Sentenza n. 132 del 2024

SENTENZA N. 132

ANNO 2024

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da:

Presidente: Augusto Antonio BARBERA;

Giudici: Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 2, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120, promosso dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Campania, nel giudizio di responsabilità a carico di T. T. e altri, con ordinanza del 18 dicembre 2023, iscritta al n. 19 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 2024, la cui trattazione è stata fissata per l’adunanza in camera di consiglio del 4 giugno 2024.

Visti gli atti di costituzione di T. T. e S. R. fuori termine, nonché l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 giugno 2024 il Giudice relatore Giovanni Pitruzzella;

deliberato nella camera di consiglio del 6 giugno 2024.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 18 dicembre 2023, iscritta al n. 19 del registro ordinanze 2024, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Campania, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 28, 81, 97 e 103 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 2, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120, ai sensi del quale «[l]imitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 30 giugno 2024, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente».

1.1.– Il rimettente premette in punto di fatto che:

– la Procura regionale della Corte dei conti ha evocato in giudizio i militari dell’Arma dei carabinieri T. T., M. V., V. C., V. L., F. B. e S. R., per sentirli condannare, in favore del Comando Legione carabinieri Campania, al risarcimento del danno erariale quantificato in complessivi euro 2.413.150,00 per il primo, convenuto in via principale a titolo di dolo, ed in euro 2.013.350,00 per gli altri, convenuti in via sussidiaria a titolo di colpa grave, «in conseguenza di un ammanco di cassa dovuto a plurime riscossioni» di settantotto assegni non autorizzati, avvenute tra il 7 maggio 2010 e il 20 gennaio 2021;

– in particolare, secondo il pubblico ministero contabile, dalle indagini di un’apposita commissione di inchiesta e da quelle delegate ai carabinieri dalla competente procura penale militare emergerebbe che l’ammanco in questione è da attribuirsi alla condotta dolosa del brigadiere T. T., che, in quegli anni, aveva ricoperto il ruolo di cassiere e non aveva riversato le somme riscosse con i menzionati assegni nelle casse del servizio amministrativo del Comando;

– la negoziazione degli assegni non autorizzati non sarebbe stata preceduta dall’emissione di un ordine di pagamento né seguita dalla predisposizione di un ordine di riscossione: l’assenza di evidenze contabili avrebbe consentito al cassiere di eludere sia le verifiche giornaliere sia quelle mensili, nonché quelle straordinarie;

– all’esito del «compendio probatorio acquisito», la Procura regionale ha ritenuto che, oltre alla responsabilità del cassiere, debba essere sottoposta al vaglio giudiziale, «per la pregnanza delle funzioni agli stessi intestate», ai sensi dell’art. 451 del decreto del Presidente della Repubblica 15 marzo 2010, n. 90 (Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246), la condotta di quei militari che, nel periodo in contestazione, avevano svolto i ruoli di capi del servizio amministrativo e della gestione finanziaria, ai quali viene contestato in via sussidiaria il minor danno di euro 2.013.350,00;

– la Procura ha così distinto la contestazione nei confronti del cassiere, a titolo di dolo, dalle due contestazioni (commissiva per la firma degli assegni e omissiva per il mancato controllo sulla documentazione contabile e sui conti), a titolo di colpa grave, nei confronti dei capi del servizio amministrativo e della gestione finanziaria, sui cui graverebbe, al pari del cassiere, la responsabilità della gestione dei fondi, essendo costoro, ai sensi dell’art. 503 del d.P.R. n. 90 del 2010, autorizzati a firmare gli assegni «con firma congiunta cd. a due a due»;

– secondo la Procura, dunque, ferma restando la responsabilità a titolo doloso del cassiere, «una prima e più consistente quota di responsabilità» sarebbe ravvisabile, a titolo di colpa grave, in capo ai soggetti che avevano «illecitamente apposto la seconda firma di traenza sugli assegni determinativi delle ingiustificate e dannose fuoriuscite», senza operare le debite verifiche sulla regolarità e correttezza del procedimento di spesa (tale contestazione è mossa a tre dei convenuti, per gli assegni e i correlativi importi dettagliatamente indicati nell’ordinanza di rimessione);

– «[u]na seconda quota di siffatta concorrente responsabilità», anch’essa di natura gravemente colposa, sarebbe, invece, riconducibile alla violazione dei peculiari obblighi di controllo disattesi dai responsabili alternatisi nelle due distinte posizioni di garanzia (tale contestazione è mossa a cinque dei convenuti, per gli assegni e gli importi anche in tal caso dettagliatamente indicati nell’ordinanza di rimessione);

– la Procura regionale, nel chiedere la condanna dei convenuti, ha quindi eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 21, comma 2, del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, in riferimento agli artt. 3, 28, 81, 97 e 103 Cost., «in quanto norma di presumibile applicabilità nella vicenda ma irragionevolmente limitatrice della responsabilità amministrativa alle sole ipotesi» di condotte commissive dolose;

– sempre secondo il pubblico ministero contabile, infatti, nel giudizio a quo la rilevanza delle questioni sarebbe evidente in relazione alle condotte gravemente colpose ascritte ai convenuti V. L. e S. R., poiché il primo, «in quanto convenuto (anche) a titolo di responsabilità amministrativa per condotta commissiva (in relazione all’apposizione della seconda firma di traenza sugli assegni illecitamente negoziati) finirebbe, in applicazione della citata normativa, per essere esentato da responsabilità per il danno erariale connesso alla firma di alcuni assegni in quanto emessi successivamente al 17 luglio 2020, data di entrata in vigore del decreto semplificazioni del luglio 2020»; mentre il secondo sarebbe chiamato a rispondere a titolo di colpa grave, per l’intero arco temporale e per i medesimi fatti, «avendo posto in essere […] una condotta (solo) omissiva (omesso controllo in relazione alla formazione ed alla registrazione contabile dei titoli, firmati dal V. L., illecitamente negoziati)»;

– in punto di non manifesta infondatezza, ad avviso della Procura erariale, l’art. 21, comma 2, del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, ingenererebbe una irrazionale disparità di trattamento, «priva di qualsiasi valida giustificazione ed al di fuori della stessa ratio che la disciplina intende perseguire».

1.2.– Ciò premesso in punto di fatto, il rimettente, prima di illustrare la rilevanza e la non manifesta infondatezza delle questioni, ritiene di dovere tratteggiare il quadro «ordinamentale della responsabilità erariale».

Come affermato da questa Corte (si cita la sentenza n. 203 del 2022), la responsabilità amministrativa troverebbe fondamento nell’art. 82, primo comma, del regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440 (Nuove disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato), ai sensi del quale «[l]’impiegato che, per azione od omissione, anche solo colposa, nell’esercizio delle sue funzioni, cagioni danno allo Stato, è tenuto a risarcirlo», e la relativa giurisdizione sarebbe attribuita alla Corte dei conti dal successivo art. 83.

Con l’entrata in vigore della Costituzione, poi, sarebbe stato positivizzato, all’art. 28, il principio di responsabilità dei funzionari e dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici secondo le leggi penali, civili ed amministrative per gli atti illegittimi dagli stessi compiuti.

La successiva disciplina positiva in tema di responsabilità amministrativa si rinverrebbe negli artt. 18 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato).

In particolare, l’art. 18 – precisa il giudice a quo – dispone che l’impiegato delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, è tenuto a risarcire alle amministrazioni medesime i danni derivanti da violazioni di obblighi di servizio, così regolando la responsabilità amministrativa da danno diretto senza fare riferimento al dolo o alla colpa grave.

L’art. 22 – prosegue il rimettente – ha invece imposto al pubblico dipendente danneggiante il risarcimento dei pregiudizi derivanti a terzi per effetto della sua condotta, stabilendo che l’azione nei suoi confronti può essere esercitata congiuntamente con quella diretta nei confronti dell’amministrazione, qualora, in base alle norme e ai principi vigenti dell’ordinamento giuridico, sussista anche la responsabilità dello Stato; la medesima disposizione prevede che l’amministrazione, che abbia risarcito i terzi dei danni cagionati dal dipendente, si rivale contro quest’ultimo innanzi alla Corte dei conti.

Ai sensi dell’art. 22, poi, è considerato danno ingiusto quello derivante da ogni violazione dei diritti dei terzi che il pubblico dipendente abbia commesso con dolo o colpa grave, restando salve le responsabilità più gravi previste dalle leggi vigenti (art. 23).

Solo rispetto al danno indiretto, dunque, il legislatore avrebbe «post[o] in rilievo» il dolo e la colpa grave, e tale regime sarebbe rimasto invariato fino alla legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), che, nel testo originario, avrebbe nuovamente disciplinato l’azione di responsabilità «amministrativa/erariale» senza alcuna specifica indicazione circa l’elemento soggettivo richiesto.

Con l’art. 3, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543 (Disposizioni urgenti in materia di ordinamento della Corte dei conti), convertito, con modificazioni, nella legge 20 dicembre 1996, n. 639 – prosegue ancora il rimettente – è stato modificato l’art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994, stabilendosi che la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti e alle omissioni commessi con dolo o colpa grave, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali.

Il legislatore, «[a]ll’interno di un sistema che nel nostro ordinamento in generale fonda la responsabilità su condotte connotate dall’elemento soggettivo della colpa e del dolo», avrebbe così inteso limitare la responsabilità «amministrativa/erariale» alle ipotesi di dolo e colpa grave.

Al riguardo, questa Corte avrebbe avuto modo di affermare che tale assetto risponde «alla finalità di determinare quanto del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo» (si cita la sentenza n. 371 del 1998; nonché le sentenze n. 123 del 2023 e n. 203 del 2022).

Secondo la giurisprudenza costituzionale, dunque, la colpa grave costituirebbe per la responsabilità amministrativa «il minimum individuato, ovvero il punto di equilibrio in un generale sistema della responsabilità fondato sulla colpa e sul dolo».

Su tale quadro normativo e giurisprudenziale si innesterebbe, infine, la disposizione censurata, che, per le sole condotte commissive e per il periodo da essa presa in considerazione, circoscrive la responsabilità amministrativa alle ipotesi dolose, con esclusione, dunque, di quelle gravemente colpose.

Tale disposizione si collocherebbe all’interno di una serie di interventi legislativi di tipo emergenziale volti alla gestione e al superamento dell’emergenza da COVID-19. La sua vigenza – aggiunge il rimettente – era infatti stabilita, all’inizio, fino al 31 luglio 2021, termine prorogato più volte e, da ultimo, fino al 30 giugno 2024.

La giurisprudenza della Corte dei conti avrebbe definito «“scriminante”» l’esenzione prevista dalla disposizione in parola e l’avrebbe applicata, per i fatti verificatisi nel periodo sopra indicato, «mandando esenti da responsabilità» coloro che avevano, con condotte commissive gravemente colpose, cagionato un danno erariale.

Il giudice contabile, inoltre, in piena concordanza con la giurisprudenza della Corte di cassazione penale, avrebbe affermato che non possono ritenersi di tipo omissivo tutte le condotte colpose, quand’anche naturalisticamente commissive, quali quelle oggetto del giudizio a quo.

Sarebbe infatti evidente che la colpa è caratterizzata sempre da componenti omissive, «perché sul piano ontologico essa corrisponde alla mancata adozione di cautele necessarie ad evitare l’insorgere dell’evento, per negligenza, imperizia o imprudenza, o alla mancata osservanza di regole cautelari», ma ciò atterrebbe alla struttura dell’elemento soggettivo della colpa e non potrebbe essere confuso con la natura commissiva della condotta posta in essere.

1.3.– In punto di rilevanza, la Corte dei conti osserva, in primo luogo, che, al momento dei fatti oggetto del giudizio, la disposizione censurata prevedeva «soltanto una diversa durata» della sua applicazione, «prima fino al 31 luglio 2021» e poi, ad opera delle modifiche apportate dalla legge di conversione, fino al 31 dicembre 2021.

Essa, in secondo luogo, sarebbe rilevante «ai fini della decisione di una consistente parte della domanda giudiziale».

Rispetto alla fattispecie di danno individuata nella illecita sottrazione di somme per il periodo dal 2010 al 2021, il processo sarebbe «“cumulato”» sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, avendo ad oggetto la richiesta di risarcimento: a) dell’intero danno, in via principale, nei confronti del cassiere che avrebbe, con una condotta dolosa, causato l’ammanco, formando gli assegni per prelevare le somme e alterando le registrazioni contabili; b) di una quota di tale danno, in via sussidiaria, nei confronti di coloro che, con colpa grave, avrebbero «“sulla fiducia”» apposto la seconda firma sugli assegni in questione; c) di un’altra quota di danno, sempre in via sussidiaria, nei confronti di coloro che, con colpa grave, avrebbero violato gli obblighi di controllo su di essi gravanti in qualità di responsabili del servizio amministrativo e della gestione finanziaria, così non impedendo l’illecita sottrazione.

Essendo stati nove di questi assegni firmati in data successiva all’entrata in vigore del d.l. n. 76 del 2020, «per tali episodi e solo per essi» («es. situazione convenuto V. L.»), dovrebbe trovare applicazione la disposizione censurata, recante una «norma di chiara natura sostanziale», che prevede un’esenzione da responsabilità per le condotte commissive gravemente colpose.

Sarebbe dunque evidente il nesso di pregiudizialità tra le questioni di legittimità costituzionale sollevate e la decisione del caso concreto rimessa al giudice a quo: infatti, laddove la disposizione venisse dichiarata costituzionalmente illegittima, il «collegio giudicante sarebbe titolato a valutare l’intera condotta commissiva gravemente colposa, accertando se essa abbia concorso alla produzione della quota di danno addebitata» e stabilendo «se sussista o meno la responsabilità erariale e se il convenuto co-firmatario degli assegni debba o meno […] risarcire in via sussidiaria la quota di danno addebitatagli».

In caso contrario, applicando la disposizione censurata, «non si potrebbe che mandare esente da responsabilità il suddetto convenuto per la condotta in parola serbata successivamente al 17 luglio 2020».

1.4.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente ritiene che la disposizione censurata violi, in primo luogo, l’art. 103 Cost.

Secondo la Corte dei conti, il sistema della responsabilità nel nostro ordinamento si fonda, quanto all’elemento soggettivo, «sul binomio colpa e dolo, al netto di ipotesi di responsabilità oggettiva».

In relazione alla responsabilità «amministrativa/erariale», il legislatore avrebbe ritenuto di «discostarsi da questo binomio, individuando nella colpa grave il punto di equilibrio del sistema tra la colpa e il dolo» (si cita la sentenza di questa Corte n. 371 del 1998).

«La misura individuata (colpa grave)» esprimerebbe «il quantum di rischio che deve ricadere sul datore di lavoro amministrazione pubblica per i danni causati dai dipendenti, nell’ottica, da un lato, di non disincentivare l’attività eliminando l’inerzia nell’attività amministrativa e, dall’altro, di non incentivare condotte foriere di danno».

Tale «convinzione» sarebbe stata ribadita dalla giurisprudenza costituzionale nel giudizio avente ad oggetto una disposizione della Provincia autonoma di Bolzano che aveva introdotto «fattispecie di colpa grave “tipizzate”», ove si sarebbe affermato che non è conforme ai principi dell’ordinamento l’ulteriore attenuazione, in via generale, delle ipotesi di responsabilità (si cita la sentenza n. 340 del 2001).

Alla luce di ciò, l’art. 21, comma 2, del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, che «introduce l’esenzione generalizzata da responsabilità per le condotte commissive connotate dall’elemento soggettivo della colpa grave», violerebbe «patentemente i principi individuati dalla giurisprudenza costituzionale anche con riferimento all’art. 103 Cost.».

La disposizione – aggiunge il rimettente – «è inserita nell’ambito della legislazione di tipo emergenziale, che aveva come scopo espresso quello di rispondere all’esigenza di gestione e superamento della pandemia» da COVID-19.

Il suo dichiarato fine sarebbe stato quello di consentire una più rapida adozione di provvedimenti amministrativi «nell’ottica del rilancio dell’economia del Paese duramente penalizzata dal periodo pandemico, superando la c.d. “paura della firma” e la “burocrazia difensiva”, tendenti a bloccare l’azione amministrativa per evitare di essere esposti al risarcimento da danno erariale in caso di errore».

Tuttavia, incongruamente, il legislatore non avrebbe limitato l’applicazione della norma alle attività inerenti alla gestione dell’emergenza pandemica e a quelle in grado di determinare il rilancio dell’economia.

La disposizione censurata, dunque, «nella sua connotazione generalista», apparirebbe «irragionevole, sproporzionata nella misura e non funzionale alla finalità dichiaratamente perseguita», «realizzando un generalizzato “scudo erariale”».

Siffatta «incongrua conseguenza» sarebbe «con ogni evidenza irragionevole e contraria al comune sentire», e la sua estensione a «tutti gli ambiti di attività dell’amministrazione» sarebbe non proporzionata «rispetto alla finalità di una disposizione nata nel contesto emergenziale», come sarebbe dimostrato dal caso di specie, in cui essa si applicherebbe ad una ipotesi di «sottrazione fraudolenta e per scopi personali di somme dell’amministrazione, senza che eserciti alcuna influenza sui fatti la circostanza che essi si sono succeduti anche durante la pandemia».

Allo stesso tempo, la norma non sarebbe funzionale allo scopo: «attraverso la volontà di arginare la c.d. “paura della firma”, si è […] estensivamente disciplinata l’esenzione da responsabilità, includendo qualunque condotta attiva gravemente colposa», ivi comprese quelle che non si risolvono nell’adozione di provvedimenti amministrativi, ossia qualunque «condotta fattuale, come ad esempio la rottura con colpa grave di un macchinario ospedaliero, il danneggiamento con colpa grave di auto dell’amministrazione, il danno indiretto provocato da un medico che dimentica la garza nell’addome dopo un’operazione, etc».

Inoltre, ove si considerino le finalità indicate nelle premesse del d.l. n. 76 del 2020, ossia la necessità e urgenza di introdurre interventi di semplificazione in materia di responsabilità del personale delle amministrazioni al fine di fronteggiare le ricadute economiche pregiudizievoli conseguenti all’emergenza epidemiologica, si dovrebbe «evidenziare che un conto è “alleggerire” le conseguenze della lesione dei diritti e interessi dei terzi nell’esercizio dell’attività provvedimentale, negoziale, materiale, altro è abbassare la soglia della “diligentia quam in suis” nei rapporti interni».

In relazione a quest’ultimi e ai danni provocati (come nel caso di specie) direttamente all’amministrazione, la soglia di attenzione o diligenza richiesta non potrebbe «essere abbassata e, soprattutto, tale abbassamento» non potrebbe essere giustificato «attraverso la necessità di fronteggiare le conseguenze economiche» derivanti dalla pandemia.

In definitiva, secondo il rimettente, la disposizione censurata violerebbe l’art. 103 Cost, «sottraendo alla giurisdizione della Corte dei conti l’assoggettabilità a responsabilità delle condotte attive gravemente colpose a far data dalla sua entrata in vigore».

1.5.– Le considerazioni sopra svolte, secondo il giudice a quo, verrebbero in rilievo anche come violazione dei principi di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione, di cui all’art. 97, secondo comma, Cost.

Il principio del buon andamento si declinerebbe «sia nel senso di assicurare un’attività amministrativa nel rispetto della legge, sia nel senso di assicurare l’efficienza e l’adeguatezza dell’agire amministrativo».

Sarebbe evidente che l’esenzione da responsabilità prevista dall’art. 21, comma 2, del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, «non favorisce la legalità dell’azione amministrativa», poiché «“rende legittime o lecite” condotte gravemente colpose, con la convinzione in colui che agisce che, in assenza del dolo, non ha alcun rilievo se agisca legittimamente o lecitamente, tanto non sarà tenuto a risarcire i danni prodotti».

La disposizione censurata, in altri termini, disincentiverebbe il pubblico dipendente, «“legalizzando” l’agire a prescindere dal rispetto delle norme minime cautelari e delle regole di prudenza, perizia e diligenza, senza apportare alcun beneficio alla funzionalità dell’Amministrazione, anzi fortemente incidendo sulla stessa».

Tali conseguenze non potrebbero trovare giustificazione nell’avere la norma carattere emergenziale e straordinario.

Ancora, verrebbero in rilievo anche il principio di efficienza dell’amministrazione, «come endiadi del buon andamento», «nonché il principio di cui al primo comma dell’art. 97 Cost., in base al quale la pubblica amministrazione deve assicurare l’equilibrio di bilancio e la sostenibilità del debito pubblico (unitamente all’art. 81 Cost.)».

Sarebbe «ben chiaro che la sottrazione di risorse, come nel caso di specie anche cospicue, è sintomo di inefficienza dell’amministrazione […] e concorre all’inefficienza complessiva del sistema il fatto che l’assetto normativo attuale non consenta all’amministrazione di ricevere adeguato ristoro nel caso di condotte attive causative di danno e connotate da inescusabile imperizia, negligenza, etc».

L’errore grave e inescusabile del dipendente pubblico resterebbe infatti a carico della collettività se non determinato da un’omissione, e rimarrebbe frustrato l’interesse pubblico all’azione efficiente ed economica della pubblica amministrazione.

Infine, il principio del buon andamento sarebbe collegato anche a quello di responsabilità dei pubblici dipendenti, sancito dall’art. 28 Cost., secondo il quale i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione dei diritti.

Se il legislatore «può perimetrare discrezionalmente tale responsabilità, dando contenuto all’art. 28 Cost. attraverso la legge, non può eliminarla tout court per le condotte colpose, svuotandola di gran parte del suo contenuto riferibile ai danni erariali, che non poco contribuiscono ai deficit dei bilanci pubblici».

Alla luce di tali considerazioni sarebbe evidente la violazione dell’art. 97, commi primo e secondo, Cost., anche «unitamente» agli artt. 28 e 81 Cost.

1.6.– Secondo il rimettente, sarebbe violato anche l’art. 3 Cost., poiché l’art. 21, comma 2, del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, creerebbe una «evidente discriminazione», risultando la norma «irragionevolmente ampia nel suo comprendere qualunque condotta commissiva gravemente colposa che esula dalle finalità» ad essa sottese.

Ancora, in forza della disposizione censurata, il giudice contabile nell’ambito del medesimo giudizio potrebbe giudicare sussistente la responsabilità erariale solo per le condotte commissive gravemente colpose poste in essere fino al 17 luglio 2020 (data di entrata in vigore del decreto-legge in parola).

Il rimettente afferma di essere consapevole della discrezionalità di cui gode il legislatore nel determinare che «da un certo momento in poi una condotta sia rilevante o meno ai fini della tutela dell’interesse pubblico all’utilizzo corretto delle risorse di un’amministrazione», e pur tuttavia «la ratio della norma in contestazione, evincibile anche dall’originario arco temporale limitato di vigenza della relativa disciplina», sarebbe rinvenibile «nel dover essere una disposizione esclusivamente inerente alla gestione dell’emergenza pandemica».

L’intento del legislatore, cioè, sarebbe quello «di voler agevolare il rilancio dell’economia, in crisi a causa della pandemia, ponendo un rimedio alla ormai nota c.d. “paura della firma” e consentendo ai pubblici dipendenti di poter così adottare provvedimenti senza alcuna eccessiva preoccupazione».

Considerata tale ratio, il caso di specie oggetto del giudizio a quo mostrerebbe chiaramente la «portata irragionevolmente ampia della norma, tale da comprendere e mandare esente da responsabilità erariale anche situazioni, per le quali, con ogni evidenza, non sarebbe giustificabile detta esenzione».

La violazione dell’art. 3 Cost. si coglierebbe anche sotto altro profilo.

Nella prospettazione del pubblico ministero contabile, alla produzione del danno erariale avrebbero concorso sia «l’omissione dei controlli addebitabile ad alcuni soggetti, sia la formazione dei titoli di pagamento addebitabile a quelli che hanno sottoscritto gli assegni».

In forza della disposizione censurata e per il periodo della sua vigenza, tuttavia, la responsabilità erariale potrebbe sussistere solo rispetto ai primi.

Si coglierebbe, «con tutta evidenza […], la discriminazione irragionevole operata dalla norma fra coloro che nell’ambito dell’amministrazione hanno obblighi di controllo e vigilanza e coloro che hanno la gestione attiva e i compiti di predisporre i provvedimenti amministrativi».

In altri termini, «va esente da responsabilità colui che con colpa grave pone in essere l’atto illegittimo ovvero l’attività illecita per i fatti commessi dopo l’entrata in vigore della norma censurata, e invece non è esente da responsabilità […] chi aveva “solo” il compito di controllare/vigilare sullo stesso».

Da ultimo, non potrebbe non sottolinearsi anche la discriminazione che si verrebbe ad acuire tra lavoratori del settore privato e del settore pubblico, perché, «rispetto ai primi, i secondi, che già godono di un’esenzione per colpa lieve, nell’attualità sono ancora più avvantaggiati essendo responsabili […] solo per condotte attive dolose o omissive gravemente colpose».

2.– Con atto depositato in data 19 marzo 2024, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, eccependo la non fondatezza delle questioni sollevate.

2.1.– Osserva l’interveniente che il d.l. n. 76 del 2020, a seguito della grave crisi economica provocata dall’emergenza epidemiologica, con la finalità di favorire la ripresa economica, ha inteso «corrispondere alla necessità e urgenza» di assicurare la semplificazione delle procedure amministrative in materia di contratti pubblici, di edilizia e di responsabilità del personale delle amministrazioni, nonché di introdurre misure di semplificazione in materia di digitalizzazione della pubblica amministrazione, ambiente e green economy.

In particolare, il Capo IV del Titolo II del decreto-legge in parola si occuperebbe delle misure di semplificazione in materia di responsabilità dei pubblici dipendenti, delimitandola attraverso una «diversa determinazione dell’ambito di applicazione» delle sanzioni penali e contabili, «con l’obiettivo di garantire una maggiore discrezionalità nell’attuazione dell’azione amministrativa, spesso irrigidita dal rischio di procedimenti giudiziari (il c.d. fenomeno dell’amministrazione difensiva)».

In questo contesto troverebbe origine la disposizione in questa sede censurata, ossia l’art. 21, comma 2, che, per i fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore e fino al 31 dicembre 2024, limita la responsabilità amministrativa, per le condotte commissive, alle sole fattispecie dolose.

2.2.– Secondo l’interveniente, nel merito, le questioni non sono fondate.

La giurisprudenza costituzionale avrebbe avuto occasione di richiamare la peculiare connotazione della responsabilità amministrativa per danno erariale rispetto alle altre forme di responsabilità previste dall’ordinamento, connotazione che «deriva dalla accentuazione dei profili sanzionatori rispetto a quelli risarcitori (sentenze n. 453 e n. 371 del 1998)» (si cita la sentenza n. 355 del 2010).

A differenza di quanto accade per la responsabilità civile, quella amministrativa avrebbe carattere strettamente personale; il relativo debito risarcitorio non sarebbe trasmissibile agli eredi, salvo il caso dell’illecito arricchimento del dante causa e, conseguentemente, degli stessi eredi; ancora, la responsabilità di cui si tratta sarebbe connotata da una «funzione non esclusivamente ripristinatoria del patrimonio dell’ente pubblico, “nella combinazione di elementi restitutori e di deterrenza” (sentenze n. 203 del 2022 e n. 371 del 1998)»; il risarcimento che ne consegue sarebbe parziario e non solidale, assoggettato al potere riduttivo del giudice contabile ed integrato, quanto all’elemento soggettivo, dal dolo o dalla colpa grave.

Tale configurazione differenziata della responsabilità erariale sarebbe stata ritenuta costituzionalmente legittima da questa Corte (si citano le sentenze n. 203 del 2022 e n. 453 del 1998).

Il complesso normativo risultante dal d.l. n. 76 del 2020, come convertito, poi, si porrebbe in linea di logica continuità con le modifiche che l’art. 3, comma 1, lettera a), del d.l. n. 543 del 1996, come convertito, ha apportato all’art. 1 della legge n. 20 del 1994, stabilendo che la responsabilità amministrativa dei dipendenti pubblici è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo o con colpa grave.

Il Presidente del Consiglio dei ministri osserva quindi che la responsabilità amministrativo-contabile, che presenterebbe alcuni tratti comuni alla responsabilità penale, quali la personalità e la non trasmissibilità agli eredi, «viene definita come la “misura” prevista dall’ordinamento contro colui che, legato da un rapporto di servizio con la pubblica amministrazione, arreca un danno suscettibile di valutazione economica allo Stato o ad altro ente od organismo pubblico, con dolo o colpa grave, in violazione dei suoi doveri di servizio».

Ancora, questa Corte più volte avrebbe riconosciuto la legittimità costituzionale della norma che «fissa la responsabilità amministrativa in materia contabile al minimum della colpa grave» (si citano le sentenze n. 355 del 2010, n. 453 e n. 371 del 1998).

In relazione alla disposizione censurata, gioverebbe richiamare la relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del d.l. n. 76 del 2020, da cui emergerebbe la precipua volontà del legislatore di limitare la responsabilità erariale «al solo profilo del dolo per le azioni e non anche per le omissioni, in modo che i pubblici dipendenti abbiano maggiori rischi di incorrere in responsabilità in caso di non fare (omissioni e inerzie) rispetto al fare, dove la responsabilità viene limitata al solo profilo del dolo».

L’art. 21, comma 2, del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, dunque, circoscriverebbe la reazione punitiva dell’ordinamento unicamente a chi omette di agire, oltre a chi agisce con dolo, «perseguendo l’intendimento di contrastare il rischio della paralisi amministrativa su cui incide, evidentemente, il timore del pubblico dipendente di incorrere in responsabilità allorché adotti una condotta attiva e operosa».

Andrebbe poi evidenziato che l’esenzione dalla responsabilità erariale non esclude l’azione innanzi al giudice ordinario per fare valere la responsabilità civile del dipendente pubblico, che rinverrebbe il proprio fondamento negli artt. 22 e seguenti del d.P.R. n. 3 del 1957.

Dall’autonomia dei due giudizi (quello contabile e quello civile) conseguirebbe che è comunque consentito alle pubbliche amministrazioni danneggiate promuovere dinanzi al giudice ordinario l’azione risarcitoria, facendo valere il proprio interesse particolare e concreto (si citano Corte di cassazione, sezioni unite civili, ordinanze 5 agosto 2020, n. 16722 e 10 settembre 2013, n. 20701).

In presenza di «condotte antigiuridiche lesive dell’erario», poste in essere da dipendenti delle amministrazioni pubbliche, potrebbero cioè attivarsi entrambe le forme di responsabilità innanzi ai giudici rispettivamente competenti, «nel caso dell’azione civile senza l’applicazione del potere riduttivo del quantum debeatur e degli altri presupposti che delimitano l’azione di responsabilità contabile».

3.– Con memorie depositate fuori termine, si sono costituiti in giudizio T. T. e S. R., parti convenute nel giudizio a quo.

Considerato in diritto

l.− Con ordinanza del 18 dicembre 2023, iscritta al n. 19 del registro ordinanze 2024, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Campania, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 28, 81, 97 e 103 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 2, del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, che prevede, per le condotte commissive, una temporanea limitazione della responsabilità amministrativa alle sole ipotesi dolose.

In particolare, la disposizione censurata, al momento della pubblicazione dell’ordinanza di rimessione, stabiliva che, «[l]imitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 30 giugno 2024, la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente».

Il rimettente muove alla disposizione in parola una serie di censure, articolate con riferimento a diversi parametri costituzionali e strettamente intrecciate tra loro.

In sostanza, secondo il giudice a quo, l’art. 21, comma 2, del d.l. n. 76 del 2020, come convertito:

a) esenta da responsabilità amministrativa i pubblici dipendenti che hanno tenuto una condotta attiva gravemente colposa, così incidendo su un «punto di equilibrio» riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale quale «principio generale» e deresponsabilizzando l’operato dei pubblici dipendenti medesimi, in violazione degli artt. 3 e 97 Cost.;

b) pur essendo finalizzato a consentire la ripresa dell’economia duramente penalizzata dalla pandemia, ricomprende qualsiasi condotta attiva e non solo quelle inerenti alla gestione dell’emergenza epidemiologica o in grado di rilanciare il sistema economico, e non distingue tra attività provvedimentali e materiali, e tra condotte causative di danni verso l’amministrazione e verso terzi, in violazione degli artt. 3 e 97 Cost.;

c) opera una «discriminazione irragionevole» tra coloro che hanno la gestione attiva e i compiti «di predisporre i provvedimenti amministrativi» e coloro che hanno obblighi di controllo e vigilanza, i quali ultimi continuano a rispondere anche per condotte commissive connotate da colpa grave, in violazione dell’art. 3 Cost.;

d) discrimina tra i lavoratori del settore privato e quelli del settore pubblico, «perché, rispetto ai primi, i secondi, che già godono di un’esenzione per colpa lieve, nell’attualità sono ancora più avvantaggiati essendo responsabili […] solo per condotte attive dolose o omissive gravemente colpose», in violazione dell’art. 3 Cost.;

e) sottrae alla giurisdizione della Corte dei conti «l’assoggettabilità a responsabilità» delle condotte attive gravemente colpose, ossia di un’ampia area di condotte foriere di danno erariale, in violazione dell’art. 103 Cost.;

f) “svuota” la responsabilità del pubblico dipendente e, al contempo, impedisce all’amministrazione di ricevere adeguato ristoro nel caso di condotte attive gravemente colpose e causative di danno, «che non poco contribuiscono ai deficit dei bilanci pubblici», in violazione degli artt. 28 e 81 Cost.

2.− Il termine finale della delimitazione della responsabilità introdotta dalla disposizione censurata è stato più volte modificato, come pure evidenziato dallo stesso rimettente.

Tale termine, originariamente fissato al 31 luglio 2021, è stato in un primo momento, in sede di conversione, spostato al 31 dicembre 2021; poi al 30 giugno 2023, indi al 30 giugno 2024 e, infine, al 31 dicembre del medesimo anno (ad opera, rispettivamente, dell’art. 51, comma 1, lettera h, del decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77, recante «Governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure», convertito, con modificazioni, nella legge 29 luglio 2021, n. 108; dell’art. 1, comma 12-quinques, lettera a, del decreto-legge 22 aprile 2023, n. 44, recante «Disposizioni urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle amministrazioni pubbliche», convertito, con modificazioni, nella legge 21 giugno 2023, n. 74; e dell’art. 8, comma 5-bis, del decreto-legge 30 dicembre 2023, n. 215, recante «Disposizioni urgenti in materia di termini normativi», convertito, con modificazioni, nella legge 23 febbraio 2024, n. 18).

3.− In via preliminare e in primo luogo, deve escludersi che l’ultima modifica normativa di cui si è dato conto – l’unica sopravvenuta all’ordinanza di rimessione – imponga la restituzione degli atti al giudice a quo per una nuova valutazione sulla rilevanza, perché lo ius superveniens, limitandosi a spostare in avanti il termine finale di vigenza della norma censurata, non ha inciso sulla sua applicazione ai fatti pregressi (tra le tante, sentenza n. 257 del 2017).

Va parimenti esclusa, in secondo luogo, la necessità di una restituzione degli atti per una nuova valutazione sulla non manifesta infondatezza, dal momento che l’intervento normativo, nel prolungare l’efficacia della disciplina censurata, lungi dal muoversi nella direzione auspicata dal rimettente, aggrava i denunciati vizi di legittimità costituzionale (tra le tante, sentenze n. 213 del 2021, n. 51 del 2019, n. 125 e n. 33 del 2018).

Piuttosto, poiché lo ius superveniens, al pari delle precedenti proroghe, ha inciso solo sull’orizzonte temporale della disposizione, lo scrutinio di legittimità costituzionale va condotto sulla disposizione medesima come da ultimo modificata, «rimanendo sostanzialmente invariata la norma in essa contenuta e, con essa, le censure che la investono (ex plurimis, sentenze n. 44 del 2018 e n. 84 del 1996)» (sentenza n. 165 del 2020).

4.− In punto di rilevanza, il rimettente deduce che nove degli assegni con cui è stata operata la sottrazione fraudolenta ad opera del cassiere sono stati co-firmati da alcuni dei convenuti nel giudizio a quo in epoca successiva all’entrata in vigore del decreto-legge e prima del 20 gennaio 2021.

Trattandosi di condotte commissive ricomprese nell’arco temporale indicato dalla disposizione censurata e gravemente colpose – perché compiute in macroscopica violazione dell’obbligo di verifica della regolarità e correttezza del procedimento di spesa gravante sui medesimi convenuti – esse, in forza della disposizione censurata, non potrebbero essere prese in considerazione al fine di accertare la loro quota di responsabilità.

Il giudice a quo precisa, poi, che tali condotte non potrebbero essere considerate omissive – il che escluderebbe la rilevanza delle questioni, dal momento che la disposizione censurata esonera da responsabilità per colpa grave unicamente quelle commissive – sol perché ai menzionati convenuti è rimproverato di avere apposto le firme omettendo di esercitare i dovuti controlli.

Siffatta motivazione regge al controllo “esterno” rimesso a questa Corte e limitato alla verifica della sua non manifesta implausibilità, erroneità o contraddittorietà (tra le tante, sentenze n. 50 del 2024, n. 164 del 2023, n. 192 del 2022 e n. 32 del 2021).

La condotta produttiva di danno erariale contestata ad alcuni dei convenuti è infatti quella di avere co-firmato assegni poi indebitamente riscossi dal cassiere e, dal punto di vista naturalistico, non vi è dubbio che abbia natura commissiva.

Lo stesso giudice contabile, chiamato ad individuare l’ambito di operatività della disposizione oggi censurata, ha in diverse occasioni fatto riferimento a tale approccio naturalistico per distinguere tra condotte commissive e omissive (Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Sardegna, sentenza 9 febbraio 2024, n. 32; sezione giurisdizionale per il Trentino-Alto Adige, sentenza 21 giugno 2023, n. 19; sezione giurisdizionale per la Regione siciliana, sentenza 13 giugno 2023, n. 305; sezione giurisdizionale per l’Emilia-Romagna, sentenza 21 aprile 2022, n. 72).

5.– Prima di esaminare il merito delle questioni, è necessario brevemente tratteggiare le caratteristiche salienti della responsabilità amministrativa dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti.

5.1.– Come già ricordato da questa Corte (sentenza n. 203 del 2022), la responsabilità in questione rinviene la sua prima vigente fonte normativa nell’art. 82, primo comma, del r.d. n. 2440 del 1923, secondo cui «[l]’impiegato che, per azione od omissione, anche solo colposa, nell’esercizio delle sue funzioni, cagioni danno allo Stato, è tenuto a risarcirlo».

Essa è esercitata innanzi alla Corte dei conti dal pubblico ministero contabile ed è principalmente regolata, sul piano sostanziale, dall’art. 1 della legge n. 20 del 1994, mentre gli aspetti processuali della correlativa azione sono ora disciplinati dal decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124).

I fondamentali tratti della responsabilità in questione, per come stratificatisi nel tempo anteriormente alla disposizione censurata, sono i seguenti:

– è una responsabilità personale, il cui debito non è trasmissibile agli eredi (salve le ipotesi di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi: art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994);

– l’elemento psicologico richiesto per l’integrazione dell’illecito è il dolo o la colpa grave, con esclusione della colpa lieve (art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994, per come modificato dall’art. 3, comma 1, lettera a, del d.l. n. 543 del 1996, come convertito);

– dà luogo ad un’obbligazione non solidale ma parziaria (art. 1, comma 1-quater, della legge n. 20 del 1994, ai sensi del quale «[s]e il fatto dannoso è causato da più persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la parte che vi ha preso»);

– non si estende al «merito delle scelte discrezionali» (art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994);

– in caso di decisioni di organi collegiali, «si imputa esclusivamente a coloro che hanno espresso voto favorevole» e, in caso di «atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi», non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l’esecuzione (art. 1, comma 1-ter, della legge n. 20 del 1994);

– il giudice può esercitare il cosiddetto “potere riduttivo” (art. 83, primo comma, del r.d. n. 2440 del 1923, secondo cui la Corte dei conti, «valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto»);

– è caratterizzata dall’operare di una estesa compensatio lucri cum damno (art. 1, comma 1-bis, della legge n. 20 del 1994, secondo cui «[n]el giudizio di responsabilità, fermo restando il potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione di appartenenza, o da altra amministrazione, o dalla comunità amministrata in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità»);

– il suo termine prescrizionale è di cinque anni, «decorrenti dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso, ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta» (art. 1, comma 2, della legge n. 20 del 1994).

5.2.– La dottrina prevalente e la stessa giurisprudenza costituzionale sottolineano il carattere composito della responsabilità in esame, in ragione del concorrere delle funzioni di prevenzione, risarcitoria e sanzionatoria (tra le più recenti, sentenze n. 123 del 2023 e n. 203 del 2022).

La responsabilità amministrativa per danno erariale, pur combinando «elementi restitutori e di deterrenza» (sentenza n. 371 del 1998) e nonostante in più aspetti si discosti dall’archetipo della comune disciplina civilistica (sentenze n. 123 del 2023, n. 203 del 2022, n. 355 del 2010 e n. 453 del 1998), non smarrisce la sua natura risarcitoria di fondo (tra le tante, Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione siciliana, sentenza 21 gennaio 2021, n. 59; sezioni riunite giurisdizionali, sentenze 18 giugno 2015, n. 28, 27 dicembre 2007, n. 12, e 1° marzo 1996, n. 26; nello stesso senso, Corte europea dei diritti dell’uomo, seconda sezione, sentenza 13 maggio 2014, Rigolio contro Italia), essendo ancorata al danno subito, dal momento che in assenza dello stesso e oltre lo stesso non può esservi responsabilità.

6.– Nel merito, la questione avente priorità logica è quella con cui il rimettente dubita che il legislatore possa discostarsi, senza porsi in contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost., dal principio generale dell’ordinamento che vedrebbe nella imputabilità a titolo di dolo e colpa grave il giusto «punto di equilibrio del sistema», che individua «il quantum di rischio che deve ricadere sul datore di lavoro amministrazione pubblica per i danni causati dai dipendenti, nell’ottica, da un lato», di incentivare l’operato attivo degli amministratori e, dall’altro, di «non incentivare condotte» negligenti e «foriere di danno».

6.1– La questione non è fondata.

6.2.– L’art. 21, comma 2, del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, ha introdotto una disciplina provvisoria (prorogata con successivi decreti-legge fino al 31 dicembre 2024), che, quanto alle condotte attive, limita la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti alle sole ipotesi dolose.

Il legislatore, con la disposizione in esame, ha così modificato, in via temporanea, la disciplina dell’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa, che l’art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994 (come modificato dall’art. 3, comma 1, lettera a, del d.l. n. 543 del 1996, come convertito) àncora, a regime, al dolo e alla colpa grave.

Il riassetto della responsabilità amministrativa recato proprio da quest’ultima legge era una componente di un processo riformatore di più ampio respiro che ha avuto luogo negli anni Novanta del secolo scorso.

I suoi tasselli principali erano costituiti dalla legge 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali), dalla legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), dal decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione della organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), nonché dalla legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa), dalla legge 15 maggio 1997, n. 127 (Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo), e dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59).

Attraverso un articolato e complessivo processo di riforma si introduceva un nuovo modello di pubblica amministrazione.

In particolare, quest’ultima, come stabilito dalla legge n. 241 del 1990, oltre che dal principio di legalità, sarebbe stata retta dai criteri di economicità ed efficacia (art. 1). I dirigenti, poi, in forza della legge n. 142 del 1990 e del d.lgs. n. 29 del 1993, si sono visti compiutamente attribuire il compito di conseguire gli obiettivi assegnati dagli organi di governo e, conseguenzialmente, sono stati configurati quali responsabili per i risultati effettivamente raggiunti.

Tali fondamentali innovazioni – tra le altre – marcavano il passaggio da un’amministrazione che, secondo il modello dello Stato di diritto liberale, doveva dare semplicemente esecuzione alla legge, adottando un singolo e puntuale atto amministrativo, a quella che è stata definita “amministrazione di risultato”, cioè un’amministrazione che deve raggiungere determinati obiettivi di policy e che risponde dei risultati economici e sociali conseguiti attraverso la sua complessiva attività.

Con la descritta evoluzione del sistema, il legislatore, anche a mezzo del riassetto della responsabilità amministrativa operato dalla legge n. 20 del 1994 e dalle successive modifiche, intendeva promuovere un’amministrazione sempre meno relegata all’esecuzione del già deciso con la legge, ma orientata – appunto – al risultato, e perciò sempre più ampiamente investita del compito di scegliere, nell’ambito della cornice legislativa, i mezzi di azione ritenuti più appropriati, di ponderare i molteplici interessi pubblici e privati coinvolti dalla decisione amministrativa, di legare insieme in un disegno unitario differenti atti e provvedimenti, e di assicurare l’efficienza, operando in un orizzonte temporale ben preciso (il tempo, a partire dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990, non è più una variabile indipendente dell’agire amministrativo).

L’ampia discrezionalità, peraltro esercitata in un ambiente in cui la complessità istituzionale, sociale e giuridica è andata progressivamente crescendo, è una componente essenziale e caratterizzante tale tipo di amministrazione. La necessità di scegliere, entro un termine predeterminato, sovente tra un ventaglio ampio di possibilità e in un ambito non più integralmente tracciato dalla legge, accresce inevitabilmente la possibilità di errori da parte dell’agente pubblico, ingenerando il rischio della sua inazione.

Per evitare tale pericolo, come ricordato, l’art. 3, comma 1, lettera a), del d.l. n. 543 del 1996, come convertito (modificando l’art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994), ha escluso la colpa lieve dalla configurazione dell’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa, che pertanto è stata circoscritta ai casi di dolo o colpa grave.

Il sistema di tale responsabilità – anche attraverso il quale, unitamente ai controlli, si estrinseca il ruolo fondamentale della Corte dei conti di organo posto al servizio (anche) dello Stato-comunità e garante imparziale della corretta gestione delle risorse pubbliche (tra le tante, sentenze n. 80 del 2017 e n. 40 del 2014) – doveva, infatti, per necessità di armonia istituzionale, atteggiarsi in modo differente col cambiare del modello di amministrazione cui afferisce.

6.3.– Questa Corte, chiamata a giudicare della legittimità costituzionale della da ultimo menzionata scelta legislativa, in una decisione che costituisce la testata d’angolo della sua giurisprudenza nella materia, ha chiarito che già i relativi lavori preparatori evidenziavano «l’intento di predisporre, nei confronti degli amministratori e dei dipendenti pubblici un assetto normativo in cui il timore della responsabilità non esponga all’eventualità di rallentamenti ed inerzie nello svolgimento dell’attività amministrativa» (sentenza n. 371 del 1998).

Pertanto, «[n]ella combinazione di elementi restitutori e di deterrenza che connotano l’istituto qui in esame, la disposizione risponde […] alla finalità di determinare quanto del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità ragione di stimolo, e non di disincentivo» (così, la citata sentenza n. 371 del 1998).

In questa prospettiva va inquadrata la disciplina della responsabilità amministrativa in generale e del suo elemento soggettivo in particolare, e tale ottica è stata in seguito più volte ribadita (sentenze n. 203 del 2022 e n. 355 del 2010). Essa, dunque, si sostanzia nella scelta della ripartizione del rischio dell’attività tra l’apparato e l’agente pubblico, al fine di trovare un giusto punto di equilibrio.

Quest’ultimo va individuato tenendo conto, in particolare, di due esigenze.

Da una parte, la responsabilità amministrativa, oltre a una funzione risarcitoria, variamente modulabile, ha una funzione deterrente. La sua stessa esistenza scoraggia i comportamenti non solo dolosi ma anche gravemente negligenti dei funzionari pubblici, che pregiudicano il buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e gli interessi degli stessi amministrati, la cui contribuzione al funzionamento della macchina pubblica potrebbe essere dissipata senza alcun beneficio per la collettività. Dall’altra parte, vi è l’esigenza di impedire che, in relazione alle modalità dell’agire amministrativo, il rischio dell’attività sia percepito dall’agente pubblico come talmente elevato da fungere da disincentivo all’azione, pregiudicando, anche in questo caso, il buon andamento.

Il punto di equilibrio può non essere fissato dal legislatore una volta per tutte, ma modulato in funzione del contesto istituzionale, giuridico e storico in cui opera l’agente pubblico, e del bilanciamento che il legislatore medesimo – nel rispetto del limite della ragionevolezza – intende effettuare, in tale contesto, tra le due menzionate esigenze. La stessa scelta legislativa della limitazione della responsabilità alle ipotesi dolose e gravemente colpose, positivamente scrutinata da questa Corte con la citata sentenza n. 371 del 1998, si collocava nel processo di trasformazione dell’amministrazione di cui si è fatto cenno.

In linea con le considerazioni testé svolte, nella giurisprudenza costituzionale è del resto costante l’affermazione che la concreta configurazione della responsabilità amministrativa e la definizione del margine di discostamento dai principi comuni della materia sono rimessi alla discrezionalità del legislatore (sentenze n. 123 del 2023, n. 203 del 2022, n. 355 del 2010, n. 371 del 1998, n. 411 del 1988 e ordinanza n. 168 del 2019), «con il solo limite della non manifesta irragionevolezza e arbitrarietà della scelta» (sentenza n. 355 del 2010; nello stesso senso, sentenza n. 371 del 1998, ordinanze n. 168 del 2019, n. 219, n. 221 e n. 286 del 2011).

6.4.– Nel tempo trascorso successivamente alla ricordata legislazione di riforma degli anni Novanta del secolo scorso e alla sentenza n. 371 del 1998, la scelta a favore di un’amministrazione di risultato si è andata via via consolidando (ad esempio, con il decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, recante «Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche», con la legge 15 luglio 2002, n. 145, recante «Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato», e con il decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, recante «Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni»).

Particolarmente emblematico di questa tendenza è il recente decreto legislativo 31 marzo 2023, n. 36 (Codice dei contratti pubblici, in attuazione dell’articolo 1 della legge 21 giugno 2022, n. 78, recante delega al Governo in materia di contratti pubblici). Quest’ultimo, nell’enunciare i principi generali che reggono l’azione amministrativa nella materia colloca, rispettivamente agli artt. 1 e 2, il «principio del risultato» e quello correlato della «fiducia».

In particolare, l’art. 1 stabilisce, al comma 4, che il principio del risultato costituisce «criterio prioritario per l’esercizio del potere discrezionale e per l’individuazione della regola del caso concreto, nonché per […] valutare la responsabilità del personale che svolge funzioni amministrative o tecniche nelle fasi di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione dei contratti». Quanto al principio della fiducia, il nuovo codice dei contratti afferma che esso «favorisce e valorizza l’iniziativa e l’autonomia decisionale dei funzionari pubblici, con particolare riferimento alle valutazioni e alle scelte per l’acquisizione e l’esecuzione delle prestazioni secondo il principio del risultato» (art. 2, comma 2).

Coerentemente con la valorizzazione del principio del risultato e di quello della fiducia, e a riprova della stretta correlazione che esiste tra modello di amministrazione pubblica e regime della responsabilità amministrativa, il codice dei contratti ha ridotto la quota di rischio a carico del dipendente pubblico. Infatti, da un lato, ha operato una tipizzazione della colpa grave rilevante in sede di responsabilità amministrativa (art. 2, comma 3), e, dall’altro, ha posto a carico dell’amministrazione una serie di obblighi, tra cui quello di adottare azioni per la copertura assicurativa dei rischi per il personale (artt. 2, comma 4, e 15, comma 7).

6.5.– Nei decenni successivi alla riforma della responsabilità amministrativa del 1994 la complessità dell’ambiente in cui operano gli agenti pubblici è divenuta ancora maggiore, sul piano istituzionale, giuridico e fattuale, rendendo più difficili le scelte amministrative in cui si estrinseca la discrezionalità e più facile l’errore, anche grave. A questo riguardo è sufficiente richiamare alcune tendenze.

In primo luogo, va sottolineato come l’individuazione delle norme da applicare al caso concreto sia estremamente problematica e sovente non dia luogo a risultati univoci, a causa di un sistema giuridico multilivello in cui operano fonti di provenienza diversa (eurounitaria, statale, regionale e locale), spesso tra loro non coordinate.

A ciò si aggiungono le difficoltà interpretative derivanti da una caotica produzione legislativa, alimentata dalla “fame di norme” delle società moderne e dal ricorso frequente da parte della legge a “compromessi dilatori”, che trasferiscono quasi interamente sull’amministrazione il compito di determinare l’assetto di interessi ed esigenze tra loro confliggenti.

In secondo luogo, non possono non essere tenuti in considerazione i costanti tagli alle risorse finanziarie, umane e strumentali delle amministrazioni, a causa delle ben note esigenze di bilancio, in presenza di un elevatissimo debito pubblico.

Amministrare con mezzi spesso inadeguati accresce il rischio che il dipendente pubblico commetta un errore, che potrebbe essere qualificato in sede di responsabilità amministrativa come frutto di grave negligenza.

In terzo luogo, vi sono alcune tendenze strutturali delle odierne società e dei loro sistemi amministrativi.

Da un lato, il pluralismo sociale e il pluralismo istituzionale si proiettano nei procedimenti amministrativi e nelle istituzioni pubbliche, rendendo sempre più problematica ed esposta alla contestazione la ponderazione di tali interessi in cui si risolve l’esercizio della discrezionalità amministrativa. Dall’altro, vi è il moltiplicarsi dei rischi provocati dalla stessa attività umana e che spesso sono conseguenze non intenzionali dello sviluppo tecnologico ed economico (rischi ambientali, sanitari, connessi al clima, legati alle dinamiche delle catene globali del valore, finanziari, inerenti alla sicurezza pubblica, et cetera). Sull’agente pubblico si scarica così la difficile scelta tra quale delle due esigenze privilegiare: l’esigenza di precauzione, con i suoi costi, ovvero quella di favorire l’iniziativa economica, la creazione di posti di lavoro, la raccolta di risorse sui mercati finanziari, e cioè tutte attività che, in caso di concretizzazione di qualcuno dei rischi menzionati, sono suscettibili di cagionare danni all’amministrazione e alla collettività.

Gli sviluppi sinteticamente richiamati hanno accentuato la “fatica dell’amministrare”, rendendo difficile l’esercizio della discrezionalità amministrativa e stimolando, come reazione al rischio percepito di incorrere in responsabilità, la “burocrazia difensiva”. Quest’ultima risulta peraltro alimentata anche dall’incertezza provocata da una disciplina che si affida a un concetto giuridico indeterminato, quale quello della colpa grave, anziché procedere a una sua tipizzazione.

6.6.– Il consolidamento dell’amministrazione di risultato e i profondi mutamenti del contesto in cui essa opera giustificano la ricerca legislativa di nuovi punti di equilibrio che riducano la quantità di rischio dell’attività che grava sull’agente pubblico, in modo che il regime della responsabilità, nel suo complesso, non funga da disincentivo all’azione.

Come avviene anche per altre forme di responsabilità, è necessario ricercare un equilibrio tra i pericoli di overdeterrence e underdeterrence. Non esiste una disciplina che li escluda entrambi e il legislatore è chiamato inevitabilmente a decidere di contrastare prevalentemente l’uno o l’altro, e inversamente di considerare socialmente più accettabile un pericolo anziché l’altro.

6.6.1.– Le ricordate trasformazioni, tuttavia, non potrebbero concretizzarsi, sullo specifico piano dell’elemento soggettivo, in un regime ordinario che limitasse la responsabilità amministrativa alla sola ipotesi del dolo.

In tale evenienza, infatti, non si realizzerebbe una ragionevole ripartizione del rischio, che invece sarebbe addossato in modo assolutamente prevalente alla collettività, la quale dovrebbe sopportare integralmente il danno arrecato dall’agente pubblico. I comportamenti macroscopicamente negligenti non sarebbero scoraggiati e, pertanto, la funzione deterrente della responsabilità amministrativa, strumentale al buon andamento dell’amministrazione, ne sarebbe irrimediabilmente indebolita.

6.6.2.– Diverso, però, è il caso in cui la disciplina che circoscriva alle sole ipotesi di dolo l’elemento soggettivo della responsabilità riguardi esclusivamente un numero limitato di agenti pubblici o determinate attività amministrative, allorché esse presentino, per le loro caratteristiche intrinseche, un grado di rischio di danno talmente elevato da scoraggiare sistematicamente l’azione e dare luogo alla “amministrazione difensiva”.

Non a caso, questa Corte, con la sentenza n. 108 del 1967, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale di una disposizione che, per quanto qui rileva, limitava la responsabilità degli agenti contabili e degli ordinatori di spesa delle sovrintendenze alle sole condotte dolose per il quinquennio antecedente alla sua entrata in vigore. Nel respingere la censura di violazione del principio di eguaglianza, la sentenza citata ha osservato che il trattamento differenziato riservato ai suddetti funzionari era sorretto da criteri logici e razionali di tipo soggettivo (lo «stato di disagio e apprensione» dei funzionari medesimi) e oggettivo («in relazione alle obiettive particolarità della situazione»), nonché della stessa transitorietà della disciplina.

In altra occasione, si è chiarito che il legislatore, con il limite della ragionevolezza, al fine di «garantire un più sollecito ed efficiente svolgimento dell’azione amministrativa», è libero di disciplinare diversamente «la determinazione e la graduazione dei tipi e dei limiti di responsabilità che, in relazione alle varie categorie di dipendenti pubblici o alle particolari situazioni regolate, appaiano come le forme più idonee a garantire l’attuazione dei […] principi costituzionali» (sentenza n. 1032 del 1988).

6.6.3.– Parimenti, può essere ritenuta non irragionevole una disciplina provvisoria che limiti al dolo l’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa, avuto riguardo a un contesto particolare che richieda tale limitazione al fine di assicurare la maggiore efficacia dell’attività amministrativa e, attraverso essa, la tutela di interessi di rilievo costituzionale.

Una disciplina provvisoria che limiti l’elemento soggettivo al dolo può essere non irragionevole, anche se indebolisce la funzione deterrente, in quanto radicata nella particolarità di uno specifico contesto in cui la tutela di fondamentali interessi di rilievo costituzionale richieda che l’attività amministrativa si svolga in modo tempestivo e senza alcun tipo di ostacoli, neppure di quelli che derivano dal timore di incorrere (al di fuori delle ipotesi dolose) nella responsabilità amministrativa.

6.7.– Questo è il caso della disposizione oggetto di censura, che origina in un contesto del tutto peculiare e che pone una disciplina provvisoria, la cui efficacia cesserà il 31 dicembre 2024.

Tale disposizione è stata introdotta dal d.l. n. 76 del 2020, che, come esplicitato nel suo preambolo, è stato adottato in ragione della «straordinaria necessità e urgenza di realizzare un’accelerazione degli investimenti e delle infrastrutture attraverso la semplificazione delle procedure in materia di contratti pubblici e di edilizia, operando senza pregiudizio per i presidi di legalità», e di «introdurre misure di semplificazione procedimentale e di sostegno e diffusione dell’amministrazione digitale, nonché interventi di semplificazione in materia di responsabilità del personale delle amministrazioni, nonché di adottare misure di semplificazione in materia di attività imprenditoriale, di ambiente e di green economy, al fine di fronteggiare le ricadute economiche conseguenti all’emergenza epidemiologica da Covid-19».

Nel Capo IV del Titolo II del decreto-legge in esame, dedicato alle responsabilità dei dipendenti pubblici, il legislatore è intervenuto, con l’art. 21, sulla disciplina della responsabilità amministrativa, e, all’art. 23, ha modificato in senso restrittivo la disciplina del reato di abuso d’ufficio. Come ha osservato questa Corte, quando ha deciso le questioni di legittimità costituzionale sollevate sul citato art. 23, il d.l. n. 76 del 2020 si occupa, nel Capo menzionato, «delle due principali fonti di “timore” per il pubblico amministratore (e, dunque, dei suoi “atteggiamenti difensivistici”): la responsabilità erariale e la responsabilità penale» (sentenza n. 8 del 2022).

Nella medesima sentenza, si è osservato che, «[b]enché l’esigenza di contrastare la “burocrazia difensiva” e i suoi guasti, agendo sulle cause del fenomeno, fosse già da tempo avvertita, la scelta di porre mano all’intervento è maturata solo a seguito dell’emergenza pandemica da COVID-19, nell’ambito di un eterogeneo provvedimento d’urgenza volto a dare nuovo slancio all’economia nazionale, messa a dura prova dalla prolungata chiusura delle attività produttive disposta nella prima fase acuta dell’emergenza».

La disposizione censurata, pertanto, può trovare idonea giustificazione in relazione al peculiarissimo contesto economico e sociale in cui l’emergenza pandemica da COVID-19 aveva determinato la prolungata chiusura delle attività produttive, con danni enormi per l’economia nazionale e conseguente perdita di numerosi punti del prodotto interno lordo (PIL), e che aveva ovvie ricadute negative sulla stessa coesione sociale e la tutela dei diritti.

Per superare la grave crisi e rimettere in movimento il motore dell’economia, il legislatore ha ritenuto indispensabile che l’amministrazione pubblica operasse senza remore e non fosse, al contrario, a causa della sua inerzia, un fattore di ostacolo alla ripresa economica.

Tale esigenza era legata alla tutela di interessi vitali della società italiana, dotati di una sicura rilevanza costituzionale, tra cui, a titolo esemplificativo, si menzionano l’eguaglianza (art. 3 Cost.), il diritto al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), i vari diritti sociali la cui effettività richiede che nel bilancio pubblico possano confluire risorse con cui sostenere finanziariamente le correlate prestazioni pubbliche (artt. 32, 33, 34 e 38 Cost.), e la libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.).

L’esigenza di contrastare nel modo più efficace possibile la tendenza alla “burocrazia difensiva” – che si è accentuata per effetto delle trasformazioni strutturali precedentemente sintetizzate – induceva il legislatore, nel contesto descritto, allo spostamento temporaneo della configurazione dell’elemento soggettivo verso il polo dell’underdeterrence.

L’obiettivo di stimolare l’attività degli agenti pubblici in un contesto specifico e provvisorio, evitando che la responsabilità amministrativa possa operare come disincentivo, si riflette, poi, coerentemente, nella limitazione dell’intervento legislativo alle sole condotte attive, «in modo che i pubblici dipendenti abbiano maggiori rischi di incorrere in responsabilità in caso di non fare (omissioni e inerzie) rispetto al fare, dove la responsabilità viene limitata al dolo» (così la relazione illustrativa del d.l. n. 76 del 2020.

6.8.– Le proroghe della disposizione censurata sono state operate nella fase successiva alla crisi economica provocata dalla pandemia.

In questa nuova fase si è manifestata la necessità di «semplificare e agevolare la realizzazione dei traguardi e degli obiettivi stabiliti» (così, il dossier del servizio studi del Senato n. 394/3 del 26 luglio 2021, relativo al d.l. n. 77 del 2021) dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), in attesa, peraltro, di una «complessiva revisione della disciplina sulla responsabilità amministrativo-contabile» (così, l’art. 1, comma 12-quinquies, lettera a, del d.l. n. 44 del 2023, come convertito).

Il PNRR è il mezzo con cui, all’interno di ciascuno Stato, si realizzano gli obiettivi di Next Generation EU (NGEU), il quale è uno strumento europeo temporaneo di politica economica che, per il periodo compreso tra il 2021 e il 2026, mobilita risorse complessive per circa 807 miliardi di euro.

NGEU – il cui obiettivo principale consiste nel superare la crisi determinata dalla pandemia stimolando una crescita delle economie europee che sia sostenibile e che, pertanto, promuova la loro «doppia transizione verde e digitale» – è composto di sette programmi, di cui il Recovery and Resilience Facility (RRF) è di gran lunga il principale con una copertura fino a circa 724 miliardi di euro.

L’Italia, cui sono attualmente destinati 194,4 miliardi di euro, è il maggior beneficiario del RRF, per due ordini di ragioni, indicate nello stesso PNRR.

La pandemia ha colpito l’economia italiana più di altri Paesi europei, segnando una caduta del PIL nel 2020 superiore a quella media dell’UE, e ha mostrato in particolare le debolezze del suo sistema sanitario, a lungo sottovalutate. A questa motivazione di ordine congiunturale si aggiunge un’altra di ordine strutturale legata alle fragilità della nostra economia e alle sue ricadute negative sulla società.

Per attivare un sentiero di crescita economica sostenibile, il PNRR prevede un complesso di investimenti e di riforme organizzate, ad oggi, in sette Missioni (a loro volta suddivise in sedici Componenti e 216 Misure), caratterizzate da tre obiettivi trasversali: 1) parità di genere; 2) protezione e valorizzazione dei giovani; 3) superamento dei divari territoriali.

L’attuazione del PNRR avviene secondo un cronoprogramma con milestones definite e il trasferimento delle risorse avviene periodicamente per tranches, a seguito di un procedimento di verifica del conseguimento da parte dello Stato dei traguardi intermedi.

Nel peculiare contesto che si è sintetizzato, ogni indugio e ritardo delle amministrazioni pubbliche può compromettere il rispetto del cronoprogramma stabilito, bloccando, alla scadenza prevista, l’erogazione da parte dell’UE della tranche di risorse stanziate.

Compromettere l’attuazione del PNRR equivale a impedire la ripresa di un sentiero di crescita economica sostenibile e il superamento di alcuni divari economici, sociali e di genere. Con la conseguenza che l’inerzia amministrativa, nel contesto descritto, viene a pregiudicare gravemente interessi di grande rilevanza costituzionale, quali il rispetto degli obblighi assunti in sede UE (artt. 11 e 117, primo comma, Cost.), la tutela dell’ambiente (art. 9 Cost.) e la realizzazione di un’economia sostenibile (art. 41 Cost.), l’equilibrio di bilancio e la sostenibilità del debito pubblico (art. 81 Cost.), gli interessi delle future generazioni (art. 9 Cost.), l’eguaglianza, anche di genere (art. 3 Cost.), e la coesione territoriale (artt. 5 e 119 Cost). Il che, anche per tale fase, rende ragionevole il punto di equilibrio che, limitatamente alle condotte attive, provvisoriamente limita l’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa al solo dolo.

7.– Con la seconda questione, il rimettente lamenta la violazione dei principi di ragionevolezza e buon andamento della pubblica amministrazione, sotto il profilo del difetto di proporzionalità e congruità dello spettro applicativo della disposizione.

Secondo il giudice a quo, infatti, la pur legittima finalità perseguita da quest’ultima sarebbe tradita dalla ricomprensione nel suo ambito di operatività delle condotte materiali, di quelle non inerenti alla gestione dell’attività pandemica e al rilancio dell’economia, nonché di quelle foriere di danni diretti all’amministrazione.

7.1.– Deve innanzitutto precisarsi, che – a differenza di quanto in alcuni passaggi sembra assumere la Corte dei conti e come risulta evidente dalle considerazioni rassegnate nel paragrafo che precede – la norma censurata non è finalizzata a fare fronte alla gestione dell’emergenza pandemica.

Essa, invece, persegue, nella sua logica iniziale, il fine ultimo di contribuire al rilancio dell’economia a seguito della sua ben nota crisi, ingenerata, in primo luogo, dalla pandemia; e, in relazione alle proroghe, quello di consentire l’imprescindibile raggiungimento degli obiettivi posti dal PNRR.

7.2.– Anche tale questione non è fondata.

7.3.– Nel valutare la proporzionalità dell’intervento legislativo, deve in primo luogo osservarsi che esso origina, come già chiarito, da un contesto eccezionale, ha natura temporanea ed ha comunque un oggetto delimitato, riguardando solo le condotte commissive e non quelle “inerti” ed “omissive”.

7.4.– In secondo luogo, può convenirsi con il rimettente che la limitazione della responsabilità amministrativa per tutte le condotte attive possa apparire, prima facie, di dubbia legittimità costituzionale, ove si parta dal rilievo che lo spostamento del cennato punto di equilibrio è stato originariamente dettato dalla necessità di raggiungere il fine ultimo di favorire la ripartenza dell’economia, fine rispetto al quale alcune di quelle condotte – specie quelle materiali – potrebbero ritenersi irrilevanti.

Deve tuttavia essere considerato, in senso contrario, che l’attività della pubblica amministrazione è sempre funzionalizzata alla cura di interessi pubblici, sia quando si estrinseca attraverso atti e provvedimenti, sia quando si estrinseca attraverso comportamenti materiali, e l’operato dei pubblici dipendenti, a qualsiasi livello, può incidere sull’efficacia ed efficienza dell’amministrazione medesima.

Parallelamente, la “burocrazia difensiva” non si annida necessariamente nelle sole attività procedimentali o provvedimentali o nei grandi centri decisionali, ma è in grado di interessare trasversalmente l’intero operato della pubblica amministrazione.

Ciò – nel peculiarissimo contesto dato e unitamente alla obiettiva difficoltà di individuare ex ante e in maniera esaustiva le attività immediatamente rispondenti all’urgente bisogno di favorire la ripresa economica – rende non manifestamente incongrua la scelta legislativa iniziale di combattere la “burocrazia difensiva” su “grande scala”, ingenerando un complessivo clima di fiducia tra gli agenti pubblici, volto a favorire la spinta dell’intera macchina amministrativa.

Per le stesse ragioni si giustifica, nella fase successiva, la mancata distinzione tra attività legate all’attuazione del PNNR e attività ad essa estranee, specie ove si consideri che, nel concreto dispiegarsi dell’attività amministrativa, vi possono essere attività ed opere che, per quanto non ricomprese nel Piano, ad esse risultano strettamente connesse o funzionali.

7.5.– Né, da questa angolazione, assume alcun rilievo la distinzione tra attività del pubblico dipendente che possano cagionare danni indiretti (quelli, cioè, subiti dall’amministrazione per essere stata condannata al risarcimento in favore di terzi) e attività che possano cagionare danni diretti, per le quali ultime mai vi sarebbe, secondo il rimettente, un collegamento con la finalità di fronteggiare le conseguenze economiche derivanti dalla pandemia.

Con la misura in esame, il legislatore ha difatti inteso favorire la realizzazione di investimenti non solo privati ma anche pubblici, con la conseguenza che un atteggiamento difensivo rispetto a quest’ultimi, pur potendo in ipotesi (ma non sempre) non cagionare danni a terzi, ben potrebbe determinare un rallentamento di un’opera o di un servizio utili all’incremento della ricchezza collettiva.

8.– Parimenti non fondata è poi la questione con cui si lamenta la violazione del principio di eguaglianza, sull’assunto che la disposizione in esame operi una «discriminazione irragionevole» tra coloro che hanno la gestione attiva e il compito «di predisporre i provvedimenti amministrativi» e coloro che hanno “solo” obblighi di controllo e vigilanza, i quali ultimi, a differenza dei primi, continuerebbero a rispondere anche per condotte commissive connotate da colpa grave.

Come osservato dallo stesso rimettente in punto di rilevanza, infatti, anche l’esercizio della funzione di controllo, al pari di quella di amministrazione attiva, può esplicarsi sia in condotte naturalisticamente commissive che omissive: in entrambi i casi, l’esenzione da responsabilità prevista dalla disposizione censurata riguarda esclusivamente le prime, donde l’insussistenza della denunziata disparità di trattamento.

9.– Ancora non fondata è la questione con cui è dedotto un ulteriore profilo di violazione del principio di eguaglianza, per avere l’art. 21, comma 2, del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, apprestato un trattamento di favore ai dipendenti pubblici rispetto a quelli privati, dal momento che i primi, i quali «già godono di un’esenzione per colpa lieve, nell’attualità sono ancora più avvantaggiati», «essendo responsabili nel periodo di vigenza della norma solo per condotte attive dolose o omissive gravemente colpose».

Le categorie prese in considerazione dal rimettente, infatti, non sono omogenee, in quanto soggette a statuti diversi (tra le tante, sentenze n. 178 del 2015, n. 120 del 2012 e n. 146 del 2008), anche e soprattutto in punto di responsabilità: quella del dipendente privato è pienamente risarcitoria e integralmente disciplinata dal codice civile, mentre quella del pubblico dipendente ha la natura sopra ricordata, in più punti derogatoria delle regole generali.

10.– Inammissibili per inconferenza del parametro sono, da ultimo, le questioni con cui il rimettente deduce la violazione degli artt. 28, 81 e 103 Cost.

Il primo degli evocati parametri, infatti, concerne esclusivamente la responsabilità del pubblico dipendente verso terzi e non quella amministrativo-contabile (sentenze n. 1032 del 1988, n. 70 del 1983 e n. 164 del 1982).

Il secondo, invece, «attiene ai limiti al cui rispetto è vincolato il legislatore ordinario nella sua politica finanziaria, ma non concerne le scelte che il medesimo compie nel ben diverso ambito della disciplina della responsabilità amministrativa (da ultimo, v. sentenza n. 327 del 1998)» (sentenza n. 371 del 1998; nello stesso senso, sentenza n. 355 del 2010).

L’art. 103 Cost., infine, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non è suscettibile di vulnus ad opera di disposizioni, quale quella di specie, che disciplinino, sul piano sostanziale, gli elementi della responsabilità amministrativa, riguardando esso il diverso profilo esterno del riparto di giurisdizione tra il giudice contabile e gli altri giudici (tra le tante, sentenze n. 355 del 2010, n. 371 e n. 327 del 1998, e n. 70 del 1983).

11.– Il consolidamento dell’amministrazione di risultato e i mutamenti strutturali del contesto istituzionale, giuridico e sociale in cui essa opera, come si è già messo in evidenza, giustificano la ricerca, a regime, di nuovi punti di equilibrio nella ripartizione del rischio dell’attività tra l’amministrazione e l’agente pubblico, con l’obiettivo di rendere la responsabilità ragione di stimolo e non disincentivo all’azione.

In assenza di simili interventi, il fenomeno della “burocrazia difensiva”, dopo la scadenza del regime provvisorio oggetto della disposizione censurata, sarebbe destinato a rispandersi e la percezione da parte dell’agente pubblico di un eccesso di deterrenza tornerebbe a rallentare l’azione amministrativa. Ne sarebbero pregiudicati, oltre al principio costituzionale del buon andamento della pubblica amministrazione, anche altri rilevanti interessi costituzionali.

Pertanto, una complessiva riforma della responsabilità amministrativa è richiesta per ristabilire una coerenza tra la sua disciplina e le più volte richiamate trasformazioni dell’amministrazione e del contesto in cui essa deve operare.

Il legislatore non potrà limitare, come si è avuto cura di puntualizzare, l’elemento soggettivo al dolo – limitazione che ha trovato giustificazione esclusivamente in una disciplina provvisoria radicata nelle caratteristiche peculiari del contesto ricordato – ma potrà, nell’esercizio della discrezionalità che ad esso compete, attingere al complesso di proposte illustrate nelle numerose analisi scientifiche della materia, anche modulandole congiuntamente e considerando profili diversi da quello dell’elemento psicologico, in modo da rendere più equa la ripartizione del rischio di danno, così alleviando la fatica dell’amministrare senza sminuire la funzione deterrente della responsabilità amministrativa.

11.1.– Si allude, in primo luogo, alla ipotesi di un’adeguata tipizzazione della colpa grave già conosciuta in specifici settori dell’ordinamento, posto che, come ricordato, l’incertezza della sua effettiva declinazione affidata all’opera postuma del giudice costituisce uno degli aspetti più temuti dagli amministratori.

Altra ipotesi da vagliare con attenzione è la generalizzazione di una misura già prevista per alcune specifiche categorie, ossia l’introduzione di un limite massimo oltre il quale il danno, per ragioni di equità nella ripartizione del rischio, non viene addossato al dipendente pubblico, ma resta a carico dell’amministrazione nel cui interesse esso agisce, misura, questa, cui può accompagnarsi anche la previsione della rateizzazione del debito risarcitorio.

L’opportunità del cosiddetto “tetto” non può essere esclusa in ragione dell’esistenza del menzionato potere riduttivo, dal momento che il primo, fissato ex ante dal legislatore, varrebbe obbligatoriamente per tutti, mentre il secondo è fisiologicamente rimesso ad un apprezzamento discrezionale ex post del giudice contabile.

Piuttosto, sarebbe utile valutare una modifica anche della disciplina del potere riduttivo, prevedendo, oltre all’attuale ipotesi generale affidata alla discrezionalità del giudice, ulteriori fattispecie obbligatorie normativamente tipizzate nei presupposti.

Del pari, meritevole di considerazione potrebbe essere il rafforzamento delle funzioni di controllo della Corte dei conti, con il contestuale abbinamento di una esenzione da responsabilità colposa per coloro che si adeguino alle sue indicazioni.

Altro aspetto che potrebbe essere preso in considerazione, nell’interesse sia dell’agente pubblico che della stessa amministrazione danneggiata, è quello della incentivazione delle polizze assicurative (che, allo stato attuale, non sono obbligatorie), incentivazione, peraltro, cui ha già fatto ricorso, come rammentato, il nuovo codice dei contratti pubblici.

Ancora, come già osservato, potrebbe essere vagliata una eccezionale esclusione della responsabilità colposa per specifiche categorie di pubblici dipendenti, anche solo in relazione a determinate tipologie di atti, in ragione della particolare complessità delle loro funzioni o mansioni e/o del connesso elevato rischio patrimoniale.

Da ultimo, il legislatore potrebbe intervenire per scongiurare l’eventuale moltiplicazione delle responsabilità degli amministratori per i medesimi fatti materiali e spesso non coordinate tra loro.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 2, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120, sollevate, in riferimento agli artt. 28, 81 e 103 della Costituzione, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Campania, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 2, del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Campania, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 giugno 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Giovanni PITRUZZELLA, Redattore

Igor DI BERNARDINI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 luglio 2024