alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della sola previsione della
loro confisca per equivalente. Al riguardo, va tuttavia considerato che
l’effetto manifestamente sproporzionato della confisca in oggetto – esattamente
posto in luce dall’ordinanza di rimessione – non dipende dal fatto che la
misura abbia ad oggetto direttamente i beni o il denaro ricavati dalla
transazione o utilizzati nella transazione stessa, ovvero beni o denaro di
valore equivalente; quanto, piuttosto, dalla stessa previsione dell’obbligo di
procedere alla confisca del «prodotto» dell’illecito e dei «beni utilizzati»
per commetterlo.
Va,
pertanto, dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 187-sexies, del
d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma
2, lettera a), della legge n. 62 del 2005, nella parte in cui prevede la
confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del «prodotto» dell’illecito
e dei «beni utilizzati» per commetterlo, e non del solo «profitto».
10.–
La presente dichiarazione di illegittimità costituzionale deve essere estesa,
ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), all’art.
187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nella versione risultante dalle modifiche
apportate dall’art. 4, comma 14, del d.lgs. n. 107 del 2018, nella parte in cui
prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del «prodotto»
dell’illecito, e non del solo profitto, per contrasto con tutti i parametri
invocati nell’ordinanza di rimessione.
Nonostante
la già ricordata disposizione della legge delega n. 163 del 2017 (supra, punto 8.4.), che delegava il Governo a rivedere
l’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 limitando l’oggetto della confisca
ivi prevista al solo «profitto derivato dalle previsioni del regolamento (UE)
n. 596/2014», il d.lgs. n. 107 del 2018 ha invece confermato la confisca
obbligatoria, in via alternativa, del «profitto» o del «prodotto»
dell’illecito, espungendo soltanto il riferimento ai «beni utilizzati» per
commetterlo, presente nella versione previgente.
In
tal modo, il legislatore delegato ha riprodotto, seppure parzialmente, una
disposizione che si espone ai medesimi vizi di legittimità costituzionale che
affliggono la disciplina previgente. Anche tale disposizione deve pertanto
essere dichiarata, in via consequenziale, costituzionalmente illegittima in
parte qua.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dispone la separazione del giudizio
promosso dalla Corte di cassazione, sezione seconda civile, con l’ordinanza
indicata in epigrafe, riservando a separata pronuncia la decisione delle
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del
decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in
materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della
legge 6 febbraio 1996, n. 52), sollevate in riferimento agli artt. 24, 111 e
117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e all’art. 14, comma 3, lettera g),
del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il
16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con la legge 25 ottobre 1977, n.
881, nonché in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in
relazione all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
(CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12
dicembre 2007;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo originariamente
introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera a), della legge 18 aprile 2005, n. 62
(Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza
dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), nella parte in cui
prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto
dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, e non del solo profitto;
3) dichiara, in via consequenziale, ai
sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e
sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale
dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, nella versione risultante dalle
modifiche apportate dall’art. 4, comma 14, del decreto legislativo 10 agosto
2018, n. 107, recante «Norme di adeguamento della normativa nazionale alle
disposizioni del regolamento (UE) n. 596/2014, relativo agli abusi di mercato e
che abroga la direttiva 2003/6/CE e le direttive 2003/124/UE, 2003/125/CE e
2004/72/CE», nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per
equivalente, del prodotto dell’illecito, e non del solo profitto.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
il 6 marzo 2019.
F.to:
Giorgio
LATTANZI, Presidente
Francesco
VIGANÒ, Redattore
Roberto
MILANA, Cancelliere
Depositata
in Cancelleria il 10 maggio 2019.