SENTENZA N. 102
ANNO 2016
Commenti
alla decisione di
I. Francesco Viganò, Ne
bis in idem e doppio binario sanzionatorio in materia di abusi di mercato:
dalla sentenza della Consulta un assist ai giudici comuni, per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo
II. Ruggero Rudoni, La
disciplina sanzionatoria degli abusi di mercato a confronto con il ne bis in
idem convenzionale: il ruolo della Corte costituzionale in attesa
dell’intervento legislativo. Nota a margine della sentenza della Corte
costituzionale n. 102 del 2016,
per g.c. dell’Osservatorio AIC
III. Piersabino Salvemini, Riflessioni
sulla legittimità costituzionale ed europea del doppio binario sanzionatorio a
margine di Corte cost. nn.
102 e 112 del 2016, per g.c. della Rivista
AIC
in
argomento su questa Rivista
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Silvana SCIARRA
”
- Daria de PRETIS
”
- Nicolò ZANON
”
- Franco MODUGNO
”
- Augusto
Antonio BARBERA
”
- Giulio PROSPERETTI
”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art.
649 del codice di procedura penale e degli artt. 187-bis, comma 1, e 187-ter,
comma 1, del decreto
legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia
di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6
febbraio 1996, n. 52), promossi dalla Corte di cassazione con ordinanze del
15 e del 21 gennaio 2015, iscritte ai nn. 38 e 52 del
registro ordinanze 2015 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica nn. 12 e 15, prima serie speciale,
dell’anno 2015.
Visti gli atti di costituzione della parte privata C.C.R.,
della Commissione nazionale per le società e la borsa – CONSOB, della Garlsson srl in liquidazione (già
Garlsson Real Estate sa in liquidazione) ed altri,
fuori termine, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
uditi nell’udienza pubblica dell’8 marzo 2016 i Giudici
relatori Giorgio Lattanzi e Marta Cartabia;
uditi gli avvocati Francesco Arnaud
per la Garlsson srl in liquidazione (già Garlsson Real Estate sa in liquidazione) ed altri, Riccardo
Olivo per la parte privata C.C.R., Salvatore Providenti
per la Commissione nazionale per le società e la borsa – CONSOB e gli avvocati
dello Stato Mario Antonio Scino e Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio
dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con
ordinanza del 15 gennaio 2015 (reg. ord. n. 38 del 2015), notificata il
successivo 21 gennaio, la quinta sezione penale della Corte di cassazione ha
sollevato, in via principale, questione di legittimità costituzionale, per
violazione dell’art.
117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del
Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984,
ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile 1990, n. 98 (d’ora innanzi
«Protocollo n. 7 alla CEDU»), dell’art. 187-bis,
comma 1, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle
disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli
8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), nella parte in cui prevede «Salve
le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato» anziché «Salvo che il
fatto costituisca reato». In via subordinata, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117, primo comma,
della Costituzione in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU,
dell’art. 649 del codice di procedura penale nella parte in cui non prevede
«l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in
cui l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il
medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione
di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai sensi della
Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’uomo e delle Libertà
fondamentali e dei relativi Protocolli».
1.1.– Il
rimettente ha premesso che l’imputato è stato condannato per il reato di cui
all’art. 184, lettera b), del d.lgs.
n. 58 del 1998 – per avere diffuso ad altri, in data antecedente e prossima al
23 gennaio 2006, informazioni privilegiate di cui era in possesso quale
analista finanziario, fuori dal normale esercizio della professione – con
sentenza del Tribunale ordinario di Milano del 20 dicembre 2011, confermata
dalla Corte d’appello di Milano, con sentenza del 16 gennaio 2013, oggetto del
ricorso per cassazione del quale il giudice a
quo è stato investito.
Lo stesso
rimettente ha precisato di aderire all’orientamento, avallato dalle sezioni
unite della Corte di cassazione, secondo il quale è ammissibile la deduzione,
per la prima volta dinanzi alla Corte predetta (come avvenuto nella specie),
della violazione del divieto del bis in
idem.
L’imputato
ha infatti prodotto sentenza della Corte d’appello di Roma con la quale è stata
rigettata l’opposizione avverso la delibera della Commissione nazionale per le
società e la borsa («CONSOB») con la quale al medesimo imputato è stata
applicata la sanzione pecuniaria e quella accessoria interdittiva, in relazione
all’illecito amministrativo previsto dall’art. 187-bis, comma 1, del citato d.lgs. n. 58 del 1998, contestatogli per i
medesimi fatti compresi nell’imputazione penale. Inoltre, essendo il reato
commesso nella vigenza dell’art. 39 della legge 28 dicembre 2005, n. 262
(Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati
finanziari), neppure risultava decorso il termine di prescrizione.
1.2.– Ad
avviso del rimettente, la questione sollevata in via principale assumerebbe
rilevanza nel giudizio a quo, perché
il suo eventuale accoglimento farebbe venir meno il presupposto del ne bis in idem, in quanto la CONSOB
dovrebbe assumere le necessarie determinazioni per revocare le sanzioni ai
sensi dell’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla
costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale): in particolare,
il riconoscimento della natura sostanzialmente penale della sanzione irrogata
dovrebbe imporre il superamento del giudicato, in base a una interpretazione
della disposizione conforme alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Per
altro verso, secondo la Corte di cassazione, la disciplina limitativa del cumulo
delle sanzioni prevista dall’art. 187-terdecies
del d.lgs. n. 58 del 1998, dovrebbe ritenersi operativa anche nella specie, con
la conseguenza che il venir meno della base legale della sanzione
amministrativa determinerebbe la possibile esazione in toto della multa.
1.3.–
Peraltro, secondo il giudice a quo,
anche la questione sollevata in via subordinata sarebbe rilevante, posto che,
in caso di accoglimento, la Corte di cassazione potrebbe definire il giudizio
in base all’applicazione dell’art. 649 cod. proc. pen., quale risultante
dall’intervento additivo richiesto.
1.4.– Il
rimettente ha poi escluso la praticabilità di una interpretazione
costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate.
Per quanto
concerne l’art. 187-bis, comma 1, del
d.lgs. n. 58 del 1998, l’incipit
letterale della disposizione e il meccanismo compensativo previsto dal citato
art. 187-terdecies, sarebbero
compatibili soltanto con la previsione di un concorso delle sanzioni previste
per il reato e per l’illecito amministrativo.
Allo stesso
modo l’art. 649 cod. proc. pen. si pone all’interno di un sistema di strumenti
volti a prevenire lo svolgimento di più procedimenti per il medesimo fatto –
come nel caso della disciplina sui conflitti positivi di competenza, tra
diversi giudici, o di attribuzione, tra diversi uffici del pubblico ministero –
o di rimedi stabiliti in sede esecutiva, espressivi tutti del medesimo
principio del ne bis in idem, che
presuppongono la comune riferibilità dei plurimi procedimenti alla sola
autorità giudiziaria penale.
1.5.– In
punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo ha rilevato che la violazione del parametro convenzionale
interposto – costituito dall’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU – e, per il suo
tramite, dell’art. 117, primo comma, Cost. si ricollegherebbe alla sentenza
della Corte di Strasburgo del 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri contro
Italia, divenuta irrevocabile il 7 luglio 2014. In tale sentenza si sarebbe
rilevata l’incompatibilità con il divieto convenzionale del bis in idem, del regime del doppio
binario sanzionatorio previsto dalla legislazione italiana per gli abusi di
mercato, in quanto andrebbe riconosciuta natura sostanzialmente penale alla
sanzione amministrativa comminata e l’identità del fatto, rispetto a quello per
il quale sono previste sanzioni penali, andrebbe scrutinata con un accertamento
in concreto e non mediante una disamina degli elementi costitutivi delle
fattispecie astratte.
Posto che la
sentenza della Corte di Strasburgo fa applicazione di criteri consolidati nella
sua giurisprudenza e poiché l’incompatibilità accertata risulta di natura
sistemica (in quanto derivante dalla normativa), la portata della citata
decisione andrebbe oltre il caso esaminato, come rilevato in altra occasione
dalla Corte costituzionale (sentenza n. 210 del
2013) e la violazione strutturale – determinata dall’applicabilità
cumulativa delle sanzioni previste dagli artt. 184 e 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, che comporta la lesione del
parametro interposto e, quindi, della norma costituzionale – troverebbe
soluzione proprio attraverso l’accoglimento delle prospettate questioni di
legittimità costituzionale.
1.5.1.– Il
recepimento del parametro interposto non potrebbe essere poi precluso, ad
avviso del rimettente, sulla base del principio di stretta legalità formale
sancito in materia penale dell’art. 25 Cost., né del principio
dell’obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost., posto che,
secondo la stessa giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 196 del
2010), le misure di carattere punitivo-afflittivo devono esser soggette
alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto.
1.5.2.– Il
giudice a quo ha poi osservato che
l’assetto sanzionatorio prescelto dal legislatore italiano non potrebbe neppure
ritenersi imposto dalla normativa europea e, segnatamente, dall’art. 14, comma
1, della direttiva 28 gennaio 2003, 2003/6/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione
del mercato, che consente ma non impone sanzioni penali per gli abusi di
mercato, come già chiarito dalla Corte di giustizia con la sentenza
23 dicembre 2009, in causa C-45/08, Spector Photo
Group e Van Raemdonck, e parimenti consente, ma
non impone, il cumulo di sanzioni amministrative e penali.
Del resto,
il vincolo di risultato derivante dalla direttiva è pur sempre quello di
garantire misure efficaci, proporzionate e dissuasive in maniera da non
compromettere la tutela dei diritti fondamentali, come parimenti chiarito dalla
sentenza
della medesima Corte di giustizia del 26 febbraio 2013, in causa C-617/10 Aklagaren contro Akerberg Fransson, proprio in un caso in cui si doveva definire
la portata del principio del ne bis in
idem.
1.5.3.–
Peraltro, ha osservato il rimettente, proprio in tale decisione la Corte di
Lussemburgo definisce la portata del principio – quale codificato nell’art. 50
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, firmata a Nizza il 7
dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo – in modo differente
rispetto alla definizione da parte della Corte di Strasburgo dell’analogo
principio codificato dall’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU. Tale differenza
nella definizione del principio del ne
bis in idem, impedirebbe di pervenire alla «inapplicazione»
di norme interne in base alla sovrapponibilità delle previsioni contenute nella
norma convenzionale, quale applicate dalla citata
sentenza Grande Stevens e altri contro Italia, e di quella comunitaria,
eventualmente considerata direttamente efficace, proprio in quanto tale
sovrapponibilità non sussisterebbe, in quanto la Corte di Lussemburgo nel
definire il divieto di doppio giudizio fa comunque riferimento alla necessaria
valutazione dell’adeguatezza delle rimanenti sanzioni rispetto ai citati canoni
di effettività, proporzionalità e dissuasività.
1.5.4.– Lo
stesso rimettente ha aggiunto, d’altro canto, che il diritto dell’Unione
europea in materia di abusi di mercato è stato profondamente innovato, di
recente, attraverso il regolamento 16 aprile 2014, n. 596/2014 del Parlamento
europeo e del Consiglio relativo agli abusi di mercato e che abroga la
direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e le direttive
2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE, il quale, oltre a prevedere
l’abrogazione della direttiva n. 2003/6/CE con effetto dal 3 luglio 2016, ha
stabilito, all’art. 30, comma 1, che gli Stati membri possono decidere di non
comminare sanzioni amministrative per abusi che siano già soggetti a sanzioni
penali nel rispettivo diritto nazionale entro il 3 luglio 2016, data entro la
quale dovrà essere recepita la nuova direttiva 16 aprile 2014, n. 2014/57/UE
del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla sanzioni penali in caso di
abusi di mercato.
Quest’ultima
direttiva, infatti, capovolgerebbe, secondo il rimettente, i rapporti tra
sanzioni penali e amministrative per gli abusi di mercato, privilegiando le
prime rispetto alle seconde.
1.6.–
Proprio l’esigenza di immediato adeguamento alla citata direttiva 2014/57/UE
militerebbe a favore dell’accoglimento della questione proposta in via
principale, volta ad ottenere la dichiarazione di illegittimità costituzionale
dell’art. 187-bis, comma 1, del
d.lgs. n. 58 del 1998 nella parte in cui prevede «Salve le sanzioni penali
quando il fatto costituisce reato» anziché «Salvo che il fatto costituisca
reato».
In questo
modo, infatti, si assicurerebbe la sussidiarietà della fattispecie
amministrativa rispetto a quella penale, in ottemperanza alla previsione della
nuova direttiva e con una migliore rispondenza ai canoni individuati nella
citata sentenza
della Corte di Lussemburgo del 26 febbraio 2013, anche perché la certezza
del tipo di risposta sanzionatoria rafforzerebbe l’effettività della risposta
stessa.
1.7.– Simile
certezza sul tipo di risposta sanzionatoria non conseguirebbe all’accoglimento
della questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 cod. proc. pen.,
per questo sollevata in via subordinata.
Infatti, la
preclusione scatterebbe in base al provvedimento divenuto per primo
irrevocabile (sia esso amministrativo o penale) ponendo così rimedio nei casi
concreti, ma non in generale alla violazione strutturale determinata dal
divieto del bis in idem, quale
ricostruito dalla Corte di Strasburgo.
In questo
modo, inoltre, si attribuirebbe all’art. 649 cod. proc. pen. una portata
diversa da quella desumibile dal suo inserimento in un sistema di rimedi che
presuppongono tutti che i plurimi procedimenti riguardino l’autorità
giudiziaria penale.
Tuttavia,
tale incongruenza sistematica, non precluderebbe la possibilità di accoglimento
in via subordinata dalla questione, in quanto la Corte costituzionale ha già
avuto modo di affermare, con la sentenza n. 113 del
2011, che tali incongruenze non esimono la Corte dal porre rimedio a vulnera costituzionali non emendabili in
via interpretativa.
2.– Con atto
depositato il 14 aprile 2015 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la
questione venga dichiarata inammissibile o infondata.
La difesa
dello Stato ha ritenuto, infatti, che mancherebbero i presupposti di rilevanza
della questione, in quanto in sede penale è contestato il reato di cui all’art.
184 del d.lgs. n. 58 del 1998, che rimarrebbe immodificato anche in caso di
accoglimento dell’intervento manipolativo richiesto invece sull’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998 già
definitivamente applicato in sede amministrativa.
Inconferente
sarebbe poi il riferimento all’art. 187-terdecies
del medesimo decreto che rileva solo in sede esecutiva e non in quella di
cognizione, che caratterizza il giudizio a
quo.
Ulteriore
ragione di inammissibilità sarebbe inoltre rappresentata dal carattere creativo
dell’intervento richiesto, come confermato dal fatto che la lettura, adottata
dal rimettente, della nuova direttiva in materia, si fonda su valutazioni di
politica del diritto, di competenza del legislatore, più che su considerazioni
giuridiche, di competenza della giurisdizione.
Il
rimettente non avrebbe poi motivato sulla necessaria eccessiva gravità in
concreto della sanzione amministrativa cumulata a quella penale. Neppure il
giudice a quo avrebbe adeguatamente
considerato la circostanza che la sanzione amministrativa nei confronti di
C.C.R. sarebbe divenuta definitiva proprio per la volontaria rinuncia
dell’interessato a far valere tutti i rimedi apprestati dall’ordinamento per
evitare la duplicazione della sanzione.
Nel merito
la questione di legittimità costituzionale sarebbe infondata in quanto
l’intervento manipolativo dell’art. 187-bis
del d.lgs. n. 58 del 1998 sollecitato dal rimettente contrasterebbe con il
principio di legalità ex art. 25
Cost. e, quindi, con la riserva di legge, il principio di tassatività delle
fattispecie e di irretroattività delle norme penali. Sul punto è stato
richiamato l’insegnamento della sentenza n. 49 del
2015 della Corte costituzionale, rimarcandosi come il giudice debba
innanzitutto obbedienza alla Carta repubblicana.
Secondo
l’Avvocatura generale dello Stato affidare alle sole sanzioni penali la tutela
dagli abusi del mercato minerebbe l’effettività della disciplina che, specie
nel campo della finanza, necessiterebbe di un’azione deterrente più celere e
mirata, svincolata dalle «lungaggini del processo penale».
Parimenti
infondata sarebbe anche la questione sollevata in via subordinata.
Infatti, in
primo luogo dovrebbe escludersi in radice che in caso di «concorso di sanzione
amministrativa e di sanzione penale aventi oggettività giuridica distinta e
diversi elementi costitutivi, in particolare dal punto di vista dell’elemento
soggettivo, si verifichi in linea di principio un concorso apparente» di norme,
solo in presenza del quale si determinerebbe una violazione del ne bis in idem come inteso dalla Corte
di Strasburgo (si cita in proposito la sentenza della Corte di cassazione,
sezione quarta penale, 6 febbraio 2015, n. 9168). In secondo luogo, secondo
l’interveniente, non si potrebbe dare alcun contrasto di giudicati, dovendosi a
maggior ragione applicare al caso di specie il principio, affermatosi nel
diritto vivente, secondo il quale l’inammissibilità di un secondo giudizio non
vieterebbe di prendere in considerazione lo stesso fatto storico per valutarlo
liberamente ai fini della prova di un reato diverso da quello giudicato. Sulla
scorta di questa considerazione, secondo la difesa dello Stato, dovrebbe
palesarsi anche una ulteriore ragione di irrilevanza della questione sollevata,
che avrebbe dovuto più coerentemente fare riferimento all’art. 669 cod. proc.
pen. (sul cosiddetto "conflitto pratico di giudicati”), anziché all’impugnato
art. 649 dello stesso codice.
Inoltre,
l’eventuale accoglimento della questione determinerebbe l’incertezza della
risposta sanzionatoria (casualmente amministrativa o penale, a seconda del
procedimento conclusosi per primo), così da incidere sulla sua effettività, con
pregiudizio degli obblighi comunitari da salvaguardare ai sensi degli artt. 11
e 117 Cost.
L’invocata
manipolazione dell’art. 649 cod. proc. pen. contrasterebbe, altresì, con l’art.
3 Cost., essendo irragionevole sottoporre a sanzione amministrativa o penale
una determinata persona sulla base di un accadimento processuale del tutto
aleatorio.
Infine,
risulterebbe pregiudicato il principio di obbligatorietà dell’azione penale ex art. 112 Cost., posto che
l’irrevocabilità della decisione sull’illecito amministrativo paralizzerebbe
l’iniziativa del pubblico ministero.
3.– Con atto
depositato il 13 aprile 2015, si è costituita la CONSOB, chiedendo che le
questioni vengano dichiarate inammissibili e, comunque, non fondate.
In ordine
alla questione sollevata in via principale, la medesima sarebbe inammissibile
per l’implausibilità della motivazione sulla
rilevanza. Infatti, per effetto della introduzione della clausola di sussidiarietà,
continuerebbe a trovare piena applicazione la norma incriminatrice, viceversa
la eventuale pronuncia di accoglimento inciderebbe sulla sanzione
amministrativa che, in quanto oggetto di una decisione definitiva e già
eseguita, costituirebbe una situazione giuridica i cui effetti si sono
esauriti, con palese inconferenza del richiamo, da
parte del giudice rimettente, dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del
1953.
Parimenti
inconferente sarebbe il richiamo all’art. 187-terdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, trattandosi di norma che può
trovare applicazione nella sola fase di esecuzione e non in quella di
cognizione, in cui è stata sollevata la questione.
Inoltre,
l’accoglimento della questione porterebbe ad effetti in malam partem,
come tali costituenti ulteriore ragione di inammissibilità.
Rispetto
alla questione sollevata sarebbe, altresì, inconferente il parametro interposto
richiamato, in quanto l’addizione richiesta impedirebbe l’instaurazione di
procedimenti paralleli, vale a dire la stessa litispendenza (anche se nessuno
dei procedimenti sia già stato definito), ciò non rientra nel divieto
convenzionale di bis in idem come
inteso dalla giurisprudenza di Strasburgo.
Ancora la
questione sarebbe inammissibile, perché l’intervento sollecitato non avrebbe
contenuto costituzionalmente obbligato.
Infatti, in
primo luogo la nuova direttiva n. 2014/57/UE troverà applicazione solo dal 3
luglio 2016, mentre la precedente direttiva n. 2003/6/CE non impone
obbligatoriamente la previsione di sanzioni penali per reprimere gli abusi di
mercato, come precisato dalla Corte di giustizia nella citata
sentenza 23 dicembre 2009, in causa C-45/08.
Secondo la
CONSOB, peraltro, neppure la nuova normativa comunitaria vincolerebbe il
legislatore italiano alla previsione di sanzioni penali per tali illeciti,
limitandosi a prevedere che, mantenendo fermo un impianto sanzionatorio di
natura amministrativa, per le fattispecie più gravi gli Stati membri abbiano
facoltà di stabilire sanzioni penali aggiuntive ovvero di discrezionalmente
optare solo per le sanzioni penali. Ciò confermerebbe che si tratta di scelte
discrezionali di competenza del legislatore nazionale.
In ogni
caso, secondo l’interveniente, la questione sarebbe infondata nel merito.
In primo
luogo, infatti, il suo accoglimento determinerebbe una violazione degli artt.
11 e 117, primo comma, Cost., in quanto si porrebbe in contrasto con la
direttiva n. 2003/6/CE che, sino al 3 luglio 2016, continuerebbe a trovare
applicazione e che impone agli Stati membri di punire gli abusi di mercato con
sanzioni amministrative.
In secondo
luogo, la qualificazione come "penali” delle sanzioni amministrative applicate
dalla CONSOB contrasterebbe con i principi costituzionali interni fondanti il
sistema penale e processuale italiano, vale a dire con i principi di legalità,
di obbligatorietà dell’azione penale e di ragionevolezza.
Tale
contrasto con prevalenti presidi costituzionali interni, impedirebbe perciò
alla norma convenzionale interposta, come interpretata dalla Corte di
Strasburgo, di integrare lo stesso parametro costituzionale di cui all’art.
117, primo comma, Cost., ciò in ossequio alla giurisprudenza costituzionale in
materia.
4.– Con atto
depositato il 14 aprile 2015 si è costituito C.C.R., imputato nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento della
sollevata questione, in particolare di quella concernente l’art. 649 cod. proc.
pen.
5.– Con
ordinanza del 21 gennaio 2015 (reg. ord. n. 52 del 2015), notificata il
successivo 26 gennaio, la sezione tributaria della Corte di cassazione ha
sollevato questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art.
117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 2 e 4 del Protocollo n. 7 alla
CEDU, dell’art. 187-ter, comma 1, del
d.lgs. n. 58 del 1998, nella parte in cui prevede la comminatoria congiunta
della sanzione penale prevista dall’art. 185 del medesimo d.lgs. n. 58 del 1998
e della sanzione amministrativa prevista per l’illecito di cui all’art. 187-ter dello stesso decreto.
In
particolare, il rimettente ha premesso che pende dinanzi a sé ricorso per
cassazione avverso la sentenza emessa il 23 ottobre 2008 dalla Corte d’appello
di Roma, con la quale venivano rideterminate le sanzioni inflitte dalla CONSOB
per condotte di manipolazione del mercato. Nel predetto giudizio, inoltre, era
stata prodotta la sentenza della Corte di cassazione che ha dichiarato
inammissibile il ricorso proposto avverso la sentenza, per ciò divenuta
definitiva, emessa il 10 dicembre 2008 dal Tribunale ordinario di Roma con la
quale era stata disposta l’applicazione della pena su richiesta agli attuali
ricorrenti per reati corrispondenti ai medesimi fatti oggetto dell’illecito
amministrativo.
Ha osservato
il rimettente che con la
sentenza Grande Stevens e altri contro Italia, apparirebbe «chiaro
l’orientamento dei giudici di Strasburgo di rimproverare agli organi
giurisdizionali la mancata disapplicazione di un principio (ne bis in idem) che il legislatore
nazionale ha introdotto in materia penale ma non nei rapporti tra sanzione
amministrativa di natura penale e sanzione penale».
In
particolare, con la citata
sentenza la Corte di Strasburgo avrebbe riconosciuto natura penale alle
sanzioni amministrative previste dal citato art. 187-ter, con conseguente sua soggezione al divieto del bis in idem, contenuto nell’art. 4 del
Protocollo n. 7 alla CEDU.
Secondo il
giudice a quo il principio affermato
sarebbe «bidirezionale», nel senso che esso troverebbe applicazione sia nel
caso di sanzione amministrativa precedente quella penale, sia nel caso inverso,
come quello occorso nella specie, nel quale il giudizio penale si è esaurito
prima rispetto a quello amministrativo ancora sub iudice.
Inoltre,
secondo il rimettente, «in forza del principio del favor rei, va assimilata la sentenza di patteggiamento a quella
penale di condanna», con la conseguente idoneità della stessa a determinare
base idonea a supportare il divieto di bis
in idem nei termini affermati dalla Corte di Strasburgo.
Lo stesso
rimettente ha poi richiamato la giurisprudenza costituzionale sugli effetti
delle sentenze definitive della Corte di Strasburgo, desumendo che la
violazione della norma convenzionale, quale parametro interposto, determina la
violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., ove non sia consentita una
interpretazione conforme del diritto nazionale.
Il giudice a quo ha quindi osservato che i medesimi
comportamenti oggetto della sentenza di patteggiamento sarebbero puniti con una
sanzione qualificata come amministrativa dall’art. 187-ter, comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998, con conseguente rilevanza
della questione sollevata, in quanto «non appare conforme ai principi
sovranazionali sanciti dalla CEDU la previsione del doppio binario e, quindi,
della cumulabilità tra sanzione penale e amministrativa, applicata in processi
diversi, qualora quest’ultima abbia natura di sanzione penale».
Andrebbe
peraltro «rimessa alla Consulta, alla luce dei principi CEDU, determinare il
rilievo, ai fini della applicazione del principio del "ne bis in idem”, della valutazione, da parte del giudice nazionale,
della effettiva afflittività della sanzione penale», posto che nella specie era
stata applicata la sola pena detentiva, dichiarata interamente condonata, con
la conseguenza che l’imputato non aveva subito alcun «effettivo pregiudizio
nella sfera personale».
Occorrerebbe
quindi, secondo il giudice a quo,
«verificare se la obbligatorietà delle sanzioni amministrative nel sistema
degli illeciti di market abuse sia conf[l]iggente col sistema del c.d. divieto del bis in idem, allorché venga
preliminarmente emessa una sanzione penale e se, eventualmente, quest’ultima, a
prescindere dalla sua afflittività e proporzionalità, in relazione al fatto
commesso, sia preclusiva alla comminatoria della sanzione amministrativa, o se
ne debba solamente tenere conto al fine della successiva comminatoria della
sanzione amministrativa», ciò anche alla luce della direttiva n. 2003/6/CE che
impone agli Stati membri di prevedere sanzioni amministrative effettive,
proporzionate e dissuasive e del sistema previsto dagli artt. 187-duodecies e 187-terdecies del d.lgs. n. 58 del 1998 che impongono di non sospendere
i procedimenti amministrativi per abusi di mercato pur in pendenza del
procedimento penale per i medesimi fatti, stabilendo poi che la esazione della
pena pecuniaria eventualmente inflitta in sede penale sia limitata alla parte
eccedente quella riscossa dall’autorità amministrativa.
6.– Con atto
depositato il 5 maggio 2015, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la
questione venga dichiarata inammissibile o infondata.
In primo
luogo la questione sarebbe inammissibile per le società, che sono state
sanzionate in via amministrativa per l’illecito di cui all’art. 187-quinquies del d.lgs. n. 58 del 1998,
mentre in sede penale era stato loro contestato l’illecito di cui agli artt. 5,
25-ter e 25-sexies del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa
delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di
personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000,
n. 300).
Quanto
all’imputato, non sarebbe stata motivata – o addirittura sarebbe stata esclusa
dal rimettente – l’esistenza di una duplicità di sanzioni dotate di
afflittività tale da poter determinare una violazione del ne bis in idem ai sensi dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU.
Nel merito
la questione di legittimità costituzionale sarebbe infondata in quanto
l’intervento manipolativo dell’art. 187-ter,
comma 1, d.lgs. n. 58 del 1998, sollecitato dal rimettente, contrasterebbe con
il principio di legalità ex art. 25
Cost. e, quindi, con la riserva di legge, il principio di tassatività delle
fattispecie e di irretroattività delle norme penali. Sul punto è stato
richiamato l’insegnamento della sentenza n. 49 del
2015 della Corte costituzionale, rimarcandosi come il giudice debba
innanzitutto obbedienza alla Carta repubblicana.
Secondo
l’Avvocatura generale dello Stato affidare alle sole sanzioni penali la tutela
dagli abusi del mercato minerebbe l’effettività della disciplina che, specie
nel campo della finanza, necessiterebbe di un’azione deterrente più celere e
mirata, svincolata dalle «lungaggini del processo penale».
Ad avviso
della difesa dello Stato, poi, la sentenza
Grande Stevens non impedirebbe di configurare due previsioni sanzionatorie
per lo stesso fatto quando ciò sia necessario per esaurirne il disvalore plurioffensivo, ciò che appunto avverrebbe nella specie,
dove le sanzioni amministrative sarebbero volte a rendere non conveniente
l’abuso colpendo il patrimonio del responsabile a tutela della fiducia degli
investitori in via generale e preventiva, mentre l’illecito penale assumerebbe
valenza repressiva contro la figura professionale dell’operatore che ha commesso
l’abuso, in ragione del pericolo per la vigilanza che esso rappresenterebbe.
7.– Con atto
depositato il 5 maggio 2015, si è costituita la CONSOB chiedendo che la
questione venga dichiarata inammissibile e comunque infondata, sollecitando,
altresì, che la sua trattazione venga fissata nella stessa udienza nella quale
si discute la questione di cui all’ordinanza di rimessione iscritta al n. 35
del 2015, ripercorrendo e ulteriormente illustrando le argomentazioni già
sviluppate nella memoria depositata in quel giudizio.
8.– Con
memoria depositata fuori termine, il 16 febbraio 2016, sono intervenute nel
giudizio le società sanzionate e R.S., parti nel giudizio a quo.
Considerato in diritto
1.– Con
ordinanza del 15 gennaio 2015 (reg. ord. n. 38 del 2015), notificata il
successivo 21 gennaio, la quinta sezione penale della Corte di cassazione ha
sollevato, in via principale, questione di legittimità costituzionale dell’art.
187-bis, comma 1, del decreto
legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia
di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6
febbraio 1996, n. 52), nella parte in cui prevede «Salve le sanzioni penali
quando il fatto costituisce reato» anziché «Salvo che il fatto costituisca
reato», per violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in
relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia
dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22
novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile 1990, n. 98
(d’ora in avanti «Protocollo n. 7 alla CEDU»).
In via
subordinata, il giudice rimettente ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell’art. 649 del codice di procedura penale, nella parte in cui
non prevede «l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo
giudizio al caso in cui l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento
irrevocabile, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento
amministrativo per l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi
natura penale ai sensi della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti
dell’uomo e delle Libertà fondamentali e dei relativi Protocolli», in relazione
al medesimo parametro e alla medesima norma interposta della questione
principale.
Il giudice
rimettente è investito del ricorso proposto contro la condanna di un imputato
per il reato previsto dall’art. 184, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 58 del 1998, per abuso di informazioni
privilegiate e riferisce che era già passata in giudicato una pronuncia che
aveva respinto l’opposizione della stessa persona contro una sanzione
amministrativa pecuniaria inflittale dalla Commissione nazionale per le società
e la borsa, ai sensi dell’art. 187-bis
del d.lgs. n. 58 del 1998, per il medesimo fatto.
Applicando
un consolidato principio di diritto a un caso analogo a quello oggetto del
giudizio a quo, la Corte europea dei
diritti dell’uomo, nella sentenza
4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia, ha affermato, sia la natura
penale della sanzione prevista dall’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, sia la violazione da parte della
Repubblica italiana dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, per avere
proceduto in sede penale ai sensi dell’art. 185 del d.lgs. n. 58 del 1998,
nonostante fosse già divenuta definitiva una prima condanna per il medesimo
fatto, sia pure diversamente qualificato giuridicamente.
La Corte di
cassazione ha constatato che una identica situazione si era verificata nel caso
soggetto al suo scrutinio, nel quale, benché l’imputato per lo stesso fatto
fosse stato già punito in via definitiva, ai sensi dell’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, con una
sanzione amministrativa particolarmente gravosa, si procedeva ugualmente nei
suoi confronti per il reato previsto dall’art. 184, lettera b), del d.lgs. n. 58 del 1998, e ha
rilevato che ciò stava avvenendo in violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 7
alla CEDU, il quale imporrebbe di arrestare immediatamente il corso di questo
secondo processo.
Ciò
considerato, la Corte di cassazione ha formulato due questioni di
costituzionalità, ponendole in ordine subordinato.
La prima
questione tende ad escludere il concorso tra la sanzione penale e la sanzione
amministrativa, facendo recedere l’illecito amministrativo quando il medesimo
fatto è previsto come reato. In questo modo, secondo il giudice rimettente si
darebbe inoltre attuazione alla direttiva 16 aprile 2014, n. 2014/57/UE del Parlamento
europeo e del Consiglio relativa alle sanzioni penali in caso di abusi di
mercato, che, invertendo la scelta compiuta con la precedente direttiva 28
gennaio 2003, n. 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa
all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato, impone
agli Stati membri di adottare sanzioni penali per i casi più gravi di abuso di
mercato, commessi con dolo, e permette loro di affiancare una sanzione
amministrativa.
La questione
subordinata, invece, riguarda l’art. 649 cod. proc. pen., nella parte in cui
non prevede la sua applicazione anche quando la persona è stata giudicata in
via definitiva per il medesimo fatto punito con una sanzione amministrativa
alla quale debba essere riconosciuta natura penale ai sensi dell’art. 4 del
Protocollo n. 7 alla CEDU.
La Corte di
cassazione è consapevole che in caso di accoglimento della questione
subordinata verrebbe a generarsi una grave «incongruenza sistematica», giacché
troverebbe applicazione la sanzione inflitta cronologicamente per prima in via
definitiva, a seconda delle contingenze delle singole vicende processuali, e
tuttavia ritiene che una tale «incongruenza» non possa essere di ostacolo alla
dichiarazione di illegittimità costituzionale, ove essa sia la sola via per
riparare un vulnus costituzionale dei
diritti della persona.
2.– Con
ordinanza del 21 gennaio 2015 (reg. ord. n. 52 del 2015), notificata il
successivo 26 gennaio, la sezione tributaria della Corte di cassazione ha
sollevato questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art.
117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 2 e 4 del Protocollo n. 7 alla
CEDU, dell’art. 187-ter, comma 1, del
d.lgs. n. 58 del 1998, nella parte in cui prevede la comminatoria congiunta
della sanzione penale prevista dall’art. 185 del medesimo d.lgs. n. 58 del 1998
e della sanzione amministrativa prevista per l’illecito di cui all’art. 187-ter dello stesso decreto.
La Corte di
cassazione è chiamata a pronunciarsi sulla impugnazione proposta contro una sentenza
della Corte d’appello di Roma, che ha rigettato l’opposizione avverso
l’irrogazione di sanzioni amministrative, da parte della CONSOB, ai sensi
dell’art. 187-ter del d.lgs. n. 58
del 1998, e con il ricorso è stato fatto valere il giudicato penale già
formatosi sui medesimi fatti storici di illecita manipolazione del mercato.
In
particolare, il giudice rimettente ha ritenuto che la disposizione censurata
sia illegittima in quanto permette un secondo giudizio per un medesimo fatto
concreto, integrante sia l’illecito amministrativo ex art. 187-ter, comma 1,
del d.lgs. n. 58 del 1998, sia il reato di cui all’art. 185 del medesimo
decreto, pur essendo previste, per l’illecito amministrativo, misure da
considerarsi penali, alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo, in considerazione
della natura della violazione e della gravità delle conseguenze.
Più
precisamente, secondo la Corte di cassazione andrebbe «rimessa alla Consulta,
alla luce dei principi CEDU, determinare il rilievo, ai fini della applicazione
del principio del "ne bis in idem”,
della valutazione, da parte del giudice nazionale, della effettiva afflittività
della sanzione penale», posto che nella specie era stata applicata la sola pena
detentiva, dichiarata interamente condonata, con la conseguenza che l’imputato
non aveva subito alcun «effettivo pregiudizio nella sfera personale».
Occorrerebbe
quindi, secondo il giudice a quo,
«verificare se la obbligatorietà delle sanzioni amministrative nel sistema
degli illeciti di market abuse sia conf[l]iggente col sistema del c.d. divieto del ne bis in idem, allorché venga
preliminarmente emessa una sanzione penale e se, eventualmente, quest’ultima, a
prescindere dalla sua afflittività e proporzionalità, in relazione al fatto commesso,
sia preclusiva alla comminatoria della sanzione amministrativa, o se ne debba
solamente tenere conto al fine della successiva comminatoria della sanzione
amministrativa», ciò anche alla luce della direttiva n. 2003/6/CE, che impone
agli Stati membri di prevedere sanzioni amministrative effettive, proporzionate
e dissuasive e del sistema previsto dagli artt. 187-duodecies e 187-terdecies
del d.lgs. n. 58 del 1998 che impongono di non sospendere i procedimenti
amministrativi per abusi di mercato pur in pendenza del procedimento penale per
i medesimi fatti, stabilendo, poi, che la esazione della pena pecuniaria
eventualmente inflitta in sede penale sia limitata alla parte eccedente quella
riscossa dall’autorità amministrativa.
3.– Nel
procedimento di cui al registro ordinanze n. 38 del 2015, è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri con atto depositato il 14 aprile 2015 e
si sono costituite la parte privata C.C.R., con atto depositato il 14 aprile
2015, e la CONSOB con atto depositato il 13 aprile 2015.
Nel
procedimento di cui al registro ordinanze n. 52 del 2015, è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri con atto depositato il 5 maggio 2015 e si
sono costituiti la CONSOB con atto depositato il 5 maggio 2015, R.S. e le
società Garlsson srl in
liquidazione e Magiste International sa con atto
depositato, fuori termine, il 16 febbraio 2016.
4.– In via
preliminare deve disporsi la riunione dei giudizi in quanto pongono questioni
analoghe per oggetto, termini e parametri.
Entrambe
le ordinanze di rimessione, infatti, pongono questioni relative al rispetto del
ne bis in idem come interpretato
dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in casi di cosiddetto "doppio
binario” sanzionatorio, cioè in casi nei quali la legislazione nazionale
prevede un doppio livello di tutela, penale e amministrativo. In particolare le
due ordinanze riguardano il settore degli abusi di mercato.
In
questo ambito, sino al 2005 le figure dell’abuso di informazioni privilegiate e
della manipolazione del mercato erano sanzionate esclusivamente in sede penale
come delitti dagli artt. 184 e 185 del Testo unico della finanza – TUF (d.lgs.
n. 58 del 1998).
Successivamente,
con la legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi
derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee. Legge
comunitaria 2004), attuativa della direttiva n. 2003/6/CE (cosiddetta Market Abuse Directive, MAD), ai delitti di cui sopra sono stati
affiancati due paralleli illeciti amministrativi previsti, rispettivamente,
dagli artt. 187-bis (insider trading) e 187-ter (manipolazione di mercato) del
novellato TUF. Gli illeciti amministrativi sono descritti in modo
sovrapponibile ai corrispondenti delitti, ovvero con una formulazione tale da
ricomprendere, di fatto, anche l’omologa fattispecie penale.
La sovrapposizione dell’ambito
applicativo di ciascun delitto con il corrispondente illecito amministrativo è
contemplata dallo stesso legislatore, come risulta dalla clausola di apertura
degli artt. 187-bis e 187-ter «[s]alve
le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato», che, in tal modo,
stabilisce, da un punto di vista sostanziale, il cumulo dei due tipi di
sanzioni. Proprio tali clausole sono oggetto di censura nelle due ordinanze di
rimessione.
Una tale disciplina è stata
stigmatizzata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in quanto contrastante
con il principio del ne bis in idem,
di cui all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, che vieta di perseguire o
giudicare una persona per un secondo illecito nella misura in cui alla base di
quest’ultimo vi siano i medesimi fatti.
In particolare, due aspetti della
giurisprudenza della Corte EDU determinano una diversa interpretazione del
principio in questione, rispetto a come esso è applicato nell’ordinamento interno.
Il primo riguarda la valutazione della
"identità del fatto” – l’«idem» –. La Corte europea ritiene che
tale valutazione sia da effettuarsi in concreto e non in relazione agli
elementi costitutivi dei due illeciti. In particolare, la giurisprudenza europea
ravvisa l’identità del fatto quando, da un insieme di circostanze fattuali, due
giudizi riguardino lo stesso accusato e in relazione a situazioni
inestricabilmente collegate nel tempo e nello spazio.
Il
secondo aspetto riguarda la nozione di sanzione penale, da definirsi non in
base alla mera qualificazione giuridica da parte della normativa nazionale, ma
in base ai cosiddetti "criteri Engel” (così
denominati a partire dalla sentenza
della Corte EDU, Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi
e costantemente ripresi dalle successive sentenze in argomento). Si tratta di
tre criteri individuati dalla consolidata giurisprudenza della Corte di
Strasburgo, da esaminare congiuntamente per stabilire se vi sia o meno una
imputazione penale: il primo è dato dalla qualificazione giuridica operata
dalla legislazione nazionale; il secondo è rappresentato dalla natura della
misura (che, ad esempio non deve consistere in mere forme di compensazione
pecuniaria per un danno subito, ma deve essere finalizzata alla punizione del
fatto per conseguire effetti deterrenti); il terzo è costituito dalla gravità
delle conseguenze in cui l’accusato rischia di incorrere. Alla luce di tali
criteri, sanzioni qualificate come non aventi natura penale dal diritto
nazionale, possono invece essere considerate tali ai fini della applicazione
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle relative garanzie.
In questo panorama giurisprudenziale si
inserisce la sentenza
della Corte EDU 4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia, divenuta
definitiva il 7 luglio 2014, a cui fanno riferimento entrambe le ordinanze di
rimessione in esame.
La suddetta pronuncia censura
specificamente l’ordinamento italiano per aver previsto un sistema di "doppio
binario” sanzionatorio nel settore degli abusi di mercato. La decisione della
Corte europea attribuisce natura sostanzialmente penale alle sanzioni
amministrative stabilite per l’illecito di manipolazione del mercato ex art. 187-ter del TUF, in considerazione della gravità desumibile
dall’importo elevato delle sanzioni pecuniarie inflitte e dalle conseguenze
delle sanzioni interdittive. La medesima pronuncia
sottolinea poi la mancanza di un meccanismo che comporti l’interruzione del
secondo procedimento nel momento in cui il primo sia concluso con pronuncia
definitiva. Infine, essa evidenzia l’identità dei fatti, dato che i due
procedimenti, dinanzi alla CONSOB e davanti al giudice penale, riguardano
un’unica e stessa condotta, da parte delle stesse persone, nella stessa data.
Da tali considerazioni, la Corte europea desume la violazione dell’art. 4 del
Protocollo n. 7 alla CEDU.
In entrambi i casi, la Corte rimettente
sottolinea che il vulnus al principio
del ne bis in idem, come interpretato
dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza
Grande Stevens, avrebbe una valenza sistemica e potenzialmente
riguarderebbe non solo gli abusi di mercato, ma tutti gli ambiti in cui
l’ordinamento italiano ha istituito un sistema di doppio binario sanzionatorio,
in cui il rapporto tra illecito amministrativo e penale non venga risolto nel
senso di un concorso apparente di norme.
5.– In via
preliminare deve confermarsi l’inammissibilità della costituzione di R.S. e
delle società Garlsson srl,
in liquidazione, e Magiste International sa, poiché
intervenuta oltre il termine previsto dall’art. 4 delle norme integrative per i
giudizi dinanzi alla Corte costituzionale: infatti, l’ordinanza di rimessione è
stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica il 15 aprile 2015 e le parti di cui sopra si sono
costituite ben oltre venti giorni dopo, il 16 febbraio 2016.
Secondo
il costante orientamento di questa Corte, il termine per la costituzione e
l’intervento nei giudizi dinanzi alla Corte costituzionale deve essere ritenuto
perentorio (tra le molte, sentenze n. 220
e n. 128 del
2014, n. 303
del 2010) e il suo mancato rispetto determina, per ciò, l’inammissibilità
della costituzione.
Viceversa
deve confermarsi l’ammissibilità dell’intervento del Presidente del Consiglio
dei ministri e delle altre parti private.
Invero,
secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 10 del
2015, n. 162
del 2014, n.
237 del 2013, n.
272 del 2012, n.
304, n. 293,
n. 118 del 2011,
n. 138 del 2010
e n. 263 del
2009; ordinanze
n. 240 del 2014, n. 156 del 2013
e n. 150 del
2012), ai sensi degli artt. 3 e 4 delle citate norme integrative sono
ammessi a costituirsi e intervenire nel giudizio incidentale di legittimità
costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri (e, nel caso di legge
regionale, il Presidente della Giunta regionale), nonché le sole parti del
giudizio principale: nel caso di specie, tutte le parti private costituite sono
anche parti nei giudizi a quibus e, dunque, non ci sono ragioni per dubitare
della ammissibilità del loro intervento.
6.– Tutte le
questioni di legittimità costituzionale oggetto del presente giudizio sono
inammissibili.
6.1.– La
questione sollevata in via principale dalla quinta sezione penale della Corte di
cassazione è inammissibile in quanto non rilevante nel giudizio a quo.
Essa
concerne una disposizione, l’art. 187-bis
del d.lgs. n. 58 del 1998, che ha già ricevuto definitiva applicazione
dall’autorità amministrativa nel relativo procedimento, mentre la Corte
rimettente è piuttosto chiamata a giudicare in riferimento al reato di cui
all’art. 184, comma 1, lettera b),
del medesimo d.lgs. n. 58 del 1998.
L’eventuale
accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata in
relazione all’art. 187-bis del citato
decreto non solo non consentirebbe di evitare la lamentata violazione del ne bis in idem, ma semmai contribuirebbe
al suo verificarsi, dato che l’autorità giudiziaria procedente dovrebbe
comunque proseguire il giudizio penale ai sensi del precedente art. 184, benché
l’imputato sia già stato assoggettato, per gli stessi fatti, a un giudizio
amministrativo divenuto definitivo e benché, in considerazione della gravità
delle sanzioni amministrative applicate, a tale giudizio debba essere attribuita
natura "sostanzialmente” penale, secondo l’interpretazione della Corte europea
dei diritti dell’uomo.
Tale abnorme
effetto tradirebbe l’esigenza che non si produca nel processo principale la
violazione della Costituzione, cui è sotteso il carattere pregiudiziale della
questione di costituzionalità, e con esso il requisito della rilevanza.
Difatti, il divieto di bis in idem
prescritto dall’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU verrebbe irrimediabilmente
infranto, anziché osservato, arrestando, come si dovrebbe, il corso del secondo
giudizio.
Né sono
utili in senso contrario gli argomenti sviluppati dal rimettente per sostenere
che, comunque, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998
produrrebbe effetti favorevoli all’imputato, posto che, in forza dell’art. 30,
quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul
funzionamento della Corte costituzionale), andrebbe revocata la sanzione
amministrativa pecuniaria determinata in base alla norma dichiarata
incostituzionale e divenuta perciò priva di base legale.
Questa Corte
non ha motivo, a tale proposito, di saggiare la plausibilità
dell’argomentazione del rimettente sull’applicabilità dell’art. 30, quarto
comma, della legge n. 87 del 1953 al caso in cui sia stato dichiarato
incostituzionale non un reato ma un illecito amministrativo che assume veste
"penale” ai soli fini del rispetto delle garanzie della CEDU. È infatti
preliminare osservare che, in ogni caso, si tratta di profili attinenti alle
vicende della sanzione amministrativa, privi di rilevanza per il giudice
rimettente, e quindi estranee al presente giudizio. Ma, soprattutto, torna a
manifestarsi con forza il rilievo che essi non scongiurerebbero in alcun modo
la violazione del ne bis in idem, pienamente integrata dal
proseguimento, auspicato dal giudice a
quo, del giudizio penale, quali che siano poi gli effetti di quest’ultimo
sulla fase di esecuzione delle sanzioni penali e amministrative.
Va aggiunto
che la questione posta in via principale dalla Corte di cassazione, se da un
lato non vale a prevenire il vulnus
all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU nel processo principale, dall’altro
lato, sul piano sistematico, eccede lo scopo al quale dovrebbe essere invece
ricondotta sulla base della norma interposta appena richiamata.
È infatti
pacifico, in base alla consolidata giurisprudenza europea, che il divieto di bis in idem ha carattere processuale, e
non sostanziale. Esso, in altre parole, permette agli Stati aderenti di punire
il medesimo fatto a più titoli, e con diverse sanzioni, ma richiede che ciò
avvenga in un unico procedimento o attraverso procedimenti fra loro coordinati,
nel rispetto della condizione che non si proceda per uno di essi quando è
divenuta definitiva la pronuncia relativa all’altro.
Non può
negarsi che un siffatto divieto possa di fatto risolversi in una frustrazione
del sistema del doppio binario, nel quale alla diversa natura, penale o
amministrativa, della sanzione si collegano normalmente procedimenti anch’essi
di natura diversa, ma è chiaro che spetta anzitutto al legislatore stabilire
quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni che tale
sistema genera tra l’ordinamento nazionale e la CEDU. È significativo il fatto
che in tale prospettiva si muove il recente art. 11, comma 1, lettera m), della legge delega 9 luglio 2015, n.
114 (Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e
l’attuazione di altri atti dell’Unione europea. Legge di delegazione europea
2014), per l’attuazione alla direttiva n. 2014/57/UE, che impone agli Stati
membri di adottare sanzioni penali per i casi più gravi di abuso di mercato,
commessi con dolo e permette loro di aggiungere una sanzione amministrativa
nella linea dell’art. 30 del regolamento 16 aprile 2014, n. 596/2014 del
Parlamento europeo e del Consiglio relativo agli abusi di mercato e che abroga
la direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e le direttive
2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE.
6.2.– La
questione sollevata in via subordinata, avente ad oggetto l’art. 649 cod. proc.
pen., è a sua volta inammissibile.
Il giudice a quo investe l’art. 649 cod. proc. pen.
pur nella convinzione che tale via conduca a una soluzione di incerta
compatibilità con la stessa Costituzione, ma che nondimeno appare idonea ad
impedire la lesione di un diritto della persona. La questione prospettata,
infatti, richiede alla Corte un intervento additivo, che dichiari
l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 cod. proc. pen. «nella parte in cui
non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio
al caso in cui l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile,
per il medesimo fatto, nell’ambito di un procedimento amministrativo per
l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale ai
sensi della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle
Libertà fondamentali e dei relativi Protocolli».
La stessa
Corte rimettente, tuttavia, evidenzia che l’accoglimento di una tale questione
determinerebbe un’incertezza quanto al tipo di risposta sanzionatoria –
amministrativa o penale – che l’ordinamento ricollega al verificarsi di
determinati comportamenti, in base alla circostanza aleatoria del procedimento
definito più celermente. Infatti, l’intervento additivo richiesto non
determinerebbe un ordine di priorità, né altra forma di coordinamento, tra i
due procedimenti – penale e amministrativo – cosicché la preclusione del
secondo procedimento scatterebbe in base al provvedimento divenuto per primo
irrevocabile, ponendo così rimedio – come osserva la Corte rimettente – ai
singoli casi concreti, ma non in generale alla violazione strutturale da parte
dell’ordinamento italiano del divieto di bis
in idem, come censurata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nel caso
Grande Stevens.
La stessa
Corte rimettente sottolinea, poi, che l’incertezza e la casualità delle
sanzioni applicabili potrebbero a loro volta dar luogo alla violazione di altri
principi costituzionali: anzitutto, perché si determinerebbe una violazione dei
principi di determinatezza e di legalità della sanzione penale, prescritti
dall’art. 25 Cost.; in secondo luogo perché potrebbe risultare vulnerato il
principio di ragionevolezza e di parità di trattamento, di cui all’art. 3
Cost.; infine, perché potrebbero essere pregiudicati i principi di effettività,
proporzionalità e dissuasività delle sanzioni,
imposti dal diritto dell’Unione europea, come esplicitato dalla Corte di
giustizia dell’Unione europea (sentenza,
23 febbraio 2013, in causa C-617/10 Aklagaren contro Akerberg Fransson), in
violazione, quindi, degli artt. 11 e 117 Cost.
Nel
ragionamento del giudice rimettente, però, tali "incongruenze” dovrebbero
soccombere di fronte al prioritario rilievo da conferire alla tutela del
diritto personale a non essere giudicato due volte per lo stesso fatto. Il
sacrificio dei principi costituzionali or ora ricordati è perciò legato
strettamente, nell’iter logico del
giudice a quo, all’infondatezza della
questione principale, che la Corte di cassazione ha individuato quale via
privilegiata per risolvere il dubbio di costituzionalità.
Sotto questo
aspetto si coglie il carattere perplesso della motivazione sulla non manifesta
infondatezza della questione subordinata, che ne segna l’inammissibilità. È,
infatti, lo stesso rimettente a postulare, a torto o a ragione, che
l’adeguamento dell’ordinamento nazionale all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla
CEDU dovrebbe avvenire prioritariamente attraverso una strada che egli non può
percorrere per difetto di rilevanza, cosicché la questione subordinata diviene
per definizione una incongrua soluzione di ripiego.
6.3.–
Parimenti inammissibile è la questione sollevata dalla sezione tributaria della
Corte di cassazione, in ordine all’art. 187-ter,
comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998, in quanto formulata in maniera dubitativa e
perplessa.
Il giudice a quo, infatti, dopo aver affermato che
con la sentenza
Grande Stevens e altri contro Italia, «appare chiaro l’orientamento dei
giudici di Strasburgo di rimproverare agli organi giurisdizionali la mancata
disapplicazione [sic] di un principio (ne
bis in idem) che il legislatore nazionale ha introdotto in materia penale
ma non nei rapporti tra sanzione amministrativa di natura penale e sanzione
penale» e che il principio affermato dalla Corte europea sarebbe
«bidirezionale» – nel senso che esso troverebbe applicazione sia nel caso di
sanzione amministrativa precedente quella penale, sia nel caso inverso, come
quello occorso nella specie, nel quale il giudizio penale si è esaurito prima
di quello amministrativo ancora sub iudice – la sezione tributaria della Corte di
cassazione ritiene di dover sollevare la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 187-ter,
comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998, in quanto «non appare conforme ai principi
sovranazionali sanciti dalla CEDU la previsione del doppio binario e, quindi,
della cumulabilità tra sanzione penale e amministrativa, applicata in processi
diversi».
L’ordinanza
prosegue osservando che occorrerebbe, «verificare se la obbligatorietà delle
sanzioni amministrative nel sistema degli illeciti di market abuse sia configgente col sistema
del c.d. divieto del ne bis in idem,
allorché venga preliminarmente emessa una sanzione penale e se, eventualmente,
quest’ultima, a prescindere dalla sua afflittività e proporzionalità, in
relazione al fatto commesso, sia preclusiva alla comminatoria della sanzione
amministrativa, o se ne debba solamente tenere conto al fine della successiva
comminatoria della sanzione amministrativa», ciò anche alla luce della
direttiva europea n. 2003/6/CE che impone agli Stati membri di prevedere
sanzioni amministrative effettive, proporzionate e dissuasive e del sistema
previsto dagli artt. 187-duodecies e
187-terdecies del d.lgs. n. 58 del
1998 che impongono di non sospendere i procedimenti amministrativi per abusi di
mercato pur in pendenza del procedimento penale per i medesimi fatti,
stabilendo, poi, che la esazione della pena pecuniaria eventualmente inflitta
in sede penale sia limitata alla parte eccedente quella riscossa dall’autorità
amministrativa.
In tal modo,
la Corte rimettente non scioglie i dubbi che essa stessa formula quanto alla
compatibilità tra la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e
i principi del diritto dell’Unione europea – sia in ordine alla eventuale non
applicazione della normativa interna, sia sul possibile contrasto tra l’interpretazione
del principio del ne bis in idem
prescelta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e quella adottata
nell’ordinamento dell’Unione europea, anche in considerazione dei principi
delle direttive europee che impongono di verificare l’effettività,
l’adeguatezza e la dissuasività delle sanzioni
residue – dubbi che dovevano invece essere superati e risolti per ritenere
rilevante e non manifestamente infondata la questione sollevata.
Tali
perplessità e la formulazione dubitativa della motivazione si riflettono, poi,
sull’oscurità e incertezza del petitum, giacché il rimettente finisce per non chiarire
adeguatamente la portata dell’intervento richiesto a questa Corte, ciò che
costituisce ulteriore ragione di inammissibilità della questione sollevata.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i
giudizi,
1) dichiara inammissibili le questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 187-bis,
comma 1, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle
disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli
8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52) e dell’art. 649 del codice di
procedura penale, sollevate, per violazione dell’art. 117, primo comma, della
Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a
Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con la legge 9
aprile 1990, n. 98, dalla quinta sezione penale della Corte di cassazione, con
l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 187-ter,
comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998, sollevata, per violazione dell’art. 117,
primo comma, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU,
dalla sezione tributaria della Corte di cassazione, con l’ordinanza indicata in
epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 marzo 2016.
F.to:
Paolo
GROSSI, Presidente
Giorgio
LATTANZI e Marta CARTABIA, Redattori
Roberto
MILANA, Cancelliere
Depositata
in Cancelleria il 12 maggio 2016.