Sentenza n. 203 del 2022

SENTENZA N. 203

ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giuliano AMATO;

Giudici: Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 83, commi 1 e 2, dell’Allegato 1 (Codice di giustizia contabile) al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124), come modificato dall’art. 44, comma 1, lettere b) e c), del decreto legislativo 7 ottobre 2019, n. 114 (Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, recante codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124), promosso dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Campania, nel giudizio di responsabilità instaurato a istanza del Procuratore regionale nei confronti di R. E. e altri, con ordinanza del 17 febbraio 2021, iscritta al n. 64 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visti l’atto di costituzione di A. F., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 5 luglio 2022 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;

uditi l’avvocato Guido Alfonsi per A. F. e l’avvocato dello Stato Fabrizio Fedeli per il Presidente del Consiglio dei ministri, in collegamento da remoto, ai sensi dell’art. 2), punto 2), della delibera della Corte del 23 giugno 2022.

deliberato nella camera di consiglio del 7 luglio 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con sentenza non definitiva e contestuale ordinanza emessa in data 17 febbraio 2021, n. 158, iscritta nel relativo registro al n. 20 dell’anno 2021, la Corte dei Conti, sezione giurisdizionale regionale per la Campania, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83, commi 1 e 2, dell’Allegato 1 (Codice di giustizia contabile) al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124), nel testo conseguente alle modifiche recate dal decreto legislativo 7 ottobre 2019, n. 114 (Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, recante codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124), in riferimento agli artt. 3, 24, 76, 81 e 111 della Costituzione.

La Corte rimettente, in punto di fatto e di rilevanza, sottolinea che, mediante atto di citazione del 31 maggio 2019, la Procura regionale aveva evocato in giudizio alcuni dipendenti, nonché il segretario generale e il Sindaco di un Comune, al fine di ottenere la condanna degli stessi al pagamento in favore dell’ente della somma di euro 1.445.715,20, oltre accessori, per responsabilità erariale correlata all’omessa attivazione, nonostante la comprovata conoscenza della situazione, di qualsivoglia procedura per la riscossione (rispetto all’anno 2009, per gli immobili a destinazione abitativa, e nel periodo 2009-2013, per i locali ad uso commerciale) dei canoni e delle indennità di occupazione di un complesso immobiliare. Alcuni convenuti, nell’ambito delle difese volte a contestare la ricorrenza della propria responsabilità, deducevano che essa doveva essere ascritta alle due società concessionarie del servizio di riscossione dei canoni e delle indennità in questione e chiedevano l’integrazione del contraddittorio nei confronti delle stesse. All’udienza il pubblico ministero replicava circa la non necessità di evocare in giudizio gli altri soggetti indicati nelle difese di alcune parti convenute, ricorrendo peraltro – in ogni caso – solo un’ipotesi di litisconsorzio facoltativo.

Il Collegio emanava, in primo luogo, nel contesto del medesimo atto di promovimento, sentenza non definitiva sulle questioni pregiudiziali e preliminari, nonché sulla pretesa risarcitoria per danno all’immagine del Comune danneggiato (domanda che rigettava nel merito).

Con riferimento alla sussistenza nel merito della responsabilità amministrativa per danno erariale riteneva, invece, che la relativa valutazione fosse inficiata, nella fattispecie concreta, dal divieto, recato dall’art. 83, comma 1, cod. giust. contabile, nella formulazione applicabile ratione temporis successiva alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 114 del 2019, di chiamata in causa per ordine del giudice degli altri soggetti, evocati nelle difese di alcuni convenuti, potenzialmente responsabili del fatto dannoso.

Infatti, la Corte dei conti sottolinea che, pur non ricorrendo un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra i corresponsabili dell’illecito erariale, tuttavia l’inderogabile preclusione all’integrazione del contraddittorio da parte del giudice potrebbe essere suscettibile di determinare un insanabile vulnus ai fini del corretto inquadramento di fattispecie, come quella da decidere, che «non si prestano ad essere delineate, valutate e definite senza acquisire l’apporto al contraddittorio di ulteriori soggetti», allo scopo di individuarne compiutamente l’eventuale responsabilità, esclusiva o concorrente, da valutare per la decisione sullo scomputo di quote di responsabilità dei soggetti citati in giudizio dal PM. In sostanza, il giudice a quo lamenta di dover procedere all’uopo alla valutazione della responsabilità di soggetti ai quali non è stato esteso il contraddittorio e che potrebbero essere indicati, anche solo «virtualmente», come responsabili dei fatti illeciti nella decisione senza avere avuto l’opportunità di difendersi e di addurre elementi probatori.

La Corte dei conti – assumendo di non poter né individuare eventuali responsabilità concorrenti rispetto a quelle dei soggetti effettivamente convenuti, né conseguentemente statuire per gli stessi scomputi, totali o parziali, di responsabilità, nonostante l’emergenza «più che probabile» dagli atti del giudizio della sussistenza delle condotte illecite di altri soggetti, senza estendere il contraddittorio nei confronti di questi ultimi – ritiene dunque rilevanti le questioni sollevate.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il Collegio rimettente premette che le disposizioni censurate, ossia i primi due commi dell’art. 83 cod. giust. contabile, sono insuscettibili di un’interpretazione costituzionalmente orientata, stante la chiarezza del divieto fatto al giudice nel processo, per l’accertamento della responsabilità amministrativa, di ordinare la chiamata in causa di soggetti ulteriori rispetto a quelli già convenuti in giudizio dal PM.

1.1.– Ciò posto, il giudice a quo dubita, in primo luogo, della compatibilità del divieto espresso dall’art. 83, commi 1 e 2, cod. giust. contabile con l’art. 76 Cost.

A fondamento di tale questione, la Corte dei conti rimettente deduce che il Governo, nell’attuare il criterio di delega posto dall’art. 20, comma 2, lettera g), numero 6), della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche), che demandava allo stesso di prevedere la «preclusione in sede di giudizio di chiamata in causa su ordine del giudice e in assenza di nuovi elementi e motivate ragioni di soggetto già destinatario di formalizzata archiviazione», non avrebbe tenuto conto dei criteri di delega, di carattere più generale, indicati nelle precedenti lettere a) e b) della medesima disposizione. Invero, poiché questi ultimi criteri demandavano al Governo l’uno di contemplare un adeguamento delle norme vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, «coordinandole con le norme del codice di procedura civile espressione di principi generali e assicurando la concentrazione delle tutele spettanti alla cognizione della giurisdizione contabile» (lettera a) e l’altro di «disciplinare lo svolgimento dei giudizi tenendo conto della peculiarità degli interessi pubblici oggetto di tutela e dei diritti soggetti coinvolti, in base ai principi della concentrazione e dell’effettività della tutela e nel rispetto del principio della ragionevole durata del processo» (lettera b), il più specifico criterio direttivo espresso dalla lettera g), numero 6), dello stesso comma avrebbe dovuto essere correttamente interpretato nel senso di riconoscere al giudice contabile il potere di integrare il contraddittorio nei confronti di terzi non evocati in giudizio dal PM, salva l’emanazione di un espresso provvedimento di archiviazione a fronte di fatti nuovi.

Rileva, inoltre, il giudice a quo che le norme censurate violerebbero l’art. 3 Cost., laddove determinerebbero un’ingiustificata disparità di trattamento tra i soggetti convenuti in giudizio e quelli nei confronti dei quali la procura scegliesse di non esercitare l’azione di responsabilità, in quanto solo i primi potrebbero fornire una propria ricostruzione alternativa dei fatti, anche «in danno» dei secondi i quali, non coinvolti in giudizio, potrebbero essere dichiarati «virtualmente» colpevoli senza aver potuto far valere in contradditorio le proprie ragioni.

D’altra parte, la decisione sull’evocazione in causa di tutti i soggetti potenzialmente responsabili di un illecito erariale sarebbe rimessa all’esclusivo potere del PM e la relativa valutazione sarebbe così sottratta al collegio, che non è una parte del giudizio di responsabilità per danno erariale, ma ha un ruolo imparziale.

Il divieto espresso dall’art. 83 cod. giust. contabile violerebbe l’art. 3 Cost. anche sotto il profilo della ragionevolezza, imponendo all’autorità giudiziaria di effettuare una valutazione per la compiutezza della quale non disporrebbe di adeguati elementi conoscitivi.

La Corte dei conti sottolinea, inoltre, che il divieto di chiamata in causa per ordine del giudice espresso dalla norma censurata violerebbe l’art. 24 Cost., compromettendo il diritto di difesa sia delle parti convenute che di quelle non evocate in giudizio, astrattamente coinvolte nella ipotizzata fattispecie di responsabilità, non consentendo che tutte partecipino all’accertamento dei fatti in contraddittorio in modo da pervenire a una «più giusta e avveduta decisione» e impedendo, peraltro, ai soggetti che non siano stati chiamati a prendere parte al processo e nondimeno eventualmente indicati nella sentenza come «virtualmente» responsabili, di impugnare detta decisione.

Il vulnus all’art. 24 Cost. sarebbe inoltre arrecato anche dal pericolo della formazione di giudicati contraddittori sui medesimi fatti.

Il collegio rimettente assume, altresì, una possibile violazione, da parte dei primi due commi dell’art. 83 cod. giust. contabile, dell’art. 111 Cost., e ciò sia per l’impossibilità, conseguente al divieto di chiamata in causa iussu iudicis, di instaurare un effettivo contraddittorio processuale, con evidente pregiudizio per i convenuti, sia per l’irragionevole vincolo determinato in capo all’autorità giudiziaria nella ricostruzione della vicenda operata dal PM.

Secondo la prospettazione del giudice a quo, le norme censurate potrebbero di poi porsi in contrasto con l’art. 81 Cost. nella misura in cui non consentono all’autorità giudiziaria di chiamare in causa i corresponsabili dell’evento dannoso i quali, ove ne fosse accertata in giudizio la responsabilità, potrebbero essere condannati realmente (e non solo in modo virtuale, ai fini della riduzione del danno dei soggetti evocati nel giudizio di responsabilità dal PM) al risarcimento in favore dell’ente.

Precisa, infine, la Corte dei conti rimettente che il petitum, stante il necessario rispetto del diritto all’espletamento della fase preprocessuale e delle prerogative del PM, deve intendersi circoscritto «nel senso che la chiamata in giudizio iussu iudicis sarebbe subordinata comunque all’attivazione di detta fase preprocessuale e all’esercizio delle prerogative del Pubblico ministero».

2.– Con atto in data 28 maggio 2021 si è costituito nel giudizio costituzionale A. F., convenuto nel processo principale, aderendo alle argomentazioni sottese all’ordinanza di rimessione e ponendo in particolare evidenza lo squilibrio determinato dalle norme censurate tra le parti del processo di responsabilità contabile, ridondante nell’impossibilità di un completo accertamento della vicenda fattuale nel contraddittorio con tutti i soggetti coinvolti e comportante il rischio, in spregio del principio di economia processuale, di giudicati contraddittori.

3.– Con atto in data 8 giugno 2021, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi le questioni inammissibili e, in ogni caso, non fondate.

In punto di inammissibilità, la difesa statale deduce che il rimettente avrebbe motivato in modo inadeguato sulla rilevanza laddove ha prospettato che il divieto di chiamata in causa di terzi su ordine del giudice sancito dall’art. 83, comma 1, cod. giust. contabile impedirebbe un compiuto accertamento dei fatti. In realtà tale accertamento sarebbe ben possibile, anche in assenza degli eventuali compartecipi nella determinazione del danno, in forza degli ampi poteri istruttori riconosciuti all’autorità giudiziaria dall’art. 94 del predetto codice.

Nel merito, l’Avvocatura generale rileva, innanzi tutto, la non fondatezza dei dubbi di legittimità costituzionale che investono l’art. 3 Cost., stante la peculiarità del processo contabile rispetto a quello civile: per vero, nel primo, l’esigenza di assicurare la parità tra le posizioni di accusa e difesa non consente di attribuire all’autorità giudiziaria poteri sindacatori che possano alterare detto equilibrio, se non trasmettendo gli atti al PM per le valutazioni di competenza nei limiti delineati dall’art. 83, comma 4, cod. giust. contabile.

Peraltro, se nel processo per responsabilità erariale non è attualmente ammesso un intervento iussu iudicis, la responsabilità tra i concorrenti nell’illecito ha natura parziaria e non è preclusa al giudice una valutazione incidentale, per determinarne le rispettive «quote», dell’incidenza causale delle condotte di soggetti non evocati in giudizio dal PM, valutazione incidentale che consente di non “appesantire” il processo in vista della ragionevole durata dello stesso.

L’Avvocatura generale contesta, inoltre, la fondatezza delle questioni correlate alla violazione degli artt. 24 e 111 Cost., rispettivamente in punto di diritto di difesa e di giusto processo.

Sotto il primo profilo, infatti, l’eventuale concorrenza nell’illecito di soggetti non citati in giudizio dal PM non comprometterebbe il diritto di difesa degli altri perché il giudice contabile ha solo il dovere di determinare il quantum debeatur, e quindi di definire la controversia ponendo a carico del convenuto esclusivamente la parte del danno che ha in concreto cagionato, con conseguente insussistenza di un litisconsorzio necessario tra più corresponsabili del medesimo danno la cui condotta è vagliata, ove occorra, solo incidentalmente.

Rispetto alla violazione dell’art. 111 Cost., la difesa dello Stato si riconduce alla costante giurisprudenza costituzionale sull’ampia discrezionalità del legislatore processuale, che trova un limite solo nella manifesta arbitrarietà delle scelte compiute.

Detta manifesta arbitrarietà non ricorrerebbe nella fattispecie in esame perché l’esigenza di mitigare la rigidità del processo rispetto ai soggetti evocati dal PM è temperata dalla possibilità per il giudice, ove emergano fatti nuovi, ex art. 83, comma 3, cod. giust. contabile, di trasmettere gli atti alla procura per le valutazioni di competenza.

L’Avvocatura generale evidenzia, inoltre, l’insussistenza dell’evocato vizio di eccesso di delega ex art. 76 Cost. poiché lo stesso legislatore delegante ha indicato, tra i criteri direttivi, il divieto di chiamata iussu iudicis, nell’intento di assicurare il rispetto del principio di imparzialità del giudice.

Con memoria depositata in data 14 giugno 2022, la difesa dello Stato ha ribadito la propria eccezione preliminare di inammissibilità per inidonea motivazione sulla rilevanza e ha ripercorso le ragioni di non fondatezza delle questioni sollevate.

4.– Ai sensi dell’art. 10, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale è stato formulato alle parti, in vista dell’udienza pubblica, il seguente quesito: «Risulta alle parti che le società del servizio di riscossione dei canoni, ai quali si riferisce l’azione di responsabilità per danno erariale – concessionarie fino al 31 dicembre 2010 e poi affidatarie del servizio di riscossione delle entrate comunali dal 2011 in seguito – sono già state destinatarie di formale provvedimento di archiviazione ovvero l’eventuale contributo causale della loro condotta al fatto dannoso è già stato valutato in termini di infondatezza dalla procura contabile?».

Nel corso dell’udienza, l’Avvocatura generale ha evidenziato che il PM non aveva emanato un formale provvedimento di archiviazione nei confronti delle due società non evocate in giudizio, ma ne aveva comunque vagliato le posizioni, escludendone la responsabilità.

Considerato in diritto

1.– Con sentenza non definitiva e contestuale ordinanza in data 17 febbraio 2021, n. 158, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Campania, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83, commi 1 e 2, dell’Allegato 1 (Codice di giustizia contabile) al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124), nel testo conseguente alle modifiche recate dal decreto legislativo 7 ottobre 2019, n. 114 (Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, recante codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto, n. 124), in riferimento agli artt. 3, 24, 76, 81 e 111 della Costituzione.

In punto di fatto, il giudice a quo riferisce che il pubblico ministero aveva evocato in giudizio alcuni dipendenti, nonché il segretario generale e il Sindaco di un Comune, al fine di ottenerne la condanna al pagamento in favore dell’ente della somma di euro 1.445.715,20, oltre accessori, per responsabilità amministrativa dovuta all’omessa attivazione, nonostante la comprovata conoscenza della situazione, di qualsivoglia procedura per la riscossione (rispetto all’anno 2009, per gli immobili a destinazione abitativa, e nel periodo 2009-2013, per i locali ad uso commerciale) dei canoni e delle indennità di occupazione di un complesso immobiliare dell’ente. Alcuni convenuti avevano contestato la sussistenza della propria responsabilità, deducendo che la stessa doveva essere semmai ascritta alle società concessionarie (e poi affidatarie) del servizio di riscossione dei canoni e delle indennità in questione che non si erano attivate per il recupero delle somme spettanti all’ente e chiedevano al collegio l’integrazione del contraddittorio nei confronti delle stesse. A fronte di tale richiesta, il PM rappresentava che non era necessario evocare in giudizio gli altri soggetti indicati dalle difese delle parti suddette, ricorrendo peraltro solo un’ipotesi di litisconsorzio facoltativo.

La Corte rimettente pronunciava, in primo luogo, sentenza non definitiva sulle questioni pregiudiziali e preliminari, ritenute non impedienti. Con riferimento alla ricorrenza nel merito della responsabilità amministrativa dei convenuti riteneva, invece, che la relativa valutazione fosse inficiata dal divieto, recato dall’art. 83, comma 1, cod. giust. contabile, di chiamata in causa di altri soggetti non evocati in giudizio dal PM.

Ciò in quanto il comma 2 della medesima norma, nella formulazione applicabile ratione temporis, successiva alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 114 del 2019, impone comunque all’autorità giudiziaria di valutare la responsabilità di tutti i soggetti concorrenti nell’illecito ai fini della decisione sull’eventuale scomputo di quote di responsabilità a carico dei convenuti.

1.1.– In ordine alla rilevanza delle questioni, la Corte dei conti sottolinea che, pur non ricorrendo un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra i corresponsabili dell’illecito erariale, tuttavia l’inderogabile preclusione all’integrazione del contraddittorio da parte del giudice potrebbe essere suscettibile di determinare un insanabile vulnus ai fini del corretto inquadramento di fattispecie, come quella da decidere, che «non si prestano ad essere delineate, valutate e definite senza acquisire l’apporto al contraddittorio di ulteriori soggetti», in assenza dei quali non potrebbe individuarsene compiutamente l’eventuale responsabilità, esclusiva o concorrente, pure da valutare in sede di decisione, ex art. 83, comma 2, dello stesso d.lgs. n. 174 del 2016.

In sostanza, il giudice a quo lamenta di dover procedere all’uopo alla valutazione della responsabilità di soggetti ai quali non è stato esteso il contraddittorio e che potrebbero essere indicati, anche solo «virtualmente», come responsabili dei fatti illeciti in sentenza senza avere avuto l’opportunità di difendersi e di addurre elementi probatori.

La Corte dei conti – deducendo di non poter accertare eventuali responsabilità concorrenti rispetto a quelle dei soggetti effettivamente convenuti allo scopo di decidere su eventuali scomputi, totali o parziali, di responsabilità come richiesto dal comma 2 dell’art. 83 cod. giust. contabile, nonostante l’emergenza «più che probabile» dagli atti del giudizio della sussistenza delle condotte illecite di altri soggetti – ritiene dunque rilevanti le questioni sollevate.

1.2.– In punto di non manifesta infondatezza, il Collegio rimettente premette che le disposizioni espresse dai primi due commi dell’art. 83 cod. giust. contabile sono insuscettibili di un’interpretazione costituzionalmente orientata, in virtù della chiarezza del divieto fatto al giudice nel processo, per l’accertamento della responsabilità amministrativa, di ordinare la chiamata in causa di soggetti ulteriori rispetto a quelli già convenuti in giudizio dal PM.

La Corte dei conti rimettente dubita, innanzi tutto, della compatibilità del divieto espresso dall’art. 83, comma 1, cod. giust. contabile con l’art. 76 Cost.

A riguardo, il giudice rimettente sottolinea che il Governo, nell’attuare il criterio di delega posto dall’art. 20, comma 2, lettera g), numero 6), della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche), che demandava allo stesso di prevedere la «preclusione in sede di giudizio di chiamata in causa su ordine del giudice e in assenza di nuovi elementi e motivate ragioni di soggetto già destinatario di formalizzata archiviazione», non avrebbe tenuto conto dei criteri di delega, di carattere più generale, indicati nelle precedenti lettere a) e b), della medesima disposizione. Invero, poiché questi ultimi criteri rimettevano al Governo, l’uno, di contemplare un adeguamento delle norme vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, «coordinandole con le norme del codice di procedura civile espressione di principi generali e assicurando la concentrazione delle tutele spettanti alla cognizione della giurisdizione contabile» (lettera a) e l’altro di «disciplinare lo svolgimento dei giudizi tenendo conto della peculiarità degli interessi pubblici oggetto di tutela e dei diritti soggetti coinvolti in base ai principi della concentrazione e dell’effettività della tutela e nel rispetto del principio della ragionevole durata del processo» (lettera b), il più specifico criterio direttivo espresso dalla lettera g), numero 6), dello stesso comma avrebbe dovuto essere correttamente interpretato nel senso di riconoscere al giudice contabile il potere di integrare il contraddittorio nei confronti di terzi non evocati in giudizio dal PM a fronte di nuovi elementi e in assenza di un espresso provvedimento di archiviazione.

Rileva, inoltre, il giudice a quo che le norme censurate potrebbero violare l’art. 3 Cost. determinando un’ingiustificata disparità di trattamento tra i soggetti convenuti in giudizio e quelli nei confronti dei quali la procura scelga di non esercitare l’azione di responsabilità, in quanto solo i primi potrebbero fornire la propria ricostruzione alternativa dei fatti, anche «in danno» dei secondi i quali, non coinvolti in giudizio, potrebbero essere dichiarati «virtualmente» colpevoli, senza aver potuto far valere in contradditorio le proprie difese.

D’altra parte la decisione sull’evocazione di tutti i soggetti potenzialmente responsabili di un illecito erariale sarebbe rimessa all’esclusivo potere del PM sottraendo la relativa valutazione al collegio, che non è una parte del giudizio di responsabilità per danno erariale, ma ha un ruolo imparziale.

Il divieto espresso dall’art. 83, comma 1, cod. giust. contabile, tenuto conto del dovere del Collegio di vagliare la condotta di tutti i concorrenti nell’illecito imposto dal comma 2 della stessa norma, violerebbe l’art. 3 Cost. anche sotto il profilo della ragionevolezza, imponendo all’autorità giudiziaria di effettuare una valutazione senza disporre di adeguati elementi conoscitivi acquisiti nel contraddittorio tra tutti i soggetti coinvolti.

La Corte dei conti sottolinea, inoltre, che il divieto di chiamata in causa per ordine del giudice espresso dalla norma censurata potrebbe violare l’art. 24 Cost., nella misura in cui lederebbe il diritto di difesa tanto delle parti convenute quanto di quelle non evocate in giudizio astrattamente coinvolte nella ipotizzata fattispecie di responsabilità, non consentendo che tutte partecipino all’accertamento dei fatti in contraddittorio in modo da pervenire a una «più giusta e avveduta decisione» e impedendo, peraltro, ai soggetti che non siano stati chiamati a prendere parte al processo e nondimeno indicati nella sentenza come «virtualmente» responsabili, di impugnare detto provvedimento. Il vulnus all’art. 24 Cost. sarebbe, inoltre, arrecato anche dal pericolo di giudicati contraddittori sui medesimi fatti.

Il Collegio rimettente assume, inoltre, una possibile violazione, da parte dei primi due commi dell’art. 83 cod. giust. contabile, dell’art. 111 Cost., e ciò sia per l’impossibilità, derivante dal divieto di chiamata in causa iussu iudicis, di instaurare un effettivo contraddittorio processuale, con evidente pregiudizio per i convenuti, sia per l’irragionevole vincolo determinato in capo all’autorità giudiziaria nella ricostruzione della vicenda operata dal PM.

Secondo la prospettazione del giudice a quo, le norme censurate potrebbero altresì porsi in contrasto con l’art. 81 Cost. poiché non consentirebbero all’autorità giudiziaria di chiamare in causa i corresponsabili dell’evento dannoso che, ove ne fosse accertata in giudizio la responsabilità, potrebbero essere condannati realmente (e non solo in modo virtuale, ai fini della riduzione del danno dei soggetti evocati nel giudizio di responsabilità dal PM) al risarcimento in favore dell’ente.

1.3.– Precisa, infine, la Corte dei conti rimettente che il petitum, stante il necessario rispetto del diritto all’espletamento della fase preprocessuale e delle prerogative del PM, deve intendersi circoscritto «nel senso che la chiamata in giudizio iussu iudicis sarebbe subordinata comunque all’attivazione di detta fase preprocessuale e all’esercizio delle prerogative del Pubblico ministero».

2.– In via preliminare, occorre rilevare che le questioni sollevate sono ammissibili, nonostante l’atto di promovimento abbia la veste formale della sentenza (non definitiva).

Respinte alcune questioni di carattere pregiudiziale e preliminare, la Corte dei conti rimettente – dopo la positiva valutazione concernente la rilevanza e la non manifesta infondatezza delle questioni sollevate – ha disposto la sospensione del procedimento principale e la trasmissione del fascicolo alla cancelleria di questa Corte.

Sicché all’atto di promovimento, anche se assunto con la forma di sentenza, deve essere riconosciuta anche natura di ordinanza, in conformità a quanto previsto dall’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) (ex multis, sentenze n. 128 del 2022, n. 153 del 2020; n. 208 del 2019, n. 86 del 2017, n. 256 del 2010, n. 151 e n. 94 del 2009 e n. 452 del 1997).

3.– Sempre in via preliminare, il giudice a quo ha escluso la praticabilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, idonea a consentire, almeno in alcune ipotesi, la chiamata in causa per ordine del giudice perché ciò sarebbe impedito dalla chiara formulazione della norma.

La valutazione del Collegio rimettente è in sintonia con la costante giurisprudenza di questa Corte per la quale l’univoco tenore della disposizione segna il confine in presenza del quale il tentativo di interpretazione conforme deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale (sentenze n. 150 del 2022, n. 118 del 2020, n. 221 del 2019 e n. 83 del 2017).

In ogni caso, è stato più volte ribadito che nelle ipotesi in cui il giudice a quo abbia consapevolmente ritenuto che il tenore della disposizione censurata impone una determinata interpretazione e ne impedisce altre, eventualmente conformi a Costituzione, la verifica delle relative soluzioni ermeneutiche non attiene al piano dell’ammissibilità, ed è piuttosto una valutazione che riguarda il merito delle questioni (così, ex multis, sentenze n. 133 del 2019, n. 50 e n. 118 del 2020).

4.– Ancora in via preliminare, occorre vagliare l’eccezione di inammissibilità delle questioni per inadeguata motivazione sulla rilevanza, sollevata dall’Avvocatura generale.

A fondamento di detta eccezione, la difesa dello Stato ha evidenziato che il rimettente ha dedotto che il divieto di chiamata in causa di terzi su ordine del giudice sancito dall’art. 83 cod. giust. contabile impedirebbe un compiuto accertamento dei fatti. Tale accertamento, invece, sarebbe ben possibile, anche in assenza di eventuali compartecipi, in forza degli ampi poteri istruttori riconosciuti all’autorità giudiziaria dall’art. 94 del predetto codice.

Tale eccezione, anche in ragione del controllo meramente “esterno” esercitato dalla Corte sulla rilevanza (ex multis, sentenze n. 34 e n. 19 del 2022, n. 236 e n. 183 del 2021, n. 44 del 2020 e n. 128 del 2019), non è fondata.

Infatti, nel giudizio di responsabilità erariale il dovere del giudice – espresso anche dall’art. 83, comma 2, cod. giust. contabile – di considerare, ai fini della decisione sulla responsabilità del convenuto, le condotte di tutti i soggetti che possano aver concorso al fatto dannoso, sebbene non evocati in giudizio dal PM, rende almeno non manifestamente implausibile il ragionamento sotteso all’ordinanza di rimessione; ciò che comporta la sufficiente adeguatezza della motivazione sulla rilevanza (ex multis, sentenze n. 259, n. 236, n. 207, n. 181, n. 59 e n. 32 del 2021, n. 267, n. 224 e n. 32 del 2020).

Una manifesta implausibilità della motivazione dell’atto di promovimento non potrebbe del resto essere predicata neppure avendo riguardo agli ampi poteri istruttori tutt’ora riconosciuti all’autorità giudiziaria contabile dall’art. 94 cod. giust. contabile, atteso che, in base alla prospettazione della Corte rimettente, il vulnus principale sarebbe costituito non già dall’impossibilità di accertare compiutamente i fatti, quanto di effettuare detto accertamento nel rispetto del principio del contraddittorio e della parità delle armi tra tutti i soggetti coinvolti.

5.– All’esame delle questioni, è opportuno premettere una sintetica ricostruzione del complessivo quadro normativo di riferimento nel quale si collocano le norme espresse dai primi due commi della disposizione censurata.

6.– Sul piano sostanziale, occorre ricordare che, ancora all’attualità, la responsabilità amministrativa si fonda, essenzialmente sull’art. 82, primo comma, del regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440 (Nuove disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato) secondo cui «[l]’impiegato che per azione od omissione, anche solo colposa, nell’esercizio delle sue funzioni, cagioni danno allo Stato, è tenuto a risarcirlo».

Tale responsabilità, la giurisdizione sulla quale è demandata dall’art. 103 Cost. alla Corte dei conti, si caratterizza per una serie di aspetti peculiari rispetto alla concorrente responsabilità civile degli stessi agenti pubblici nei confronti dell’amministrazione di appartenenza, rinveniente il proprio fondamento negli artt. 28 Cost. e 22 e seguenti del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), che impone al danneggiante il risarcimento dei pregiudizi derivanti a terzi per effetto della propria condotta in forza di un illecito contrattuale (art. 1218 del codice civile) ovvero aquiliano (art. 2043 cod. civ.), rimessa al giudice ordinario.

In particolare, come ha già sottolineato questa Corte, la responsabilità amministrativa o erariale è connotata dalla combinazione di elementi restitutori e di deterrenza (sentenze n. 355 del 2010, n. 453 e n. 371 del 1998), ciò che giustifica anche la possibilità di configurare la stessa solo in presenza di una condotta, commissiva o omissiva, imputabile al pubblico agente per dolo o colpa grave, al fine precipuo di determinare quanto del rischio dell’attività debba restare a carico dell’apparato e quanto a carico del dipendente, nella ricerca di un punto di equilibrio tale da rendere, per dipendenti ed amministratori pubblici, la prospettiva della responsabilità «ragione di stimolo, e non di disincentivo» (sentenza n. 371 del 1998).

In realtà, l’elemento soggettivo permea l’illecito erariale su un piano più ampio, stante l’art. 83, primo comma, dello stesso r.d. n. 2440 del 1923, secondo cui la Corte dei conti, «valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto».

In tale disposizione si concreta quello che è comunemente definito il «potere riduttivo» del giudice contabile che determina una attenuazione della responsabilità amministrativa, nei singoli casi, rimessa a un potere del giudice, che, a tal fine, può anche tener conto delle capacità economiche del soggetto responsabile, oltre che del comportamento, al livello della responsabilità e del danno effettivamente cagionato (sentenza n. 340 del 2001).

Vi è dunque che, come ha ancora sottolineato questa Corte, nell’ambito della responsabilità amministrativa «l’intero danno subito dall’Amministrazione, ed accertato secondo il principio delle conseguenze dirette ed immediate del fatto dannoso, non è di per sé risarcibile e, come la giurisprudenza contabile ha sempre affermato, costituisce soltanto il presupposto per il promovimento da parte del pubblico ministero dell’azione di responsabilità amministrativa e contabile. Per determinare la risarcibilità del danno, occorre una valutazione discrezionale ed equitativa del giudice contabile, il quale, sulla base dell’intensità della colpa, intesa come grado di scostamento dalla regola che si doveva seguire nella fattispecie concreta, e di tutte le circostanze del caso, stabilisce quanta parte del danno subito dall’Amministrazione debba essere addossato al convenuto, e debba pertanto essere considerato risarcibile» (sentenza n. 183 del 2007).

Un’altra caratteristica peculiare della responsabilità amministrativa, a seguito della novella operata dalla legge 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), è la regola generale della parziarietà della stessa, atteso che, per un verso, ai sensi dell’art. 1, comma 1-quater, «[s]e il fatto dannoso è causato da più persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la parte che vi ha preso», e, per un altro, giusta il comma 1-quinquies, sono responsabili solidalmente i soli concorrenti che abbiano conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo. Anche tale regola si distingue da quella, salve diverse previsioni di legge, della solidarietà dell’obbligazione sul versante passivo operante nella responsabilità civile, contrattuale ed extracontrattuale (artt. 1292 e 2055 cod. civ.).

Nella giurisprudenza costituzionale la differente scelta ancora una volta effettuata per la configurazione della responsabilità erariale è stata ritenuta costituzionalmente legittima proprio evidenziando che, per i pubblici dipendenti, la responsabilità per il danno ingiusto può essere oggetto di discipline differenziate rispetto ai principi comuni in materia (sentenza n. 453 del 1998).

Da questi presupposti differenziati per l’affermazione della responsabilità del pubblico agente sul piano civile e contabile deriva che l’azione di responsabilità per danno erariale promossa dal PM dinanzi alla Corte dei conti e quella di responsabilità civile promossa dalle singole amministrazioni interessate davanti al giudice ordinario restano reciprocamente indipendenti, anche quando investano i medesimi fatti materiali, poiché la prima è volta alla tutela dell’interesse pubblico generale, al buon andamento della pubblica amministrazione e al corretto impiego delle risorse, e la seconda, invece, al pieno ristoro del danno, con funzione riparatoria e integralmente compensativa, a tutela dell’interesse particolare della amministrazione attrice (Corte di cassazione, sezioni unite civili, ordinanze 23 novembre 2021, n. 36205 e 7 maggio 2020, n. 8634).

Ciò significa che un pubblico agente può essere convenuto affinché ne venga accertata la responsabilità per entrambi i titoli ovvero essere attinto da una soltanto delle due azioni, non sussistendo i presupposti per l’esercizio di entrambe, senza naturalmente che vi sia cumulo del danno risarcibile, erariale o civile.

7.– Sul versante processuale, l’espressa previsione, da parte dell’art. 82, primo comma, del r.d. n. 2440 del 1923, di una responsabilità – pure già in parte elaborata nella giurisprudenza della Corte dei conti – che poteva fondarsi su illeciti non collegati con fatti di gestione finanziaria-contabile, non si accompagnò, peraltro, almeno all’epoca e per lungo tempo, all’introduzione di un rito diverso da quello che già regolava la responsabilità degli agenti contabili, costituente sino a quel momento l’unico modello di processo contabile.

Il giudizio di responsabilità amministrativa, in sostanza, è stato in origine disciplinato “per derivazione” da quello di conto e, sul modello di questo, avente carattere marcatamente inquisitorio e permeato dalla ricerca della verità nell’interesse dell’erario, si è caratterizzato per decenni, nella vigenza dell’abrogato regolamento di procedura, di cui al regio decreto 13 agosto 1933, n. 1038 (Approvazione del regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla Corte dei conti), tanto per la sostanziale assenza di regolamentazione della fase pre-processuale affidata al PM, quanto per gli ampi poteri cosiddetti sindacatori riconosciuti all’autorità giudiziaria.

7.1.– Per quel che maggiormente rileva ai fini dell’esame delle questioni sollevate dall’ordinanza di rimessione, il potere del giudice contabile di disporre la chiamata in causa di soggetti non evocati nel giudizio di responsabilità erariale dal PM era espressamente contemplato dall’art. 47 del r.d. n. 1038 del 1933, il cui secondo periodo stabiliva che «l’intervento può essere anche ordinato dalla sezione d’ufficio, o anche su richiesta del procuratore generale o di una delle parti ».

Tale norma era stata comunemente integrata nella prassi, ai sensi dell’art. 26 del medesimo regio decreto – a mente del quale «[n]ei procedimenti contenziosi di competenza della Corte dei conti si osservano le norme e i termini della procedura civile in quanto siano applicabili e non siano modificati dalle disposizioni del presente regolamento» – dalla disciplina recata dall’art. 107 del codice di procedura civile per l’intervento per ordine del giudice nel processo civile.

Il potere del giudice di ordinare l’intervento del terzo quando ritiene opportuno che il processo si svolga nei confronti di un terzo al quale la causa è comune ai sensi dell’art. 107 cod. proc. civ., ha plurime finalità, tra le quali, principalmente, evitare giudicati contraddittori e attuare il principio di economia processuale (tra le tante, Corte di cassazione, sezione seconda civile, sentenza 9 gennaio 2013, n. 315), nonché scongiurare che il terzo subisca l’efficacia riflessa della sentenza, contenente l’accertamento di un fatto al medesimo comune, con un pregiudizio significativo al diritto di difesa derivante dalla mancata partecipazione al giudizio (Corte di cassazione, sezione lavoro, 13 dicembre 1982, n. 6850).

Nel processo civile, peraltro, l’intervento iussu iudicis ha una valenza meramente residuale rispetto alle altre forme con le quali può realizzarsi, anche al di fuori di una situazione di litisconsorzio necessario, la partecipazione, su istanza di parte (art. 106 cod. proc. civ.) o volontaria (art. 105 cod. proc. civ.), di terzi nel giudizio pendente tra altri soggetti, realizzando di conseguenza un cumulo soggettivo e questo anche in fattispecie di litisconsorzio facoltativo (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 13 marzo 2013, n. 6208).

7.2.– In seguito, a fronte dell’estensione del novero delle garanzie del giusto processo contemplate dall’art. 111 Cost., ad opera della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione), è stata tuttavia messa in discussione, da parte della stessa giurisprudenza contabile, la compatibilità del potere dell’autorità giudiziaria, almeno nel processo di responsabilità amministrativa, di ordinare la chiamata in causa di soggetti non evocati dal PM, con il principio dell’imparzialità del giudice.

Questo indirizzo interpretativo, inizialmente non univoco, è divenuto maggioritario soprattutto a seguito dell’orientamento della sezione centrale d’appello della Corte dei conti, che ha in più occasioni ribadito, pur nella vigenza, all’epoca, dell’indicato art. 47 del regolamento di procedura, il quale prevedeva tale potere del giudice, che quest’ultimo doveva ritenersi ormai incompatibile con la necessaria imparzialità del giudice pretesa dall’art. 111 Cost. (Corte dei conti, sezione prima giurisdizionale centrale d’appello, sentenza 13 luglio 2015, n. 435; sezione terza giurisdizionale centrale d’appello, sentenze 21 aprile 2010, n. 316 e 30 settembre 2002, n. 300).

7.3.– Per altro verso non si può trascurare che, tuttavia, anche dopo la citata novella dell’art. 111 Cost., questa Corte aveva precisato che «gli artt. 14 e 26 del regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla Corte dei conti, approvato con il regio decreto 13 agosto 1933, n. 1038 – e, per il tramite di quest’ultima disposizione, l’art. 210 del codice di procedura civile – […] consentono alla Corte di ordinare alle parti di produrre gli atti e i documenti ritenuti necessari alla decisione della controversia, e quindi di richiedere l’esibizione dell’atto di archiviazione disposto nei confronti di altri soggetti, concorrenti nel medesimo fatto produttivo di responsabilità amministrativa: al fine, all’esito di quella esibizione, non solo di ordinare, se del caso, l’intervento in causa dei concorrenti nella causazione del danno pubblico (allargamento del contraddittorio non impedito dal fatto che la loro posizione sia stata archiviata dal Procuratore regionale, non formandosi il giudicato con l’archiviazione), ma anche, eventualmente, di procedere ad una più esatta personalizzazione ed individualizzazione della responsabilità nei confronti di coloro che sono stati citati a giudizio dal pubblico ministero, e ciò alla luce del principio – ribadito dall’art. 1, comma 1-quater, della legge 14 gennaio 1994, n. 20 (aggiunto dall’art. 3 del decreto-legge 23 ottobre 1996, n. 543, nel testo integrato dalla relativa legge di conversione) – secondo cui “se il fatto dannoso è causato da più persone, la Corte dei conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la parte che vi ha preso”» (ordinanza n. 261 del 2006).

8.– Ai fini della ricostruzione del quadro normativo di riferimento, occorre considerare, poi, che la norma censurata è stata emanata a fronte della delega contenuta nell’art. 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche), avente ad oggetto, come precisato nel comma 1, «il riordino e la ridefinizione della disciplina processuale concernente tutte le tipologie di giudizi che si svolgono innanzi la Corte dei conti, compresi i giudizi pensionistici, i giudizi di conto e i giudizi a istanza di parte».

Più in particolare, nell’ambito dei principi di delega espressi dal comma 2, lettera g), del predetto art. 20, volti a «riordinare la fase istruttoria e dell’emissione di eventuale invito a dedurre in conformità ai seguenti principi», si colloca quello stabilito dal numero 6), che demandava al Governo di contemplare la «preclusione in sede di giudizio di chiamata in causa su ordine del giudice e in assenza di nuovi elementi e motivate ragioni di soggetto già destinatario di formalizzata archiviazione».

In virtù del predetto principio di delega, il Governo ha emanato l’art. 83 cod. giust. contabile, della cui legittimità costituzionale, rispetto ai primi due commi, dubita la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Campania, con riferimento agli artt. 76, 3, 24, 81 e 111 Cost.

8.1.– In particolare, il comma 1 dell’art. 83 cod. giust. contabile stabilisce, in termini generali, che «[n]el giudizio per responsabilità amministrativa è preclusa la chiamata in causa per ordine del giudice».

Sotto tale profilo, la norma ha codificato l’orientamento affermato dalla giurisprudenza dominante della sezione centrale della Corte dei conti ancora nella vigenza dell’art. 47 del regolamento di procedura, la quale aveva ritenuto, come evidenziato, specie dopo le modifiche operate dalla legge cost. n. 2 del 1999 all’art. 111 Cost., che la mancata chiamata in giudizio da parte del PM di soggetti nei confronti dei quali lo stesso non avesse ritenuto di procedere con l’azione di responsabilità non comporta la necessaria integrazione del contraddittorio iussu iudicis, ben potendo il giudice, senza violare il principio della domanda e il proprio ruolo equidistante tra le parti, compiere un accertamento incidentale di responsabilità al solo scopo dell’esatta determinazione delle quote di danno da porre a carico dei soggetti evocati in giudizio (Corte dei conti, sentenze n. 435 del 2015, n. 316 del 2010 e n. 300 del 2002).

Anche nella Relazione illustrativa al decreto legislativo del 2016 la scelta legislativa di introdurre il divieto di chiamata in giudizio per ordine del giudice è stata motivata nel senso che «[...] costituisce la doverosa cerniera garantista tra fase istruttoria e la fase del giudizio» e che «[...] consentire un’integrazione del contraddittorio iussu iudicis, peraltro “saltando” tutta la parte dell’esercizio delle garanzie difensive, sarebbe ovviamente contraria ai principi del giusto processo oltre che, [...], alla titolarità esclusiva del potere di azione da parte del pubblico ministero contabile».

8.2.– Per altro verso, nella formulazione originaria, il comma 2 dello stesso art. 83 del predetto decreto – anch’esso oggetto, nella versione attuale, delle censure del giudice rimettente – stabiliva che «[q]uando il fatto dannoso costituisce ipotesi di litisconsorzio necessario sostanziale, tutte le parti nei cui confronti deve essere assunta la decisione devono essere convenute nello stesso processo. Qualora alcune di esse non siano state convenute, il giudice tiene conto di tale circostanza ai fini della determinazione della minor somma da porre a carico dei condebitori nei confronti dei quali pronuncia sentenza».

La norma era apparsa di complessa lettura, stante la contraddittorietà logica nel ritenere possibile che un giudizio prosegua sebbene non venga integrato il contraddittorio nei confronti di litisconsorti necessari pretermessi, atteso che ciò condurrebbe, in spregio al fondamentale principio di economia processuale, a una sentenza inutiliter data.

Peraltro, il successivo decreto correttivo del codice di giustizia contabile, varato con il d.lgs. n. 114 del 2019, ha modificato il censurato comma 2 eliminando la possibilità di disporre d’ufficio l’evocazione in giudizio nelle fattispecie di litisconsorzio necessario sostanziale.

La norma stabilisce, quindi, nella formulazione attinta dalle censure del giudice a quo, che «[q]uando il fatto dannoso è causato da più persone e alcune di esse non sono state convenute nello stesso processo, se si tratta di responsabilità parziaria, il giudice tiene conto di tale circostanza ai fini della determinazione della minor somma da porre a carico dei condebitori nei confronti dei quali pronuncia sentenza».

8.3.– Va poi considerato anche il comma 3 dello stesso art. 83 cod. giust. contabile, secondo cui, nel processo di responsabilità amministrativa, il giudice può ordinare la trasmissione degli atti al pubblico ministero per le valutazioni di competenza «[s]oltanto qualora nel processo emergano fatti nuovi rispetto a quelli posti a base dell’atto introduttivo del giudizio [...] senza sospendere il processo».

Si tratta di una situazione differente da quella all’esame della Corte nella quale il PM contabile, pur senza disporne l’archiviazione, aveva comunque vagliato la posizione dei terzi dei quali era richiesta l’integrazione del contraddittorio.

In presenza di un fatto nuovo il collegio può trasmettere gli atti al PM affinché valuti, ai fini della proposizione di un’eventuale azione di responsabilità, la posizione dei soggetti che non aveva vagliato inizialmente.

Comunque, il pubblico ministero non può procedere nei confronti di un soggetto già destinatario di formale provvedimento di archiviazione, ovvero di soggetto per il quale, nel corso dell’attività istruttoria precedente l’adozione dell’invito a dedurre, sia stata valutata l’infondatezza del contributo causale della condotta al fatto dannoso, salvo che l’elemento nuovo consista in un fatto sopravvenuto, ovvero preesistente, ma dolosamente occultato, e ne sussistano motivate ragioni.

In ogni caso – dispone il comma 4 dell’art. 83 – il PM non può disporre la citazione a giudizio, se non previa notifica dell’invito a dedurre di cui all’art. 67 cod. giust. contabile.

9.– Tutto ciò premesso, va esaminata, per priorità logica, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 83, commi 1 e 2, cod. giust. contabile sollevata in riferimento all’art. 76 Cost., la quale non è fondata.

10.– Il parametro interposto, per il tramite dell’art. 76 Cost., è costituito dall’art. 20 della legge n. 124 del 2015, che ha previsto la delega per il riordino della procedura dei giudizi innanzi la Corte dei conti; delega in forza della quale è stato emanato il codice di giustizia contabile, e il successivo decreto correttivo n. 114 del 2019.

Con specifico riferimento alla disposizione censurata dalla Corte rimettente, per un verso, rileva in generale che il Governo sia stato delegato ad adeguare le norme processuali all’epoca vigenti (quelle del regolamento di procedura del 1933) alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, coordinandole con le norme del codice di procedura civile, espressione di princìpi generali.

Per altro verso, in particolare, viene in rilievo la lettera g) del comma 2 dell’art. 20 che ha contemplato il riordino della fase dell’istruttoria del PM contabile.

Questa fase muove dalla notizia di danno, sempre che sia connotata da «specificità e concretezza», la quale attiva i poteri istruttori del PM, che ha l’attribuzione esclusiva dell’azione di responsabilità amministrativa per danno erariale.

Un momento importante nella procedimentalizzazione di tale fase è l’emissione dell’invito a dedurre rivolto dal PM al soggetto potenzialmente destinatario dell’azione di responsabilità amministrativa per danno erariale con audizione personale del medesimo, se richiesta, e con riconoscimento della facoltà di assistenza difensiva in favore di quest’ultimo.

L’esito possibile dell’attività istruttoria può essere l’esercizio dell’azione di responsabilità da parte del PM oppure l’adozione di un formale provvedimento di archiviazione.

In questo contesto regolatorio dell’attività del PM si colloca il più specifico criterio di delega (numero 6), che chiude il catalogo di quelli (elencati nella lettera g del comma 2 dell’art. 20) relativi al riordino della fase istruttoria e che in particolare la Corte rimettente assume essere stato violato.

Il legislatore delegato è stato chiamato a introdurre nel codice la «preclusione in sede di giudizio di chiamata in causa su ordine del giudice». In riferimento a questo specifico criterio si appuntano le censure della Corte rimettente.

Tale criterio esprime la scelta del legislatore delegante diretta, da una parte, a centrare l’esercizio dell’azione di responsabilità ammnistrativa solo ed esclusivamente nell’iniziativa del PM – ciò che ispira l’intero riordino dell’attività istruttoria di quest’ultimo – e, d’altra parte, a superare l’assetto precedente, risultante in particolare dall’art. 47 del regolamento di procedura del 1933, che – per com’era letto dalla giurisprudenza della Corte dei conti – assegnava al giudice un potere sindacatorio, sostanzialmente correttivo dell’azione del pubblico ministero, mediante l’ordine, a lui rivolto, di chiamare in giudizio un terzo perché rispondesse del medesimo danno erariale.

L’espressa esclusione, contenuta nel criterio di delega, della chiamata in giudizio, su ordine del giudice, del terzo potenzialmente corresponsabile, ma non convenuto in giudizio dal PM, supera, infatti, la previsione dell’indicato art. 47 che per lungo tempo ha governato i poteri officiosi del giudice nei giudizi di responsabilità amministrativa per danno erariale. Il comma 1 dell’art. 83 cod. giust. contabile – sia nell’originaria formulazione, che contemplava un vero e proprio divieto per il giudice, sia in quella introdotta dal decreto correttivo, che più propriamente parla di una preclusione – riproduce questa scelta.

La preclusione della «chiamata in causa su ordine del giudice», di cui al criterio di delega in esame, più non consente quanto disponeva l’art. 47, secondo cui, invece, «[l]’intervento può essere anche ordinato dalla sezione, d’ufficio».

11.– Le censure della Corte rimettente si muovono lungo distinte direttrici argomentative e si articolano in plurimi profili.

Innanzi tutto non può dirsi che il legislatore delegato abbia operato in difformità alla giurisprudenza costituzionale, sì da violare – come assume la Corte rimettente – il (già ricordato) criterio generale che richiedeva l’adeguamento a quest’ultima.

È vero che questa Corte, con l’ordinanza n. 261 del 2006, nel dichiarare la manifesta inammissibilità della sollevata questione di legittimità costituzionale, aveva dato atto del diverso assetto risultante dall’applicazione dell’art. 47, affermando che esso consentiva al giudice di ordinare «l’intervento in causa dei concorrenti nella causazione del danno pubblico (allargamento del contraddittorio non impedito dal fatto che la loro posizione sia stata archiviata dal Procuratore regionale, non formandosi il giudicato con l’archiviazione)»; ciò al fine «di procedere ad una più esatta personalizzazione ed individualizzazione della responsabilità nei confronti di coloro che sono stati citati a giudizio dal pubblico ministero».

In tal modo, la mancanza di un controllo giurisdizionale sul provvedimento di archiviazione del PM trovava un parziale riequilibrio nel potere sindacatorio del giudice, che poteva, d’ufficio, allargare il contraddittorio anche nei confronti di chi non era stato destinatario dell’azione di responsabilità amministrativa.

Si tratta, però, di un modulo processuale datato, non coessenziale alla peculiarità dello specifico giudizio di responsabilità amministrativa per danno erariale e anzi destinato a essere rivisto in ragione dell’avvenuta esplicitazione in Costituzione del principio di terzietà del giudice (art. 111, secondo comma, Cost.), come del resto, già prima dell’introduzione del nuovo codice di rito, veniva affermandosi nel più recente orientamento della giurisprudenza della Corte dei conti.

L’esercizio dei pur ampi poteri officiosi del giudice non può comportare l’estensione soggettiva, iussu iudicis, dell’azione promossa dal PM, che ne ha la piena disponibilità secondo un criterio di esclusività, quale proiezione del principio della domanda, tipico dell’ordinario codice di rito (art. 99 cod. proc. civ.); principio che peraltro è espressamente richiamato dallo stesso codice di giustizia contabile (art. 7, comma 2).

Questa Corte ha affermato, in generale, che «[i]l nostro ordinamento processuale civile è, sia pure in linea tendenziale e non senza qualche eccezione, ispirato dal principio ne procedat judex ex officio (sentenza n. 123 del 1970), così da escludere che in capo all’organo giudicante siano allocati anche significativi poteri di impulso processuale» (sentenza n. 184 del 2013).

La Corte dei conti in sede giurisdizionale, se da una parte non è vincolata al provvedimento di archiviazione del PM, che non ha natura giurisdizionale, dall’altra non può determinare (od orientare) l’iniziativa di quest’ultimo, né supplire all’eventuale mancato esercizio dell’azione.

Ed è proprio ciò che ha voluto il legislatore delegante nel disegnare un nuovo equilibrio tra PM e giudice nel giudizio di responsabilità; mentre – può rilevarsi marginalmente – nel giudizio pensionistico, dove non c’è l’attribuzione esclusiva dell’azione al pubblico ministero, è valorizzato l’interesse del terzo «ad opporsi al ricorso», che attiva il potere del giudice di ordinare l’integrazione del contraddittorio (art. 160-bis, comma 1, cod. giust. contabile).

In coerente applicazione di questo criterio di delega, il legislatore delegato ha posto la generale preclusione dell’art. 83, comma 1, nella formulazione del decreto correttivo del 2019: «Nel giudizio per responsabilità amministrativa è preclusa la chiamata in causa per ordine del giudice».

12.– Il criterio di delega non è violato neppure sotto l’ulteriore profilo che la preclusione alla chiamata del terzo per ordine del giudice non è condizionata all’intervenuta adozione di provvedimento di archiviazione che solo – nella prospettazione della Corte rimettente – lo metterebbe al riparo dall’iniziativa officiosa del giudice, in passato invece possibile (ordinanza n. 261 del 2006; sentenza n. 415 del 1995).

È vero che il suddetto criterio di delega – quello del numero 6) della lettera g) del comma 2 dell’art. 20 citato, che preclude la chiamata officiosa del terzo – prosegue: «e in assenza di nuovi elementi e motivate ragioni di soggetto già destinatario di formalizzata archiviazione».

Però la congiunzione coordinativa che lega le due proposizioni del criterio non pone una condizione limitativa della preclusione della chiamata officiosa del terzo, bensì introduce una specificazione parallela del criterio, che poi ha trovato attuazione nel comma 3 dell’art. 83.

Una volta intervenuto un provvedimento formale di archiviazione, non solo non è possibile la chiamata del terzo per ordine del giudice, ma la posizione del terzo diventa immune e schermata dal provvedimento, pur trattandosi di una preclusione processuale e non già di un giudicato sostanziale favorevole.

La regola generale è che «[i]l pubblico ministero non può comunque procedere nei confronti di soggetto già destinatario di formale provvedimento di archiviazione», sempre che non si tratti di «fatti nuovi rispetto a quelli posti a base dell’atto introduttivo del giudizio». Tale è il «fatto sopravvenuto, ovvero preesistente, ma dolosamente occultato», sempre che «ne sussistano motivate ragioni» (art. 83, comma 3).

In base alla medesima disposizione, il giudice che rilevi la sussistenza di «fatti nuovi», tali da far ritenere la corresponsabilità di un terzo, non convenuto in giudizio, ha un potere officioso (non già di chiamata in giudizio del terzo, bensì) di “segnalazione” al pubblico ministero: «il giudice ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero per le valutazioni di competenza».

In definitiva l’art. 83, nella cadenza dei suoi commi, detta una disciplina organica e pienamente coerente con il criterio di delega: a) in generale – ossia in alcun caso – non è possibile la chiamata officiosa in giudizio del terzo, quand’anche ritenuto dal giudice corresponsabile del danno erariale (comma 1); b) l’apporto causativo del danno erariale ad opera del terzo può venire in rilievo solo per dimensionare e quindi ridurre la responsabilità di chi è convenuto in giudizio per iniziativa del PM (comma 2); c) la posizione del terzo può essere rimessa in gioco a seguito di “segnalazione” del giudice, sul presupposto della sussistenza di «fatti nuovi», ma solo per iniziativa del PM (comma 3) e nel rispetto della fondamentale garanzia del previo invito, al terzo, a dedurre e discolparsi (comma 4).

13.– Infine, il criterio di delega non è violato neppure sotto il profilo della portata generale della preclusione della chiamata del terzo per ordine del giudice, tale non solo da superare il regime di cui all’art. 47 del regolamento di procedura del 1933, ma anche da non lasciare spazio al parallelo intervento per ordine del giudice di cui all’art. 107 cod. proc. civ.

La Corte rimettente assume che il legislatore delegato sarebbe andato oltre il criterio di delega perché in tal modo non solo è risultata non più applicabile la chiamata del terzo per ordine del giudice, di cui all’art. 47 citato, ma anche l’intervento del terzo per ordine del giudice di cui all’art. 107 cod. proc. civ., disposizione in tesi applicabile per il tramite della richiamata norma di rinvio (art. 7 cod. giust. contabile) alle disposizioni di quel codice di rito, quale modello generale di riferimento.

In effetti, la portata testuale della preclusione non consente di operare alcuna distinzione e quindi correttamente la Corte rimettente assume che l’art. 107 cod. proc. civ., astrattamente applicabile ex art. 7 cod. giust. contabile, in quanto riconducibile ai principi generali del processo civile, vede sbarrato l’ingresso nel giudizio di responsabilità proprio dalla disposizione censurata.

In vero, c’è una netta differenza tra la chiamata per ordine del giudice ex art. 47 citato, che – per come è stato interpretato dalla giurisprudenza – comportava l’estensione dell’azione di responsabilità amministrativa al terzo chiamato, e l’intervento per ordine del giudice ai sensi dell’art. 107 cod. proc. civ., che, veicolato peraltro da una valutazione di “opportunità” fatta dal giudice stesso, lascia invece inalterati i presupposti soggettivi e oggettivi della domanda, determinando solo l’estensione dell’efficacia soggettiva dell’accertamento (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 10 agosto 1996, n. 7436), salvo che non sia la parte attrice ad estendere la domanda al terzo chiamato.

Non di meno c’è da considerare che nel giudizio di responsabilità per danno erariale l’ordine del giudice sarebbe diretto al PM, che dovrebbe notificare al terzo l’atto introduttivo del giudizio, sicché sarebbe pressoché ineluttabile che ci sia anche l’estensione al terzo della domanda risarcitoria, così riproponendosi, per altra via, il modello processuale dell’art. 47 del regolamento di procedura del 1933 che il legislatore delegante chiaramente ha voluto superare.

Ciò rende coerente – sul piano dell’art. 76 Cost. – la disposizione censurata al criterio direttivo e giustifica l’ampiezza della preclusione posta dal comma 1 dell’art. 83, che non fa salva – come invece vorrebbe la Corte rimettente – neppure la possibilità dell’intervento per ordine del giudice ai sensi dell’art. 107 cod. proc. civ. In nessun caso il giudice può d’ufficio chiamare in giudizio un terzo, o ordinarne l’intervento, sull’assunto di una sua corresponsabilità nella causazione del danno erariale. Può solo, d’ufficio, segnalare al PM «fatti nuovi» che coinvolgano il terzo e comunque può tener conto dell’apporto del terzo alla causazione del danno erariale al fine di diminuire (o escludere) la responsabilità, non solidale, dei soggetti convenuti in giudizio dal pubblico ministero.

14.– In conclusione, non sussiste il denunciato eccesso di delega sotto alcuno degli esaminati profili.

15.– Le ulteriori questioni poste con riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., che possono essere trattate congiuntamente in quanto strettamente connesse, sono invece inammissibili.

16.– Il filo conduttore delle censure mosse dalla Corte rimettente è quello di un denunciato deficit di tutela del terzo, il quale – come si è detto – in nessun caso può essere chiamato in giudizio per iniziativa officiosa del giudice, ma non di meno è interessato all’accertamento, che il giudice è chiamato a compiere, nel momento in cui il giudice stesso prefigura una sua responsabilità concorrente nella causazione del danno erariale, seppur al solo fine di dimensionare la responsabilità parziaria di ciascun convenuto in giudizio, destinatario dell’azione promossa dal PM.

Questa denunciata carenza di tutela – secondo la Corte rimettente – ridonderebbe, al contempo, in violazione del principio di eguaglianza (perché, «quando il fatto dannoso è causato da più persone ed alcune di esse non sono state convenute nello stesso processo», queste ultime si troverebbero in una situazione processualmente deteriore non potendo interloquire in giudizio); vi sarebbe inoltre lesione del diritto di difesa (perché la persona, la cui condotta è valutata in quanto causativa di danno erariale, non avrebbe la possibilità di discolparsi e di far sentire la sua voce); sussisterebbe infine contrasto con il principio del giusto processo (per l’ingiustificata asimmetria che connoterebbe un siffatto giudizio).

17.– Orbene, se la ipotizzata corresponsabilità del terzo deriva da «fatti nuovi» e tali sono quelli che eccedono i fatti «posti a base dell’atto introduttivo del giudizio», il terzo in realtà non rimane estraneo, perché ciò attiva il potere officioso del giudice di segnalazione al PM, di cui si è detto sopra.

In tale evenienza, il coinvolgimento del terzo, perché risponda del danno erariale cagionato ad una pubblica amministrazione, richiede l’iniziativa del pubblico ministero, titolare del potere di azione, nel rispetto delle garanzie procedimentali dell’istruttoria e segnatamente dell’invito a dedurre, di cui all’art. 67 cod. giust. contabile, che consente al terzo di discolparsi.

Il giudice, nell’investire il PM con la segnalazione della posizione del terzo, non sospende il giudizio fin tanto che il pubblico ministero non adotti le valutazioni di sua competenza. Successivamente, ove sia esercitata l’azione anche nei confronti del terzo, sarà possibile la riunione dei giudizi ai sensi dell’art. 84 cod. giust. contabile.

18.– Se invece la ipotizzata corresponsabilità del terzo non derivi da «fatti nuovi», ma da un diverso apprezzamento da parte del giudice di fatti già valutati dal PM – sia che quest’ultimo abbia adottato un formale provvedimento di archiviazione, sia anche che egli abbia soltanto valutato l’infondatezza del contributo causale della condotta del terzo al fatto dannoso – la struttura del giudizio di responsabilità, esaminata, giustifica – per quanto sopra argomentato – che il terzo non possa essere chiamato, per ordine del giudice, a intervenire in giudizio. Ciò essenzialmente perché significherebbe un’inammissibile estensione officiosa della domanda del pubblico ministero, in violazione del principio di attribuzione esclusiva a quest’ultimo dell’azione di responsabilità e senza la garanzia, per il terzo, di una previa formale istruttoria e soprattutto senza il previo invito, a quest’ultimo, a dedurre e a discolparsi.

Però, da una parte, c’è che il terzo non è estraneo alla vicenda, oggetto del giudizio, nella misura in cui si ragiona anche del suo apporto causale nel cagionare il danno erariale. Benché sia preclusa l’azione di responsabilità nei suoi confronti, stante la già effettuata valutazione “assolutoria” del pubblico ministero, soprattutto se trasfusa in un provvedimento di archiviazione, comunque sarebbe per il terzo pregiudizievole, anche sotto il profilo dell’immagine, una pronuncia del giudice, il quale, sulla base di un diverso apprezzamento dei fatti (non essendo, certamente, egli vincolato alle valutazioni del PM), riducesse (o finanche escludesse) la responsabilità dei soggetti convenuti in giudizio dal pubblico ministero per essere tale responsabilità, nella causazione del danno erariale, ascrivibile in parte (o in tutto) al terzo.

D’altra parte, c’è anche che, nella particolare fattispecie della responsabilità amministrativa per danno erariale, il terzo rimane non di meno esposto, ricorrendone i presupposti, alla eventualità della domanda risarcitoria della PA danneggiata, la cui iniziativa giudiziaria non sarebbe preclusa, in tesi, dal mancato esercizio dell’azione del PM, ove anche ciò si fosse tradotto in un formale provvedimento di archiviazione. La legittimazione “concorrente” (o “colegittimazione”), del pubblico ministero e dell’amministrazione creditrice, ad agire davanti a distinte giurisdizioni per la tutela del credito, sub specie di possibile danno erariale o civile, è stata riconosciuta dalla giurisprudenza (Corte di cassazione, sezioni unite civili, ordinanze 10 dicembre 2020, n. 28183 e 19 luglio 2016, n. 14792).

Il caso del giudizio a quo è emblematico: ove la Corte, adita dal pubblico ministero contabile, ritenesse che il danno erariale è stato causato anche (o solo) da chi aveva in carico – per concessione o affidamento del servizio – la riscossione dei canoni locatizi degli immobili del Comune, ben potrebbe il Comune danneggiato far valere, in un distinto e diverso giudizio ordinario, come tale non ricadente nella giurisdizione della Corte dei conti, l’inadempimento colpevole del terzo rispetto alle obbligazioni assunte.

Pertanto, sotto entrambi questi profili, non è indifferente per il terzo che il giudice, in ipotesi, per giustificare il ridimensionamento della responsabilità parziaria di ciascun convenuto, o addirittura la ritenuta insussistenza di ogni sua responsabilità, faccia riferimento all’apporto (concorrente o finanche esclusivo) del terzo stesso nella causazione del danno erariale.

Ma – una volta esclusi, sia la chiamata (ex art. 47 citato, ormai abrogato), sia l’intervento (ex art. 107 cod. proc. civ., per la preclusione posta dalla disposizione censurata) in giudizio del terzo per ordine del giudice (per le ragioni sopra esaminate) –rimarrebbe l’ipotesi di un’iniziativa volontaria del terzo stesso; la quale, però, implica la costruzione di una fattispecie processuale di intervento in giudizio del terzo e, prima ancora, di una ipotesi di segnalazione a quest’ultimo (denuntiatio litis), ad opera del giudice stesso, in parallelismo alla già prevista segnalazione al PM dei «fatti nuovi», perché il terzo sia posto in condizione di conoscere della controversia e di valutare le iniziative da prendere a sua tutela.

Queste, però, sono scelte di sistema, che vedono nel codice di giustizia contabile solo una traccia, non sufficiente per un intervento additivo di questa Corte: nel giudizio di responsabilità è previsto l’intervento volontario di un terzo, ma solo in adesione alla posizione del pubblico ministero (art. 85), e nel giudizio pensionistico vi è un’ipotesi di denuntiatio litis, ma solo in grado di impugnazione (art. 183, comma 3, cod. giust. contabile, in simmetria con la denuntiatio litis di cui all’art. 332, primo comma, cod. proc. civ.).

Sono, in definitiva, scelte devolute al legislatore, il quale «dispone di un’ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali, incontrando il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute» (sentenza n. 58 del 2020); scelte, pertanto, precluse a questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 143 e n. 13 del 2022, n. 213, n. 148 e n. 87 del 2021 e n. 80 del 2020).

Ne deriva, quindi, l’inammissibilità delle esaminate questioni.

Tuttavia, il denunciato deficit di tutela del terzo, non convenuto e il cui intervento in giudizio non può essere ordinato dal giudice, né aversi su base volontaria senza aderire alla posizione del PM, chiama il legislatore a intervenire nella materia compiendo le scelte discrezionali ad esso demandate, quando si discuta nel processo della concorrente responsabilità del terzo stesso, pur se al fine di accertare l’eventuale responsabilità parziaria dei soggetti convenuti in causa.

19.– Non fondata è infine la dedotta violazione dell’art. 81 Cost., sotto il profilo di una possibile mancata integrale copertura del danno erariale.

Il sistema, come sopra descritto, comporta che l’iniziativa per far valere la responsabilità amministrativa, al fine di conseguire il risarcimento del danno erariale, è attribuita esclusivamente al PM contabile.

L’evenienza che il giudice ritenga la concorrente (o esclusiva) responsabilità di un terzo, non evocato in giudizio dal pubblico ministero, appartiene all’ordinaria alea della controversia ed è compatibile con l’assetto processuale del giudizio di responsabilità voluto dal legislatore delegante, in ragione delle argomentazioni sopra sviluppate, anche quando ciò comporta, in applicazione del criterio della parziarietà della responsabilità, una riduzione (o finanche esclusione) della risarcibilità del danno erariale da parte dei soggetti convenuti, destinatari dell’azione del PM.

Ma ciò non determina alcun vulnus al parametro evocato dalla Corte rimettente, atteso che la tendenziale integrità del risarcimento del danno erariale, subito dalla PA, è assicurata, in principio, proprio dall’ampiezza dell’azione del pubblico ministero, integrata anche, in ipotesi, dalla segnalazione, ad opera del giudice, di «fatti nuovi».

Residualmente poi – come già rilevato – rimane, ove ne sussistano i presupposti, l’azione risarcitoria ordinaria della PA danneggiata.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83, commi 1 e 2, dell’Allegato 1 (Codice di giustizia contabile) al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124), come modificato dall’art. 44 del decreto legislativo 7 ottobre 2019, n. 114 (Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, recante codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Campania, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 83, commi 1 e 2, cod. giust. contabile, come modificato dall’art. 44 del d.lgs. n. 114 del 2019, sollevate, in riferimento agli artt. 76 e 81 Cost., dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Campania, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Giovanni AMOROSO, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 28 luglio 2022.