ORDINANZA N. 122
ANNO 2016
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 130 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A), promosso dal Tribunale ordinario di Viterbo, in funzione di giudice dell’esecuzione, nel procedimento vertente tra C.M. e V.D. ed altro, con ordinanza del 18 giugno 2014, iscritta al n. 21 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 20 aprile 2016 il Giudice relatore Aldo Carosi.
Ritenuto che con ordinanza del 18 giugno 2014, iscritta al n. 21 del registro ordinanze 2015, il Tribunale ordinario di Viterbo, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 130 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A), in riferimento agli artt. 1, primo comma, 3, 24, secondo e terzo comma, 35, primo comma, 36, primo comma, e 111, primo comma, della Costituzione;
che in punto di rilevanza il giudice rimettente riferisce che all’esito di un procedimento di pignoramento presso terzi, dove la creditrice istante era stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato, la medesima ha domandato l’assegnazione del credito ed il suo avvocato ha chiesto la liquidazione degli onorari relativi al procedimento di esecuzione ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002 e quindi sarebbe tenuto a liquidare le spese dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 95 del codice di procedura civile, a carico del debitore, assegnando i relativi importi dovuti dal terzo pignorato, in favore dell’erario, con prelazione sul ricavato dall’esecuzione a norma dell’art. 135 del d.P.R. n. 115 del 2002;
che l’art. 130 del d.P.R. n. 115 del 2002 dispone che «Gli importi spettanti al difensore, all’ausiliario del magistrato e al consulente tecnico di parte sono ridotti della metà» e che in forza di tale disposizione, il giudice dovrebbe dimezzare l’importo medio previsto in funzione del valore della controversia ed attribuirlo al professionista solo nella misura così risultante;
che, in punto di non manifesta infondatezza, secondo il rimettente tale disposizione violerebbe l’art. 3 Cost. sotto i profili del principio di uguaglianza e di ragionevolezza in quanto vi sarebbe una disparità di remunerazione tra quanto spettante al difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato e quanto dovuto, secondo la tariffa professionale, ai difensori delle altre parti;
che sarebbero inoltre violati gli artt. 1, 35 e 36 Cost., che tutelano il diritto al lavoro e all’equo compenso per il lavoro prestato, senza discriminazioni;
che la disposizione impugnata violerebbe altresì gli artt. 24, secondo e terzo comma, e 111, primo comma, Cost., in relazione alla parità processuale delle parti in giudizio, in quanto, nel caso di specie, essendo positivo il risultato del pignoramento, lo Stato potrebbe recuperare, con prelazione sulle somme dovute dal terzo pignorato al debitore, l’importo degli onorari previsti dalla tariffa di cui al decreto del Ministro della Giustizia 10 marzo 2014, n. 55 (Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense, ai sensi dell’articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247) e, quindi, la riduzione degli importi degli onorari difensivi prevista dall’art. 130 del d.P.R. n. 115 del 2002 produrrebbe il solo effetto concreto di avvantaggiare il debitore inadempiente, che godrebbe di un dimezzamento di quanto dovuto a titolo di onorario al difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato mentre, quest’ultima, potrà essere condannata a pagare gli onorari per intero alla controparte;
che l’art. 130 del d.P.R. n. 115 del 2002 incoraggerebbe quindi i soggetti economicamente più forti ad agire o resistere in giudizio in danno di soggetti economicamente più deboli;
che tale dimezzamento degli onorari non sarebbe indispensabile per tutelare l’interesse pubblico al contenimento della spesa, dal momento che, di regola, l’erario potrebbe recuperare quanto anticipato in forza del diritto di prelazione sul ricavato della esecuzione;
che, sebbene il rimettente affermi di essere consapevole che in passato la Corte costituzionale si era già pronunciata in più occasioni per la manifesta infondatezza della questione con le ordinanze n. 270 del 2012, n. 201 del 2006, n. 350 del 2005, nondimeno ritiene che in quelle occasioni non sarebbe stata affrontata la questione inerente la differenza tra le posizioni processuali delle parti, in relazione alla possibile condanna alle spese ai danni della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato;
che, in via subordinata, il giudice rimettente solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 130 del d.P.R. n. 115 del 2002 per violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. e per violazione degli artt. 24 e 111 Cost., nonché degli artt. 1, 35 e 36 Cost., nella parte in cui non prevederebbe che, in caso di effettiva possibilità di recupero integrale delle spese di lite a carico del soccombente, gli onorari spettanti al difensore per l’attività prestata vadano determinati in base alla tariffa forense, senza dimidiazione;
che si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per la manifesta infondatezza delle questioni prospettate per le ragioni già esposte dalla Corte costituzionale da ultimo nelle ordinanze n. 201 del 2006 e n. 350 del 2005;
che, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, patrocinio erariale, quanto affermato in precedenza in relazione all’infondatezza delle questioni prospettate alla luce dell’art. 3 Cost. condurrebbe anche ad escludere la fondatezza delle censure aventi ad oggetto la violazione degli artt. 24, secondo e terzo comma, e 111, primo comma, Cost., data la loro derivazione dalla affermata violazione del principio di uguaglianza;
che, si prosegue, la mancata trattazione nel giudizio costituzionale definito con la citata ordinanza n. 270 del 2012 della questione relativa al trattamento tra la parte ammessa al gratuito patrocinio e la controparte in punto di diversa modulazione dell’obbligo di pagamento alla parte vittoriosa delle spese processuali (per intero quanto alla parte ammessa al gratuito patrocinio e nella misura risultante a norma dell’art. 130 del d.P.R. n. 115 del 2002 quanto alla parte abbiente) non sarebbe idonea ad aggiungere alcun rilevante profilo di novità;
che, infine, dovrebbe comunque essere escluso che ricorra una iniusta locupletatio dell’erario, stante che, in casi equiparabili a quello del giudizio a quo, la giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione sesta penale, 8 novembre – 14 dicembre 2011, n. 46537) avrebbe puntualizzato che la somma che va rifusa in favore dello Stato deve coincidere con quella che lo Stato liquida al difensore del soggetto non abbiente.
Considerato che il Tribunale ordinario di Viterbo, in funzione di giudice dell’esecuzione, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 130 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A), in riferimento agli artt. 1, primo comma, 3, 24, secondo e terzo comma, 35, primo comma, 36, primo comma, e 111, primo comma, della Costituzione;
che questioni analoghe a quella sollevata dal Tribunale ordinario di Viterbo, in funzione di giudice dell’esecuzione, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo e terzo comma, e 111, primo comma, Cost., sono state già affrontate da precedenti pronunce di questa Corte e risolte nel senso della manifesta infondatezza;
che con riguardo alla disparità di trattamento fra avvocati, i quali subiscono la riduzione della metà dei compensi nell’ipotesi in cui la liquidazione giudiziale concerna difese apprestate nei confronti di soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato, questa Corte ha già affermato che la specifica disciplina applicabile al patrocinio dei non abbienti è connotata da «peculiari connotati pubblicistici» (ordinanza n. 387 del 2004), che rendono le fattispecie disomogenee;
che ciò è coerente con il margine di ampia discrezionalità di cui il legislatore gode nel dettare le norme processuali (da ultimo, ordinanza n. 26 del 2012), nel cui novero sono comprese anche quelle in materia di spese di giustizia (ordinanza n. 446 del 2007);
che, sempre con riferimento alla violazione dell’art. 3 Cost. – questa volta ravvisata nell’esistenza di una più ridotta platea di professionisti disposta a difendere i soggetti ammessi al patrocinio a spese dello Stato, rispetto a quella cui può attingere il soggetto ordinario – questa Corte ha affermato «che la censura sollevata dal rimettente si risolv[e] palesemente nella doglianza avverso un – peraltro solo postulato – inconveniente di fatto non direttamente riconducibile alla applicazione della disposizione censurata ma, semmai, cagionato da scelte professionali del ceto forense» (ordinanza n. 270 del 2012);
che «deve essere escluso […] che, ove sia pronunziata condanna alle spese di giudizio a carico della controparte del soggetto ammesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, vi sia una iniusta locupletatio dell’Erario, atteso che, anche recentemente, la giurisprudenza di legittimità ha puntualizzato che la somma che, ai sensi dell’art. 133 d.lgs. n. 115 del 2002, va rifusa in favore dello Stato deve coincidere con quella che lo Stato liquida al difensore del soggetto non abbiente (Corte di cassazione, Sez. VI penale, 8 novembre 2011, n. 46537)» (ordinanza n. 270 del 2012);
che è stato inoltre chiarito che «la garanzia costituzionale del diritto di difesa non esclude, quanto alle sue modalità, la competenza del legislatore a darvi attuazione sulla base di scelte discrezionali non irragionevoli (v., tra le altre, sentenza n. 394 del 2000; ordinanza n. 299 del 2002); […] che la circostanza dedotta secondo cui il sistema di liquidazione degli onorari civili impone al difensore di prestare la propria opera per un compenso inferiore al minimo previsto, che, normalmente, costituirebbe infrazione ai doveri deontologici e fatto suscettibile di sanzione disciplinare, è costituzionalmente irrilevante ove si tenga presente che il sistema di liquidazione è imposto da una norma di legge, che, come tale, può legittimamente derogare anche ai minimi tariffari» (ordinanza n. 350 del 2005; in senso conforme, ordinanza n. 201 del 2006);
che, pertanto, secondo il costante orientamento di questa Corte, già rammentato nella citata ordinanza n. 270 del 2012 proprio con riferimento al patrocinio a spese dello Stato, il legislatore gode di un’ampia discrezionalità nel dettare le norme processuali, comprese quelle che stabiliscono le modalità di realizzazione del diritto di difesa nonchè quelle in materia di spese di giustizia (ex multis, sentenze n. 243 del 2014, punto 2. del Considerato in diritto, e n. 157 del 2014, punto 4.1. del Considerato in diritto);
che la stessa Corte di cassazione ha affermato che il «criterio di determinazione del compenso spettante al professionista che difende la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato in un giudizio civile, con la previsione dell’abbattimento nella misura della metà della somma risultante in base alle tariffe professionali, non impone al professionista un sacrificio tale da risolvere il ragionevole legame tra l’onorario a lui spettante ed il relativo valore di mercato, trattandosi, semplicemente, di una, parzialmente diversa, modalità di determinazione del compenso medesimo, tale da condurre ad un risultato sì economicamente inferiore a quello cui si sarebbe giunti applicando il criterio ordinario, e tuttavia ragionevolmente proporzionato, e giustificato dalla considerazione dell’interesse generale che il legislatore ha inteso perseguire, nell’ambito di una disciplina, mirante ad assicurare al non abbiente l’effettività del diritto di difesa in ogni stato e grado del processo, nella quale la liquidazione degli onorari professionali è suscettibile di restare a carico dell’erario» (Corte di Cassazione, sezione seconda civile, sentenza 23 aprile 2013, n. 9808 del 2013);
che gli ulteriori profili in precedenza non considerati e che, secondo il rimettente, verrebbero in evidenza nel caso di specie, laddove la parte abbiente si avvantaggerebbe della condizione economica disagiata della controparte ammessa al gratuito patrocinio e agirebbe sapendo di godere di un trattamento privilegiato in ordine alle spese processuali, si risolvono in realtà nella prospettazione di eventuali ricadute pratiche, vale a dire di mero fatto, in sede di applicazione della normativa censurata, sia in relazione all’accesso al gratuito patrocinio a spese dello Stato a favore della parte non abbiente, la quale potrebbe non farne richiesta o potrebbe vedere l’istanza respinta, sia in relazione all’esito del giudizio che conduca alla soccombenza a carico della parte abbiente, la quale, quindi, per beneficiare del presunto privilegio dovrebbe risultare soccombente;
che questa Corte ha già avuto in più occasioni modo di affermare l’irrilevanza nel giudizio di costituzionalità di eventuali inconvenienti di fatto, che possono indirettamente derivare dalla disposizione censurata (ordinanza n. 112 del 2013; sentenze n. 247 del 2011; n. 329 e 298 del 2009; n. 86 del 2008 e ordinanza n. 123 del 2007) e che assumono il carattere di rilievi di opportunità (ordinanza n. 376 del 2007), per tale ragione attinenti a «materia propria dell’osservazione dei giudici di merito» (ordinanza n. 375 del 2006);
che, pertanto, tali questioni devono ritenersi manifestamente infondate;
che, con riguardo alle rimanenti doglianze prospettate in riferimento agli artt. 1, primo comma, 35, primo comma, e 36, primo comma, Cost., il giudice rimettente si limita ad evocare i parametri costituzionali sopra indicati senza argomentare in alcun modo in ordine alla loro asserita violazione ed esse devono quindi essere dichiarate manifestamente inammissibili (ex plurimis, ordinanze n. 202 del 2009, n. 206, n. 204, n. 54 e n. 32 del 2008);
che, infine, con riguardo alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 130 del d.P.R. n. 115 del 2002 proposta, in via subordinata, in riferimento ai medesimi parametri, nella parte in cui la norma impugnata non prevederebbe che – in caso di effettiva possibilità di recupero integrale delle spese di lite a carico del soccombente – gli onorari spettanti al difensore per l’attività prestata vadano determinati in base alla tariffa forense senza dimidiazione, tale questione comporterebbe una pronuncia additiva;
che tuttavia tale tipo di pronuncia, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, presuppone l’impossibilità di superare la “norma negativa”, affetta da incostituzionalità, per via d’interpretazione, nonché l’esistenza di un’unica soluzione costituzionalmente obbligata (cosiddetta a “rime obbligate”; ex plurimis, sentenze n. 241, n. 81 e n. 30 del 2014), in particolare quando «“il petitum formulato si connota per un cospicuo tasso di manipolatività, derivante anche dalla ‘natura creativa’ e ‘non costituzionalmente obbligata’ della soluzione evocata (sentenze n. 241, n. 81 e n. 30 del 2014; ordinanza n. 190 del 2013)” (sentenza n. 241 del 2014), tanto più in materie rispetto alle quali è stata riconosciuta ampia discrezionalità del legislatore (sentenza n. 277 del 2014)» (sentenza n. 23 del 2016);
che, diversamente, il petitum formulato dal giudice dell’esecuzione del Tribunale ordinario di Viterbo non si configura come soluzione costituzionalmente obbligata alla stregua del quadro normativo di riferimento e dell’ampia discrezionalità spettante al legislatore in materia processuale, talché anche la questione sollevata in via subordinata deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 130 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo e terzo comma, e 111, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Viterbo, in funzione di giudice dell’esecuzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 130 del d.P.R. n. 115 del 2002, sollevate, in riferimento agli artt. 1, primo comma, 35, primo comma, e 36, primo comma, Cost., dal medesimo Tribunale ordinario di Viterbo, in funzione di giudice dell’esecuzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe;
3) dichiara manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 130 del d.P.R. n. 115 del 2002 sollevata, in via subordinata, in riferimento agli artt. 1, 3, 24, 35, 36 e 111 Cost., dal medesimo Tribunale ordinario di Viterbo, in funzione di giudice dell’esecuzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 aprile 2016.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Aldo CAROSI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2016.