SENTENZA N. 61
ANNO 2022
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giuliano AMATO;
Giudici: Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge della Regione Siciliana 3 marzo 2020, n. 6 (Rinvio delle elezioni degli organi degli enti di area vasta. Disposizioni varie), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia nel procedimento vertente tra S.S. C. e il Comune di Gela e altri, con ordinanza del 28 ottobre 2020, iscritta al n. 6 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2021.
Visti l’atto di costituzione di R.A. M., nonché l’atto di intervento del Presidente della Regione Siciliana;
udito nell’udienza pubblica del 25 gennaio 2022 il Giudice relatore Nicolò Zanon;
uditi l’avvocato Giuseppe Impiduglia per R.A. M., in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 18 maggio 2021 e l’avvocato dello Stato Maria Elena Scaramucci Lallo per il Presidente della Regione Siciliana;
deliberato nella camera di consiglio del 25 gennaio 2022.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 28 ottobre 2020, (r.o. n. 6 del 2021), il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia solleva, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 24, primo comma, 103, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge della Regione Siciliana 3 marzo 2020, n. 6 (Rinvio delle elezioni degli organi degli enti di area vasta. Disposizioni varie).
2.– Il giudice rimettente riferisce di essere stato investito di un ricorso col quale S.S. C., candidata non eletta al Consiglio comunale di Gela in occasione delle elezioni amministrative svoltesi il 28 aprile e il 12 maggio 2019, aveva invocato l’annullamento del verbale delle operazioni dell’Ufficio centrale elettorale nella parte relativa all’attribuzione del premio di maggioranza, chiedendo una parziale correzione del risultato elettorale.
Nell’ordinanza di rimessione si dà conto di come le liste collegate al candidato sindaco risultato eletto al turno di ballottaggio avessero conseguito 11 seggi, in base al criterio di assegnazione del numero di consiglieri previsto all’art. 4, comma 4, della legge della Regione Siciliana 15 settembre 1997, n. 35 (Nuove norme per la elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale). A questi l’Ufficio centrale elettorale ne aveva aggiunti 4, in applicazione del successivo comma 6, che prevede il premio di maggioranza nell’ambito delle elezioni dei sindaci e dei consigli comunali dei Comuni siciliani con popolazione superiore a 15.000 abitanti.
La disposizione in questione stabilisce che «[a]lla lista o al gruppo di liste collegate al candidato proclamato eletto che non abbia già conseguito almeno il 60 per cento dei seggi del Consiglio viene assegnato, comunque, il 60 per cento dei seggi, sempreché nessun’altra lista o gruppo di liste collegate abbia già superato il 50 per cento dei voti validi. Salvo quanto previsto dal comma 3-ter, i restanti seggi vengono assegnati alle altre liste o gruppi di liste collegate, ai sensi del comma 4. Il premio di maggioranza previsto per la lista o le liste collegate al sindaco eletto a primo turno viene attribuito solo nel caso in cui la lista o le liste abbiano conseguito almeno il quaranta per cento dei voti validi».
Secondo la ricorrente nel giudizio principale, candidata nella lista «Avanti Gela» – facente parte di una coalizione concorrente rispetto a quella presentatasi a sostegno del sindaco eletto – l’Ufficio centrale elettorale avrebbe applicato in modo erroneo tale disposizione, perché il 60 per cento di 24 (numero totale di seggi di cui si compone il Consiglio comunale di Gela) corrisponde a 14,4. In forza di un «principio generale», si sarebbe dunque dovuto procedere all’arrotondamento del decimale all’unità più prossima, mentre l’arrotondamento all’unità superiore sarebbe possibile solo ove il numero risultante dall’operazione di calcolo «contenga una cifra decimale superiore a 50 centesimi». Concludeva la ricorrente assumendo che l’Ufficio centrale elettorale avrebbe allora illegittimamente assegnato alle liste di maggioranza 15 seggi anziché 14.
All’esito della correzione di tale errore, asserita come doverosa, la stessa ricorrente, in quanto prima dei non eletti tra le liste del raggruppamento avversario, avrebbe dovuto subentrare a R.A. M., candidata nella lista «Un’altra Gela» ed assegnataria del quindicesimo seggio, a suo dire indebitamente riconosciuto alla maggioranza.
3.– Nelle more del giudizio, entrava in vigore l’art. 3 della legge reg. Siciliana n. 6 del 2020, rubricato «Interpretazione autentica del comma 6 dell’articolo 4 della legge regionale 15 settembre 1997, n. 35», ai cui sensi «[il] comma 6 dell’articolo 4 della legge regionale 15 settembre 1997, n. 35 e successive modifiche ed integrazioni si interpreta nel senso che, nei casi in cui la percentuale del 60 per cento dei seggi non corrisponda ad una cifra intera ma ad un quoziente decimale, l’arrotondamento si effettua per eccesso in caso di decimale uguale o superiore a 50 centesimi e per difetto in caso di decimale inferiore a 50 centesimi».
Due dei controinteressati al ricorso, C.L. G. e A.R. M., eccepivano l’illegittimità costituzionale della norma sopravvenuta, stante il carattere surrettiziamente interpretativo di una disposizione che, a loro dire, era invece intervenuta in assenza di dubbi sull’applicazione della precedente disciplina, interferendo peraltro su giudizi pendenti.
4.– Il Tribunale rimettente condivide i dubbi sulla legittimità costituzionale della predetta disposizione.
4.1.– In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva come, in applicazione della norma censurata, il ricorso andrebbe accolto, mentre una pronuncia di questa Corte che ne dichiarasse l’illegittimità costituzionale condurrebbe verso un rigetto, in forza di un «orientamento granitico della giurisprudenza amministrativa» formatosi sulla disciplina statale recata dall’art. 73, comma 10, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), disposizione che regola a sua volta, per i Comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, l’assegnazione del premio di maggioranza, e che il rimettente considera in tutto analoga alla norma regionale oggetto di interpretazione. L’art. 73, comma 10, t.u. enti locali statuisce infatti che «[q]ualora un candidato alla carica di sindaco sia proclamato eletto al primo turno, alla lista o al gruppo di liste a lui collegate che non abbia già conseguito, ai sensi del comma 8, almeno il 60 per cento dei seggi del consiglio, ma abbia ottenuto almeno il 40 per cento dei voti validi, viene assegnato il 60 per cento dei seggi, sempreché nessuna altra lista o altro gruppo di liste collegate abbia superato il 50 per cento dei voti validi. Qualora un candidato alla carica di sindaco sia proclamato eletto al secondo turno, alla lista o al gruppo di liste ad esso collegate che non abbia già conseguito, ai sensi del comma 8, almeno il 60 per cento dei seggi del consiglio, viene assegnato il 60 per cento dei seggi, sempreché nessuna altra lista o altro gruppo di liste collegate al primo turno abbia già superato nel turno medesimo il 50 per cento dei voti validi. I restanti seggi vengono assegnati alle altre liste o gruppi di liste collegate ai sensi del comma 8».
Afferma il rimettente che, secondo la lettura di tale disposizione offerta dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, «il dato testuale impone […] di assegnare alla coalizione vincente almeno [il] 60 per cento dei seggi, con conseguente necessità, in caso di quoziente frazionario, di arrotondamento all’unità superiore». Il 60 per cento dei seggi costituirebbe, infatti, «non il limite massimo bensì quello minimo» dei seggi alla stessa spettanti, voluto dal legislatore a garanzia della governabilità dell’ente. Il medesimo orientamento sarebbe espresso dal giudice amministrativo, con specifico riferimento alla disciplina siciliana (vengono citate le sentenze del Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, sezione seconda, 19 ottobre 2016, n. 2591 e 25 ottobre 2019, n. 2465).
Sempre in punto di rilevanza, il giudice a quo, consapevole che l’applicazione in giudizio della disposizione censurata dipende dai suoi effetti realmente retroattivi, esclude la percorribilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, non ritenendo possibile superare la qualificazione di norma di interpretazione autentica, che lo stesso legislatore regionale le ha espressamente attribuito.
4.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, afferma il Tribunale rimettente che, alla luce della giurisprudenza di questa Corte, può dubitarsi della legittimità costituzionale della previsione introdotta dal legislatore siciliano, sia in relazione alla sussistenza dei presupposti per il legittimo esercizio del potere di interpretazione autentica, sia a causa dell’incidenza retroattiva della disposizione sui giudizi pendenti.
4.2.1.– Quanto al primo profilo, ad essere violato sarebbe il principio di ragionevolezza, «come desumibile dal comma 2 dell’articolo 3 della Costituzione». Per costante giurisprudenza costituzionale, infatti, le norme retroattive sarebbero tenute al rispetto di «valori e interessi costituzionalmente protetti», quali il principio di ragionevolezza (che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento), la tutela dell’affidamento, la coerenza e certezza del diritto (vengono richiamate le sentenze n. 167 del 2018, n. 73 del 2017, n. 170 del 2013, n. 78 del 2012, n. 93 e n. 41 del 2011 e n. 209 del 2010). Ancora, questa Corte avrebbe chiarito come la palese erroneità della auto-qualificazione di norma di interpretazione autentica costituisca un «indice, sia pur non dirimente» della sua irragionevolezza (sono citate anche le sentenze n. 73 del 2017, n. 103 del 2013 e n. 41 del 2011).
In effetti, sostiene il rimettente, non potrebbe predicarsi la natura realmente interpretativa della disposizione censurata (ciò che potrebbe deporre per la sua non irragionevolezza e non contrarietà al principio di affidamento: vengono richiamate le sentenze n. 108 del 2019, n. 73 del 2017 e n. 170 del 2008). Invero, l’art. 3 della legge reg. Siciliana n. 6 del 2020 avrebbe assegnato alla disposizione interpretata «un significato che sembra esulare dalle possibili varianti di senso dello stesso testo normativo». L’arrotondamento per difetto imposto da tale disposizione comporterebbe infatti il riconoscimento alla maggioranza di un numero di seggi inferiore alla soglia del 60 per cento, «in spregio al dato letterale della norma». Esattamente come segnalato dalla richiamata giurisprudenza amministrativa.
D’altra parte, aggiunge il rimettente, nello stesso contesto della legge reg. Siciliana n. 35 del 1997, quando il legislatore regionale ha voluto prescrivere un diverso criterio, lo ha fatto esplicitamente: in particolare, nell’art. 4, comma 1, in relazione alla composizione delle liste, dove si stabilisce che queste devono comprendere candidati in numero non superiore a quello dei consiglieri da eleggere e non inferiore ai due terzi, con arrotondamento all’unità superiore nella ipotesi di cifra decimale superiore a 50 centesimi.
La circostanza che la norma censurata non abbia valenza realmente interpretativa sarebbe infine dimostrata dai contenuti della circolare dell’Assessorato regionale delle autonomie locali e della funzione pubblica della Regione Sicilia del 26 marzo 2020, n. 3675, intervenuta a precisare che la disciplina in questione non dovrebbe applicarsi retroattivamente.
4.2.2.– L’art. 3 della legge reg. Siciliana n. 6 del 2020 sarebbe altresì lesivo dell’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
Difetterebbero infatti i motivi imperativi di interesse generale che, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, legittimano interventi normativi di natura interpretativa o innovativa con effetti retroattivi. Ciò in quanto non si riscontrerebbero «“ragioni storiche epocali”, ovvero necessità di porre rimedio ad una imperfezione tecnica della legge interpretata ristabilendo una interpretazione aderente alla originaria voluntas legis» (sono richiamate, tra le altre, Corte EDU, sentenza 27 maggio 2004, Ogis-Institut Stanislas e altri contro Francia e sentenza 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society ed altri contro Regno unito).
Inoltre, secondo la Corte EDU, non sarebbero consentiti interventi normativi con effetti retroattivi idonei ad incidere sui giudizi in corso (Corte EDU, sentenze 11 dicembre 2012, De Rosa e altri contro Italia, 14 febbraio 2012, Arrasa e altri contro Italia, 7 giugno 2011, Agrati contro Italia). Proprio questo invece accadrebbe, per il rimettente, nel caso di specie, in cui la disposizione censurata pretende di interpretare una previsione risalente al 1997, intervenendo, oltretutto, solo dopo le elezioni del 2019 e, in particolare, successivamente all’instaurazione di contenziosi di fronte al giudice amministrativo (tra i quali il giudizio a quo). Essa sarebbe così destinata a incidere sulla loro definizione, a vantaggio di una delle parti. Per questa ragione, la norma sarebbe altresì lesiva del diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost. e della «autonomia della funzione giurisdizionale assegnata al giudice amministrativo (art. 103 Cost.)», con ulteriore compromissione della parità di trattamento tra le parti processuali ai sensi dell’art. 111 Cost.
5.– Si è costituita in giudizio R.A. M., parte nel giudizio a quo, prospettando l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale. Il legislatore regionale avrebbe infatti introdotto, in violazione del tenore letterale dell’art. 4, comma 6, e della sua stessa ratio, consistente nel garantire la governabilità dell’ente, una modalità di attribuzione dei seggi non prevista dal testo della disposizione asseritamente interpretata. Quest’ultima sarebbe invero chiara nel riconoscere alla coalizione vincente «almeno» il 60 per cento dei seggi, come confermato dalla giurisprudenza amministrativa, che avrebbe interpretato la disciplina in modo univoco (vengono richiamate le sentenze del TAR Sicilia, sezione prima, 25 ottobre 2019, n. 2465 e sezione seconda, 19 ottobre 2016, n. 2591). Tali pronunce, del resto, si riferirebbero ad un «orientamento granitico» del Consiglio di Stato (sono richiamati la sentenza della sezione terza, 18 ottobre 2018, n. 5967 e i numerosi precedenti in essa citati) inerente all’art. 73 t.u. enti locali, previsione ritenuta dalla parte perfettamente sovrapponibile alla norma oggetto.
Oltre che lesiva dei principi di ragionevolezza, di coerenza e certezza del diritto, la previsione introdotta dal legislatore regionale violerebbe anche l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU, nonché gli artt. 24, 102 e 111 Cost., a conferma evocandosi la giurisprudenza sia di questa Corte, sia della Corte EDU.
Infatti, la circostanza che la disposizione censurata sia stata approvata in assenza di dubbi sulla effettiva portata dell’art. 4, comma 6, della legge reg. Siciliana n. 35 del 1997 rivelerebbe come la stessa sia stata adottata allo scopo di interferire con le funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario, e per determinare «fatalmente», a favore di una parte e a discapito dell’altra, l’esito della controversia prendente innanzi al TAR: mentre il principio di parità tra le parti in giudizio esige che ciascuna non venga posta in una condizione di netto svantaggio rispetto all’altra (Corte EDU, sentenza 25 marzo 2014, Biasucci e altri contro Italia).
La difesa di R.A. M. osserva, in conclusione, che, essendo destinata ad incidere sul giudizio in corso (e su un altro pendente innanzi al TAR Sicilia, sede di Palermo, nel procedimento r.g. n. 1289 del 2019), la disposizione censurata rivelerebbe la sua natura di «legge provvedimento», la cui adozione sarebbe tanto più grave in ambito elettorale, ove viene in rilievo il diritto di elettorato passivo.
6.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente della Regione Siciliana, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, non fondate.
6.1.– In punto di ammissibilità, osserva l’Avvocatura che il giudice rimettente avrebbe «liquida[to] il requisito della rilevanza della questione di costituzionalità ai fini della decisione del giudizio», presumendo la retroattività della norma censurata e omettendo di considerare la possibilità di una interpretazione costituzionalmente conforme. Non sempre le leggi di interpretazione autentica avrebbero infatti portata retroattiva (viene citata la sentenza n. 173 del 2019 di questa Corte, relativa proprio alla materia elettorale). In ogni caso, pur in presenza di una disposizione retroattiva, sarebbe decisiva una valutazione circa la sua ragionevolezza, cioè una verifica invece omessa dal ricorrente.
6.2.– Nel merito, l’Avvocatura sottolinea che il contenzioso in essere origina dalla riduzione del numero dei consiglieri comunali, prevista dalla legge della Regione Siciliana 26 giugno 2015, n. 11 (Disposizioni in materia di composizione dei consigli e delle giunte comunali, di status degli amministratori locali e di consigli circoscrizionali. Disposizioni varie). In occasione di tale intervento, il legislatore siciliano avrebbe omesso di considerare l’eventualità che, proprio a seguito della correzione numerica introdotta, a seguito dei calcoli relativi all’assegnazione dei seggi previsti dal premio di maggioranza, si sarebbe potuto ricavare un quoziente con cifre decimali.
Invero, in occasione della consultazione elettorale del 2019, i diversi Uffici centrali elettorali competenti avrebbero disposto in modo non uniforme proprio riguardo all’arrotondamento dei quozienti decimali (viene riportato l’esempio delle procedure elettorali relative ai Comuni di Bagheria e di Caltanissetta, in cui l’Ufficio centrale elettorale aveva operato l’arrotondamento verso l’unità superiore, e quello, opposto, inerente al Comune di Monreale).
Questa incertezza avrebbe indotto la Commissione I - Affari istituzionali dell’Assemblea regionale siciliana ad approvare una risoluzione che impegnava il Governo regionale ad «attivare ogni iniziativa, anche legislativa, che interpretando autenticamente la vigente normativa regionale […] confermi la corretta applicazione del criterio decimale che prevede che nel caso di cifre decimali, l’arrotondamento vada effettuato per difetto o per eccesso a seconda che il decimale preso in considerazione sia inferiore o superiore alla metà come giurisprudenza consolidata afferma da sempre» (risoluzione n. 1/I recante «Iniziative per la corretta applicazione delle disposizioni in materia di attribuzione del premio di maggioranza nei consigli dei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti», approvata nella seduta n. 116 del 6 novembre 2019).
In tale contesto, veniva approvato l’art. 3 della legge reg. Siciliana n. 6 del 2020, che, limitandosi ad indicare un «mero criterio matematico», si sarebbe fondato sulla presenza di entrambe le condizioni che, in generale, legittimano il ricorso a norme di interpretazione autentica: «la formulazione ambigua della legge regionale e la diversità delle soluzioni interpretative adottate dagli operatori del diritto» (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 271 del 2011 e n. 155 del 1990).
Secondo l’Avvocatura, invece, a nulla varrebbe riferirsi all’orientamento della giurisprudenza amministrativa richiamato dal giudice a quo sull’art. 73 t.u. enti locali, «essendo il legislatore regionale munito di potestà legislativa esclusiva in materia».
Nemmeno sarebbero violati l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 13 CEDU. Il legislatore regionale sarebbe infatti intervenuto a fugare un reale dubbio interpretativo, a tutela di «tutti i candidati alle elezioni» e dell’equilibrio tra l’interesse dei gruppi di maggioranza e quelli di minoranza. Anche gli ulteriori parametri invocati dal rimettente non sarebbero stati illegittimamente incisi dalla disposizione censurata. Come affermato da questa Corte, infatti, la funzione giurisdizionale «opera su un piano diverso rispetto a quello del potere legislativo di interpretazione autentica» (sentenza n. 234 del 2007).
7.– In prossimità dell’udienza pubblica del 25 gennaio 2022 hanno depositato memoria sia la difesa della parte sia l’Avvocatura generale dello Stato.
La prima, dopo aver insistito sulla ammissibilità delle questioni di legittimità sollevate, nel merito ha soprattutto evidenziato come solo in un caso, nel 2019, l’Ufficio centrale elettorale avrebbe proceduto ad assegnare 14 seggi in forza del premio di maggioranza, mentre nei Comuni di Gela, Bagheria, Castelvetrano e Caltanissetta sarebbe stata seguita l’opposta e corretta soluzione.
L’Avvocatura ha invece ribadito come il legislatore regionale abbia legittimamente inteso risolvere una oggettiva situazione di incertezza, seguendo un’opzione ermeneutica non estranea al testo dell’art. 4, comma 6, della legge reg. Siciliana n. 35 del 1997.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia solleva, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 24, primo comma, 103, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge della Regione Siciliana 3 marzo 2020, n. 6 (Rinvio delle elezioni degli organi degli enti di area vasta. Disposizioni varie).
La disposizione censurata interviene sulla disciplina che regola, nella Regione Siciliana, l’attribuzione del premio di maggioranza alla lista o al gruppo di liste collegate al sindaco proclamato eletto nei Comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, prevista all’art. 4, comma 6, della legge della Regione Siciliana 15 settembre 1997, n. 35 (Nuove norme per la elezione diretta del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale). Tale ultima disposizione stabilisce che «[a]lla lista o al gruppo di liste collegate al candidato proclamato eletto che non abbia già conseguito almeno il 60 per cento dei seggi del Consiglio viene assegnato, comunque, il 60 per cento dei seggi».
Qualificandosi espressamente, fin dalla rubrica, come norma di interpretazione autentica, la disposizione censurata afferma che l’appena citato art. 4, comma 6, della legge reg. Siciliana n. 35 del 1997 «si interpreta nel senso che, nei casi in cui la percentuale del 60 per cento dei seggi non corrisponda ad una cifra intera ma ad un quoziente decimale, l’arrotondamento si effettua per eccesso in caso di decimale uguale o superiore a 50 centesimi e per difetto in caso di decimale inferiore a 50 centesimi».
Secondo il giudice a quo, la disposizione violerebbe il principio di ragionevolezza desumibile dall’«art. 3, comma 2, della Costituzione» (recte: art. 3 Cost. nella sua complessiva formulazione, ove l’evidente lapsus calami non pregiudica la corretta individuazione della doglianza: ex multis sentenze n. 172 e n. 35 del 2021e n. 228 del 2017).
Ciò in quanto, lungi dal dettare l’interpretazione autentica della disposizione regionale relativa alle modalità di calcolo del premio di maggioranza, avrebbe assegnato a quest’ultima un significato non rientrante tra le possibili varianti di senso del testo normativo.
Il ragionamento del rimettente si basa su un semplice calcolo matematico, e sul raffronto del risultato di tale calcolo con il testo letterale della disposizione asseritamente interpretata. Essendo attualmente 24 i componenti dei consigli nei Comuni in esame, il 60 per cento dei seggi equivale a 14,4, e l’arrotondamento per difetto, poiché il decimale è inferiore a 50 centesimi, comporterebbe l’assegnazione alle liste collegate al sindaco eletto di 14 consiglieri, pari al 58,33 per cento: dunque, di un numero di seggi inferiore al 60 per cento, appunto «in spregio al dato letterale».
La norma censurata lederebbe, inoltre, l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché gli artt. 24, primo comma, 103, primo comma e 111, secondo comma, Cost. Infatti, in assenza di motivi imperativi di interesse generale, essa avrebbe introdotto una disciplina retroattiva che incide su giudizi pendenti a vantaggio di una delle parti in lite per l’assegnazione di un seggio, in lesione dell’«autonomia della funzione giurisdizionale» e del principio del giusto processo, «declinato sotto il profilo della parità di trattamento tra tutte le parti processuali».
2.– Il Presidente della Regione Siciliana, intervenuto in giudizio rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, eccepisce l’inammissibilità delle questioni, poiché il giudice a quo, prima di rimetterle dinnanzi a questa Corte, «avrebbe dovuto verificare se la disposizione fosse effettivamente retroattiva, indipendente[mente] dal nomen della disposizione stessa, e se tale retroattività avesse i caratteri della irragionevolezza e contrastasse con altri valori costituzionalmente protetti».
Tale eccezione, per vero non chiarissima, è avanzata a conclusione di un ragionamento in cui, in primo luogo, si addebita all’ordinanza di rimessione una valutazione affrettata sulla rilevanza delle questioni: se il giudice a quo – sembra di capire – avesse sperimentato la via dell’interpretazione adeguatrice, orientandosi per la non retroattività della disposizione censurata, avrebbe potuto ritenerla non applicabile nel giudizio principale. In secondo luogo, l’Avvocatura richiama la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui le leggi di interpretazione autentica, così come quelle innovative con effetti retroattivi, non sono di per sé costituzionalmente illegittime, e lamenta che il rimettente, prima di sollevare le questioni, avrebbe dovuto, appunto, verificare se, essendo realmente retroattiva la disposizione censurata, la stessa travalicasse il limite della ragionevolezza.
L’eccezione deve essere respinta.
Attengono certamente al merito, e non all’ammissibilità, le valutazioni in punto di ragionevolezza della disciplina censurata. Quanto alla mancata esplorazione di una interpretazione conforme, in senso non retroattivo, dell’art. 3 della legge reg. Siciliana n. 6 del 2020 – lacuna che si tradurrebbe in un difetto di motivazione sulla rilevanza delle questioni – è sufficiente osservare che il giudice a quo ha considerato tale possibilità, ma l’ha consapevolmente esclusa, rilevando che la disposizione censurata si auto-qualifica come interpretativa fin dalla rubrica. Ciò rende del tutto plausibili, almeno ai fini dell’accesso delle questioni allo scrutinio di merito, sia l’affermazione della natura retroattiva della norma, sia, di conseguenza, la sua ritenuta applicabilità al giudizio pendente.
Non rileva in senso contrario la circolare dell’Assessorato regionale delle autonomie locali e della funzione pubblica della Regione Siciliana del 26 marzo 2020, n. 3675, in cui si asserisce che «la disciplina interpretativa» in questione troverebbe applicazione «dalla prossima tornata elettorale amministrativa». Per sua natura, tale atto non è idoneo a orientare decisivamente l’interpretazione giurisdizionale di una fonte legislativa.
3.– Nel merito, la questione è fondata, per violazione dell’art. 3 Cost.
4.– Coglie innanzitutto nel segno il giudice a quo, laddove addebita alla norma censurata di aver assegnato alla disposizione interpretata un significato che non rientra tra le possibili varianti di senso del testo oggetto di (pretesa) interpretazione autentica.
L’arrotondamento per difetto, quando il decimale è inferiore a 50 centesimi, comporta l’assegnazione alle liste collegate al sindaco eletto di 14 consiglieri, pari al 58,33 per cento dei seggi consiliari, perciò, senza dubbio, di un numero di seggi inferiore al 60 per cento, in evidente contrasto con il dato testuale esibito dalla disposizione asseritamente interpretata.
Ben vero, come osserva l’Avvocatura dello Stato, che la norma di interpretazione autentica oggetto delle odierne questioni di legittimità costituzionale è intervenuta a risolvere una specifica questione – quale sia il criterio cui ricorrere per procedere all’indispensabile arrotondamento di un decimale laddove il 60 per cento dei seggi non corrisponda ad un numero intero – insorta successivamente all’entrata in vigore dell’art. 4, comma 6, della legge reg. Siciliana n. 35 del 1997.
In effetti, per i Comuni con popolazione superiore a 30.000 abitanti, qui in rilievo, l’art. 43 della legge della Regione Siciliana 15 marzo 1963, n. 16 (Ordinamento amministrativo degli enti locali nella Regione siciliana) fissava originariamente in 30 il numero dei membri del Consiglio comunale. Poiché il 60 per cento di 30 è pari a 18, gli Uffici centrali elettorali non si erano mai trovati nella necessità, per l’assegnazione del premio di maggioranza, di procedere ad operazioni di arrotondamento di decimali.
Lo scenario è mutato quando l’art. 1, comma 1, della legge della Regione Siciliana 26 giugno 2015, n. 11 (Disposizioni in materia di composizione dei consigli e delle giunte comunali, di status degli amministratori locali e di consigli circoscrizionali. Disposizioni varie) ha ridotto «del 20 per cento» il numero dei consiglieri comunali, portando così il totale dei seggi consiliari da 30 a 24. Il comma 4 del medesimo art. 1 ha stabilito che la correzione introdotta operasse a partire dal primo rinnovo dei consigli comunali successivo all’entrata in vigore della legge regionale, determinando così la necessità di utilizzare un criterio per procedere all’arrotondamento.
Tuttavia, l’ordinanza di rimessione nega, persuasivamente, che quello insorto dopo l’entrata in vigore della legge reg. Siciliana n. 11 del 2015 costituisse un reale problema ai fini dell’assegnazione del premio di maggioranza. Infatti, un costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, formatosi ben prima del 2015, risulta saldamente attestato nel senso che, nell’ambito della procedura di assegnazione del premio, i decimali devono sempre essere arrotondati all’unità superiore.
Tale orientamento, per vero, si è formato in sede di interpretazione di una disposizione di legge statale, cioè l’art. 73, comma 10, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), relativo alla consistenza e alle modalità di assegnazione del premio di maggioranza nelle elezioni comunali delle Regioni a statuto ordinario (ex multis, Consiglio di Stato, sezione terza, sentenze 18 ottobre 2018, n. 5967, 23 maggio 2017, n. 2408, 10 maggio 2017, n. 2174 sezione quinta, sentenze 30 maggio 2016, n. 2299, 22 settembre 2015, n. 4419, 30 giugno 2014, n. 3268 e n. 3269, 21 maggio 2013, n. 2761); ma la disciplina in esso contenuta risulta del tutto sovrapponibile, nel dato letterale, a quella della Regione Siciliana oggetto di interpretazione asseritamente autentica.
Ciò spiega perché questo stesso orientamento, dopo il 2015, viene seguito anche dalla giurisprudenza amministrativa formatasi, nella Regione Siciliana, sull’art. 4, comma 6, della legge reg. Siciliana n. 35 del 1997, ovviamente prima dell’entrata in vigore della norma censurata (TAR Sicilia, sede di Catania, 19 ottobre 2016, n. 2591; TAR Sicilia, sede di Palermo, 25 ottobre 2019, n. 2465).
A fondare un simile orientamento è, risolutivamente, proprio l’argomento letterale testé esposto. Osserva il giudice amministrativo (Consiglio di Stato, sentenza 18 ottobre 2018, n. 5967) che «il dato testuale impone […] di assegnare alla coalizione vincente almeno il 60 per cento dei seggi, con conseguente necessità, in caso di quoziente frazionario, di arrotondamento all’unità superiore». Il 60 per cento dei seggi, infatti, «costituisce nella fattispecie non il limite massimo bensì quello minimo dei seggi spettanti alla coalizione vincente, previsto dal legislatore per garantire la governabilità dell’Ente locale». Di contro, «ove si effettuasse l’arrotondamento del quoziente frazionario per difetto, si otterrebbe una percentuale inferiore al 60%, con conseguente violazione del disposto normativo».
In questa prospettiva, la giurisprudenza sottolinea come occorra particolarmente considerare il significato della parola «almeno» inserita nella formula dell’art. 73 t.u. enti locali – parola che ricompare, identica, nell’art. 4, comma 6, della legge reg. Siciliana n. 35 del 1997 – («alla lista o al gruppo di liste a lui collegate che non abbia già conseguito […] almeno il 60 per cento dei seggi del consiglio, […] viene assegnato il 60 per cento dei seggi»). L’utilizzo di tale termine, si sostiene, è espressione della volontà legislativa di assicurare in ogni caso la percentuale stabilita dalla norma.
Nella medesima prospettiva, è significativo che la disposizione regionale risulti ancora più stringente nella direzione esposta, giacché, a differenza di quella statale, prevede che, alla lista o al gruppo di liste che già non l’abbia conseguito, il 60 per cento dei seggi venga assegnato «comunque».
È appena il caso di aggiungere, per concludere su questo aspetto, che non ha pregio l’obiezione avanzata dall’Avvocatura generale circa la non pertinenza, nella questione in esame, di una giurisprudenza amministrativa formatasi su disposizione legislativa statale (l’art. 73, comma 10, t.u. enti locali, del tutto sovrapponibile a quella regionale censurata), sul presupposto che alla Regione Siciliana è attribuita, in materia di elezione degli enti locali, potestà legislativa esclusiva. L’argomento è, infatti, fuori quadro: non è qui in discussione l’ambito di competenza del legislatore regionale in materia di elezioni locali, ma il carattere fittizio o reale di una interpretazione che si auto-qualifica come autentica. D’altra parte, non mutano le regole e gli esiti dell’esegesi giurisprudenziale di testi normativi identici, sol perché muti la fonte della disposizione da interpretare (legge statale o regionale).
5.– L’analisi che precede dimostra, dunque, l’erroneità dell’auto-qualificazione esibita dalla disposizione censurata.
A seguito dell’intervento legislativo sub iudice, non resta immutato il tenore testuale della disposizione interpretata, né risulta privilegiata, e resa vincolante, una delle interpretazioni desumibili da tale testo (sentenza n. 15 del 1995). La norma censurata non esprime – come dovrebbe, per qualificarsi correttamente quale interpretativa – «un significato appartenente a quelli riconducibili alla previsione interpretata secondo gli ordinari criteri dell’interpretazione della legge» (sentenza n. 133 del 2020): al contrario, ne indica uno estraneo alle variabili di senso riconducibili al testo di quest’ultima (sentenze n. 70 del 2020, n. 108 del 2019 e n. 73 del 2017).
L’art. 3 della legge reg. Siciliana n. 6 del 2020 – presentandosi quale norma di interpretazione autentica – ha, in realtà, contenuto e natura di disciplina innovativa con effetti retroattivi. Esso determina il mutamento della regola espressa dalla disposizione interpretata su un aspetto decisivo della legislazione elettorale locale, cioè la consistenza del premio di maggioranza, che viene ridotto al di sotto della soglia del 60 per cento: un mutamento che, nonostante le allegazioni in senso contrario dell’Avvocatura dello Stato, dispiega con ogni evidenza effetti retroattivi ed è destinato ad incidere sui giudizi pendenti in ambito elettorale.
Peraltro, la giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che l’erroneità dell’auto-qualificazione come norma interpretativa non è risolutiva, ai fini dell’esito dello scrutinio di legittimità costituzionale. Piuttosto, tale erroneità può costituire «un indice, sia pur non dirimente» (sentenze n. 73 del 2017, n. 103 del 2013 e n. 41 del 2011) dell’irragionevolezza della disposizione censurata.
Allo stesso modo, la giurisprudenza costituzionale ha sottolineato che una disposizione innovativa con effetti retroattivi, ancorché qualificata di interpretazione autentica, non è, di per sé e in quanto tale, costituzionalmente illegittima. Vale, in tal caso, il principio per cui, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 25 Cost. in materia penale, il legislatore può approvare leggi con efficacia retroattiva, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale (ex plurimis, sentenza n. 170 del 2013).
Tuttavia, il ricorso fittizio all’interpretazione autentica si rivela sintomatico di un «uso improprio della funzione legislativa», e, pertanto, orienta verso un sindacato rigoroso sulla norma, in ragione della sua retroattività (sentenza n. 133 del 2020).
Nella prospettiva di uno stretto scrutinio di ragionevolezza, si tratta, dunque, di riscontrare non «la mera assenza di scelte normative manifestamente arbitrarie, ma l’effettiva sussistenza di giustificazioni ragionevoli dell’intervento legislativo (sentenza n. 432 del 1997)» (sentenza n. 108 del 2019), e di valutare, altresì, se le motivazioni alla base dell’intervento legislativo a carattere retroattivo siano di tale rilievo da prevalere rispetto alle esigenze legate alla tutela del legittimo affidamento dei destinatari della regolazione originaria e al principio di certezza e stabilità dei rapporti giuridici.
È necessario aggiungere qui che siffatta esigenza si presenta, con particolare evidenza, in relazione ad interventi retroattivi nella materia elettorale, in cui affidamento e stabilità dei rapporti giuridici sono posti a tutela di diritti e beni di peculiare rilievo costituzionale, come il diritto inviolabile di elettorato passivo di cui all’art. 51 Cost., «aspetto essenziale della partecipazione dei cittadini alla vita democratica» (sentenze n. 48 del 2021 e n. 141 del 1996), e lo stesso diritto di voto esercitato ai sensi dell’art. 48 Cost., diritto che «svolge una funzione decisiva nell’ordinamento costituzionale» (sentenza n. 35 del 2017), in quanto ha «come connotato essenziale il suo collegamento ad un interesse del corpo sociale nel suo insieme» (sentenze n. 240 del 2021 e n. 1 del 2014).
6.– Nella prospettiva appena indicata, non soccorrono, a sostegno della ragionevolezza dell’intervento legislativo in esame, né la stringente necessità di rimediare a una condizione di diffusa incertezza quanto al calcolo dei seggi da assegnare alla lista o al gruppo di liste collegate al candidato sindaco che non abbia già conseguito almeno il 60 per cento dei seggi consiliari, né impellenti esigenze di rilievo costituzionale collegate, come invece asserisce l’Avvocatura generale dello Stato, alla garanzia del principio di rappresentatività e a quello di tutela delle minoranze.
Sotto il primo profilo, non risulta a questa Corte, in assenza di dettagliate allegazioni dell’Avvocatura dello Stato, che siano numerosi i casi di applicazione divergente della normativa nelle elezioni del 2018 e del 2019.
Quanto al secondo profilo, l’Avvocatura generale dello Stato asserisce che la quota del 60 per cento, quale premio di maggioranza, sarebbe «il punto di equilibrio individuato dal legislatore tra i contrapposti valori della governabilità dell’ente locale e della tutela delle minoranze, tenuto conto che il principio della rappresentanza proporzionale risulta già sacrificato dalla previsione di un correttivo maggioritario nella ripartizione dei seggi, quindi con applicazione di una norma derogatoria rispetto al principio di rappresentatività». E ne ricava la conclusione che ben giustificato sarebbe, perciò, l’arrotondamento all’unità inferiore, se il decimale è inferiore a 50 centesimi: del resto, la maggioranza consiliare potrebbe già contare «su un sostanzioso margine numerico», dovendosi altresì considerare che il premio è attribuito «a scapito della rappresentatività politico-amministrativa della minoranza».
L’argomento testé esposto attribuisce all’intervento legislativo censurato obbiettivi di carattere generale – la riduzione della quota del premio di maggioranza e una sorta di sostegno alle minoranze consiliari, in nome del principio di rappresentatività – che, peraltro, non risultano dall’esame dei lavori preparatori della norma in questione. Esso, in ogni caso, torna a dimostrare che, negli effetti che produce, tale intervento è non già di carattere interpretativo, ma innovativo e correttivo, determinando in concreto, con efficacia retroattiva, una (sia pur limitata) diminuzione dell’entità del premio di maggioranza, in contrasto con il dato desumibile dal testo della disposizione asseritamente interpretata, in evidente lesione dello stesso affidamento nutrito dai candidati alle elezioni, e, in ultima analisi, dagli stessi elettori.
Non spettano al giudice costituzionale, in questa sede, valutazioni sullo specifico sistema elettorale comunale previsto dalla legge regionale siciliana, ed appartiene certamente alla discrezionalità del legislatore regionale modulare, in tale ambito, il rapporto tra premio di maggioranza, da una parte, principio di rappresentatività ed esigenza di tutela delle minoranze consiliari, dall’altra.
Tuttavia, per quel che rileva nell’ambito dello stretto controllo di ragionevolezza sulla disposizione censurata, la presenza nella legge reg. Siciliana n. 35 del 1997 di specifiche condizioni per l’attribuzione del premio (esso non è assegnato se la lista o il gruppo di liste collegate al sindaco eletto abbia già conseguito almeno il 60 per cento dei seggi; se un’altra lista o gruppo di liste abbiano superato il 50 per cento dei voti validi; se, in caso di sindaco eletto al primo turno, la lista o il gruppo di liste allo stesso collegate non abbiano conseguito almeno il 40 per cento dei voti validi) illustra con evidenza che non sussistono, in nome dei principi costituzionali di rappresentatività e tutela delle minoranze, impellenti necessità costituzionali a sostegno dell’intervento correttivo con effetti retroattivi realizzato dalla norma censurata.
Se, come sembra intendere l’Avvocatura generale dello Stato, un intervento normativo correttivo di tal segno sia invece necessario, questo è ovviamente nella disponibilità del legislatore regionale, ma non può avvenire, come invece è accaduto nel caso all’odierno esame, sotto le mentite spoglie di una norma di interpretazione autentica che mantiene in vita l’assegnazione, «comunque», di un premio attestato «almeno» sulla soglia del 60 per cento.
In definitiva, l’attribuzione alla disposizione interpretata di un significato non desumibile dal suo testo originario, la produzione di effetti retroattivi in lesione della certezza del diritto in materia elettorale, la conseguente violazione dell’affidamento nutrito, in tale materia, dai candidati alle elezioni (e dagli stessi elettori) determinano l’illegittimità costituzionale, per irragionevolezza, dell’art. 3 della legge reg. Siciliana n. 6 del 2020.
Restano assorbiti i motivi di censura relativi agli altri parametri costituzionali evocati.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 della legge della Regione Siciliana 3 marzo 2020, n. 6 (Rinvio delle elezioni degli organi degli enti di area vasta. Disposizioni varie).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 gennaio 2022.
F.to:
Giuliano AMATO, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 10 marzo 2022.