SENTENZA N. 4
ANNO 2024
Commento alla decisione di
Simone Cafiero
per g.c. dell'Osservatorio costituzionale
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta da:
Presidente: Augusto Antonio BARBERA;
Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 51, comma 3, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», promosso dal Consiglio di Stato, sezione seconda, nel procedimento vertente tra L. B. e altri e il Ministero della difesa e altri, con ordinanza del 3 maggio 2023, iscritta al n. 76 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2023.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 6 dicembre 2023 il Giudice relatore Marco D’Alberti;
deliberato nella camera di consiglio del 6 dicembre 2023.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 3 maggio 2023, iscritta al n. 76 del registro ordinanze 2023, il Consiglio di Stato, sezione seconda, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, primo comma, 102, 111, commi primo e secondo, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 51, comma 3, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)».
La disposizione censurata dispone che «[l]’articolo 7, comma 1, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438, si interpreta nel senso che la proroga al 31 dicembre 1993 della disciplina emanata sulla base degli accordi di comparto di cui alla legge 29 marzo 1983, n. 93, relativi al triennio 1° gennaio 1988 - 31 dicembre 1990, non modifica la data del 31 dicembre 1990, già stabilita per la maturazione delle anzianità di servizio prescritte ai fini delle maggiorazioni della retribuzione individuale di anzianità. È fatta salva l’esecuzione dei giudicati alla data di entrata in vigore della presente legge».
1.1.– Il Consiglio di Stato espone di dover decidere sull’appello contro la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione prima bis, 1° settembre 2014, n. 9255, che ha respinto il ricorso proposto da seicentocinquantotto dipendenti del Ministero della difesa per il riconoscimento di maggiorazioni della retribuzione individuale di anzianità (RIA), ai sensi dell’art. 9, commi 4 e 5, del decreto del Presidente della Repubblica 17 gennaio 1990, n. 44 (Regolamento per il recepimento delle norme risultanti dalla disciplina prevista dall’accordo del 26 settembre 1989 concernente il personale del comparto Ministeri ed altre categorie di cui all’art. 2 del decreto del Presidente della Repubblica 5 marzo 1986, n. 68).
Il giudice rimettente riferisce che i ricorrenti avevano agito dinanzi al TAR Lazio per l’accertamento del relativo diritto alle maggiorazioni della RIA maturate negli anni 1991, 1992 e 1993, facendo valere la proroga al 31 dicembre 1993 dell’efficacia dell’intero d.P.R. n. 44 del 1990, la quale era stata disposta dall’art. 7, comma 1, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438.
Il TAR Lazio, nella menzionata sentenza n. 9255 del 2014, ha rigettato le pretese dei ricorrenti dando atto della sopravvenienza, nelle more del giudizio, della disposizione oggetto dell’odierno incidente di costituzionalità (art. 51, comma 3, della legge n. 388 del 2000), la quale ha espressamente escluso che la proroga al 31 dicembre 1993 dell’intera disciplina contenuta nel d.P.R. n. 44 del 1990 potesse estendere anche il termine per la maturazione dell’anzianità di servizio ai fini dell’ottenimento della maggiorazione della RIA.
Avverso tale decisione hanno proposto appello dinanzi al Consiglio di Stato novantadue ricorrenti, i quali hanno contestato, tra l’altro, l’erronea applicazione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sulle leggi aventi efficacia retroattiva, chiedendo, in via subordinata, che venisse sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 51, comma 3, della legge n. 388 del 2000, poiché la disposizione avrebbe interferito con la funzione giurisdizionale e con il diritto di agire e di difendersi in giudizio, ponendosi altresì in contrasto con i principi della necessaria ragionevolezza delle scelte legislative, del divieto di ingiustificate disparità di trattamento, della tutela dell’affidamento e della certezza del diritto.
1.2.– Il Consiglio di Stato ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 51, comma 3, della legge n. 388 del 2000, ritenendo che la disposizione censurata, «sebbene formulata in termini astratti, appare in realtà preordinata a condizionare, con l’efficacia propria delle disposizioni interpretative, l’esito dei giudizi ancora in corso in quella materia».
In particolare, il rimettente ha precisato che prima dell’adozione della disposizione censurata, si era affermato un orientamento giurisprudenziale secondo cui l’art. 7, comma 1, del d.l. n. 384 del 1992, come convertito, – avendo prorogato l’efficacia dell’intera disciplina di cui al d.P.R. n. 44 del 1990 – aveva modificato anche la data originariamente stabilita per la maturazione dell’anzianità di servizio ai fini della maggiorazione della RIA, con conseguente riconoscimento del diritto dei dipendenti pubblici ad ottenere tale maggiorazione pure in caso di raggiungimento dell’anzianità di servizio successivamente al 31 dicembre 1990 (è richiamata, tra le altre, la sentenza del Consiglio di Stato, sezione quarta, 17 ottobre 2000, n. 5522).
Alla luce di tale orientamento, e stante la pendenza di diversi ricorsi collettivi promossi da dipendenti pubblici per il riconoscimento del diritto alla maggiorazione della RIA, ad avviso del giudice rimettente l’art. 51, comma 3, della legge n. 388 del 2000, sarebbe intervenuto al fine di «negare il beneficio a coloro che avessero maturato le anzianità necessarie per il computo delle maggiorazioni successivamente alla data del 31 dicembre 1990 anche per chi avesse già un giudizio in corso, facendo salva solo l’esecuzione dei giudicati già formatisi alla data della sua entrata in vigore».
In ragione di ciò, la disposizione oggetto dell’odierno incidente di costituzionalità si porrebbe in contrasto con i principi costituzionali relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale, nonché con le disposizioni costituzionali che riconoscono il diritto ad un equo processo e il principio della parità delle parti in giudizio. In particolare, il giudice rimettente ha richiamato la giurisprudenza costituzionale che – in linea con gli orientamenti della Corte EDU – ha precisato i limiti per l’adozione di leggi con efficacia retroattiva, dando anche rilievo ad una serie di elementi sintomatici dell’uso distorto della funzione legislativa, sia in relazione al metodo, sia in relazione alle tempistiche dell’intervento del legislatore (sono citate le sentenze n. 174 del 2019 e n. 12 del 2018).
Proprio sulla base di tali orientamenti, ad avviso del Consiglio di Stato, la disposizione censurata violerebbe i parametri costituzionali evocati, essendo intervenuta nove anni dopo l’entrata in vigore dell’art. 7, comma 1, del d.l. n. 384 del 1992, come convertito, al fine specifico di condizionare l’esito dei ricorsi collettivi pendenti e sulla base di mere ragioni finanziarie di contenimento della spesa.
Quanto infine alla rilevanza delle questioni, il giudice rimettente – dopo aver verificato in sede istruttoria l’attestazione, da parte dei ricorrenti, delle anzianità di servizio utili alla maturazione della maggiorazione della RIA – ritiene che, sulla base dell’orientamento giurisprudenziale formatosi anteriormente all’entrata in vigore della disposizione censurata, il ricorso di primo grado sarebbe almeno in parte da ritenersi fondato.
2.– Con atto depositato in data 4 luglio 2023, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque non fondate.
2.1.– Viene innanzitutto eccepita l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale per difetto di rilevanza o, comunque, per difetto di motivazione sulla rilevanza.
Secondo l’Avvocatura dello Stato, infatti, il Consiglio di Stato, nel corso del giudizio, aveva rilevato «non solo la mancanza di prova circa la maturazione dell’anzianità di servizio necessaria per beneficiare della maggiorazione della R.I.A. in relazione a ciascun ricorrente, ma, previamente, la mancata allegazione di tale presupposto nel ricorso introduttivo sempre con riferimento alla posizione di ciascun ricorrente». Tuttavia, ad avviso dell’interveniente, a seguito dell’esecuzione degli incombenti istruttori da parte degli appellanti, il giudice rimettente non avrebbe dimostrato in che modo la questione processuale, di per sé idonea a definire il giudizio d’appello con una pronuncia di inammissibilità, «sia stata ritenuta superata tanto da potere dare ingresso all’esame del merito e, con essa, alla questione di costituzionalità sollevata». Ciò in contrasto con la giurisprudenza costituzionale che richiede, anche in relazione alla sussistenza delle condizioni dell’azione nel giudizio a quo, una motivazione non implausibile da parte del giudice rimettente (sono richiamate, tra le altre, le sentenze n. 262 del 2015, n. 34 del 2010 e n. 50 del 2004).
2.2.– In ogni caso, l’Avvocatura dello Stato ritiene le questioni di legittimità costituzionale non fondate.
In relazione alla denunciata violazione degli artt. 3, 24, primo comma, e 102 Cost., rileva l’interveniente che la norma censurata si sarebbe limitata ad assegnare alla disposizione oggetto di interpretazione uno dei possibili significati normativi ad essa attribuibili. Ciò impedirebbe di configurare una lesione dell’affidamento dei destinatari, posto che «il testo originario rendeva plausibile una lettura diversa da quella che i destinatari stessi avevano ritenuto di privilegiare» (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 170 del 2008). D’altra parte, ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, la prospettazione da parte del legislatore di una determinata interpretazione costituisce una «espressione della potestà ad esso attribuita e, di conseguenza il suo esercizio non può, ad ogni buon conto, considerarsi lesivo della sfera riservata al potere giudiziario», muovendosi i due poteri su piani differenti: il legislatore, infatti, agisce sul piano delle fonti, mentre il giudice opera sul piano della concreta applicazione della norma (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 150 del 2015).
Quanto alla lamentata violazione del principio della parità delle parti in giudizio e del diritto a un equo processo (ai sensi degli artt. 111, commi primo e secondo, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU), l’interveniente richiama l’orientamento della giurisprudenza costituzionale che consente al legislatore di attribuire efficacia retroattiva alla legge, là dove ciò sia necessario per tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale (sono menzionate, tra le altre, le sentenze n. 46 del 2021, n. 156 del 2014 e n. 78 del 2012). D’altra parte, la stessa giurisprudenza della Corte EDU consentirebbe l’adozione di leggi retroattive allorché «vengano in rilievo imperative ragioni di interesse generale».
Nel caso in esame, secondo l’Avvocatura dello Stato, l’art. 51, comma 3, della legge n. 388 del 2000, sarebbe peraltro intervenuto per «circoscrivere il beneficio a favore di coloro che avessero maturato le anzianità necessari[e] per il computo delle maggiorazioni entro la data del 31 dicembre 1990, data di scadenza originaria dell’accordo sindacale, così eliminando la disparità di trattamento che, con una diversa interpretazione del termine di maturazione, si sarebbe venuta a creare in particolare in relazione al personale che tale anzianità avesse maturato successivamente».
In ragione di tutto ciò, non sussisterebbe la lamentata violazione dei parametri costituzionali denunciati dal Consiglio di Stato nell’ordinanza di rimessione.
Considerato in diritto
1.– Il Consiglio di Stato, sezione seconda, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, primo comma, 102, 111, commi primo e secondo, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 51, comma 3, della legge n. 388 del 2000.
2.– La disposizione censurata ha previsto che l’art. 7, comma 1, del d.l. n. 384 del 1992, come convertito, «si interpreta nel senso che la proroga al 31 dicembre 1993 della disciplina emanata sulla base degli accordi di comparto di cui alla legge 29 marzo 1983, n. 93, relativi al triennio 1° gennaio 1988 - 31 dicembre 1990, non modifica la data del 31 dicembre 1990, già stabilita per la maturazione delle anzianità di servizio prescritte ai fini delle maggiorazioni della retribuzione individuale di anzianità», facendo «salva l’esecuzione dei giudicati alla data di entrata in vigore della presente legge».
3.– Il rimettente denuncia la violazione dei principi costituzionali relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale, nonché del diritto ad un equo processo e alla parità delle parti in giudizio. La disposizione censurata, infatti, pur essendo formulata in termini astratti, risulterebbe in realtà preordinata a condizionare l’esito dei ricorsi collettivi pendenti, a fronte di un orientamento giurisprudenziale che si era consolidato in senso sfavorevole alle amministrazioni pubbliche. Tanto le tempistiche, quanto le concrete modalità di adozione della legge renderebbero evidente l’utilizzo distorto della funzione legislativa, in contrasto con la giurisprudenza costituzionale e con gli orientamenti della Corte EDU in materia di leggi retroattive.
4.– In via preliminare, occorre esaminare l’eccezione di inammissibilità formulata dall’Avvocatura dello Stato per difetto di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale o, comunque, per difetto di motivazione sulla rilevanza.
4.1.– L’eccezione è priva di fondamento.
Secondo la giurisprudenza costituzionale, «la valutazione dell’interesse a ricorrere e degli altri presupposti concernenti la legittima instaurazione del giudizio a quo è riservata al giudice rimettente, mentre la verifica di questa Corte è meramente esterna e strumentale al riscontro di una adeguata motivazione in punto di rilevanza della questione di legittimità costituzionale, con la conseguenza che il vaglio del rimettente sull’esistenza delle condizioni dell’azione può essere sindacato solo laddove implausibile» (così la sentenza n. 193 del 2022; nello stesso senso, anche le sentenze n. 150 del 2022, n. 240 del 2021, n. 224 e n. 168 del 2020).
Nel caso in esame, l’ordinanza di rimessione ha illustrato in maniera adeguata che, a seguito di richiesta istruttoria, tutti gli appellanti hanno attestato in giudizio le anzianità di servizio necessarie ai fini dell’applicazione della disciplina riguardante le maggiorazioni retributive, ad eccezione di uno di essi per il quale è stata rilevata, in via d’ufficio, l’inammissibilità del ricorso di primo grado, con conseguente parziale riforma della sentenza appellata.
Una simile differenziazione tra le posizioni dei diversi appellanti dimostra chiaramente che il giudice rimettente ha risolto positivamente la questione concernente la sussistenza delle condizioni dell’azione nel giudizio di primo grado, sulla base di una motivazione non implausibile.
5.– L’ordinanza di rimessione ha mancato di fare riferimento a quattro ordinanze di questa Corte che avevano dichiarato la manifesta infondatezza di questioni di costituzionalità aventi ad oggetto la medesima disposizione oggi censurata (ordinanze n. 440 e n. 263 del 2002, n. 181 e n. 10 del 2003). È, tuttavia, evidente la volontà del giudice rimettente di prospettare la questione in ordine a profili e sulla scorta di argomenti nuovi, facendo esplicito riferimento ai più recenti orientamenti di questa Corte e della Corte EDU in materia di leggi retroattive (sono ampiamente citate le sentenze n. 174 del 2019 e n. 12 del 2018).
D’altra parte, appare significativo che l’ordinanza di rimessione abbia fatto riferimento a parametri costituzionali (art. 111, commi primo e secondo, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU), i quali non erano stati evocati nei precedenti incidenti di costituzionalità aventi ad oggetto la medesima disposizione.
6.– Nel merito, le questioni sono fondate in riferimento agli artt. 3, 111, commi primo e secondo, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU.
7.– Occorre innanzitutto evidenziare che, diversamente da quanto sostenuto dall’Avvocatura dello Stato, la disposizione censurata è priva dei caratteri della legge di interpretazione autentica, avendo invece la portata di una legge innovativa con efficacia retroattiva.
7.1.– Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, «la disposizione di interpretazione autentica è quella che, qualificata formalmente tale dallo stesso legislatore, esprime, anche nella sostanza, un significato appartenente a quelli riconducibili alla previsione interpretata secondo gli ordinari criteri dell’interpretazione della legge» (sentenza n. 133 del 2020). Diversamente, nel caso in cui «la disposizione, pur autoqualificantesi interpretativa, attribuisce alla disposizione interpretata un significato nuovo, non rientrante tra quelli già estraibili dal testo originario della disposizione medesima, essa è innovativa con efficacia retroattiva (sentenze n. 61 del 2022, n. 133 del 2020, n. 209 del 2010 e n. 155 del 1990)» (sentenza n. 104 del 2022).
7.2.– Nel caso in esame, l’art. 51, comma 3, della legge n. 388 del 2000, lungi dall’aver assegnato all’art. 7, comma 1, del d.l. n. 384 del 1992, come convertito, uno dei possibili significati normativi ad esso attribuibili, ha conferito allo stesso un nuovo significato che non era ricavabile dal testo della legge.
7.2.1.– Sul punto, occorre premettere che l’istituto della RIA era stato disciplinato dal d.P.R. n. 44 del 1990, il quale aveva recepito l’accordo sindacale del 26 settembre 1989 concernente il personale dei Ministeri e degli altri enti di cui all’art. 2 del decreto del Presidente della Repubblica 5 marzo 1986, n. 68 (Determinazione e composizione dei comparti di contrattazione collettiva, di cui all’art. 5 della legge-quadro sul pubblico impiego 29 marzo 1983, n. 93).
In particolare, l’art. 9, comma 4, del d.P.R. n. 44 del 1990 aveva riconosciuto alcune maggiorazioni della RIA in favore del personale che «alla data del 1° gennaio 1990» avesse «acquisito esperienza professionale con almeno cinque anni di effettivo servizio» o che avesse maturato «detto quinquennio nell’arco della vigenza contrattuale»; nel successivo comma 5 era stato previsto il raddoppio o la quadruplicazione delle somme dovute a titolo di maggiorazione della RIA al personale che, «nell’arco della vigenza contrattuale», avesse maturato, rispettivamente, «dieci o venti anni di servizio, previo riassorbimento delle precedenti maggiorazioni».
L’art. 7, comma 1, del d.l. n. 384 del 1992, come convertito, – tenendo «ferma sino al 31 dicembre 1993 la vigente disciplina emanata sulla base degli accordi di comparto di cui alla legge 29 marzo 1983, n. 93, e successive modificazioni e integrazioni» – ha prorogato al triennio 1991-1993 l’efficacia dell’intero d.P.R. n. 44 del 1990, la cui scadenza originaria era fissata al 31 dicembre 1990 (art. 1, comma 1, del d.P.R. citato).
Alla luce di tale proroga legislativa, l’«arco della vigenza contrattuale» – cui facevano riferimento i citati commi 4 e 5 dell’art. 9 di tale d.P.R. ai fini della maturazione delle anzianità di servizio per il riconoscimento della maggiorazione della RIA – doveva chiaramente intendersi come riferito al nuovo termine di efficacia dello stesso d.P.R. (31 dicembre 1993) e non già al termine originariamente previsto (31 dicembre 1990).
D’altra parte, come rilevato dalla giurisprudenza amministrativa, la disciplina di origine pattizia contenuta in tale decreto rappresentava un «unicum indivisibile» (Consiglio di Stato, sezione quarta, 17 ottobre 2000, n. 5522). Proprio in ragione di tale indivisibilità, l’eventuale volontà del legislatore di escludere dalla proroga alcuni istituti retributivi contenuti nel d.P.R. n. 44 del 1990 – come quelli legati alle maggiorazioni della RIA – avrebbe richiesto una esplicita previsione normativa, come è peraltro avvenuto con riferimento alla disposizione che ha espressamente impedito, per esigenze di contenimento della spesa, l’operatività degli automatismi stipendiali per il solo anno 1993 (art. 7, comma 3, del d.l. n. 384 del 1992, come convertito).
7.2.2.– In definitiva, stante l’assenza nell’art. 7, comma 1, del d.l. n. 384 del 1992, come convertito, di qualsiasi dato testuale da cui potesse ricavarsi la volontà del legislatore di impedire l’operatività della disciplina sulla RIA nel triennio 1991-1993, l’art. 51, comma 3, della legge n. 388 del 2000 – nell’escludere che la proroga del d.P.R. n. 44 del 1990 al 31 dicembre 1993 potesse estendere anche il termine per la maturazione delle anzianità di servizio ai fini delle maggiorazioni della RIA – ha attribuito retroattivamente alla disposizione originaria un nuovo significato, non rientrante tra quelli estraibili dal suo testo.
8.– Una volta esclusa la natura autenticamente interpretativa della disposizione, dinanzi a leggi aventi efficacia retroattiva questa Corte è chiamata ad esercitare uno scrutinio particolarmente rigoroso: ciò in ragione della centralità che assume il principio di non retroattività della legge, «inteso quale fondamentale valore di civiltà giuridica, non solo nella materia penale (art. 25 Cost.), ma anche in altri settori dell’ordinamento (sentenze n. 174 del 2019, n. 73 del 2017, n. 260 del 2015 e n. 170 del 2013)» (sentenza n. 145 del 2022).
Il controllo di costituzionalità diviene ancor più stringente qualora l’intervento legislativo retroattivo incida su giudizi ancora in corso, specialmente nel caso in cui sia coinvolta nel processo un’amministrazione pubblica. Infatti, tanto i principi costituzionali relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale, quanto i principi concernenti l’effettività della tutela giurisdizionale e la parità delle parti in giudizio, impediscono al legislatore di risolvere, con legge, specifiche controversie e di determinare, per questa via, uno sbilanciamento tra le posizioni delle parti coinvolte nel giudizio (tra le altre, sentenze n. 201 e n. 46 del 2021, n. 12 del 2018 e n. 191 del 2014).
8.1.– Con riguardo al sindacato di costituzionalità delle leggi retroattive incidenti su giudizi in corso, ha assunto un rilievo sempre più decisivo la giurisprudenza della Corte EDU (tra le altre, sentenze 24 giugno 2014, Azienda agricola Silverfunghi sas e altri contro Italia, paragrafo 76; 25 marzo 2014, Biasucci e altri contro Italia, paragrafo 47; 14 gennaio 2014, Montalto e altri contro Italia, paragrafo 47). Ciò in virtù della «funzione interpretativa eminente che gli Stati contraenti hanno riconosciuto alla Corte europea» (sentenza n. 348 del 2007).
Come chiarito da questa Corte, infatti, nel sindacato di costituzionalità delle leggi retroattive si è ormai pervenuti alla costruzione di una «solida sinergia fra principi costituzionali interni e principi contenuti nella CEDU», che consente di leggere in stretto coordinamento i parametri interni con quelli convenzionali «al fine di massimizzarne l’espansione in un “rapporto di integrazione reciproca”» (sentenza n. 145 del 2022).
Sulla base di tale sinergia, questa Corte è chiamata innanzitutto a verificare se l’intervento legislativo retroattivo sia effettivamente preordinato a condizionare l’esito di giudizi pendenti. A tal fine, assumono rilievo – sulla scorta della giurisprudenza della Corte EDU – alcuni «elementi, ritenuti sintomatici dell’uso distorto della funzione legislativa» e riferibili principalmente al «metodo e alla tempistica seguiti dal legislatore» (così, sentenza n. 12 del 2018; nello stesso senso, sentenze n. 145 del 2022 e n. 174 del 2019). Occorre dunque effettuare una verifica di legittimità costituzionale che – in maniera non dissimile dal sindacato sull’eccesso di potere amministrativo mediante l’impiego di figure sintomatiche – assicuri una particolare estensione e intensità del controllo sul corretto uso del potere legislativo.
8.2.– Tra gli elementi sintomatici dell’uso distorto del potere legislativo, appare innanzitutto significativo il fatto che «lo Stato o l’amministrazione pubblica» siano «parti di un processo già radicato» e che l’intervento legislativo si collochi «a notevole distanza dall’entrata in vigore delle disposizioni oggetto di interpretazione autentica» (sentenza n. 174 del 2019).
Nel caso in esame, l’art. 51, comma 3, della legge n. 388 del 2000 è entrato in vigore il 1° gennaio 2001 e, quindi, ben nove anni dopo l’art. 7, comma 1, del d.l. n. 384 del 1992, come convertito, quando erano pendenti diversi giudizi promossi da dipendenti nei confronti di amministrazioni pubbliche.
8.3.– È altresì rilevante, come elemento sintomatico, il fatto che – lo si è anticipato supra, al punto 7.2.2. – la disposizione censurata, pur essendosi “auto-qualificata” come interpretativa, abbia in realtà introdotto un significato che non si poteva in alcun modo evincere dal testo dell’art. 7, comma 1, del d.l. n. 384 del 1992, come convertito.
Come chiarito da questa Corte, la stessa erroneità della «autoqualificazione della disposizione censurata quale norma di interpretazione autentica» può costituire un sintomo di un uso improprio della funzione legislativa (sentenza n. 145 del 2022). Tale uso improprio dello strumento della legge interpretativa, ove questa incida sul contenzioso pendente, concorre a disvelare la volontà del legislatore di incidere retroattivamente sui rapporti in essere e di condizionare i giudizi in corso.
8.4.– Ma, soprattutto, risulta decisivo il fatto che il legislatore abbia adottato la disposizione censurata per superare un orientamento giurisprudenziale consolidato, al fine specifico di incidere su giudizi ancora pendenti in cui era parte l’amministrazione pubblica, fatta salva la sola esecuzione dei giudicati già formatisi alla data di entrata in vigore della disposizione medesima.
Va infatti evidenziato che, nell’ambito di controversie promosse da dipendenti pubblici ai fini del riconoscimento delle maggiorazioni della RIA ai sensi dell’art. 9, commi 4 e 5, del d.P.R. n. 44 del 1990, il Consiglio di Stato aveva chiaramente affermato che la proroga legislativa dell’efficacia del d.P.R. n. 44 del 1990 al triennio 1991-1993 (disposta dall’art. 7, comma 1, del d.l. n. 384 del 1992, come convertito) avesse modificato anche il termine utile ai fini del calcolo delle anzianità di servizio necessarie alla maturazione di tali maggiorazioni: con la conseguenza che i dipendenti pubblici – sino all’entrata in vigore della disposizione censurata – si sono visti riconoscere le maggiorazioni sulla base di anzianità di servizio maturate successivamente al 31 dicembre 1990 (tra le altre, si veda Consiglio di Stato, sezione quarta, 17 ottobre 2000, n. 5522).
In un simile contesto, il legislatore è intervenuto, con la disposizione censurata, al fine specifico di superare tale orientamento giurisprudenziale, nella consapevolezza della grande diffusione del contenzioso promosso dai dipendenti pubblici per il riconoscimento delle maggiorazioni della RIA in relazione al triennio 1991-1993. Tale finalità emerge in maniera incontrovertibile dalla documentazione predisposta dagli uffici parlamentari a illustrazione dei contenuti dell’art. 51, comma 3, della legge n. 388 del 2000, ove si sottolinea che «[l]’iniziativa è giustificata dalla considerazione che è intervenuta una giurisprudenza del Consiglio di Stato […] ormai consolidata che riconosce l’ultrattività al 31 dicembre 1992 degli accordi di comparto ai fini della maturazione dell’anzianità di servizio utile per il conseguimento del beneficio, la quale, laddove è [e]stesa alla generalità del personale interessato, comporterebbe rilevanti effetti di spesa per la corresponsione del beneficio, avente per altro decorrenza retroattiva».
8.5.– Né, infine, può ritenersi che l’intervento legislativo in questione trovasse una ragionevole giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni costituzionali, posto che, come ha chiarito la Corte EDU, solo imperative ragioni di interesse generale possono consentire un’interferenza del legislatore su giudizi in corso; i principi dello stato di diritto e del giusto processo impongono che tali ragioni «siano trattate con il massimo grado di circospezione possibile» (sentenza 14 febbraio 2012, Arras contro Italia, paragrafo 48).
8.5.1.– In ragione di ciò, come evidenziato dalla giurisprudenza costituzionale, la Corte EDU ha ritenuto compatibili con l’art. 6 CEDU alcuni interventi legislativi retroattivi incidenti su giudizi in corso, là dove «i soggetti ricorrenti avevano tentato di approfittare dei difetti tecnici della legislazione (sentenza 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society e Yorkshire Building Society contro Regno Unito, paragrafo 112), o avevano cercato di ottenere vantaggi da una lacuna della legislazione medesima, cui l’ingerenza del legislatore mirava a porre rimedio (sentenza del 27 maggio 2004, OGIS-Institut Stanislas, OGEC Saint-Pie X, Blanche de Castille e altri contro Francia, paragrafo 69)» (sentenza n. 145 del 2022). In un altro caso, è stato valorizzato il fatto che l’intervento legislativo retroattivo mirava a risolvere una serie più ampia di conflitti conseguenti alla riunificazione tedesca, al fine di «assicurare in modo duraturo la pace e la sicurezza giuridica in Germania» (20 febbraio 2003, ForrerNiedenthal c. Germania, paragrafo 64).
All’infuori di tali ragioni imperative di interesse generale, la Corte EDU ha ritenuto che «le considerazioni finanziarie non possono, da sole, autorizzare il potere legislativo a sostituirsi al giudice nella definizione delle controversie» (sentenza 29 marzo 2006, Scordino e altri contro Italia, paragrafo 132; sentenza 11 aprile 2006, Cabourdin c. Francia, paragrafo 37). Anche questa Corte ha sottolineato che, in linea di principio, «i soli motivi finanziari, volti a contenere la spesa pubblica o a reperire risorse per far fronte a esigenze eccezionali, non bastano a giustificare un intervento legislativo destinato a ripercuotersi sui giudizi in corso (sentenze n. 174 e n. 108 del 2019, e n. 170 del 2013)» (sentenza n. 145 del 2022).
8.5.2.– Nel caso in esame non emerge, né dai lavori preparatori, né dalle relazioni tecnica e illustrativa, alcuna ulteriore ragione giustificatrice dell’intervento legislativo retroattivo rispetto all’esigenza di assicurare un risparmio della spesa pubblica, in considerazione di orientamenti giurisprudenziali che stavano riconoscendo tutela alle pretese economiche dei dipendenti nei confronti delle amministrazioni pubbliche di appartenenza.
Come chiarito nella sopramenzionata documentazione predisposta dagli uffici parlamentari e nella stessa relazione illustrativa, la disposizione censurata mirava ad evitare gli aggravi di spesa conseguenti all’estensione, alla generalità del personale interessato dal d.P.R. n. 44 del 1990, della giurisprudenza del Consiglio di Stato sui termini per la maturazione dell’anzianità di servizio utile ai fini del conseguimento della maggiorazione della RIA. A riprova di ciò, nella relazione tecnica è stato evidenziato che l’approvazione della disposizione impugnata avrebbe determinato un risparmio, posto che alcune amministrazioni avevano già «tenuto conto nelle previsioni tendenziali di spesa delle maggiori esigenze derivanti dal consolidamento dell’indirizzo giurisprudenziale».
8.5.3.– In ultimo, non può neanche ritenersi, come sostenuto dall’Avvocatura dello Stato, che l’intervento legislativo fosse giustificato dalla finalità di eliminare una disparità di trattamento tra i dipendenti che avrebbero maturato le anzianità di servizio prima del 31 dicembre 1990 (data originariamente prevista dall’art. 1, comma 1, del d.P.R. n. 44 del 1990) e coloro che avrebbero potuto maturare tali anzianità di servizio anche dopo tale data.
Infatti, alla luce della proroga dell’intera disciplina contrattuale contenuta nel d.P.R. n. 44 del 1990 sino al 31 dicembre 1993, la possibilità per i dipendenti di maturare l’anzianità di servizio necessaria alla maggiorazione della RIA anche nel corso del nuovo periodo di vigenza del d.P.R. n. 44 del 1990 (1991-1993) rispondeva pienamente a ragioni di eguaglianza e di giustizia del sistema retributivo. Semmai, è stata la disposizione censurata ad aver causato una ingiustificata differenziazione retributiva a danno di quei dipendenti pubblici che, diversamente da quanto avvenuto in relazione al triennio 1988-1990, non hanno potuto valorizzare l’anzianità di servizio maturata nel successivo triennio 1991-1993 ai fini delle maggiorazioni della RIA.
9.– In ragione di tutto ciò, la disposizione censurata, avendo introdotto una norma innovativa ad efficacia retroattiva, al fine specifico di incidere su giudizi pendenti in cui era parte la stessa amministrazione pubblica, e in assenza di ragioni imperative di interesse generale, si è posta in contrasto con i principi del giusto processo e della parità delle parti in giudizio, sanciti dagli artt. 111, commi primo e secondo, e 117, primo comma, Cost, quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU, nonché con i principi di eguaglianza, ragionevolezza e certezza dell’ordinamento giuridico di cui all’art. 3 Cost.
10.– Sono assorbite le ulteriori questioni sollevate in riferimento agli artt. 24, primo comma, e 102, Cost.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 51, comma 3, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 dicembre 2023.
F.to:
Augusto Antonio BARBERA, Presidente
Marco D'ALBERTI, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria l’11 gennaio 2024