Sentenza n. 58 del 1995

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SENTENZA N. 58

 

ANNO 1995

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

 

-        Avv. Ugo SPAGNOLI, Presidente

 

-        Prof. Antonio BALDASSARRE

 

-        Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

-        Avv. Mauro FERRI

 

-        Prof. Luigi MENGONI

 

-        Prof. Enzo CHELI

 

-        Dott. Renato GRANATA

 

-        Prof. Giuliano VASSALLI

 

-        Prof. Francesco GUIZZI

 

-        Prof. Cesare MIRABELLI

 

-        Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

-        Avv. Massimo VARI

 

-        Dott. Cesare RUPERTO

 

-        Dott. Riccardo CHIEPPA

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 86, primo comma, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), promosso con l'ordinanza emessa il 17 maggio 1994 dal Tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di Noureddine Bachri, iscritta al n. 584 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell'anno 1994.

 

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

Udito nella camera di consiglio dell'8 febbraio 1995 il Giudice relatore Antonio Baldassarre.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Il Tribunale di Roma, giudice di rinvio nel procedimento penale a carico di Noureddine Bachri, imputato del reato di cessione di sostanza stupefacente, ha sollevato questione di legittimità costituzionale - in riferimento agli artt. 3, 25, terzo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione - nei confronti dell'art. 86, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nella parte in cui obbliga il giudice a emettere, contestualmente alla condanna, l'ordine di espulsione dallo Stato, eseguibile a pena espiata, nei confronti dello straniero condannato per uno dei reati previsti dagli articoli 73, 74, 79 e 82, commi 2 e 3, precludendogli, in forza dell'art. 164, secondo comma, n. 2, c.p., la concessione della sospensione condizionale della pena inflitta.

 

Il giudice rimettente premette che il giudizio a quo segue alla pronunzia della Corte di cassazione che, annullando la sentenza dello stesso Tribunale limitatamente alla parte in cui concedeva il beneficio della sospensione condizionale della pena all'imputato condannato a sei mesi di reclusione, per il reato previsto dall'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, ha fissato il "principio di diritto", secondo il quale l'impugnato art. 86, primo comma, va interpretato nel senso che impone al giudice, senza alcuna valutazione in concreto della sussistenza della pericolosità sociale, di espellere dal territorio nazionale, una volta espiata la pena, lo straniero condannato per alcuni dei reati previsti dal testo unico in materia di stupefacenti, precludendogli, in ragione dell'irrogazione della misura di sicurezza dell'espulsione e in forza del divieto dell'art. 164, secondo comma, n. 2, c.p., la concessione della sospensione condizionale della pena inflitta.

 

Lo stesso giudice a quo ricorda, sempre in via di premessa, che l'interpretazione appena menzionata appare del tutto isolata nella giurisprudenza formatasi sull'art. 86 (nonché sul previgente art. 81 della legge 22 dicembre 1975, n. 685, dall'analogo contenuto), anche con riferimento ad altre sentenze della Corte di cassazione, con le quali l'istituto dell'espulsione in oggetto, essendo ricondotto alla disciplina generale delle misure di sicurezza e presupponendo, quindi, dopo l'abrogazione dell'art. 204 c.p. da parte dell'art. 31 della legge n. 663 del 1986, la valutazione in concreto della pericolosità sociale del condannato, viene considerato come non preclusivo della concessione della sospensione condizionale della pena.

 

Ciò posto, il giudice rimettente, ritenendosi vincolato, come giudice di rinvio, dal "principio di diritto" enunciato dalla pronunzia di annullamento della Corte di cassazione, afferma che la dovuta applicazione di tale principio gli impedirebbe di concedere la sospensione condizionale della pena, nonostante che ricorrano nel caso le condizioni oggettive e soggettive richieste dalla legge per tale beneficio, a meno che l'interpretazione sostenuta dalla stessa Corte di cassazione non si riveli contraria a Costituzione. E, in effetti, continua il giudice a quo, considerare che l'espulsione in oggetto sia una misura di sicurezza comportante eccezionalmente una presunzione legale di pericolosità sociale e, quindi, un automatismo nell'applicazione che prescinde da ogni accertamento in concreto da parte del giudice della medesima pericolosità, è un'interpretazione che sembra contrastare con gli artt. 3, 25, terzo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione.

 

Sotto il primo profilo, l'interpretazione contenuta nel "principio di diritto" affermato dalla Corte di cassazione appare, innanzitutto, viziata da irragionevolezza, comportando una ingiustificata deroga al principio generale secondo il quale l'applicazione delle misure di sicurezza debba avvenire previa la valutazione in concreto della pericolosità sociale del condannato; in secondo luogo, la stessa interpretazione sembra comportare una disparità di trattamento, poiché non consentirebbe che, a situazioni del tutto simili sotto il profilo soggettivo e oggettivo ai fini della concessione della sospensione condizionale della pena, possa corrispondere un'identità di valutazione a causa della preclusione connessa a un preteso ingiustificato automatismo nell'applicazione di una misura di sicurezza.

 

La stessa interpretazione sarebbe, poi, in contrasto con l'art. 25, terzo comma, della Costituzione, poiché postulerebbe la sottoposizione a una misura di sicurezza in difetto di una previsione legislativa: infatti, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 31 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, l'accertamento in concreto della pericolosità sociale del condannato appare necessario tanto all'atto dell'applicazione della misura di sicurezza personale, quanto al momento dell'esecuzione della stessa in caso di differimento.

 

Infine, l'impugnato art. 86, primo comma, come interpretato dalla Corte di cassazione nella pronunzia di annullamento con rinvio, violerebbe l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, per il fatto che la misura di sicurezza dell'espulsione, ove automaticamente applicata, inibirebbe allo straniero ogni possibilità di reinserimento sociale, postulando che sempre e comunque lo straniero continuerà a delinquere a prescindere da qualsiasi valutazione da parte del giudice della effettiva pericolosità sociale del condannato.

 

Né, conclude il giudice a quo, varrebbe obiettare che l'espulsione rappresenti, nei riguardi dello straniero criminale, una ormai prevalente linea politica rimessa alla valutazione del legislatore e avallata da recenti sentenze della Corte costituzionale sull'art. 7, commi 12- bis e 12- ter, della legge 28 febbraio 1990, n. 39. In realtà, l'espulsione dello straniero regolata da queste ultime disposizioni, prevista in alternativa alla custodia cautelare e all'esecuzione della pena, è del tutto diversa da quella ora esaminata, trattandosi di un provvedimento adottato soltanto su richiesta dell'interessato o del suo difensore, e non già imposta.

 

2. - Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

 

Riguardo alla pretesa violazione dell'art. 25, terzo comma, della Costituzione, l'Avvocatura dello Stato rileva che quest'ultimo articolo si limita a ribadire il principio di legalità in materia di misure di sicurezza, che tuttavia non esclude la possibilità di tipizzare specifiche ipotesi di pericolosità alle quali collegare, in via obbligatoria e automatica, l'applicazione di determinate misure indipendentemente da ogni altro accertamento o considerazione.

 

In ordine alla asserita violazione dell'art. 3 della Costituzione, l'Avvocatura ricorda che la Corte costituzionale ha recentemente posto in rilievo, in materia di espulsione, la peculiarità della posizione dello straniero in relazione alla tutela di interessi pubblici inerenti alla sanità pubblica, alla politica di immigrazione e, ciò che rileva nel caso di specie, alla sicurezza e all'ordine pubblico (nell'ipotesi: nel settore del traffico illecito di sostanze stupefacenti).

 

Infine, relativamente al prospettato contrasto con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, la difesa erariale osserva che quest'ultima norma, riguardando le modalità esecutive della pena, non esclude che al fatto oggettivo dell'accertata responsabilità penale possano collegarsi ulteriori conseguenze in ordine alla vita di relazione e alla sfera di capacità dell'interessato.

 

3. - In prossimità dell'udienza l'Avvocatura dello Stato ha depositato un'ulteriore memoria eccependo l'inammissibilità della questione. Quest'ultima, infatti, risolvendosi in una prospettazione di dubbi interpretativi o, ad essere più precisi, nella formulazione dell'auspicio che la Corte operi una scelta fra due diversi modi di interpretare la norma impugnata, sembra prospettare un conflitto giurisprudenziale, non certo un vizio di costituzionalità della norma impugnata, e perciò, secondo la giurisprudenza costituzionale (v. ordd. nn. 848 del 1988, 77 del 1990 e 269 del 1991, nonché sent. n. 26 del 1990), dovrebbe esser dichiarata, innanzitutto, inammissibile.

 

Considerato in diritto

 

1. - Il Tribunale di Roma, giudice di rinvio in un procedimento penale a carico di uno straniero extracomunitario imputato del reato di cessione di sostanza stupefacente, ha sollevato questione di legittimità costituzionale - per violazione degli artt. 3, 25, terzo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione - nei confronti dell'art. 86, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui obbliga il giudice a emettere, contestualmente alla condanna, l'ordine di espulsione dallo Stato, eseguibile a pena espiata, nei confronti dello straniero condannato per uno dei reati previsti dagli artt. 73, 74, 79 e 82, commi 2 e 3, precludendogli, in forza dell'art. 164, secondo comma, n. 2, c.p., la concessione della sospensione condizionale della pena inflitta.

 

L'Avvocatura dello Stato eccepisce preliminarmente l'inammissibilità della questione, adducendo che quest'ultima si risolva nella prospettazione di un dubbio interpretativo e comporti, quindi, la richiesta a questa Corte di dirimere un conflitto giurisprudenziale scegliendo tra due diversi modi d'interpretare la norma impugnata.

 

2. - L'eccezione d'inammissibilità va respinta, poiché, sin dalla sentenza n. 30 del 1990, è stato ritenuto "consolidato indirizzo di questa Corte" quello secondo il quale il giudice di rinvio può sollevare, come avviene nel caso di specie, dubbi di costituzionalità concernenti l'interpretazione normativa risultante dal "principio di diritto" enunciato dalla Corte di cassazione: dovendo, infatti, la norma, nel significato attribuitole dalla Corte di cassazione, ricevere ancora applicazione nella fase di rinvio, "il precludere che su di essa vengano prospettate questioni di legittimità costituzionale comporterebbe un'indubbia violazione delle disposizioni regolanti la materia (art. 1, legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87)" (v. sent. n. 30 del 1990, nonché sentt. nn. 257 del 1994, 130 del 1993, 2 e 345 del 1987, 21 del 1982, 11 del 1981, 138 del 1977).

 

Ed invero, nel respingere analoghe eccezioni dell'Avvocatura dello Stato, questa Corte ha chiarito, anche di recente, che, ai sensi delle ora citate disposizioni regolanti l'accesso delle questioni nel processo costituzionale, per aversi una questione di legittimità costituzionale validamente posta, è sufficiente che il giudice a quo riconduca alla disposizione contestata una interpretazione non implausibile della quale egli, a una valutazione compiuta in una fase meramente iniziale del processo, ritenga di dover fare applicazione nel giudizio principale e sulla quale egli nutra dubbi non arbitrari, o non pretestuosi, di conformità a determinate norme costituzionali (v., ad esempio, sentt. nn. 31 del 1995, 463 del 1994, 51 del 1992, 64 del 1991, 41 del 1990). La stessa Corte ha, anzi, significativamente precisato che la questione di costituzionalità è validamente posta anche quando il giudice a quo, affermando motivatamente di dubitare dell'orientamento giurisprudenziale prevalente o dominante, ritiene di dover applicare la disposizione contestata in un diverso o opposto significato normativo, sempreché l'interpretazione offerta non risulti del tutto implausibile, e cioè palesemente arbitraria (v. sentt. nn. 463 del 1994, 103, 112, 163, 344 del 1993, 436 del 1992).

 

Sicché può aversi questione d'interpretazione, anziché una di costituzionalità, soltanto nei casi in cui il giudice rimettente non individua profili di contrasto con determinati parametri costituzionali o, anche se formalmente li indica, in realtà chiede alla Corte di avallare determinate ipotesi interpretative senza sostanzialmente prospettare, riguardo alle interpretazioni assunte, dubbi di legittimità costituzionale (v., per quest'ultima ipotesi, ord. n. 274 del 1991). Ma questo non è il caso dell'ordinanza introduttiva del presente giudizio, nella quale il giudice a quo, dopo aver illustrato il "principio di diritto" enunciato dalla Corte di cassazione, concernente l'automatica sottoposizione dello straniero alla misura di sicurezza dell'espulsione, e dopo aver affermato di doverne fare applicazione nel giudizio principale, manifesta il dubbio che quel principio sia contrario a determinate norme della Costituzione, che comporterebbero la necessaria valutazione da parte del giudice della sussistenza in concreto della pericolosità sociale del condannato.

 

Né contro tale conclusione possono desumersi argomenti dalle decisioni di questa Corte citate dall'Avvocatura dello Stato nella propria memoria di udienza. Le sentenze ricordate dalla difesa erariale, infatti, riguardano il diverso profilo d'inammissibilità relativo a questioni proposte in modo "perplesso" o "alternativo" o "ancipite" o "ipotetico", nel senso che in quei casi i giudici a quibus prospettavano più possibilità interpretative della disposizione contestata senza scegliere e, quindi, indicare quella che essi ritenevano di dover applicare nel giudizio principale. Questo orientamento, indubbiamente consolidato nella giurisprudenza di questa Corte (v., ad esempio, sentt. nn. 117 del 1994, 51 del 1992, 473, 472 e 456 del 1989, ordd. nn. 325 e 227 del 1994, 207 del 1993, 548 del 1988), è diverso da quello prospettato dall'Avvocatura dello Stato, poiché incide, innanzitutto, sulla problematica della rilevanza della questione, cioè dell'applicabilità delle norme impugnate nel giudizio principale, piuttosto che su quella della prospettazione, o meno, della violazione di parametri costituzionali, cioè della valida proposizione della questione nei suoi termini essenziali, prescritti dall'art. 23 della legge n. 87 del 1953.

 

3. - La questione è fondata.

 

Il giudice rimettente contesta la legittimità costituzionale di un "principio di diritto" enunciato dalla Corte di cassazione in una sentenza di annullamento, con rinvio, di una precedente decisione dello stesso Tribunale di Roma, con la quale a un cittadino marocchino, condannato per cessione di sostanza stupefacente, era stata concessa la sospensione condizionale della pena. Ponendosi in una posizione contraria rispetto ad altre decisioni della stessa Corte di cassazione, per le quali l'applicazione della misura di sicurezza dell'espulsione prevista dall'art. 86, primo comma, del d.P.R. n. 309 del 1990 comporta l'accertamento giudiziale della pericolosità sociale del condannato, la sentenza di annullamento con rinvio enuncia il "principio di diritto" secondo il quale la predetta misura di sicurezza dell'espulsione, eseguibile a pena espiata, dev'essere ordinata con la sentenza di condanna come conseguenza automatica della commissione del reato di cui all'art. 73 dello stesso testo unico, con l'effetto di costituire giuridico ostacolo, per l'art. 164, secondo comma, n. 2, c.p., alla concessione della sospensione condizionale della pena. Così interpretato, il citato art. 86, primo comma, si pone in contrasto con l'art. 3 della Costituzione.

 

Configurata quale misura di sicurezza - come ritengono la giurisprudenza di merito e la stessa Corte di cassazione anche nella sopra menzionata sentenza di annullamento con rinvio - l'espulsione del condannato straniero prevista dall'art. 86, primo comma, del d.P.R. n. 309 del 1990 va inquadrata nell'ambito dell'ordinamento penale, nel quale, in seguito all'adozione dell'art. 31 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (che ha abrogato l'art. 204 c.p.), vige il principio che "tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate, previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto, è persona socialmente pericolosa". Rispetto a tale principio generale dell'ordinamento penale, un'ipotesi di presunzione ex lege della qualità di persona socialmente pericolosa, come è configurata dall'interpretazione contestata dal giudice a quo, dev'essere sottoposta, sotto il profilo dell'accertamento della legittimità costituzionale, al vaglio di un rigoroso scrutinio. Infatti, qualunque sia la natura che ontologicamente si intende assegnare alle misure di sicurezza, è indubitabile che le misure di sicurezza personali comportano comunque la privazione o la limitazione della libertà personale e, quindi, incidono in ogni caso su un valore che l'art. 13 della Costituzione riconosce come diritto inviolabile dell'uomo, sia esso cittadino o straniero (v., da ultimo, sent. n. 62 del 1994). Ed è giurisprudenza di questa Corte che, di fronte all'incisione di beni di tal pregio, il controllo di costituzionalità delle norme di legge contestate deve avvenire in modo da garantire che il sacrificio della libertà sia giustificato dall'effettiva realizzazione di altri valori costituzionali o non vada incontro a ostacoli insormontabili costituiti dalla protezione di altri valori costituzionali (v., ad esempio, sentt. nn. 63 del 1994, 81 del 1993, 368 del 1992, 366 del 1991).

 

Dall'interpretazione data dalla Corte di cassazione all'impugnato art. 86, primo comma, con il "principio di diritto" contestato deriva che quest'ultimo impone al giudice l'applicazione automatica dell'ordine di espulsione nei confronti dello straniero condannato per alcuno dei reati indicati dalla stessa disposizione censurata, senza consentire ad esso l'accertamento della sussistenza in concreto delle condizioni per un giudizio di pericolosità sociale del condannato. In conseguenza di ciò, al giudice di merito è preclusa, ai sensi dell'art. 164, secondo comma, n. 2, c.p., la concessione della sospensione condizionale della pena inflitta, pur nelle ipotesi nelle quali sussistano, come nel caso dedotto nel giudizio principale, i requisiti soggettivi e oggettivi richiesti dalla legge per l'erogazione di tal beneficio.

 

Di fronte all'esistenza in concreto di tali requisiti, la predetta preclusione evidenzia che l'art. 86, primo comma, nell'interpretazione contestata dal giudice a quo, non contiene, per chi abbia commesso i reati ivi indicati, altro presupposto legale, per la determinazione presuntiva della pericolosità sociale del soggetto, che il fatto della condizione di straniero del condannato. Messa a confronto con le altre ipotesi di applicabilità della misura di sicurezza dell'espulsione, previste dagli artt. 235 e 312 c.p., le quali, pur essendo subordinate al presupposto di condotte obiettive altrettanto gravi rispetto a quelle considerate nell'impugnato art. 86, primo comma, comportano pur sempre, in ossequio alla regola generale stabilita dal ricordato art. 31 della legge n. 663 del 1986, la valutazione da parte del giudice della sussistenza in concreto della pericolosità sociale dello straniero condannato, l'ipotesi contestata configura un'irragionevole disparità di trattamento. E l'irragionevolezza risulta evidente se si considera anche che l'applicazione della misura di sicurezza della espulsione senza la valutazione del giudice alla stregua degli indici menzionati dall'art. 133 c.p. (cui fa rinvio l'art. 203, cpv., c.p.) e la conseguente preclusione della concessione della sospensione condizionale della pena frappongono ingiustificati ostacoli, non soltanto alla libertà personale, ma anche alle possibilità di sviluppo della personalità del condannato in vista dell'eventuale superamento della sua condizione come soggetto socialmente pericoloso.

 

Né tale conclusione può essere efficacemente contrastata dal richiamo, operato dall'Avvocatura dello Stato, alle sentenze di questa Corte nn. 62 e 283 del 1994, relative all'espulsione dello straniero prevista dall'art. 7, commi 12- bis e 12- ter, del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416, nel testo introdotto dall'art. 8, primo comma, del decreto-legge 14 giugno 1993, n. 187. In quelle decisioni, infatti, è stato precisato che l'espulsione ivi prevista è un istituto diverso da quello ora considerato, trattandosi di un'ipotesi di sospensione della esecuzione della custodia cautelare in carcere, ovvero dell'espiazione della pena, condizionata dalla richiesta dell'interessato (o del suo difensore), richiesta che - si precisa nella sentenza n. 62 del 1994 - "rappresenta, come si deduce anche dai lavori preparatori, un requisito diretto, nella fattispecie, ad armonizzare la condizione dello straniero ai valori costituzionali cui il legislatore deve riferirsi nel prevedere una misura pur sempre incidente sulla libertà personale, cioè su un diritto inviolabile dell'uomo".

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 86, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui obbliga il giudice a emettere, senza l'accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità sociale, contestualmente alla condanna, l'ordine di espulsione, eseguibile a pena espiata, nei confronti dello straniero condannato per uno dei reati previsti dagli artt. 73, 74, 79 e 82, commi 2 e 3, del medesimo testo unico.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 febbraio 1995.

 

Ugo SPAGNOLI, Presidente

 

Antonio BALDASSARRE, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 24 febbraio 1995.