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SENTENZA
N. 247
ANNO
2011
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME
DEL POPOLO ITALIANO
composta
dai signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Alfio FINOCCHIARO Giudice
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
- Giorgio LATTANZI "
ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto del terzo comma dell’art. 57 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto) – comma inserito dal comma 25 dell’art. 37 del decreto-legge del 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 – e del comma 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006, promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli, nel corso di due giudizi riuniti vertenti tra la ricorrente s.r.l. Dagar e la resistente Agenzia delle entrate, ufficio di Nola, con ordinanza depositata il 29 aprile 2010, iscritta al n. 266 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visti l’atto di costituzione della s.r.l. Dagar e l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 5 luglio 2011 il Giudice relatore Franco Gallo;
uditi gli avvocati Livia Salvini e Mario Papa per la s.r.l. Dagar nonché l’avvocato dello Stato Sergio Fiorentino per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in
fatto
1. – Nel corso di due
giudizi riuniti promossi da una società a responsabilità limitata avverso due
avvisi di accertamento dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) riguardanti,
rispettivamente, gli anni 2002 e 2003,
Il censurato terzo
comma del citato art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972,
nel testo in vigore dal 4 luglio 2006, stabilisce che, «In caso di violazione
che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 del codice di procedura
penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74,
i termini di cui ai commi precedenti [cioè, nel testo applicabile ratione temporis ai
due suddetti periodi d’imposta in contestazione: in caso di presentazione della
dichiarazione, entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di
presentazione della dichiarazione, aumentato – nel caso di richiesta di
rimborso dell’eccedenza d’imposta detraibile risultante dalla dichiarazione –
di un periodo di tempo pari a quello compreso tra il sedicesimo giorno successivo
a quello di notificazione della richiesta di documenti da parte dell’ufficio e
la data di consegna di tali documenti; in caso di omessa presentazione della
dichiarazione, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui
la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata] sono raddoppiati
relativamente al periodo d’imposta in cui è stata commessa la violazione».
Inoltre, il comma 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006 prevede che
«Le disposizioni di cui ai commi 24 [relativo alle imposte sui redditi] e 25
[relativo all’IVA] si applicano a decorrere dal periodo d’imposta per il quale
alla data di entrata in vigore del presente decreto sono ancora pendenti i
termini di cui al primo e secondo comma dell’art. 43 del d.P.R.
29 settembre 1973, n. 600 [relativo alle imposte sui redditi] e dell’art. 57
del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 [relativo, come
visto, all’IVA]».
Tali disposizioni
sono denunciate, in base a quanto espressamente indicato nel dispositivo
dell’ordinanza di rimessione, nella parte in cui non prevedono che, in presenza
delle ipotesi di reato previste dal d.lgs. n. 74 del 2000: 1) la normativa sia
applicabile solo alle annualità successive al 2006, anno nel quale sono entrati
in vigore i commi 25 e 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006; 2)
«l’eventuale denuncia» ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen. debba essere
presentata anteriormente allo spirare dei termini di cui ai primi due commi
dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972.
1.1. – Secondo quanto
premesso, in punto di fatto, dal giudice rimettente: a) la società aveva
richiesto la definizione automatica dell’IVA "per gli anni pregressi” 2001 e
2002, ai sensi dell’art. 9 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni
per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge
finanziaria 2003), ed aveva utilizzato negli anni successivi il credito di €
146 milioni, risultante dalla dichiarazione, per compensare l’IVA a debito
relativa ad anticipi su forniture fatturate ad altra società dello stesso
gruppo; b) l’Agenzia delle entrate aveva apposto un diniego alla suddetta
domanda di definizione agevolata dei rapporti tributari, affermando che la
dichiarazione di condono non era comprensiva di tutti i periodi di imposta
ancora accertabili, come invece richiesto dalla legge; c)
1.2. – Su tali
premesse, il giudice a quo deduce che
le disposizioni denunciate violano: a) gli artt. 3 e 24 Cost., nonché l’art. 3,
ultimo comma, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di
statuto dei diritti del contribuente) – in quanto applicativo degli artt. 3,
23, 53 e 97 Cost. –, perché irragionevolmente prorogano o riaprono, per gli
accertamenti delle imposte, termini di decadenza ormai «scaduti», cosí ledendo l’esigenza di «certezza dei rapporti
giuridici» ed il diritto di difesa dei contribuenti; b) l’art. 24 Cost., perché
la denuncia penale, se proposta dopo il decorso degli ordinari termini di
decadenza, potrebbe intervenire quando il contribuente, ritenendo non piú accertabile il rapporto tributario, non sia piú in possesso delle scritture e dei documenti contabili
(che, ai sensi dell’art. 22 del d.P.R. 29 settembre
1973, n. 600, è tenuto a conservare fino alla definizione degli accertamenti
relativi al corrispondente periodo d’imposta); c) lo stesso art. 24 Cost.,
perché, non prevedendo un «ragionevole» ed «oggettivamente determinato» termine
di notificazione dell’atto impositivo e consentendo «una distanza eccessiva tra
il fatto e la contestazione», comportano una «indeterminata soggezione del
contribuente all’azione esecutiva del fisco» e, quindi, vanificano la difesa
del contribuente; d) gli artt. 3 e 97 Cost., perché, non condizionando il
raddoppio dei termini né all’avvio dell’azione penale prima del decorso degli
ordinari termini di decadenza dall’accertamento né all’esito di tale azione,
attribuiscono all’amministrazione finanziaria − irragionevolmente ed in
contrasto con i princípi di imparzialità e di buon
andamento − il potere discrezionale di estendere i termini
dell’accertamento, in base ad una soggettiva e non controllabile valutazione
circa la necessità di presentare denuncia penale per violazioni ricondotte ad
ipotesi di reato, «magari su elementi puramente indiziari e strumentalmente enfatizzati»;
e) l’art. 3 Cost., perché, «consentendo discipline differenziate per la
notifica dell’accertamento», introducono «irragionevoli elementi di disparità
di trattamento»; f) l’art. 25 Cost., perché, in presenza di ipotesi di reato
previste dal d.lgs. n. 74 del 2000 per le quali vi sia l’obbligo di denuncia,
rendono retroattivamente applicabile la sanzione del raddoppio dei termini per
l’accertamento dell’imposta.
1.3. – Quanto alla rilevanza delle
questioni, il giudice rimettente afferma che, nella specie, sono state
riscontrate dalla Guardia di finanza ipotesi di reato previste dal d.lgs. n. 74
del 2000 per le quali vi è l’obbligo di denuncia e che pertanto, nei giudizi
principali riuniti, occorre fare applicazione delle disposizioni denunciate. A
quest’ultimo riguardo precisa che tali disposizioni sono entrate in vigore
anteriormente alla scadenza del termine ordinario per gli avvisi di
accertamento impugnati.
2. – La società a responsabilità
limitata ricorrente nei giudizi riuniti a
quibus si è costituita in giudizio aderendo alla prospettazione del rimettente e deducendo, pertanto, la
fondatezza e la rilevanza delle sollevate questioni.
2.1. – La fondatezza deriverebbe dalla
natura retroattiva e sanzionatoria delle disposizioni denunciate, le quali comporterebbero,
per effetto di una valutazione meramente discrezionale ed incontrollabile
dell’amministrazione finanziaria, la reviviscenza o la proroga di poteri di
accertamento fiscali e comunque la soggezione del contribuente all’azione accertativa dell’erario per periodi di tempo indefiniti od
eccessivamente lunghi.
Al riguardo, la parte afferma che la
disciplina denunciata, ove ricorra l’obbligo di denuncia dei reati previsti dal
d.lgs. n. 74 del 2000, consente – in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. – la
«reviviscenza» di poteri accertativi «già esauriti» per decorso dei termini decadenziali ordinari fissati dai primi due commi dell’art.
57 del d.P.R. n. 633 del 1972 per l’accertamento
dell’IVA o comunque la loro «proroga». A suo avviso, tale ampliamento temporale
dei poteri di accertamento non soddisfarebbe alle due condizioni che la
giurisprudenza della Corte costituzionale richiede per la legittimità
costituzionale delle norme che prevedono il prolungamento di termini di
accertamento fiscale già scaduti o ancora pendenti: e cioè, da un lato, la
sussistenza di un’obiettiva esigenza di razionalizzazione, al fine di
fronteggiare una situazione contingente, eccezionale, straordinaria e generale,
e, dall’altro, la possibilità per il contribuente di esercitare il proprio
diritto di difesa, senza subire limitazione alcuna (vengono citate le sentenze n. 356 del 2008
e n. 238 del
1984). Nella specie, infatti, non ricorrerebbe alcuna situazione
eccezionale idonea a giustificare la normativa censurata. Tale difetto di
eccezionalità sarebbe ancora piú evidente ove il
prolungamento dei termini di accertamento si ritenesse applicabile – come
sostiene l’amministrazione finanziaria – non solo in relazione a fatti di
rilievo penale ed agli elementi acquisiti in sede penale, ma anche per «le
ipotesi di violazioni fiscali […] verificabili nel termine ordinario e […]
estranee a quelle correlate al fatto costituente il reato». Da tutto ciò
deriverebbe, sempre a parere della suddetta società, la violazione del
principio della certezza dei rapporti giuridici e, per l’effetto, la lesione
del diritto di difesa del contribuente. La medesima società riferisce che,
proprio per tali ragioni, con «atto prot. n. 1089/09
del 19 novembre 2009», il Garante del contribuente per
2.1.2. – La contribuente deduce, poi,
che la disposizione denunciata, estendendo i termini di accertamento fiscale
oltre il limite temporale dell’obbligo di conservazione della documentazione
contabile previsto dall’art. 22 del d.P.R. n. 600 del
1973 (che lo fissa fino alla definizione degli accertamenti relativi al
corrispondente periodo d’imposta), «assoggetta il contribuente ad un
pregiudizio nella sua difesa», in violazione dell’art. 24 Cost. Nella specie,
il pregiudizio deriverebbe dalla «reviviscenza, a termine già spirato, del
potere di accertamento», in quanto – sempre ad avviso della parte – il termine
era scaduto nel 2006 e nel 2007 per i periodi d’imposta rispettivamente del
2001 e del 2002 e, quindi, non v’era piú l’obbligo di
conservare le scritture contabili e le fatture relative a detti periodi, «non
solo quando
2.1.3. – L’indicata società a
responsabilità limitata, con riferimento alla lesione dell’art. 24 Cost.
(prospettata sotto il profilo dell’eccessività ed imprevedibilità del raddoppio
dei termini di accertamento), pone in rilievo che l’incertezza dell’estensione
temporale del potere accertativo deriva dalla mera
eventualità dell’emersione, secondo l’opinione dell’amministrazione
finanziaria, di un delitto previsto dal d.lgs. n. 74 del 2000, cioè da una
circostanza "casuale”, non oggettiva, imprevedibile, «del tutto eventuale,
incerta e comunque indipendente dal dominio dell’accertato», in quanto rimessa
– per effetto del sopra menzionato regime di autonomia tra processo penale e
tributario (cosiddetto «doppio binario») – alla sola valutazione discrezionale
della stessa amministrazione procedente. La parte ammette che «il Giudice
tributario, quale organo di controllo della legittimità dell’azione accertativa, una volta adíto dal
contribuente, potrà ritenere […] insussistente il presupposto del raddoppio dei
termini […] a prescindere dagli esiti del parallelo giudizio penale […] e, per
l’effetto, annullare gli avvisi emessi dall’Agenzia delle Entrate». La stessa
parte aggiunge, tuttavia, che «ciò non vale a rendere ragionevole il potere accertativo» di cui alle disposizioni censurate e ad
evitare che l’imprevedibilità e l’eccessiva durata del termine da esse previsto
ledano il diritto di difesa del contribuente, data la «dignità costituzionale
dell’esigenza del contribuente ad essere assoggettato ad un termine non
eccessivamente lungo» (vengono richiamate, in relazione a tale principio, le
sentenze della Corte costituzionale n. 11 del 2008
e n. 280 del
2005). Tale conclusione sarebbe avvalorata dalla consolidata giurisprudenza
della Corte di cassazione concernente l’art. 84 del d.P.R.
n. 431 del 1973 (Testo unico in materia doganale), il quale, ad avviso della
medesima parte, «presenta forti analogie» rispetto a quella censurata,
disponendo che «L’azione dello Stato per la riscossione dei diritti doganali si
prescrive nel termine di tre anni. […] Qualora il mancato pagamento […] dei
diritti abbia causa da un reato, il termine di prescrizione decorre dalla data
in cui il decreto o la sentenza, pronunciati nel procedimento penale, sono
divenuti irrevocabili». La contribuente sottolinea che
2.1.4. – In riferimento alla violazione
degli artt. 3 e 97 Cost., la contribuente, sempre a sostegno dell’ordinanza di
rimessione, osserva che il censurato terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 non può essere inteso nel senso che
il raddoppio dei termini di accertamento presupponga un accertamento giudiziale
definitivo del reato, perché tale interpretazione è impedita dalla vigenza del
principio del cosiddetto «doppio binario» tra accertamento penale e tributario,
comportante l’inesistenza sia di una pregiudiziale penale nell’accertamento
delle violazioni fiscali (art. 654 cod. proc. pen.; art. 20 del d.lgs. n. 74
del 2000; art. 12 del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429, recante «Norme per
la repressione della evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore
aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria»,
convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1982, n. 516), sia di una
pregiudiziale tributaria nell’accertamento delle violazioni penali (venuta meno
con l’abrogazione, ad opera del citato decreto-legge n. 429 del 1982,
dell’ultimo comma dell’art. 21 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, recante «Norme
generali per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie»). Poiché
né l’amministrazione finanziaria né il giudice tributario sono vincolati ai
provvedimenti dell’autorità giudiziaria penale, siano essi favorevoli
(archiviazione; declaratoria di prescrizione; assoluzione nel merito) o
sfavorevoli al contribuente, ne deriva – prosegue la società – che il
denunciato raddoppio dei termini consegue ad una valutazione irragionevolmente
lasciata all’amministrazione finanziaria, la quale, esercitando un «potere […]
abnorme» e non disinteressato, può ravvisare nella fattispecie da essa
esaminata uno o piú reati previsti dal d.lgs. n. 74
del 2000, per effetto di «mere congetture», secondo una «discrezionalità […]
libera di trasmodare in arbitrio, o, comunque, di risolversi in una scelta
libera e svincolata da valutazioni comparative». La prospettata illegittimità
costituzionale sarebbe, dunque, palese, «tanto laddove […] l’applicabilità»
della disposizione censurata si «ricolleghi […] alla sola denunzia, quanto
laddove l’A.F. mantenga un potere discrezionale in ordine alla valutazione del
fatto di reato». In particolare, ove si ritenesse che l’obbligo di denuncia
sorga non appena il pubblico ufficiale ravvisi il fumus di un reato, con
l’esclusione di ogni sua valutazione sulla ricorrenza di cause di estinzione
del reato o di non punibilità diverse dalla insussistenza del fatto (secondo
quanto precisato da varie decisioni della Corte di cassazione penale),
l’illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate deriverebbe dal
fatto che «si attribuirebbe all’Amministrazione il potere-obbligo di "autogenerare” il presupposto di estensione (o addirittura
di reviviscenza) del proprio potere di accertamento». Ove, invece, «in linea
con la dottrina maggioritaria», si riservasse un margine di discrezionalità
valutativa all’amministrazione finanziaria, cosí da
consentirle di non denunciare quei «fatti […] che, con un minimo di indagine,
si rivelino prima facie
penalmente irrilevanti», l’illegittimità conseguirebbe al fatto che tale
amministrazione verrebbe a trovarsi «in un palese conflitto di interessi»,
posto che il suo fine istituzionale è quello di «perseguire il massimo livello
di adempimento degli obblighi fiscali» (art. 2 dello statuto dell’Agenzia delle
entrate). Né, secondo la medesima parte, l’illegittimità sarebbe evitata dalla
possibilità, per il contribuente, di far sindacare dal giudice tributario la
sussistenza del presupposto per il raddoppio dei termini di accertamento. E ciò
per la duplice ragione che: a) il ricorso tributario costituisce un non
necessario aggravio, ragionevolmente evitabile mediante la predisposizione di
norme recanti termini certi per l’accertamento; b) il giudice tributario non è
in grado di effettuare con completezza il predetto sindacato, perché non può
conoscere in via principale della sussistenza del reato sia per i limiti di
prova del processo tributario sia per il divieto di estensione della
giurisdizione dei giudici speciali stabilito dalla VI
disposizione transitoria e finale della Costituzione.
2.1.5. – Per quanto attiene alla
violazione dell’art. 3 Cost. per ingiustificata disparità di trattamento nei
confronti dei contribuenti in ordine ai termini di notificazione
dell’accertamento, la contribuente osserva che la sottolineata discrezionalità
dell’amministrazione finanziaria nella valutazione dei fatti di reato (che può
portare a determinazioni diverse in casi simili), la natura meramente
"congetturale” della denuncia penale (la quale, di per sé, nulla prova in
ordine alla commissione del fatto reato) e l’assoggettabilità al termine
"lungo” anche per un fatto di reato riferibile ad un soggetto terzo (ad esempio
nell’accertamento nei confronti della società controllante per un fatto di
reato riconducibile alla società controllata, come affermato nella circolare
dell’Agenzia delle entrate n. 54 /E del 2009) rendono irragionevole far
derivare dalla suddetta eventuale denuncia penale (che può provenire dalla
stessa amministrazione finanziaria) l’automatico prolungamento dei termini di
accertamento fiscale (come risulterebbe dalle rationes decidendi delle sentenze della Corte
costituzionale n.
78 del 2005; n.
206 del 1999; n.
296 e n. 173
del 1997). Piú in particolare, la disciplina
censurata comporterebbe – sempre ad avviso della parte – una inevitabile
disparità di trattamento: a) tra reati non lesivi per l’erario (come nel caso
di emissione di una fattura soggettivamente inesistente, per l’importo di un
solo euro), per i quali opererebbe il raddoppio dei termini, e violazioni
tributarie prive di rilevanza penale, ma dannose per l’erario (come nel caso di
dichiarazione infedele dell’importo di € 100.000,00 e, quindi, al di sotto
della soglia di punibilità prevista dall’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000),
assoggettate al termine ordinario di accertamento; b) tra «identici
contribuenti», casualmente «assoggettati a termini differenti», a seconda che
siano stati raggiunti o no «da una determinazione dell’Autorità giudiziaria
(ripresa dall’Amministrazione finanziaria) in ordine ad una fattispecie di
reato ai sensi del d.lgs. n. 74 del 2000»; c) tra contribuenti che si trovano
nella «medesima situazione sostanziale», «esposti […] a trattamenti
differenziati, […] in ragione di scelte dell’Amministrazione, sganciate da ogni
ragionevole parametro di controllo». La società costituita rileva, infine, che il
delineato conflitto tra principio di eguaglianza e norma denunciata, in quanto
derivante dai «caratteri strutturali» della norma e non legato all’applicazione
retroattiva di questa, non potrebbe essere risolto con la considerazione che lo
stesso fluire del tempo costituisce un elemento diversificatore
di situazioni che si svolgono nel tempo (considerazione che costituisce,
invece, la ratio decidendi di
alcune pronunce della Corte costituzionale: ex
multis, sentenze n. 367 del 1987
e n. 238 del
1984)
2.1.6. – Con riferimento, poi, al
denunciato contrasto con l’art. 25 Cost., la contribuente ritiene che il
raddoppio dei termini di accertamento ordinari in presenza di reati previsti
dal d.lgs. n. 74 del 2000, per i quali vi sia obbligo di denuncia, si configuri
non come lo strumento "procedimentale” per soddisfare l’esigenza di utilizzare
«per un tempo piú ampio di quello ordinario gli
elementi istruttori emersi nel corso delle indagini condotte dall’autorità
giudiziaria» (secondo quanto affermato nella relazione di accompagnamento al
decreto-legge n. 223 del 226), ma come una «sanzione impropria», cioè come una
conseguenza avente «prioritariamente funzione repressiva» e rientrante, perciò,
nell’ampia nozione di «pena» di cui all’art. 7 della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo del 21 marzo 2006. La natura essenzialmente punitiva della
disciplina sarebbe evidenziata sia dalla lettera della legge, che fa discendere
dal presupposto della sussistenza di un reato previsto dal d.lgs. n. 74 del
2000 un generale potere accertativo, oltretutto
«esercitabile (anche) in relazione a fatti diversi da quelli costituenti il
reato presupposto» (viene richiamata, a sostegno di tale argomentazione, la
circolare 1° febbraio 2008 prot. n. 35534 del Comando
generale della Guardia di finanza, ufficio tutela entrate), sia dalla
retroattività della norma, applicabile anche ai periodi d’imposta ancora
accertabili al momento dell’entrata in vigore del decreto-legge n. 223 del
2006, tanto da comportare – in forza di una vera e propria «reviviscenza» del
potere accertativo – la tempestività della
notificazione, nel 2008, di un avviso di accertamento relativo al periodo
d’imposta 2002, per il quale il termine ordinario di accertamento era già
venuto meno il 31 dicembre 2007. L’applicazione retroattiva della "sanzione”
del raddoppio del termine ad un fatto commesso prima del 4 luglio 2006, cioè
prima della data di entrata in vigore del decreto-legge n. 223 del 2006 che la
prevede, violerebbe, pertanto, non solo il secondo comma dell’art. 25 Cost., ma
anche la presunzione di non colpevolezza di cui al secondo comma dell’art. 27
Cost., perché deriverebbe non da un accertamento definitivo del reato, ma da
una valutazione dell’amministrazione finanziaria che sarebbe solo
imperfettamente controllabile in via incidentale dal giudice tributario, privo
degli strumenti di cognizione propri del giudice penale.
2.2. – Infine, ad avviso della parte, la
rilevanza delle questioni deriverebbe: a) dalla necessità di applicare nei
giudizi riuniti a quibus
il denunciato terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n.
633 del 1972, data la sua efficacia retroattiva e posto che gli avvisi di
accertamento impugnati sono stati notificati dopo «l’inutile decorso
dell’ordinario termine quadriennale» previsto dal primo comma dello stesso art.
57 e dopo che l’organo verificatore, in data 6 giugno 2008, aveva segnalato la
sussistenza di fatti penalmente rilevanti ai sensi del d.lgs. n. 74 del 2000
alla competente Procura della Repubblica (la quale aveva poi proceduto
all’iscrizione del legale rappresentante della società nel registro degli
indagati ed allo svolgimento di ulteriori indagini, le cui risultanze, previo
regolare nulla osta rilasciato dall’autorità giudiziaria procedente, erano
state successivamente utilizzate per l’emissione dei suddetti avvisi di
accertamento); b) dal nesso di consequenzialità tra l’accoglimento delle
questioni di legittimità costituzionale e l’accoglimento delle domande della
contribuente nei giudizi principali.
3. – È intervenuto in giudizio il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate
manifestamente inammissibili per difetto di motivazione sulla rilevanza o,
comunque, non fondate.
Quanto all’inammissibilità, la difesa
dello Stato osserva che il rimettente non ha fornito elementi sufficienti ad
evidenziare la necessità dell’applicazione, nei giudizi riuniti a quibus,
della normativa denunciata, in quanto: a) con riguardo alla sentenza n.
185/02/09 – con cui
Quanto alla non fondatezza delle
questioni, l’Avvocatura generale dello Stato rileva innanzitutto che,
contrariamente a quanto affermato nell’ordinanza di rimessione, le disposizioni
denunciate non riaprono termini ormai scaduti, perché riguardano solo periodi
d’imposta o successivi a quelli in corso alla data della loro entrata in vigore
(4 luglio 2006) oppure ancora in corso, ma per i quali, nella medesima data,
non è ancora maturata la decadenza dal potere di accertamento. Ad avviso della
difesa dello Stato, le suddette disposizioni rispondono alla evidente e
ragionevole ratio
di concedere all’amministrazione finanziaria tempi piú
ampi per l’accertamento, al fine di meglio contrastare fenomeni di evasione
fiscale che – integrando le ipotesi di reato perseguibili d’ufficio previste
dal d.lgs. n. 74 del 2000 – sono caratterizzati da maggiore gravità ed
insidiosità, tanto da rendere opportuna l’acquisizione degli elementi
istruttori emersi nel corso delle indagini svolte dall’autorità giudiziaria e
per i quali «occorre anche attendere la rimozione del segreto investigativo».
L’intervenuta Presidenza del Consiglio dei ministri osserva, poi, che il
prolungamento dei termini per l’accertamento non presuppone la materiale
presentazione della denuncia penale, essendo sufficiente la «presenza di
fattispecie implicanti in astratto l’obbligo di denuncia». In particolare, la
difesa dello Stato nega che gli evocati parametri siano violati, perché: a)
quanto ai princípi di eguaglianza e ragionevolezza,
la diversa ampiezza dei termini di accertamento trova giustificazione nella
«maggiore pericolosità delle fattispecie di evasione realizzate attraverso
modalità delittuose»; b) quanto all’imparzialità, la necessità di un controllo
del giudice del caso concreto circa la serietà della prospettazione
di ipotesi investigative che possano condurre all’accertamento dei fatti reati
indicati dalle disposizioni denunciate esclude il prospettato pericolo della
strumentalità od arbitrarietà del comportamento dell’amministrazione
finanziaria; c) quanto al diritto di difesa, la mancata conservazione della
documentazione contabile da parte del contribuente deriva da una sua scelta
personale, non conforme a legge (dato l’obbligo di conservazione previsto
dall’art. 22 del d.P.R. n. 600 del 1973); d) sempre
quanto al diritto di difesa, il termine censurato opera entro confini certi e
non comporta la denunciata indefinita soggezione del contribuente all’azione di
accertamento degli uffici tributari (viene citata la sentenza di questa
Corte n. 356 del 2008, punto 7 della motivazione); e) quanto al principio
di irretroattività delle sanzioni penali, il censurato raddoppio dei termini
non ha natura sanzionatoria, ma mira a consentire l’accertamento della reale
capacità contributiva anche in presenza di fattispecie complesse, quali quelle
riguardanti violazioni tributarie a rilevanza penale.
4. – Nell’imminenza della pubblica
udienza, la società a responsabilità limitata e la difesa dello Stato hanno
depositato memorie difensive a sostegno delle proprie posizioni.
Considerato in diritto
1. –
Detto combinato disposto stabilisce, in
tema di IVA, che: a) «In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai
sensi dell’art. 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti
dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi
precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo d’imposta in cui è stata
commessa la violazione» (art. 57, terzo comma, del d.P.R.
n. 602 del 1973); b) «Le disposizioni di cui ai commi […] 25 [comma che ha
introdotto il citato terzo comma dell’art. 57 del d.P.R.
n. 602 del 1973] si applicano a decorrere dal periodo d’imposta per il quale
alla data di entrata in vigore del presente decreto [4 luglio 2006] sono ancora
pendenti i termini di cui al primo e secondo comma […] dell’art. 57 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633»). In forza di tali
disposizioni e con riguardo agli anni di imposta 2002 e 2003, oggetto degli
avvisi impugnati nei giudizi riuniti a quibus, sono raddoppiati (ove ricorrano le indicate
condizioni) i seguenti termini di accertamento dell’IVA previsti dai primi due
commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972: 1) il
31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della
dichiarazione, aumentato – nel caso di richiesta di rimborso dell’eccedenza
d’imposta detraibile risultante dalla dichiarazione – di un periodo di tempo
pari a quello compreso tra il sedicesimo giorno successivo a quello di
notificazione della richiesta di documenti da parte dell’ufficio e la data di
consegna di tali documenti (primo comma); 2) il 31 dicembre del quinto anno
successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata,
nel caso di omessa presentazione della dichiarazione (secondo comma).
Ad avviso della Commissione tributaria
rimettente, la normativa denunciata víola gli evocati
parametri, nella parte in cui non prevede che: a) la normativa sul raddoppio
dei termini di accertamento sia applicabile solo alle annualità successive
all’anno 2006, nel quale sono entrati in vigore i commi 25 e 26 dell’art. 37
del decreto-legge n. 223 del 2006; b) «l’eventuale denuncia» debba essere
presentata, ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen., anteriormente allo spirare
dei termini di cui ai primi due commi dell’art. 57 del d.P.R.
n. 633 del 1972.
In particolare, vengono prospettate
cinque diverse censure, con riferimento, in primo luogo, agli artt. 3 e 24
della Costituzione, e 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212
(Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente); in secondo
luogo, all’art. 24 Cost.; in terzo luogo, agli artt. 3 e 97 Cost.; in quarto
luogo, all’art. 3 Cost.; in quinto luogo, infine, all’art. 25 Cost.
2. – Prima di esaminare analiticamente
le suddette censure, occorre valutare le eccezioni di inammissibilità sollevate
dall’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui dall’ordinanza di rimessione
emergerebbe l’omessa o l’insufficiente motivazione della rilevanza delle
questioni.
Nessuna di tali eccezioni può essere
accolta.
2.1.− La difesa dello Stato ha eccepito,
innanzitutto, che il rimettente non ha sufficientemente motivato sulla
rilevanza, perché non ha precisato: a) né se la sentenza n. 185/02/09 della
Commissione tributaria provinciale di Napoli, da lui stesso menzionata, che ha
riconosciuto il perfezionamento del cosiddetto "condono tombale” richiesto
dalla società per gli anni 2001 e 2002, abbia un rapporto di pregiudizialità
con i giudizi principali riuniti e, quindi, se il perfezionamento del condono
precluda il potere di accertamento dell’amministrazione finanziaria; b) né se
la medesima decisione sia passata in giudicato; c) né le ragioni della mancata
sospensione, ai sensi dell’art. 295 del codice di procedura civile, dei giudizi
riuniti a quibus,
in attesa della definizione del giudizio sull’efficacia del condono.
L’eccezione non è fondata.
2.1.1.− Va premesso che gli
articoli da
Nella specie, in riferimento all’IVA
2001 e 2002, la contribuente (una società a responsabilità limitata) ha
presentato la domanda di «definizione automatica per gli anni pregressi» di cui
al suddetto art. 9.
2.1.2. − Il rimettente non affronta espressamente il tema dell’incidenza
del perfezionamento del "condono tombale” sul potere accertativo
dell’amministrazione finanziaria. Il silenzio serbato sul punto dall’ordinanza
di rimessione non integra, però, l’eccepita insufficiente motivazione della
rilevanza, perché è giustificato dalla notorietà ed evidenza della ragione
adducibile a sostegno dell’assoluta irrilevanza del condono (ancorché perfezionato)
sui poteri di accertamento dell’amministrazione finanziaria con riferimento
alla sussistenza dei crediti vantati dal contribuente.
Tale ragione risiede nell’incontestata
vigenza del principio, enunciato da questa Corte (ordinanza n. 340
del 2005) e, piú volte, dalla Corte di cassazione
(Cassazione civile, sentenze n. 5586 del 2010 e n. 375 del 2009; ordinanze n.
12337 del 2011 e n. 18942 del 2010; Cassazione penale, sentenza n. 42462 del
2010, emessa proprio con riguardo alla fattispecie di causa), secondo cui il
condono impedisce di accertare i debiti tributari coperti dall’agevolazione, ma
non esclude il potere dell’amministrazione finanziaria – esercitato
concretamente nella specie – di accertare la sussistenza dei crediti
vantati dal contribuente.
Gli avvisi di accertamento impugnati, in
quanto diretti a negare proprio l’esistenza del credito IVA indicato dalla
società contribuente, non possono perciò essere influenzati dal condono tombale
precedentemente richiesto dalla contribuente stessa (e ciò indipendentemente
dall’efficacia di tale condono). Da ciò consegue che: a) non sussiste alcuna
pregiudizialità tra la controversia sulla legittimità del diniego di condono ed
i giudizi a quibus;
b) non era necessaria una specifica motivazione al riguardo da parte del
rimettente, avendo egli correttamente applicato nella specie un principio – da
considerare diritto vivente – la cui sussistenza e pertinenza al caso concreto
dovevano darsi per scontate; c) il rimettente non aveva alcuna ragione per
sospendere i giudizi principali fino alla definizione della controversia sulla
validità del condono; e ciò anche a prescindere dal fatto che, in ogni caso,
detta sospensione non sarebbe stata consentita dagli artt. 2, comma 3, e 39 del
decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo
tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della
legge 30 dicembre 1991, n. 413), i quali limitano le ipotesi di sospensione ai
casi di querela di falso e di questioni di stato e capacità delle persone
(diversa dalla capacità di stare in giudizio) ed impongono al giudice, in tutti
gli altri casi, di risolvere in via incidentale ogni questione pregiudiziale.
Va infine ricordato che, comunque, il
"condono tombale” in materia di IVA del quale ha inteso avvalersi la società
contribuente è stato ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia CE
in contrasto con l’ordinamento comunitario, in quanto comporta una rinuncia
generale ed indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili in
materia di IVA e, pertanto, integra un inadempimento agli obblighi che sullo
Stato italiano incombono «in forza delle disposizioni dell’art. 2, n. 1,
lettere a), c) e d), e degli artt. 193 - 273 della direttiva del Consiglio 28
novembre 2006, 2006/112/CE, relativa al sistema d’imposta sul valore aggiunto,
che hanno sostituito, dal 1° gennaio 2007, gli artt. 2 e 22 della sesta
direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, in materia di
armonizzazione delle legislazioni degli stati membri relative alle imposte
sulla cifra d’affari - Sistema comune di imposta sul valore aggiunto: base
imponibile uniforme, nonché dell’art. 10 CE» (sentenza
11 dicembre 2008, causa C-174/07; analogamente, la sentenza
17 luglio 2008, causa C-132/06). Il rilevato contrasto con l’ordinamento
comunitario comporta l’obbligo del giudice e dell’amministrazione finanziaria
italiani di non applicare le norme nazionali relative al suddetto condono (in
tal senso, espressamente, le pronunce della Cassazione civile, sezioni unite,
dal n.
2.2. − L’Avvocatura generale dello
Stato ha eccepito, poi, l’inammissibilità delle questioni – sempre sotto il
profilo della omessa od insufficiente motivazione della rilevanza – affermando
che il rimettente non ha chiarito se nella specie ricorrano i presupposti
dell’applicazione del sopra menzionato principio secondo cui il condono non
opera sui crediti vantati dal contribuente verso il fisco, nel senso che tali
crediti restano soggetti all’eventuale contestazione da parte
dell’amministrazione finanziaria.
Anche tale eccezione non è fondata,
perché – come osservato nel punto precedente − proprio l’evidente
adesione del rimettente al suddetto notorio e consolidato principio
giurisprudenziale gli ha fatto ritenere superflua l’indicazione nell’ordinanza
di rimessione di una espressa motivazione al riguardo.
2.3.− L’Avvocatura generale dello
Stato ha eccepito, infine, l’inammissibilità delle questioni, deducendo che il
rimettente non avrebbe considerato che l’art. 10 della legge n. 289 del 2002
prevede la proroga di due anni dei termini di accertamento nei confronti dei
contribuenti che non si siano avvalsi delle disposizioni recanti la definizione
agevolata. Nella specie, pertanto, l’avviso di accertamento relativo al 2002
sarebbe stato notificato tempestivamente, cioè prima del «31 dicembre 2009»,
data di scadenza della suddetta proroga biennale. Secondo tale prospettiva,
l’applicazione della proroga avrebbe escluso la necessità di far ricorso alla
normativa denunciata per definire i giudizi principali riuniti e, quindi,
avrebbe reso irrilevanti le questioni.
L’eccezione non è fondata.
L’Avvocatura muove dalla premessa
dell’applicabilità della suddetta proroga biennale nel caso in cui il condono
richiesto dal contribuente non si sia perfezionato.
Tale premessa è erronea, perché – come
correttamente sostenuto dalla parte privata – per escludere l’applicazione della
proroga biennale è sufficiente la presentazione della richiesta di condono,
indipendentemente dal suo accoglimento o diniego. A tale interpretazione
inducono sia la lettera dell’art. 10 della legge n. 289 del 2002 (che non
condiziona l’applicazione della proroga biennale al perfezionamento del
condono, ma si limita ad affermare che essa è prevista nei confronti dei
contribuenti che «non si avvalgono» delle disposizioni recate dagli articoli da
3.− Neppure può sostenersi,
infine, che l’inammissibilità delle questioni possa derivare dall’omesso
tentativo del rimettente di pervenire ad una interpretazione idonea a superare
i prospettati dubbi di legittimità costituzionale; ad una interpretazione,
cioè, che consenta di ritenere, da un lato, che la normativa sul raddoppio dei
termini di accertamento si applichi solo alle annualità successive all’anno
2006, nel quale è entrata in vigore la normativa denunciata; dall’altro, che
«l’eventuale denuncia» debba essere presentata, ai sensi dell’art. 331 cod.
proc. pen., anteriormente allo spirare dei termini "brevi” di cui ai primi due
commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972.
In effetti, il rimettente muove da una
interpretazione non implausibile delle disposizioni
denunciate. Egli assume che, in forza di esse, il raddoppio dei termini di
accertamento si applichi: a) anche se la denuncia penale per i reati di cui al
d.lgs. n. 74 del 2000 non sia stata presentata prima del decorso del termine
ordinario di accertamento; b) anche alle annualità antecedenti all’anno 2006,
nel quale sono entrate in vigore tali disposizioni.
3.1. – Quanto al punto sub a), la non implausibilità
dell’interpretazione discende dal fatto che il censurato terzo comma dell’art.
57 del d.P.R. n. 633 del 1972 («In caso di violazione
che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 del codice di procedura
penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74,
i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati […]») prevede, quale
unica condizione per il raddoppio dei termini, la sussistenza dell’obbligo di
denuncia penale, indipendentemente dal momento in cui tale obbligo sorga ed
indipendentemente dal suo adempimento. A maggior ragione, la lettera della
legge impedisce di interpretare le disposizioni denunciate nel senso che il
raddoppio dei termini presuppone necessariamente un accertamento penale
definitivo circa la sussistenza del reato. Del resto quest’ultima
interpretazione – come riconosciuto dalla stessa parte privata – contrasterebbe
anche con il vigente regime del cosiddetto «doppio binario» tra giudizio penale
e procedimento e processo tributari, evidenziato dall’art. 20 del d.lgs. n. 74
del 2000 (il quale, in correlazione a quanto previsto dagli artt. 3, 479 e 654
cod. proc. pen., dispone che «Il procedimento amministrativo di accertamento ed
il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del
procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui
accertamento comunque dipende la relativa definizione»).
Né, al fine di sostenere
un’interpretazione conforme a Costituzione – nel senso che il raddoppio dei
termini opererebbe solo se la denuncia penale sia presentata prima del decorso
dei termini "brevi” di accertamento –, può farsi riferimento alla
giurisprudenza della Corte di cassazione in materia di termine triennale di
«prescrizione» per il recupero "a posteriori” di diritti doganali previsto
dall’art. 84, terzo comma, del d.P.R. 23 gennaio 1973
n. 43 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia
doganale). Tale disposizione stabilisce due diversi termini triennali di
«prescrizione», a seconda che il mancato pagamento abbia o no causa da un reato.
Nel caso in cui non risulti che il mancato pagamento abbia avuto causa da
reato, il termine decorre dal momento in cui l’importo dei diritti doganali
originariamente richiesto sia stato contabilizzato o, in difetto, sia divenuto
esigibile; nell’ipotesi, invece, in cui il mancato pagamento abbia avuto causa
da reato il termine – in deroga al sopra visto principio del cosiddetto «doppio
binario» – decorre dalla data in cui il decreto o la sentenza pronunziati nel
procedimento penale siano divenuti irrevocabili. La lettera di tale
disposizione, secondo la giurisprudenza di legittimità, renderebbe
indeterminabile il periodo intercorrente tra la data di contabilizzazione o di
esigibilità del debito doganale e la data in cui è divenuta irrevocabile la
decisione penale, con la conseguenza che il termine per la revisione dei dazi,
in presenza di reato, «sarebbe privo di riferimento temporale e dilatabile
all’infinito» (sentenza della Cassazione civile n. 9773 del 2010). Per ovviare
a tale «compromissione della certezza dei rapporti giuridici» (sentenze della
Cassazione civile n. 19193 e n. 22014 del 2006),
È evidente che – contrariamente a quanto
sostenuto dalla parte privata – il citato art. 84, terzo comma, del d.P.R. n. 43 del 1973 reca una disciplina del tutto diversa
da quella posta dalle disposizioni denunciate e, pertanto, non può essere
invocata a sostegno della tesi secondo cui il raddoppio dei termini opera solo
ove la denuncia penale sia presentata prima del decorso dei termini "brevi”.
Infatti, mentre il censurato combinato disposto non presuppone alcun
accertamento penale definitivo del reato ed ha un preciso riferimento temporale
(entro il 31 dicembre dell’ottavo anno o del decimo anno successivo a quello in
cui, rispettivamente, è stata o doveva essere presentata la dichiarazione);
invece il terzo comma dell’art. 84 del d.P.R. n. 43
del 1973 presuppone una sentenza od un decreto penale di condanna divenuti
irrevocabili ed indica un termine complessivo indefinito e non prevedibile nel
momento in cui è contabilizzata o diviene esigibile l’obbligazione doganale. Di
qui la non pertinenza della normativa e della giurisprudenza di legittimità
invocate dalla società contribuente e la correttezza dell’interpretazione
fornita dal rimettente.
3.2. – Quanto all’interpretazione del
rimettente indicata al punto sub b) –
secondo cui il raddoppio si applicherebbe anche alle annualità d’imposta anteriori
a quella pendente al momento dell’entrata in vigore delle disposizioni
denunciate (4 luglio 2006) –, la sua non implausibilità
discende dal fatto che il raddoppio, stabilendo il prolungamento dei termini
non ancora scaduti alla data dell’entrata in vigore del decreto-legge n. 223
del 2006, incide necessariamente (protraendoli) sui termini di accertamento
delle violazioni che si assumono commesse prima di tale data. Questo effetto
non deriva dalla natura retroattiva della normativa censurata, ma dall’applicabilità
ex nunc
della protrazione dei termini in corso, nel rispetto del principio secondo cui,
di regola, «la legge non dispone che per l’avvenire» (art. 11, prima parte del
primo comma, delle disposizioni preliminari al codice civile; analogamente,
l’art. 3, comma 1, della legge n. 212 del 2000, stabilisce che «le disposizioni
tributarie non hanno effetto retroattivo»). La stessa società contribuente, del
resto, pur facendo piú volte riferimento nelle sue
difese alla "retroattività” della normativa denunciata, ammette che questa, in
realtà, dispone solo per il futuro ed è "retroattiva” in «senso improprio».
3.3. – Dai rilievi che precedono deriva,
dunque, che l’interpretazione data dal rimettente alle disposizioni denunciate
e sulla quale egli fonda le sollevate questioni è sostanzialmente corretta.
Questa Corte deve pertanto muovere da tale interpretazione per effettuare il
richiesto scrutinio di costituzionalità.
4. – Nel motivare in ordine agli altri
aspetti della rilevanza delle questioni, il rimettente afferma che: a) dal
processo verbale di constatazione redatto nel 2008 dalla Guardia di finanza
risultano, per gli anni 2002 e 2003, ipotesi di reato previste dal d.lgs. n. 74
del 2000 per le quali vi è l’obbligo di denuncia penale; b) nei giudizi
principali riuniti egli deve fare applicazione delle disposizioni denunciate,
perché queste sono entrate in vigore il 4 luglio 2006, anteriormente alla
scadenza del termine "breve” quadriennale previsto, per gli accertamenti per
cui è causa, dal primo comma dell’art. 57 del d.P.R.
n. 633 del 1972.
Tali elementi sono sufficienti per
ritenere rilevanti le questioni.
5. – Nel merito, è necessario esaminare
analiticamente le cinque censure prospettate dal rimettente.
5.1. – Con la prima censura viene affermato
che il denunciato combinato disposto si pone in contrasto con gli artt. 3 e 24
Cost., nonché con l’art. 3, comma 3, della legge n. 212 del 2000, perché
irragionevolmente «proroga o riapre», per gli accertamenti delle imposte,
termini di decadenza ormai «scaduti», cosí ledendo
l’esigenza di «certezza dei rapporti giuridici» ed il diritto di difesa dei
contribuenti.
5.1.1. – Va preliminarmente rilevato, al
riguardo, che l’art. 3, comma 3, della legge n. 212 del 2000 (secondo cui «I
termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti di imposta non
possono essere prorogati») non può essere qui evocato quale parametro di
legittimità costituzionale. Come piú volte osservato
da questa Corte, infatti, le disposizioni di detta legge non hanno rango costituzionale
e non costituiscono, neppure come norme interposte, parametro idoneo a fondare
il giudizio di legittimità costituzionale di leggi statali (sentenza n. 58 del
2009; ordinanze n. 13 del 2010,
n. 185 del 2009,
n. 180 del 2007,
n. 428 del 2006,
n. 216 del 2004).
La questione riferita all’art. 3, comma
3, della legge n. 212 del 2000 è, dunque, inammissibile.
5.1.2. – La questione riferita agli
artt. 3 e 24 Cost. non è fondata, perché il rimettente muove dall’erroneo
presupposto interpretativo che la normativa censurata «proroghi o riapra
termini di decadenza ormai scaduti».
L’erroneità di tale presupposto è
evidente, ove si consideri che i termini raddoppiati di accertamento non
costituiscono una "proroga” di quelli ordinari, da disporsi a discrezione
dell’amministrazione finanziaria procedente, in presenza di "eventi peculiari
ed eccezionali”. Al contrario, i termini raddoppiati sono anch’essi termini
fissati direttamente dalla legge, operanti automaticamente in presenza di una
speciale condizione obiettiva (allorché, cioè, sussista l’obbligo di denuncia
penale per i reati tributari previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000), senza che
all’amministrazione finanziaria sia riservato alcun margine di discrezionalità
per la loro applicazione. In altre parole, i termini raddoppiati non si
innestano su quelli "brevi” di cui ai primi due commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del
Tali conclusioni non mutano neppure ove
si faccia riferimento al censurato comma 26 dell’art. 37 del decreto-legge n.
223 del 2006. Questa disposizione non prevede una «riapertura di termini di
accertamento già scaduti», ma risolve solo un problema di successione di leggi
nel tempo, senza dettare una disciplina sostanziale ad hoc. Essa si limita, infatti, a stabilire che «Le disposizioni
di cui ai commi […] 25 si applicano a decorrere dal periodo d’imposta per il
quale alla data di entrata in vigore del presente decreto sono ancora pendenti
i termini di cui al primo e secondo comma […] dell’art. 57 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633». In tal modo non viene
retroattivamente "riaperto” un termine già scaduto, ma viene solo escluso che
il raddoppio dei termini si applichi alle violazioni tributarie per le quali,
alla data di entrata in vigore del decreto (4 luglio 2006), fosse già decorso
il termine di accertamento previsto dalla normativa anteriore (secondo quanto
già rilevato al punto 3.2.).
È opportuno sottolineare che
l’introduzione legislativa di un piú ampio termine di
decadenza è evenienza frequente nel diritto tributario ed è pacifico che una
siffatta nuova normativa, in difetto di diversa espressa statuizione di legge,
si applichi solo ove il precedente e piú ristretto
termine non sia già decorso e, quindi, il rapporto non sia esaurito. Le
disposizioni denunciate, dunque, sono conformi ai princípi
piú volte applicati dalla giurisprudenza in materia
di successione delle leggi nel tempo che abbiano previsto l’ampliamento di
termini decadenziali. A titolo di esempio, tra i
molti che potrebbero essere indicati, può qui ricordarsi che
È irrilevante, infine, l’assunto che gli
evocati parametri sarebbero violati per l’incertezza in cui versa il
contribuente, il quale deve attendere il decorso del termine raddoppiato per
avere la sicurezza dell’insussistenza dell’obbligo di denuncia penale. Si è
visto, infatti, che tale incertezza è meramente eventuale e soggettiva e
dipende non da una discrezionale valutazione dell’amministrazione finanziaria
sulla denunciabilità penale dei fatti, ma solo dal
momento in cui l’ufficio tributario venga concretamente a conoscenza degli
elementi obiettivi comportanti l’obbligo di denuncia. Essa costituisce, perciò,
una circostanza di mero fatto inidonea ad influire sullo scrutinio di legittimità
costituzionale.
5.2.– Con la seconda censura è affermato
che il denunciato combinato disposto si pone in contrasto con l’art. 24 Cost.,
sotto due profili: a) perché la denuncia penale, se proposta dopo il decorso
dei termini "brevi” di decadenza, potrebbe intervenire quando il contribuente,
ritenendo non piú accertabile il rapporto tributario,
non sia piú in possesso delle scritture e dei
documenti contabili; b) perché, non prevedendo un «ragionevole» ed
«oggettivamente determinato» termine di notificazione dell’atto impositivo e
consentendo «una distanza eccessiva tra il fatto e la contestazione», comporta
una «indeterminata soggezione del contribuente all’azione esecutiva del fisco»
e, quindi, vanifica la difesa del contribuente.
Nessuno dei prospettati profili di
illegittimità costituzionale è fondato.
5.2.1.– Quanto alla lesione del diritto
di difesa – dedotta sotto il profilo che il contribuente non sarebbe piú in grado di difendersi qualora non fosse piú in possesso delle scritture e dei documenti contabili
da lui «legittimamente» eliminati dopo il decorso del termine "breve” di
accertamento –, va rilevato che il rimettente procede da un erroneo presupposto
interpretativo. Egli assume che l’obbligo di conservazione delle suddette
scritture e documenti persista solo fino alla scadenza del termine "breve” di
accertamento previsto dai primi due commi dell’art. 57 del d.P.R.
n. 633 del 1972.
In realtà il contribuente, per effetto
dell’art. 22 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è
tenuto a conservare le scritture ed i documenti fino alla definizione degli
accertamenti relativi al corrispondente periodo d’imposta. Pertanto, se il
termine previsto dalla legge, in presenza dell’obbligo di denuncia delle
suddette violazioni tributarie penalmente rilevanti, è quello raddoppiato di
cui alla normativa censurata, ne segue che il contribuente ha l’obbligo di
conservare le scritture ed i documenti fino alla definizione degli accertamenti
relativi e, quindi, non può ritenersi esonerato da tale obbligo fino alla
scadenza del termine raddoppiato.
L’eventuale soggettivo affidamento del
contribuente a che non siano fatti valere, dopo il decorso del termine "breve”
di accertamento, elementi obiettivi (giudizialmente controllabili ex post, come si vedrà in prosieguo, al
punto 5.3.) comportanti l’obbligo di denuncia penale per i reati previsti dal
d.lgs. n. 74 del 2000 non è rilevante ai fini del giudizio di costituzionalità,
trattandosi di una circostanza di mero fatto. Ciò che invece rileva sul piano
giuridico è che il contribuente, ai sensi dell’art. 22 del d.P.R.
n. 600 del 1973, è tenuto a conservare la predetta documentazione fino allo
spirare dei termini raddoppiati. Il che, evidentemente, non comporta alcuna
lesione del diritto di difesa, proprio perché l’obbligo di conservazione
documentale fino al decorso di tali termini è contenuto, dal predetto articolo,
in limiti certi.
5.2.2.– Quanto, poi, alla lesione del
diritto di difesa, dedotta sotto il diverso profilo dell’irragionevole ed
eccessiva distanza temporale tra «il fatto e la contestazione», tale da
comportare una indeterminata soggezione del contribuente all’azione «esecutiva»
(rectius: accertativa) del fisco, è agevole osservare che –
contrariamente a quanto affermato dal rimettente – il termine non è né
indeterminato né irragionevolmente ampio.
Non è indeterminato, in quanto esso, in
presenza del suddetto obbligo di denuncia penale, è individuato dalla normativa
in modo certo; e cioè: a) entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a
quello in cui è stata presentata la dichiarazione; b) entro il 31 dicembre del
decimo anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere
presentata. Né tale obiettiva certezza può ritenersi esclusa dall’eventuale
soggettiva incertezza del contribuente sulla astratta ravvisabilità
delle indicate ipotesi di reato. L’impossibilità per il contribuente di avere
la sicurezza ex ante della non
ricorrenza dei presupposti di denunciabilità penale
della sua condotta costituisce infatti, come si è appena visto, un
inconveniente di mero fatto, irrilevante ai fini del giudizio di legittimità
costituzionale. Per contrastare possibili abusi degli uffici tributari sono
invece sufficienti, come sarà
meglio precisato al punto 5.3., da un lato, la previsione dell’obbligo dei
pubblici ufficiali – e, quindi, anche dei verificatori fiscali – di inoltrare
senza ritardo la denuncia penale (obbligo sanzionato dall’art. 361 del codice
penale) e, dall’altro, la controllabilità giudiziale circa la sussistenza dei
precisi ed obiettivi presupposti richiesti dalla legge e dalla giurisprudenza
perché sorga detto obbligo.
Il termine raddoppiato, inoltre, non è
irragionevolmente ampio, perché è di poco superiore al termine di prescrizione
dei reati suddetti (sei anni) e la sua entità è adeguata a soddisfare la ratio legis di
dotare l’amministrazione finanziaria di un maggior lasso di tempo per acquisire
e valutare dati utili a contrastare illeciti tributari, i quali, avendo
rilevanza penale, sono stati non ingiustificatamente ritenuti dal legislatore
particolarmente gravi e, di norma, di complesso accertamento. In particolare,
la gravità e la difficoltà di rilevamento di detti illeciti derivano sia dalla
non arbitraria ipotizzabilità (in base a chiari ed
obiettivi elementi indiziari) dei reati perseguibili d’ufficio previsti dal
d.lgs. n. 74 del 2000; sia dal fatto che tali reati – in considerazione delle
modalità della condotta criminosa ovvero della misura del danno arrecato
all’erario – normalmente richiedono controlli, verifiche ed indagini fiscali
particolarmente difficili al fine di determinare l’effettiva capacità
contributiva dei soggetti passivi d’imposta. Tale situazione, del resto, si
presenta anche nelle fattispecie oggetto di esame nei giudizi principali
riuniti, in relazione alle quali si addebitano alla contribuente, per gli anni
d’imposta in contestazione in detti giudizi, dichiarazioni fraudolente od
infedeli.
L’individuata ratio legis non esclude che il legislatore
abbia avuto di mira anche l’ulteriore obiettivo indicato nella relazione
d’accompagnamento al disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 223
del 2006, secondo la quale le disposizioni denunciate sono dirette a consentire
la circolazione delle prove dal giudizio penale al procedimento tributario.
Tale ratio indubbiamente può sussistere in
concreto, data la normale maggiore durata del processo penale rispetto ai
termini di accertamento "brevi”, ma non è idonea, da sola, ad improntare la
disciplina in esame sia perché – secondo quanto già osservato – il raddoppio
dei termini consegue dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di
denuncia penale, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia
o dall’inizio dell’azione penale; sia perché – come si vedrà meglio piú avanti – l’obbligo di denuncia (comportante il
raddoppio dei termini di accertamento) sorge anche ove sussistano cause di non
punibilità impeditive della prosecuzione delle
indagini penali ed il cui accertamento resti riservato all’autorità giudiziaria
penale; sia perché – in base a quanto si è appena visto – il termine
raddoppiato di accertamento è comunque piú ampio del
termine di prescrizione del reato (sei anni). La circolazione di elementi
probatori dal giudizio penale al procedimento tributario è, dunque, solo
eventuale e temporalmente limitata, e costituisce una giustificazione solo
accessoria e parziale dei denunciati commi 25 e 26 dell’art. 37 del
decreto-legge n. 223 del 2006.
Va sottolineato, altresí,
che l’ampiezza dei termini derivante dal suddetto raddoppio si inserisce in un piú vasto quadro sistematico. In particolare, essa è
analoga a quella fissata dall’art. 27, commi 16 e 17, del decreto-legge 29
novembre 2008, n. 185 (Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro,
occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro
strategico nazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio
2009, n. 2. Tali disposizioni, con riferimento ad ipotesi simili al reato di
indebita compensazione previsto dall’art. 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000, stabiliscono che – salvi i piú ampi termini previsti dalla legge in caso di violazione
comportante l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen.
per il reato previsto dal citato art. 10-quater
– l’atto di accertamento dei crediti indebitamente utilizzati dal contribuente
in compensazione, indicato dall’art. 1, comma 421, della legge 30 dicembre
2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato – legge finanziaria 2005), deve essere notificato entro il termine
di decadenza del 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello dell’utilizzo
di crediti inesistenti in compensazione.
Per completezza, va infine rilevato che,
in forza della specialità del censurato terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972, non rientrano nel computo dei
termini da raddoppiare i prolungamenti di quelli previsti da altre disposizioni
di legge. Induce a tale conclusione la lettera del citato terzo comma dell’art.
57 del d.P.R. n. 633 del 1972, che prevede il
raddoppio dei soli «termini di cui ai commi precedenti» dello stesso articolo;
e cioè dei termini che scadono il 31 dicembre del quarto anno successivo a
quello in cui è stata presentata la dichiarazione (primo comma), nonché dei
termini che scadono il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui
la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata (secondo comma). Non
rientrano, pertanto, nel computo dei termini da raddoppiare ai sensi delle
disposizioni denunciate né la proroga biennale di cui all’art. 10 della legge
n. 289 del 2002, né il diverso raddoppio dei termini dei medesimi primi due
commi dell’art. 57 d.P.R. n. 633 del 1972 previsto,
nell’àmbito degli interventi antievasione e
antielusione internazionale e nazionale, dal comma 2-bis dell’art. 12 del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78
(Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con
modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, comma inserito dall’art. 1,
comma 3, del decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 194, convertito, con
modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2010, n. 25. Pertanto, nel caso in cui i
prolungamenti di termini previsti dalle disposizioni denunciate e da altre
disposizioni siano astrattamente applicabili in relazione alla medesima
fattispecie, l’amministrazione finanziaria non potrà mai utilizzarli in modo
cumulativo al fine di superare il massimo dell’ampliamento temporale previsto
dalla singola normativa piú favorevole per
l’amministrazione. Questa interpretazione esclude che le disposizioni denunciate
possano concorrere a rendere irragionevolmente lunghi i tempi
dell’accertamento.
5.3.– Con la terza censura il rimettente
afferma che il denunciato combinato disposto víola
gli artt. 3 e 97 Cost., perché, non condizionando il raddoppio dei termini né
all’avvio dell’azione penale prima del decorso dei termini "brevi” di decadenza
dall’accertamento né all’esito di tale azione, attribuisce all’amministrazione
finanziaria − irragionevolmente ed in contrasto con i princípi
di imparzialità e di buon andamento − il potere discrezionale di
estendere i termini dell’accertamento in base ad una soggettiva e non
controllabile valutazione circa la necessità di presentare denuncia penale per
violazioni ricondotte ad ipotesi di reato, «magari su elementi puramente indiziari
e strumentalmente enfatizzati».
La questione non è fondata.
Si è già rilevato che il rimettente
muove da una interpretazione plausibile delle disposizioni censurate, le quali,
in base al loro tenore letterale, stabiliscono che il raddoppio dei termini
deriva dall’insorgenza dell’obbligo della denuncia penale, indipendentemente
dall’effettiva presentazione di tale denuncia o da un accertamento penale
definitivo circa la sussistenza del reato.
Detta interpretazione non implica,
tuttavia, che la legge attribuisca all’amministrazione finanziaria l’arbitrario
ed incontrollabile potere di raddoppiare i termini "brevi” di accertamento.
Quanto all’asserita arbitrarietà,
infatti, il raddoppio non consegue da una valutazione discrezionale e meramente
soggettiva degli uffici tributari, ma opera soltanto nel caso in cui siano
obiettivamente riscontrabili, da parte di un pubblico ufficiale, gli elementi
richiesti dall’art. 331 cod. proc. pen. per l’insorgenza dell’obbligo di
denuncia penale. Per costante giurisprudenza della Corte di cassazione, tale
obbligo sussiste quando il pubblico ufficiale sia in grado di individuare con
sicurezza gli elementi del reato da denunciare (escluse le cause di estinzione
o di non punibilità, che possono essere valutate solo dall’autorità
giudiziaria), non essendo sufficiente il generico sospetto di una eventuale
attività illecita (ex plurimis,
sentenze della Cassazione penale n. 27508 del 2009; n. 26081 e n. 15400 del
2008; n. 1244 del 1985; n. 6876 del 1980; n. 14195 del 1978). Va, inoltre,
sottolineato al riguardo che il pubblico ufficiale – allorché abbia acquisito
la notitia criminis
nell’esercizio od a causa delle sue funzioni – non può liberamente valutare se
e quando presentare la denuncia, ma deve inoltrarla prontamente, pena la
commissione del reato previsto e punito dall’art. 361 cod. pen. per il caso di
omissione o ritardo nella denuncia.
Quanto all’asserita incontrollabilità
dell’apprezzamento degli uffici tributari circa la sussistenza del reato, va
obiettato che – contrariamente a quanto affermato dal rimettente – il sistema
processuale tributario consente, invece, il controllo giudiziario della
legittimità di tale apprezzamento. Il giudice tributario, infatti, dovrà
controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei
presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo al riguardo una valutazione ora
per allora (cosiddetta "prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza ed
accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità
od abbia, invece, fatto un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni
denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un piú
ampio termine di accertamento. È opportuno precisare che: a) in presenza di una
contestazione sollevata dal contribuente, l’onere di provare detti presupposti
è a carico dell’amministrazione finanziaria, dovendo questa giustificare il piú ampio potere accertativo
attribuitole dal censurato terzo comma dell’art. 57 del d.P.R.
n. 633 del 1972; b) il correlativo tema di prova − e, quindi, l’oggetto
della valutazione da effettuarsi da parte del giudice tributario − è
circoscritto al riscontro dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale e non
riguarda l’accertamento del reato; c) gli eventuali limiti probatori propri del
processo tributario hanno, pertanto, una ridotta incidenza nella specie e,
comunque, non costituiscono oggetto delle sollevate questioni.
5.4.– Con la quarta censura viene
affermato che il denunciato combinato disposto si pone in contrasto con l’art.
3 Cost., perché, «consentendo discipline differenziate per la notifica
dell’accertamento», introduce «irragionevoli elementi di disparità di
trattamento».
Anche tale questione non è fondata.
La censurata disparità di trattamento
non sussiste, perché la ricorrenza di elementi tali da obbligare alla denuncia
penale ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen. costituisce una situazione
eterogenea rispetto a quella in cui tali elementi non ricorrono. È innegabile,
infatti, che la non arbitraria ipotizzabilità di
specifici reati tributari, espressivi di un particolare disvalore, giustifica
la previsione di una disciplina differenziata, proprio in ragione della gravità
dei fatti e della maggiore difficoltà che, di norma, richiede il loro
accertamento.
5.5. – Con la quinta censura viene
affermato che la normativa denunciata si pone in contrasto con l’art. 25 Cost.
perché, in presenza di ipotesi di reato previste dal d.lgs. n. 74 del 2000 per
le quali vi sia l’obbligo di denuncia, essa rende retroattivamente applicabile la
sanzione del raddoppio dei termini per l’accertamento dell’imposta.
La questione non è fondata, perché la
disciplina del raddoppio dei termini non ha natura sanzionatoria. Non è perciò
invocabile, nella specie, il principio di irretroattività della norma penale
sfavorevole previsto dall’evocato secondo comma dell’art. 25 Cost. E ciò a
prescindere dalla considerazione che – per quanto osservato ai punti 3.2. e
5.1.2. – la disciplina fiscale censurata si applica solo per l’avvenire, con
riferimento sia agli illeciti commessi a decorrere dalla data di entrata in
vigore del decreto-legge n. 223 del 2006 sia a quelli commessi anteriormente e
per i quali, a tale data, non siano ancora decorsi i termini di cui ai primi
due commi dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972.
In particolare, il raddoppio dei termini
di accertamento non può qualificarsi "sanzione penale”, neppure impropria o
atipica. Esso infatti, da un lato, non rappresenta la reazione ad un illecito
penale, perché – come si è visto – consegue non dall’accertamento della
commissione di un reato, ma solo dall’insorgere dell’obbligo di denuncia dei
reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, restando irrilevante il fatto che
l’azione penale non sia iniziata o non sia proseguita o intervenga una
decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o di condanna; dall’altro,
non costituisce una conseguenza sfavorevole sul piano sostanziale, perché non
comporta né un obbligo di prestazione né l’emissione di un atto di
accertamento. Il mero assoggettamento ad un termine piú
lungo di accertamento fiscale non svolge, dunque, alcuna funzione
afflittivo-punitiva o sanzionatoria di un fatto di reato, ma, operando su un
piano meramente procedimentale, persegue solo il sopra evidenziato obiettivo di
attribuire agli uffici tributari maggior tempo per accertare l’effettiva
capacità contributiva del soggetto passivo d’imposta, quando ciò sia
giustificato dalla non arbitraria ipotizzabilità, ai
sensi dell’art. 331 cod. proc. pen., di violazioni gravi e di piú difficile controllo.
per questi motivi
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto del terzo comma dell’art. 57 del decreto del Presidente della Repubblica del 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto) – comma inserito dal comma 25 dell’art. 37 del decreto-legge del 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 –, e del comma 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006, sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli, in riferimento all’art. 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), con l’ordinanza indicata in epigrafe;
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del suddetto combinato disposto del terzo comma dell’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 e del comma 26 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006, sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli, in riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 97 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 luglio
2011.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Franco GALLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2011.