SENTENZA N. 123
ANNO 2017
Commenti alla decisione di
I. Roberto Conti, L’esecuzione delle sentenze
della Corte edu nei processi non penali dopo Corte cost. n. 123 del 2017, in questa Studi 2017/II
II. Alberto
Randazzo, A proposito
della sorte del giudicato amministrativo contrario a pronunzie della Corte di
Strasburgo (note minime alla sent. n. 123 del 2017
della Corte costituzionale), in questa ,
Studi 2017/II
III. Giuseppina Valentina Anna Petralia, Conflitto
tra giudicato nazionale e sentenze delle Corti europee: nota a margine di Corte
costituzionale n. 123/2017, per g.c. della Rivista AIC
IV. Costanza
Nardocci, Esecuzione
delle sentenze CEDU e intangibilità del giudicato amministrativo e civile,
per g.c. di Federalismi.it
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de
PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art. 106 del decreto
legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18
giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo
amministrativo), e degli artt. 395 e 396 del codice
di procedura civile, promosso dall’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato, nel procedimento vertente tra S. S. ed altri e l’Università degli studi
di Napoli Federico II ed altri, con ordinanza del 4 marzo 2015, iscritta
al n. 190 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visti gli atti di
costituzione di F. F. ed altri, di T. C. ed altri, dell’Università degli Studi
di Napoli Federico II e dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS);
udito nell’udienza pubblica
del 7 marzo 2017 il Giudice relatore Giancarlo Coraggio;
uditi gli avvocati Riccardo
Marone e Raffaella Veniero per F. F. ed altri, Riccardo Marone Giuseppe Maria
Perullo per T. C. ed altri, Angelo Abignente per l’Università degli Studi di
Napoli Federico II e Dario Marinuzzi per l’INPS.
Ritenuto in fatto
1.− L’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato ha sollevato, in riferimento agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, della
Costituzione, quest’ultimo in relazione al parametro interposto dell’art.
46, paragrafo 1, della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU),
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4
agosto 1955, n. 848, questione di legittimità costituzionale dell’art. 106
del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44
della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino
del processo amministrativo), e degli artt. 395 e 396 del codice di procedura
civile, «nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della
sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per
conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti
dell’uomo».
1.1.− Il rimettente
espone in punto di fatto che:
− i ricorrenti avevano
svolto dal 1983 al 1997 funzioni assistenziali presso il Policlinico dell’Università
degli studi di Napoli Federico II (d’ora in avanti: l’Università o l’Università
di Napoli), sulla base di contratti a termine aventi ad oggetto l’esplicazione
di attività professionale medica remunerata a gettone;
− con ricorsi proposti
nel 2004 innanzi al TAR Campania essi avevano chiesto il riconoscimento
dell’esistenza di un rapporto di lavoro di fatto alle dipendenze
dell’Università, con conseguente riconoscimento del diritto al versamento dei
relativi contributi previdenziali;
− il TAR adito aveva
accolto in parte i ricorsi, riconoscendo che l’attività espletata dai
ricorrenti era assimilabile a quella dei ricercatori universitari, «non
ponendosi quindi problemi in ordine alla sussistenza della giurisdizione
amministrativa»;
− diversamente,
l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, pronunciandosi in sede di appello
con la sentenza n. 4 del 2007, aveva ritenuto applicabile alla controversia
l’art. 45, comma 17, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove
disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle
amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di
giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4,
della L. 15 marzo 1997, n. 59), poi confluito nell’attuale art. 69, comma 7,
del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento
del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), il quale dispone,
per le liti relative al pubblico impiego "privatizzato”, che «[l]e controversie
relative a questioni attinenti al periodo del rapporto anteriore a tale data
[30 giugno 1998] restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il
15 settembre 2000»;
− in principio si era
ritenuto che la disposizione in parola prevedesse per i ricorsi proposti
successivamente a tale data la giurisdizione del giudice ordinario, in funzione
di giudice del lavoro; era successivamente prevalso, nella giurisprudenza tanto
della Corte di cassazione quanto del Consiglio di Stato, il diverso
orientamento che «ricollegava alla scadenza di tale termine la radicale perdita
del diritto a far valere, in ogni sede, ogni tipo di contenzioso»; anche la
Corte costituzionale aveva avallato tale interpretazione, ritenuta coerente con
le esigenze organizzative connesse al trapasso da una giurisdizione all’altra;
− uniformandosi a tale
giurisprudenza più recente, l’Adunanza plenaria aveva dichiarato
l’inammissibilità per tardività dei ricorsi proposti in primo grado dopo il 15
settembre 2000;
− alcuni dei
ricorrenti soccombenti nel giudizio di appello avevano quindi presentato
ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo che, con le sentenze Mottola contro
Italia e Staibano contro Italia del 4 febbraio 2014 (d’ora in
avanti: sentenze Mottola
e Staibano),
aveva accertato una duplice violazione degli obblighi convenzionali da parte
dello Stato italiano;
− in particolare, la
Corte di Strasburgo aveva accertato la violazione dell’art. 6, paragrafo 1,
della CEDU, relativamente al diritto di accesso a un tribunale, poiché, anche
se tale diritto non è assoluto, potendo in astratto essere condizionato, nel
caso di specie era risultato ingiustamente leso nella sua sostanza; nonché
dell’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione stessa: i
ricorrenti erano titolari di un «bene» ai sensi del citato parametro
convenzionale, poiché il loro diritto di credito pensionistico aveva una base
sufficiente nel diritto interno alla luce della giurisprudenza all’epoca
consolidata, e la decisione del Consiglio di Stato aveva svuotato la loro
legittima aspettativa al conseguimento di tale bene;
− relativamente,
invece, alla domanda di equa soddisfazione formulata ai sensi dell’art. 41
della Convenzione, la Corte EDU si era riservata la decisione «tenuto conto
della possibilità che il Governo e i ricorrenti addivengano ad un accordo»;
− alla luce di tali
sentenze, i soccombenti nel giudizio di appello definitosi con la citata
sentenza n. 4 del 2007 dell’Adunanza plenaria (alcuni dei quali ricorrenti a
Strasburgo) hanno iniziato il giudizio a quo per la sua revocazione, chiedendo
al Consiglio di Stato di procedere a una interpretazione costituzionalmente
orientata dell’art. 106 del d.lgs. n. 104 del 2010 (d’ora in avanti: cod. proc. amm.) e degli artt. 395 e
396 cod. proc. civ., ovvero, in subordine, di
sollevare questione di legittimità costituzionale di tali articoli, per
violazione degli artt. 111 e 117, primo comma, Cost.;
− «[n]el merito», i ricorrenti hanno chiesto al giudice adito, in
conformità alle pronunce della Corte EDU, di applicare l’art. 69, comma 7, del
d.lgs. n. 165 del 2001, «nella sola interpretazione resa possibile dalla
sentenza della Corte europea, e cioè nel senso della perdurante giurisdizione
amministrativa, delle controversie riguardanti vicende del pubblico impiego,
precedenti la traslazione della giurisdizione»; e conseguentemente, accertata
la natura di fatto del loro rapporto d’impiego, di confermare la sentenza del
TAR Campania che aveva condannato l’amministrazione resistente al pagamento
della contribuzione previdenziale e dell’indennità di fine rapporto;
− nel giudizio a quo
si è costituito l’Istituto nazionale per la previdenza sociale (INPS),
eccependo l’inammissibilità del ricorso, non vertendosi in alcuno dei casi di
revocazione previsti dalla legge; che il giudicato interno non può essere
travolto da una sentenza della Corte EDU; e che la Corte costituzionale si era
già pronunciata nel senso della non illegittimità dell’art. 69, comma 7,
citato;
− si è del pari
costituita l’Università di Napoli, eccependo la inammissibilità del ricorso per
insussistenza dei presupposti normativi per la revocazione; l’irrilevanza della
questione di costituzionalità poiché la riapertura del processo non
consentirebbe all’Adunanza plenaria di entrare nel merito della domanda dei
ricorrenti, ostandovi l’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001; l’assenza
di un obbligo di riaprire il processo alla luce delle sentenze della Corte di
Strasburgo; la inutilità di sollevare una questione di legittimità
costituzionale, essendosi la Corte costituzionale già pronunciata sul citato
art. 69, comma 7.
1.2.− Tanto premesso,
l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in punto di «ammissibilità» del
ricorso per revocazione, ritiene non manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 106 cod. proc. amm. e degli artt. 395 e 396 cod. proc.
civ.
Rammenta in primo luogo il
rimettente che, alla stregua della consolidata giurisprudenza della Corte
costituzionale, il giudice comune non può disapplicare la norma interna che
ritenga incompatibile con la CEDU, a differenza di quanto accade per il diritto
dell’Unione, dovendo, invece, laddove ravvisi un contrasto tra la prima e la
seconda non risolvibile con lo strumento dell’interpretazione convenzionalmente
conforme, sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione
dell’art. 117, primo comma, Cost.
Nel caso in esame vi sarebbe
«una tensione tra le norme interne che disciplinano la revocazione della
sentenza amministrativa passata in giudicato e l’obbligo assunto dall’Italia di
conformarsi alle decisioni della Corte di Strasburgo (art. 46 CEDU)».
Allorquando, infatti, i
giudici europei abbiano accertato con sentenza definitiva una violazione dei
diritti riconosciuti dalla Convenzione, sorgerebbe per lo Stato l’obbligo di
adottare le misure necessarie per garantire la restitutio
in integrum, ossia per porre il ricorrente in una
situazione analoga a quella in cui si troverebbe qualora la violazione non vi
fosse stata.
L’obbligo di conformarsi
alla sentenza della Corte di Strasburgo sussisterebbe anche ove la violazione
commessa dallo Stato sorga proprio a causa della sentenza passata in giudicato.
Sul punto, la Corte EDU e
gli organi del Consiglio d’Europa − prosegue il Consiglio di Stato −
hanno progressivamente individuato la riapertura del processo quale soluzione
maggiormente idonea a garantire la restitutio in integrum in favore delle vittime delle violazioni non
altrimenti rimediabili: in questi casi, infatti, la rimozione del giudicato
formatosi sarebbe indispensabile per rimuovere la violazione dei diritti
commessa dallo Stato-giudice nel corso del processo.
Tale obbligo di riapertura
dei processi iniqui sarebbe stato affermato con maggior forza con riferimento
ai processi penali, dove i valori in gioco, in primis quello della libertà
personale, renderebbero «del tutto intollerabile il perdurare di violazioni di
diritti fondamentali». Ciò avrebbe portato molti Stati aderenti alla Convenzione
a prevedere la possibilità di riapertura dei processi in via legislativa o
giurisprudenziale.
Osserva il rimettente che in
Italia tanto è avvenuto con riferimento ai processi penali grazie
all’intervento della Corte costituzionale, che, con la sentenza n. 113 del
2011, ha introdotto un nuovo caso di revisione, qualora ciò si renda
necessario per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte EDU.
Secondo l’Adunanza plenaria
del Consiglio di Stato, un contrasto tra le norme processuali interne e
l’obbligo gravante sullo Stato di conformarsi alle sentenze della Corte di
Strasburgo può sussistere anche «nel caso di specie in cui è in discussione
l’ammissibilità del ricorso per la revocazione di una sentenza del giudice
amministrativo».
Non a caso – prosegue il
rimettente − la Raccomandazione R(2000)2 sulla riapertura dei processi,
adottata dal Comitato dei ministri il 19 gennaio 2000, pur dedicando
particolare attenzione a quelli penali, non esclude quelli civili e
amministrativi. Gli Stati sono incoraggiati alla riapertura ove ricorrano due
condizioni: a) la parte lesa continui a soffrire serie conseguenze negative a
causa della sentenza nazionale che non possano essere adeguatamente rimediate
attraverso l’equa soddisfazione prevista dall’art. 41 della CEDU; b) la Corte
EDU «abbia riconosciuto la sentenza domestica quale fonte di una violazione
degli obblighi convenzionali per ragioni sostanziali o procedurali».
Osserva ancora il rimettente
che nel caso di specie la Corte di Strasburgo ha accertato che la sentenza
dell’Adunanza plenaria n. 4 del 2007 ha violato tanto il diritto di accesso a
un tribunale quanto il diritto di proprietà: qualora non fosse ammissibile la
revocazione, «l’ordinamento italiano non fornirebbe ai ricorrenti alcuna
possibilità per vedere rimediata la violazione dei diritti fondamentali dagli
stessi subita».
Essi, infatti, si vedrebbero
definitivamente negato il «diritto di azionabilità delle proprie posizioni
soggettive che all’epoca tentarono di fare valere davanti al giudice
amministrativo», e, in particolare, la possibilità «di fare valere i diritti
pensionistici che assumono essere loro spettanti».
Osserva il Consiglio di
Stato, poi, che, sebbene la Corte costituzionale abbia in più occasioni
dichiarato non fondate le questioni di costituzionalità dell’art. 69, comma 7,
del d.lgs. n. 165 del 2001, esse non sarebbero mai state sollevate con
riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in
relazione ai parametri interposti di natura convenzionale.
Anche davanti al giudice
amministrativo verrebbe in rilievo la tutela di diritti fondamentali che
potrebbero essere violati e generare responsabilità convenzionale dello Stato:
qualora la Corte EDU accerti tale violazione, potrebbero darsi casi in cui la
rimozione del giudicato si appalesi quale unico mezzo utile per rimuovere le
perduranti violazioni di diritti fondamentali, analogamente a quanto
riconosciuto con riferimento al processo penale.
Non a caso molti Stati
aderenti alla Convenzione avrebbero previsto la possibilità di riaprire anche i
processi civili e amministrativi.
Alla luce di questi rilievi,
ritiene il rimettente che le norme processuali nazionali che disciplinano i
casi di revocazione delle sentenze del giudice amministrativo «si pongano in
tensione» con l’art. 117, primo comma, Cost., in
riferimento al parametro interposto dell’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, «non
contemplando tra i casi di revocazione quella che si renda necessaria per
conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti
dell’uomo».
Secondo il rimettente,
l’assenza di un apposito rimedio volto a riaprire il processo giudicato iniquo
dalla Corte EDU si porrebbe in contrasto anche con i princìpi sanciti dagli artt.
24 e 111 Cost., dal momento che «le garanzie di
azionabilità delle posizioni soggettive e di equo processo previste dalla
nostra Costituzione non sono inferiori a quelle espresse dalla CEDU».
Aggiunge il Consiglio di
Stato di non potere disapplicare le norme processuali interne incompatibili con
la Convenzione e di non poterne dare una interpretazione adeguatrice,
in ragione della tassatività dei casi di revocazione previsti.
1.3.− Infine, il rimettente
afferma che la questione è rilevante nel giudizio a quo, in quanto dalla sua
soluzione dipende l’ammissibilità del ricorso per revocazione proposto.
La rilevanza non verrebbe
meno alla luce del fatto che la Corte costituzionale ha già avuto modo di
dichiarare in più occasioni la non fondatezza delle questioni di
costituzionalità sollevate nei confronti dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n.
165 del 2001, poiché «la questione attinente all’interpretazione e alla
legittimità costituzionale di detta norma riguarda una eventuale fase
successiva dell’iter logico di decisione […]. Una volta che verrà eventualmente
ritenuto ammissibile il ricorso per revocazione proposto nella fase
rescindente, si dovranno valutare, nella fase rescissoria, se, nel merito, vi
siano i presupposti per la revocazione della sentenza n. 4/2007 di questa
Adunanza plenaria».
2.− Con memoria
depositata nella cancelleria di questa Corte il 16 luglio 2015, si sono
costituiti T. C., M.E. V., D. P., A. F., F. M., S. S., S. L., P. N., M. L.P.,
D. M., C. A., D. M., A. L. e F. T., tutti ricorrenti nel giudizio a quo,
chiedendo l’accoglimento della questione di costituzionalità sollevata e
riservandosi di meglio illustrare in prosieguo le proprie difese.
3.− Con memoria
depositata nella cancelleria di questa Corte il 16 luglio 2015, si sono
costituiti F. F., P. A., A. D.R., M.A. L., M. M. e M. M., anch’essi ricorrenti
nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento della questione di
costituzionalità sollevata e anch’essi riservandosi di meglio illustrare in
prosieguo le proprie difese.
4.− Con memoria
depositata nella cancelleria di questa Corte il 13 ottobre 2015, si è
costituito l’INPS, eccependo, in primo luogo, l’inammissibilità della questione
per difetto di rilevanza, poiché il bene della vita anelato dai ricorrenti (il
diritto alle prestazioni previdenziali) sarebbe strettamente legato alla
«valutazione della legittimità costituzionale della norma decadenziale».
In altri termini, la
questione di costituzionalità dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. 165 del 2001
non riguarderebbe una fase successiva dell’iter logico-giuridico che il giudice
a quo deve seguire, ma atterrebbe «in modo diretto e immediato alla valutazione
della rilevanza della attuale questione di costituzionalità».
Poiché la Corte
costituzionale avrebbe più volte escluso la illegittimità della disposizione
citata, non vi sarebbero gli estremi per giungere alla revocazione della
sentenza n. 4 del 2007 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, dal che
l’irrilevanza della questione sollevata.
Nel merito essa sarebbe
infondata, poiché le sentenze
Mottola e Staibano non affermerebbero in alcun modo l’obbligo di
revocazione della sentenza del Consiglio di Stato, ed anzi presupporrebbero il
contrario, laddove prendono in esame la richiesta di equa soddisfazione
avanzata dalle parti, riservandosi di decidere all’esito di un eventuale
accordo tra le stesse: il risarcimento in forma specifica e la restitutio in integrum
determinerebbero, laddove cumulati, un ingiustificato arricchimento dei
ricorrenti.
Osserva ancora l’INPS che il
giudizio davanti alla Corte EDU si è svolto tra i ricorrenti e lo Stato
italiano, sicché l’eventuale revocazione della sentenza passata in giudicato
sarebbe obbligata in forza di una decisione intervenuta all’esito di un
processo al quale l’istituto non ha partecipato, con palese violazione del suo
diritto costituzionale alla difesa.
Infine, il travolgimento del
giudicato nel caso a quo significherebbe disattendere la consolidata
giurisprudenza della Corte costituzionale sulla non illegittimità del termine decadenziale previsto dall’art. 69, comma 7, del d.lgs. n.
165 del 2001 e prima ancora dall’art. 45, comma 17, del d.lgs. n. 80 del 1998.
5.− Con memoria
depositata nella cancelleria di questa Corte il 13 ottobre 2015, si è
costituita l’Università di Napoli, eccependo l’inammissibilità del ricorso per
difetto di rilevanza, perché con la riapertura del processo i ricorrenti
potrebbero ottenere solo un diritto al versamento dei contributi previdenziali
che però sarebbe ormai prescritto ai sensi dell’art. 3 della legge 8 agosto
1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare).
Nel merito, l’Università
ritiene che i ricorrenti abbiano avuto ampie possibilità di accedere alla
giustizia, come sarebbe dimostrato dal fatto che molti soggetti versanti nella
medesima situazione giuridica avevano ottenuto piena soddisfazione giudiziaria
delle loro richieste.
Spetterebbe in ogni caso
alla Corte costituzionale valutare se la richiesta declaratoria di
incostituzionalità delle norme censurate dal rimettente «incontri dei
controlimiti invalicabili innanzitutto nei principi costituzionali posti a
fondamento dell’ordinamento processuale civile nonché nel principio del buon
andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost.».
Verrebbe in rilievo, in
primo luogo, «il delicato e ineludibile bilanciamento tra le esigenze sottese
all’apertura della revocazione ad ipotesi nuove […] e il valore costituzionale
della stabilità del giudicato desumibile dal combinato disposto degli artt. 24
e 111 Cost.».
La Corte costituzionale
avrebbe in più occasioni ricordato che la certezza delle situazioni giuridiche
connessa al giudicato è un valore costituzionalmente protetto che giustifica la
delimitazione delle ipotesi di revocazione straordinaria; e che il giudicato è
uno dei principali strumenti per la realizzazione della tutela giurisdizionale
dei diritti e la sua intangibilità un principio fondamentale del nostro
ordinamento.
Quanto all’art. 46 della
CEDU, l’Università di Napoli ritiene che esso non imponga l’obbligo di
riapertura del processo, come sarebbe dimostrato dall’esistenza del rimedio
dell’equa soddisfazione. Andrebbe valutato, poi, nel caso di specie, se il
precetto delle sentenze
Mottola e Staibano possa essere osservato solo mediante
l’eliminazione del giudicato.
Ancora, l’intangibilità del
giudicato troverebbe un ancoraggio nel principio di buon andamento della
pubblica amministrazione consacrato nell’art. 97 Cost.,
poiché la revisione per contrasto con la sentenza della Corte EDU
incoraggerebbe la riapertura di innumerevoli giudizi, comportando un forte
aggravio dell’ingolfamento del sistema giudiziario italiano.
Infine, non sarebbe
pertinente il richiamo alla sentenza della
Corte costituzionale n. 113 del 2011, attese le innegabili ed intrinseche
differenze tra il diritto penale e quello civile, quanto a norme procedurali e,
soprattutto, a interessi sottesi e tipologia di diritti tutelati: basterebbe
considerare che l’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87
(Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), in
tema di efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale
consente il travolgimento del solo giudicato penale.
Attribuire alla sentenza
della Corte EDU una «forza revocatoria del giudicato» civile e amministrativo,
significherebbe attribuire alla pronuncia della Corte europea uno status
superiore a quello riconosciuto nel nostro ordinamento alle sentenze della
Corte costituzionale.
6.− Con memorie
rispettivamente depositate il 13 e il 14 febbraio 2017 l’Università di Napoli e
l’INPS hanno ribadito le ragioni di inammissibilità e non fondatezza delle
questioni già illustrate nelle rispettive memorie di costituzione.
Considerato in diritto
1.− L’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato dubita, in riferimento agli artt. 24, 111 e
117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione al parametro
interposto dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848,
della legittimità costituzionale dell’art. 106 del decreto legislativo 2 luglio
2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69,
recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), e degli
artt. 395 e 396 del codice di procedura civile, «nella parte in cui non
prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia
necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza
definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo».
2.− Il rimettente è
stato adito per la revocazione della sentenza n. 4 del 2007, con cui l’Adunanza
plenaria aveva dichiarato inammissibili alcuni ricorsi proposti da medici
cosiddetti a gettone e volti alla condanna dell’Università di Napoli Federico
II al versamento di contributi previdenziali, ritenendo intervenuta la
decadenza dall’azione prevista prima dall’art. 45, comma 17, del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di
organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di
giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa,
emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della L. 15 marzo 1997, n.
59), e poi dall’art. 69, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165
(Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche), il quale dispone, per le liti relative al pubblico
impiego "privatizzato”, che «[l]e controversie relative a questioni attinenti
al periodo del rapporto anteriore a tale data [30 giugno 1998] restano
attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora
siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000».
Riferisce l’Adunanza
plenaria che la domanda di revocazione costituisce il seguito delle pronunce
della Corte europea dei diritti dell’uomo, Mottola contro Italia e Staibano
contro Italia, del 4 febbraio 2014 (d’ora in avanti: sentenze Mottola e Staibano),
le quali hanno accertato che lo Stato italiano, con la sentenza n. 4 del 2007
del Consiglio di Stato, ha violato il diritto dei ricorrenti di accesso a un
tribunale, garantito dall’art. 6 della CEDU, nonché il diritto al rispetto dei
propri beni, garantito dall’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla CEDU.
Ritiene il rimettente che,
qualora l’ordinamento non apprestasse lo strumento della revocazione delle
sentenze amministrative passate in giudicato per porre rimedio a qualsivoglia
violazione accertata dalla Corte EDU, ne risulterebbe violato l’art. 117, primo
comma, Cost., con riferimento all’art. 46, paragrafo
1, della CEDU, che impegna gli Stati contraenti «a conformarsi alle sentenze
definitive della Corte [europea dei diritti dell’uomo] sulle controversie nelle
quali sono parti».
La mancata previsione di un
caso specifico di revocazione – ad avviso del rimettente – comporterebbe anche
una violazione degli artt. 24 e 111 Cost., perché «le
garanzie di azionabilità delle posizioni soggettive e di equo processo previste
dalla nostra Costituzione non sono inferiori a quelle espresse dalla CEDU».
3.− Passando all’esame
delle censure, la seconda è inammissibile per difetto di motivazione sulla non
manifesta infondatezza (tra le tante, sentenze n. 276
e n. 133 del
2016; ordinanze
n. 93 del 2016, n. 261, n. 181 e n. 174 del 2012,
n. 236 e n. 126 del 2011).
Il rimettente, infatti, non
spiega le ragioni dell’asserito contrasto delle norme censurate con gli evocati
artt. 24 e 111 Cost., limitandosi ad affermare in
termini generici e senza alcun esame dei parametri costituzionali,
l’equivalenza tra la garanzia da essi apprestata e quella offerta dal sistema
convenzionale.
4.− Quanto alla prima
censura di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.,
in relazione al parametro interposto dell’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, ai
fini dell’esame sia della rilevanza che del merito, è opportuno prendere le
mosse dal contenuto delle sentenze
Mottola e Staibano.
4.1.− Quest’ultime
hanno accertato, in primo luogo, la violazione del diritto dei ricorrenti
all’equo processo, non essendo stato loro consentito, in concreto, di accedere
a un tribunale, dal momento che il termine dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n.
165 del 2001, prima interpretato dalla giurisprudenza come termine di
proponibilità dell’azione davanti al giudice amministrativo con salvezza di
azione davanti al giudice ordinario, è stato poi ritenuto termine di decadenza
sostanziale.
Secondo la Corte EDU, il
mutamento di indirizzo giurisprudenziale (e non il termine previsto dalla
norma, «finalizzato alla buona amministrazione della giustizia» e «in sé non
eccessivamente breve») ha impedito ai ricorrenti di ottenere tutela, nonostante
avessero «adito i tribunali amministrativi in completa buona fede e sulla base
di un’interpretazione plausibile delle norme sulla ripartizione delle
competenze».
Le sentenze hanno inoltre
riscontrato una violazione di natura sostanziale: i ricorrenti sono stati lesi
anche nel diritto al rispetto dei propri beni garantito dall’art. 1 del primo
Protocollo addizionale alla Convenzione, perché il mutamento di indirizzo
giurisprudenziale li ha privati del riconoscimento di un diritto di credito –
quello ai versamenti dei contributi previdenziali – che «aveva una base
sufficiente nel diritto interno, in quanto confermato da una giurisprudenza ben
consolidata».
All’accertamento della
violazione procedurale e di quella sostanziale la Corte di Strasburgo ha quindi
fatto seguire l’esame della domanda di equo indennizzo, riservandosi di
decidere laddove le parti non raggiungano un accordo («si riserva la decisione
e fisserà l’ulteriore procedimento, tenuto conto della possibilità che il
Governo e i ricorrenti addivengano ad un accordo»).
5.− Quanto alla
rilevanza, secondo l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), essa
difetterebbe perché la questione sollevata sarebbe strettamente legata a quella
del citato art. 69, comma 7, più volte sottoposto all’esame di questa Corte,
che ha sempre ritenuto non fondate le relative questioni di costituzionalità:
nel giudizio a quo non ricorrerebbero, dunque, i presupposti per la revocazione
della sentenza n. 4 del 2007 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.
Secondo l’Università degli
studi di Napoli Federico II, invece, la rilevanza difetterebbe perché con la
riapertura del processo i ricorrenti mirerebbero all’accertamento di un
diritto, quello al versamento dei contributi previdenziali, che sarebbe ormai
prescritto ai sensi dell’art. 3 della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del
sistema pensionistico obbligatorio e complementare).
5.1.− È noto che il
giudizio sulla rilevanza «è riservato al giudice rimettente, sì che
l’intervento della Corte deve limitarsi ad accertare l’esistenza di una
motivazione sufficiente, non palesemente erronea o contraddittoria, senza
spingersi fino ad un esame autonomo degli elementi che hanno portato il giudice
a quo a determinate conclusioni. In altre parole, nel giudizio di
costituzionalità, ai fini dell’apprezzamento della rilevanza, ciò che conta è
la valutazione che il rimettente deve fare in ordine alla possibilità che il
procedimento pendente possa o meno essere definito indipendentemente dalla
soluzione della questione sollevata, potendo la Corte interferire su tale
valutazione solo se essa, a prima vista, appaia assolutamente priva di
fondamento (ex plurimis, sentenze n. 91 del
2013, n. 41
del 2011 e n.
270 del 2010)» (sentenza n. 71 del
2015; nello stesso senso, tra le tante successive, sentenza n. 228 del
2016).
Non incorre in questo vizio
l’ordinanza di rimessione, nella quale si afferma di dover fare applicazione
delle norme censurate per decidere, in sede rescindente, sull’ammissibilità
della domanda di revocazione.
È evidente, infatti, che la
decisione della questione di costituzionalità influisce sulla prima valutazione
che il rimettente è chiamato ad operare circa la riconducibilità del caso di
specie ad uno dei motivi revocatori previsti dalla legge (tra le tante, sentenze n. 20 del
2016, n. 294
del 2011, n.
151 del 2009; ordinanza
n. 147 del 2015).
Al contrario, sia la
questione della legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7, sia quella
della prescrizione dei diritti azionati in giudizio attengono alla successiva
ed eventuale fase del merito rescissorio e quindi, non incidendo sulla verifica
preliminare di ammissibilità dell’azione cui è chiamato il rimettente, non
mettono in discussione la rilevanza della questione.
5.2.− Neanche incide
sulla rilevanza la circostanza che le sentenze Mottola e Staibano
non abbiano affermato l’obbligo di riapertura del processo, quale forma dovuta
di restitutio in integrum.
Ciò infatti non esclude che nel giudizio comune si debba dare una risposta alla
domanda della parte ricorrente, intesa a far valere il diritto a uno specifico
rimedio processuale, che si assume discendere, di per sé, dall’accertata violazione
dell’art. 46 della CEDU.
Stabilire se tale diritto
sussista o meno pone, invero, un problema di interpretazione della norma
convenzionale interposta, problema che, nella specie, coinvolge il merito della
questione di costituzionalità (tra le più recenti, sentenze n. 43 del
2017, n. 276
e n. 193 del
2016).
6.– Nel merito la questione
non è fondata.
7.− L’esame della
censura sollevata dal rimettente va condotto separatamente per i ricorrenti nel
giudizio per revocazione che hanno adito vittoriosamente la Corte di Strasburgo
e per quelli che non hanno attivato lo strumento processuale convenzionale, ma
versano nella medesima situazione sostanziale.
8.− Per i secondi,
questa Corte si è già pronunciata in senso negativo, perché l’obbligo di
riapertura del processo, posto dall’art. 46 della CEDU, «nel significato
attribuitole dalla Corte di Strasburgo, non concerne i casi, diversi da quello
oggetto della pronuncia, nei quali per l’ordinamento interno si è formato il
giudicato» (sentenza
n. 210 del 2013).
Vi è, infatti, «una radicale
differenza tra coloro che, una volta esauriti i ricorsi interni, si sono
rivolti al sistema di giustizia della CEDU e coloro che, al contrario, non si
sono avvalsi di tale facoltà, con la conseguenza che la loro vicenda
processuale, definita ormai con la formazione del giudicato, non è più
suscettibile del rimedio convenzionale» (così la citata sentenza n. 210 del
2013).
9.– Per i soggetti che hanno
adito vittoriosamente la Corte di Strasburgo, invece, questa Corte, con la sentenza n. 113 del
2011, ha riconosciuto l’esistenza dell’obbligo convenzionale di riapertura
del processo penale, allorquando ciò sia necessario per conformasi
a una sentenza della Corte EDU, e conseguentemente ha introdotto nell’art. 630
del codice di procedura penale una specifica ipotesi di revisione della
sentenza passata in giudicato.
Ciò che in questa sede va
verificato è se tale conclusione sia valida anche per i processi diversi da
quelli penali e, in particolare, per quelli amministrativi.
10.− Come osservato da
questa Corte nella decisione da ultimo ricordata, sin dalla sentenza della Grande Camera,
13 luglio 2000, Scozzari e Giunta contro Italia,
la Corte EDU, leggendo congiuntamente ed evolutivamente gli artt. 41 e 46 della
Convenzione, ha ritenuto che l’obbligo di conformazione alle proprie sentenze
implichi, anche cumulativamente, a carico dello Stato condannato: 1) il
pagamento dell’equa soddisfazione, ove attribuita dalla Corte ai sensi
dell’art. 41 della CEDU; 2) l’adozione, se del caso, di misure individuali
necessarie all’eliminazione delle conseguenze della violazione accertata; 3)
l’introduzione di misure generali volte a far cessare la violazione derivante
da un atto normativo o da prassi amministrative o giurisprudenziali e ad
evitare violazioni future (principio ribadito, da ultimo, nelle sentenze della
Corte EDU, 14 febbraio
2017, S.K. contro Russia, paragrafo 132; 15 dicembre 2016, Ignatov contro Ucraina, paragrafo 49; 20 settembre 2016, Karelin contro Russia, paragrafo 92; Grande Camera, 17 luglio
2014, Centre for legal resources
on behalf of Valentin Campeanu
contro Romania, paragrafo 158).
Le misure individuali sono
quelle volte a consentire la restitutio in integrum, al fine di porre il ricorrente, per quanto
possibile, «in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non
vi fosse stata una inosservanza delle esigenze della Convenzione» (Grande
Camera, 17 settembre 2009,
Scoppola contro Italia, paragrafo 151; nello stesso senso, tra le tante, sentenze Grande Camera, 12
marzo 2014, Kuric e altri contro Slovenia,
paragrafo 79; Grande
Camera, 30 giugno 2009, Verein Tierfabriken
Schweiz (VgT) contro
Svizzera, paragrafo 85).
La Corte EDU, peraltro, ha
costantemente affermato che in linea di principio non spetta ad essa indicare
le misure atte a concretizzare la restitutio in integrum o le misure generali necessarie a porre fine alla
violazione convenzionale, restando gli Stati liberi di scegliere i mezzi per
l’adempimento di tale obbligo, purché compatibili con le conclusioni contenute
nelle sue sentenze (tra le tante, sentenze Grande Camera, 5
febbraio 2015, Bochan contro Ucraina, paragrafo
57; Grande Camera, 17
luglio 2014, Centre for legal resources
on behalf of Valentin Campeanu
contro Romania, paragrafo 158; Grande Camera, 12 marzo 2014,
Kuric e altri contro Slovenia, paragrafo 80), e
solo in taluni casi eccezionali ha ritenuto utile indicare il tipo di misure da
adottare (tra le ultime, sentenze
30 ottobre 2014, Davydov contro Russia, paragrafo
27; 9 gennaio 2013, Oleksandr Volkov contro Ucraina, paragrafo 195).
Essa, peraltro, nel caso di
violazione delle norme sul giusto processo (art. 6 della CEDU), ha anche
affermato che la riapertura del processo o il riesame del caso rappresentano,
in linea di principio, il mezzo più appropriato per operare la restitutio in integrum (tra le
tante, sentenze 20
settembre 2016, Karelin contro Russia, paragrafo
97; Grande Camera, 5
febbraio 2015, Bochan contro Ucraina, paragrafo
58).
10.1.− Di queste
ultime misure si occupa anche la Raccomandazione R(2000)2 del 19 gennaio 2000,
che, pur non essendo vincolante, è particolarmente importante per la
ricostruzione della portata della giurisprudenza convenzionale, e ciò sia
perché proviene dall’organo − il Comitato dei ministri −
istituzionalmente deputato a vigilare sull’esecuzione delle sentenze di
condanna della Corte di Strasburgo, sia perché condiziona la prassi applicativa
rilevante sul piano dell’interpretazione della CEDU, ai sensi dell’art. 31,
paragrafo 3, della Convenzione di Vienna sui trattati, sia perché, infine, è
spesso richiamata dalla Corte nelle sue decisioni, entrando così a far parte
del relativo apparato motivazionale e quindi, in definitiva, contribuendo a
riempire di contenuto il significato dei precetti convenzionali.
Nella Raccomandazione si
legge che l’obbligo conformativo può «in certe circostanze» ricomprendere
misure individuali diverse dall’equo indennizzo; che «in circostanze
eccezionali» il riesame del caso o la riapertura dei processi si è dimostrata
la misura più adeguata, se non l’unica, per raggiungere la restitutio
in integrum; che, infine, quest’ultima appare
indicata laddove «la parte continui a soffrire conseguenze negative molto serie
a causa della decisione interna, che non possono essere adeguatamente rimosse
attraverso l’equa soddisfazione».
11.− Dalla
giurisprudenza della Corte EDU e dalla Raccomandazione si ricava, dunque, che
l’obbligo di conformazione alle sentenze della Corte ha un contenuto variabile,
che le misure ripristinatorie individuali diverse dall’indennizzo sono solo
eventuali e vanno adottate esclusivamente laddove siano «necessarie» per dare
esecuzione alle sentenze stesse, e che il riesame del caso o la riapertura del
processo sono tuttavia da ritenersi le misure più appropriate nel caso di
violazione delle norme convenzionali sul giusto processo.
12.− La specifica
giurisprudenza della Corte di Strasburgo relativa ai processi civili e
amministrativi è sostanzialmente in linea con questi princìpi.
In particolare, anche nelle
sentenze rese in queste materie si sottolinea l’importanza della riapertura del
processo o del riesame del caso per la effettività del sistema convenzionale,
in presenza di violazioni processuali.
Si deve constatare, tuttavia,
che l’indicazione della obbligatorietà della riapertura del processo, quale
misura atta a garantire la restitutio in integrum, è presente esclusivamente in sentenze rese nei
confronti di Stati i cui ordinamenti interni già prevedono, in caso di violazione
delle norme convenzionali, strumenti di revisione delle sentenze passate in
giudicato (si vedano, tra le altre, le sentenze 22 novembre 2016, Artemenko contro Russia, paragrafo 34; 26 aprile 2016, Kardoš contro Croazia, paragrafo 67; 26 luglio 2011, T.Ç. e H.Ç
contro Turchia, paragrafi 94 e 95; 20 dicembre 2007, Iosif e
altri contro Romania, paragrafo 99; 20 dicembre 2007, Paykar Yev Haghtanak
LTD contro Armenia, paragrafo 58; 10 agosto 2006, Yanakiev contro Bulgaria, paragrafo 90; 11 luglio 2006, Gurov contro Moldavia, paragrafo 43).
12.1.− Riassume con
grande chiarezza l’atteggiamento della Corte EDU nelle materie diverse da
quella penale la sentenza
della Grande Camera, 5 febbraio 2015, Bochan contro
Ucraina.
Quest’ultima, dopo avere
riportato i dati di uno studio comparativo sullo stato della legislazione degli
Stati contraenti (paragrafi 26 e 27), osserva che non vi è un approccio
uniforme sulla possibilità di riaprire i processi civili in seguito a una
sentenza della Corte EDU che abbia accertato violazioni convenzionali
(paragrafo 57).
La sentenza, poi, pur
incoraggiando gli Stati contraenti all’adozione delle misure necessarie per
garantire la riapertura del processo, afferma che è rimesso agli Stati medesimi
la scelta di come meglio conformarsi alle pronunce della Corte, «senza
indebitamente stravolgere i princìpi della res iudicata o la certezza del
diritto nel contenzioso civile, in particolare quando tale contenzioso riguarda
terzi con i propri legittimi interessi da tutelare» (paragrafo 57).
13.− Questo passaggio
della motivazione è di particolare rilievo, ai fini della risoluzione
dell’odierna questione di costituzionalità, perché, nel perimetrare l’obbligo
di conformazione discendente dall’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, individua
nella tutela dei soggetti diversi dallo Stato che hanno preso parte al giudizio
interno la principale differenza fra i processi penali e quelli civili,
differenza che riguarda pure quelli amministrativi, anch’essi caratterizzati
dalla frequente partecipazione al giudizio di amministrazioni diverse dallo
Stato, di parti resistenti private affidatarie di un munus
pubblico e di controinteressati.
È la tutela di costoro,
unita al rispetto nei loro confronti della certezza del diritto garantita dalla
res iudicata (oltre al fatto che nei processi civili e amministrativi non è in
gioco la libertà personale), a spiegare l’atteggiamento più cauto della Corte
EDU al di fuori della materia penale.
14.− Ciò trova
riscontro nella posizione di diversi Stati contraenti, i quali hanno
manifestato analoga cautela al riguardo, come notato – si è visto – dalla
stessa sentenza Bochan e come emerge sia dal Memorandum esplicativo
della Raccomandazione R(2000)2, sia dal Review
sull’esecuzione della citata Raccomandazione del 12 maggio del 2006 sia,
infine, dall’Overview del comitato di esperti datato
12 febbraio 2016.
15.− Si deve dunque
concludere che, nelle materie diverse da quella penale, dalla giurisprudenza
convenzionale non emerge, allo stato, l’esistenza di un obbligo generale di
adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo, e che la
decisione di prevederla è rimessa agli Stati contraenti, i quali, peraltro,
sono incoraggiati a provvedere in tal senso, pur con la dovuta attenzione per i
vari e confliggenti interessi in gioco.
16.− Questo invito è
stato accolto da circa metà degli Stati del Consiglio d’Europa, come emerge dal
citato Overview, il quale, alla data del 12 febbraio
2016, indica in ventitré gli Stati che hanno introdotto strumenti atti a consentire
la riapertura dei processi civili a seguito di sentenze della Corte EDU di
accertamento di violazioni convenzionali.
Tra questi vi è la Germania,
ove, con la Zweites Gesetz zur Modernisierung der Justiz − 2. Justizmodernisierungsgesetz del 22 dicembre 2006, il
legislatore ha aggiunto ai casi di revocazione straordinaria delle sentenze
civili elencati dall’art. 580 del Zivilprozessordnung
quello in cui la Corte EDU abbia stabilito che la Convenzione o i suoi
protocolli sono stati violati da una sentenza nazionale e quest’ultima si basi
su tale violazione. I giudicati amministrativi possono egualmente essere
rimessi in discussione, poiché, come nel nostro ordinamento, esiste una norma
che, in materia di revocazione, rinvia alle disposizioni del citato codice di
rito.
Anche in Spagna, a seguito
di diversi tentativi della giurisprudenza di utilizzare in via estensiva gli
istituti di impugnazione già presenti nell’ordinamento, a partire dal 1°
ottobre 2015, mediante la modifica della Ley Orgánica 6/1985, de 1 de julio,
del Poder Judicial, è stato
introdotto all’art. 5-bis un caso di recurso de revisión di tutte le sentenze in contrasto con una
pronuncia definitiva della Corte di Strasburgo, purché la violazione, per la
sua natura e gravità, comporti effetti che persistono e che non possono cessare
in altro modo che con la revisione.
Da ultimo, il legislatore
francese, con la Loi n° 2016-1547 du
18 novembre 2016 de modernisation de la justice du XXIe
siècle, ha introdotto nel Code de l’organisation judiciaire la
possibilità di chiedere la revocazione delle sentenze civili rese in materia di
stato delle persone in caso di condanna da parte della Corte EDU, laddove, per
la sua natura e gravità, la violazione convenzionale abbia creato un danno non
risarcibile con l’equa soddisfazione.
17.− Anche nel nostro
ordinamento la riapertura del processo non penale, con il conseguente
travolgimento del giudicato, esige una delicata ponderazione, alla luce
dell’art. 24 Cost., fra il diritto di azione degli
interessati e il diritto di difesa dei terzi, e tale ponderazione spetta in via
prioritaria al legislatore.
In questa prospettiva, se è
vero che non è irrilevante l’interesse statale ad una disciplina che eviti
indennizzi a volte onerosi, per lesioni anche altrimenti riparabili, non si può
sottacere che l’invito della Corte EDU potrebbe essere più facilmente recepito
in presenza di un adeguato coinvolgimento dei terzi nel processo convenzionale.
È noto, infatti, che
quest’ultimo vede come parti necessarie il ricorrente e lo Stato autore della
violazione, mentre l’intervento degli altri soggetti che hanno preso parte al
giudizio interno − cui peraltro il ricorso non deve essere notificato −
è rimesso, ai sensi dell’art. 36, paragrafo 2, della CEDU, alla valutazione
discrezionale del Presidente della Corte, il quale «può invitare» «ogni persona
interessata diversa dal ricorrente a presentare osservazioni per iscritto o a
partecipare alle udienze».
Non vi è dubbio, allora, che
una sistematica apertura del processo convenzionale ai terzi – per mutamento
delle fonti convenzionali o in forza di una loro interpretazione adeguatrice da parte della Corte EDU − renderebbe più
agevole l’opera del legislatore nazionale.
PER QUESTI
MOTIVI
LA CORTE
COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibile la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 106 del decreto legislativo 2
luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n.
69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), e
degli artt. 395 e 396 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento
agli artt. 24 e 111 della Costituzione, dall’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 106 del d.lgs. n. 104 del
2010, e degli artt. 395 e 396 cod. proc. civ.,
sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione,
dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con l’ordinanza indicata in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Giancarlo CORAGGIO,
Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il
26 maggio 2017.