SENTENZA N. 221
ANNO 2019
Commenti alla decisione
di
I. Lavinia Del Corona, Il
difficile coordinamento tra progresso scientifico, tutela dei diritti, convinzioni
etiche e sentire sociale: quali spazi per la discrezionalità legislativa? Nota alla
sentenza della Corte costituzionale, 23 ottobre 2019, n. 221, per g.c. dell’Osservatorio
AIC
II. Marta Picchi, Il
divieto per le coppie omosessuali di accedere alla PMA: la Corte costituzionale
compie un’interpretazione autentica della pregressa giurisprudenza. (Riflessioni
sulla sentenza n. 221/2019), per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
III. Nikolaj Vinai, Il
confine. La sentenza n. 221 del 2019 e i suoi echi di sistema, per g.c. di Federalismi.it
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio
LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI,
Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana
SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA,
Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, 4, 5 e 12, commi 2, 9 e 10 della legge
19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita),
promossi dal Tribunale ordinario di Pordenone e dal Tribunale ordinario di Bolzano,
con ordinanze
del 2 luglio 2018 e del 3 gennaio
2019, rispettivamente iscritte al n. 129 del registro ordinanze 2018 e al n.
60 del registro ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2018 e n. 17, prima serie speciale, dell’anno
2019.
Visti gli atti di costituzione
di S. B. e altra, e di F. F. e altra, gli atti di intervento ad adiuvandum dell’Avvocatura
per i diritti LGBTI, e dell’Associazione radicale Certi Diritti e altra nonché gli
atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza
pubblica del 18 giugno 2019 il Giudice relatore Franco Modugno;
uditi gli avvocati
Susanna Lollini per l’Avvocatura per i diritti LGBTI, Filomena Gallo e Massimo Clara
per l’Associazione radicale Certi Diritti e altra, Maria Antonia Pili per S. B.
e altra, Alexander Schuster per F. F. e altra e l’avvocato dello Stato Gabriella
Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto
in fatto
1.– Con ordinanza del
2 luglio 2018 (r. o. n. 129 del 2018), il Tribunale ordinario di Pordenone ha sollevato
questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, della
Costituzione – quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata
a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955,
n. 848 – degli artt. 5 e 12, commi 2, 9 e 10, della legge 19 febbraio 2004,
n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in
cui, rispettivamente, limitano l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente
assistita (d’ora in avanti: PMA) alle sole «coppie […] di sesso diverso» e sanzionano,
di riflesso, chiunque applichi tali tecniche «a coppie […] composte da soggetti
dello stesso sesso».
1.1.– Il giudice a
quo premette di essere investito del procedimento cautelare promosso, ai sensi dell’art.
700 del codice di procedura civile, da due donne, parti di una unione civile, in
seguito al rifiuto opposto dalla locale Azienda sanitaria alla loro richiesta di
accesso alla PMA.
Le ricorrenti hanno
esposto di convivere more uxorio dal 2012 e di aver contratto unione civile nel
2017; di aver maturato nel corso del tempo il desiderio della genitorialità, tanto
che una di loro aveva intrapreso un percorso di PMA in Spagna, all’esito del quale
aveva dato alla luce in Italia due gemelli; che anche l’altra ricorrente intendeva
realizzare il suo desiderio di maternità, senza tuttavia recarsi all’estero, con
costi piuttosto elevati, poiché, a suo parere, la legge n. 40 del 2004 – dopo le
sentenze della Corte costituzionale n. 162 del 2014
e n. 96 del 2015
e alla luce di alcune importanti pronunce della giurisprudenza di legittimità –
avrebbe consentito alle coppie omosessuali di accedere alle tecniche di PMA anche
in Italia; che le ricorrenti si erano quindi rivolte all’Azienda per l’assistenza
sanitaria n. 5 "Friuli occidentale”, presso la quale era stato istituito un servizio
di PMA di elevato livello qualitativo; che il responsabile del servizio aveva, tuttavia,
respinto la loro richiesta, sul rilievo che l’art. 5 della legge n. 40 del 2004
riserva la fecondazione assistita alle sole coppie composte da persone di sesso
diverso. Reputando illegittimo il diniego, le ricorrenti hanno chiesto al giudice
adito di ordinare, con provvedimento d’urgenza, all’Azienda sanitaria di consentire
loro l’accesso alla PMA, previa proposizione – ove il problema non fosse ritenuto
superabile in via interpretativa – di questioni di legittimità costituzionale del
citato art. 5 ed, eventualmente, dell’art. 4, comma 1, della medesima legge n. 40
del 2004, nella parte in cui limita la PMA «ai casi di sterilità o di infertilità»,
anche quando si tratti di coppie formate da persone dello stesso sesso.
Nel costituirsi in
giudizio, l’Azienda sanitaria ha eccepito preliminarmente l’incompetenza per materia
del giudice adito, assumendo che la competenza a decidere sulla domanda cautelare
spetterebbe al «Giudice del Lavoro del Tribunale di Pordenone»: ciò in quanto le
cause concernenti le prestazioni erogate nell’ambito del servizio sanitario nazionale
rientrerebbero tra le controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatoria
(art. 442 cod. proc. civ.), devolute dall’art. 444 del medesimo codice alla competenza
del giudice del lavoro.
L’eccezione – secondo
il giudice rimettente – sarebbe «mal posta» e, comunque sia, infondata. Per consolidata
giurisprudenza della Corte di cassazione, infatti, la ripartizione delle funzioni
tra le sezioni specializzate (quale la sezione lavoro) e le sezioni ordinarie del
medesimo Tribunale non determina l’insorgenza di una questione di competenza, ma
attiene alla distribuzione degli affari all’interno dello stesso ufficio. In ogni
caso, poi, l’eccezione risulterebbe infondata, in quanto oggetto del giudizio a
quo non è l’erogazione di una prestazione sanitaria a tutela del diritto del cittadino
a una specifica cura, ma l’esatta individuazione dei limiti al diritto alla genitorialità:
«diritto che, solo incidentalmente, verrebbe veicolato attraverso il ricorso ad
un determinato percorso terapeutico».
Quanto, poi, ai presupposti
del provvedimento cautelare richiesto, sarebbe ravvisabile quello del periculum
in mora, tenuto conto dell’età della ricorrente che dovrebbe sottoporsi alla fecondazione
assistita. È, infatti, notorio che le probabilità di successo delle relative tecniche
diminuiscono sensibilmente con l’avanzare dell’età della donna, specie dopo i trentacinque
anni, con correlato aumento dei rischi per la salute della gestante e del nascituro.
Nella specie, l’attesa dei tempi di un giudizio ordinario di cognizione rischierebbe,
quindi, di pregiudicare definitivamente il diritto azionato.
Per quanto attiene,
invece, al fumus boni iuris, il giudice a quo rileva che, in base all’art. 5 della
legge n. 40 del 2004, «[f]ermo restando quanto stabilito dall’articolo 4, comma
1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie
di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile,
entrambi viventi». Nella specie, le ricorrenti sono maggiorenni, coniugate o conviventi
(avendo costituito un’unione civile), in età potenzialmente fertile ed entrambe
viventi. Esse rimarrebbero, tuttavia, escluse dall’accesso alla procedura, trattandosi
di una coppia di persone non di sesso diverso, ma dello stesso sesso.
Tale preclusione risulterebbe,
d’altra parte, presidiata da incisive previsioni sanzionatorie. L’art. 12 della
legge n. 40 del 2004 punisce, infatti, al comma 2, con la sanzione amministrativa
pecuniaria da 200.000 a 400.000 euro «[c]hiunque a qualsiasi titolo, in violazione
dell’articolo 5, applica tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie
[…] che siano composte da soggetti dello stesso sesso». Prevede, inoltre, al comma
9, «la sospensione da uno a tre anni dall’esercizio professionale nei confronti
dell’esercente una professione sanitaria condannato per uno degli illeciti» di cui
al medesimo articolo. Stabilisce, infine, al comma 10, la sospensione per un anno
dell’autorizzazione concessa «alla struttura al cui interno è eseguita una delle
pratiche vietate», con possibilità di revoca della stessa «[n]ell’ipotesi di più
violazioni dei divieti […] o di recidiva».
Il rimettente dubita,
tuttavia, della legittimità costituzionale delle disposizioni dianzi indicate.
Il divieto di accesso
alla PMA, stabilito nei confronti delle coppie omosessuali, e la correlata previsione
di sanzioni nei confronti del personale medico e delle strutture che non lo rispettino
si porrebbero in contrasto, anzitutto, con l’art. 2 Cost., in quanto non garantirebbero
il diritto fondamentale alla genitorialità dell’individuo, sia come soggetto singolo,
sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.
Secondo quanto affermato
dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 138 del
2010, la nozione di formazione sociale, di cui al citato art. 2 Cost., abbraccia
«ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il
libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione
del modello pluralistico». Essa comprende, pertanto, anche l’unione civile tra persone
dello stesso sesso: conclusione che trova conferma nell’art. 1, comma 1, della legge
20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso
sesso e disciplina delle convivenze), ove l’unione civile è espressamente qualificata
come «specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione».
In tal modo, il legislatore italiano avrebbe superato l’impostazione tradizionale,
in base alla quale la coppia familiare era necessariamente composta da soggetti
di sesso diverso, rendendo omogenee le famiglie, sia omosessuali, sia eterosessuali.
Le norme censurate
violerebbero, altresì, l’art. 3 Cost., dando origine a disparità di trattamento
basate sull’orientamento sessuale e sulle condizioni economiche dei cittadini.
Risulterebbe, infatti,
irragionevole e «logicamente contraddittoria» la mancata inclusione delle coppie
formate da persone dello stesso sesso tra i soggetti legittimati ad accedere alle
tecniche in questione, le quali mirano precipuamente a favorire la soluzione dei
problemi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana: requisito, questo,
che la Corte di cassazione ha ritenuto senz’altro sussistente nel caso della coppia
omosessuale, la quale verrebbe a trovarsi «in una situazione assimilabile a quella
di una coppia di persone di sesso diverso cui sia diagnosticata una sterilità o
infertilità assoluta e irreversibile» (è citata Corte di cassazione, sezione prima
civile, sentenza 30 settembre 2016, n. 19599). Tale rilievo – ad avviso del giudice
a quo – renderebbe manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 4, comma 1, della legge n. 40 del 2004, prospettata peraltro dalle ricorrenti
solo in via subordinata.
Vietando alle coppie
di cittadini dello stesso sesso di accedere in Italia alla PMA, le disposizioni
denunciate finirebbero, d’altra parte, per riconoscere il diritto alla filiazione
alle sole coppie omosessuali che siano in grado di sostenere i costi per sottoporsi
a tali tecniche in uno dei numerosi Stati esteri che, viceversa, lo consentono.
Come già rilevato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 162 del
2014 – sia pure in riferimento al ricorso alla PMA di tipo eterologo da parte
di una coppia eterosessuale – si realizzerebbe, in questo modo, «un ingiustificato,
diverso trattamento delle coppie […], in base alla capacità economica delle stesse,
che assurge intollerabilmente a requisito dell’esercizio di un diritto fondamentale»:
esito che rappresenterebbe «non un mero inconveniente di fatto, bensì il diretto
effetto delle disposizioni in esame, conseguente ad un bilanciamento degli interessi
manifestamente irragionevole».
Risulterebbero violati,
ancora, l’art. 31, secondo comma, Cost., in forza del quale la Repubblica è chiamata
a proteggere la maternità, favorendo gli istituti necessari a tale scopo, e l’art.
32, primo comma, Cost., in quanto – come rilevato dalla citata sentenza n. 162 del
2014 – il diritto alla salute, tutelato dal precetto costituzionale, deve ritenersi
comprensivo della salute psichica, oltre che fisica: e, nella specie, sarebbe «certo
che l’impossibilità di formare una famiglia con figli insieme al proprio partner,
mediante il ricorso alla PMA […], possa incidere negativamente, in misura anche
rilevante, sulla salute della coppia».
Le norme censurate
violerebbero, infine, l’art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto con
gli artt. 8 e 14 CEDU, che prevedono, rispettivamente, il diritto al rispetto della
vita familiare e il divieto di discriminazione. Il divieto in discussione si tradurrebbe,
infatti, in una inammissibile interferenza in una scelta di vita che compete alla
coppia familiare, attuando, al tempo stesso, una irragionevole discriminazione fondata
sul mero orientamento sessuale dei suoi componenti.
Le questioni sarebbero
rilevanti nel giudizio a quo, posto che, allo stato, la richiesta delle ricorrenti
di accedere alla PMA trova ostacolo nelle disposizioni denunciate. L’univoco tenore
letterale di queste ultime escluderebbe, d’altronde, la praticabilità dell’interpretazione
costituzionalmente orientata prospettata in via principale dalle ricorrenti.
1.2.– Si sono costituite
S. B. e C. D., parti ricorrenti nel giudizio a quo, le quali hanno chiesto che le
questioni siano accolte.
Le parti costituite
osservano come la Corte costituzionale sia intervenuta più volte sulla legge n.
40 del 2004, al fine di estendere l’accesso alla PMA a soggetti inizialmente esclusi.
In particolare, con la sentenza n. 162 del
2014 è caduto il divieto di ricorso a tecniche di tipo eterologo per le coppie
eterosessuali affette da sterilità o infertilità assolute e irreversibili, mentre
la successiva sentenza
n. 96 del 2015 ha garantito l’accesso alla PMA anche alle coppie eterosessuali
fertili, ma portatrici di gravi patologie genetiche trasmissibili.
Nel solco di tale processo
di adeguamento ai principi costituzionali non potrebbe ora non inserirsi anche l’"apertura”
delle tecniche di PMA alle coppie formate da persone dello stesso sesso.
Come rilevato dalla
Corte di cassazione (in particolare, con la sentenza n. 19599 del 2016), se l’unione
fra persone dello stesso sesso è una formazione sociale ove l’individuo «svolge
la sua personalità», e se la volontà dei componenti della coppia di divenire genitori
e formare una famiglia con prole costituisce espressione della generale libertà
di autodeterminazione della persona, ricondotta dalla Corte costituzionale agli
artt. 2, 3 e 31 Cost. (e non pure all’art. 29 Cost.), deve escludersi che esista,
a livello costituzionale, un divieto per le coppie dello stesso sesso di accogliere
e anche di generare figli. Ciò tenuto conto del fatto che non vi sono certezze scientifiche
o dati di esperienza in ordine a specifiche ripercussioni negative sul piano educativo
e della crescita del minore, derivanti dal suo inserimento in una famiglia formata
da una coppia omosessuale.
Su tale rilievo, la
Cassazione ha ritenuto, quindi, possibile l’adozione del figlio del partner omosessuale
ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto
del minore ad una famiglia) (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza
22 giugno 2016, n. 12962).
Una volta assodato
che l’unione omosessuale può bene costituire un contesto familiare nel quale esercitare
le funzioni genitoriali, la tendenziale unitarietà dello status di figlio – senza
discriminazioni tra figli legittimi, naturali o adottivi – renderebbe irragionevole
ogni disparità nel riconoscimento del diritto alla genitorialità che risulti collegata
unicamente alle «modalità di ingresso» dei figli all’interno dell’unione civile:
ossia alla circostanza che l’ingresso avvenga a seguito di adozione ovvero di tecniche
di PMA.
La giurisprudenza più
recente riconosce, d’altronde, piena efficacia nel nostro ordinamento agli atti
di nascita stranieri relativi a minori concepiti all’estero con tecniche di PMA
da partner dello stesso sesso, con conseguente attribuzione della qualità di genitori
a entrambi i partner. Impedire il ricorso a tecniche di PMA a coppie dello stesso
sesso in Italia e nel contempo riconoscerne pienamente gli effetti se operate all’estero
(anche da cittadini italiani) rappresenterebbe una «intollerabile "ipocrisia” interpretativa»,
anch’essa contrastante con l’art. 3 Cost.
Pienamente condivisibili
sarebbero, per il resto, le censure formulate dal rimettente in riferimento agli
artt. 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, Cost. A quest’ultimo
riguardo, le parti costituite ricordano come la Corte costituzionale austriaca,
con una pronuncia del 19 dicembre 2013, abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale
della legge austriaca che vietava a coppie di donne (nella specie, unite civilmente
in Germania) di accedere alle tecniche di PMA, ravvisando in tale divieto una lesione
del principio di eguaglianza di cui all’art. 7 della Costituzione austriaca e una
inammissibile interferenza con la vita familiare protetta dall’art. 8 CEDU.
1.3.– È intervenuto
il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, il quale ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità
delle questioni per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza. Il
giudice a quo avrebbe, infatti, affermato il contrasto delle norme censurate con
i parametri costituzionali in modo puramente assiomatico, senza un adeguato supporto
argomentativo.
Nel merito, le questioni
sarebbero, in ogni caso, infondate.
Come sottolineato nella
sentenza n. 162 del
2014 della Corte costituzionale, la legge n. 40 del 2004 costituisce la «prima
legislazione organica relativa ad un delicato settore […] che indubbiamente coinvolge
una pluralità di rilevanti interessi costituzionali». Le relative questioni di costituzionalità
toccano temi eticamente sensibili, in relazione ai quali l’individuazione di un
ragionevole punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze appartiene primariamente
alla valutazione del legislatore.
La progressiva eliminazione,
da parte della Corte, con le sentenze n. 151 del
2009, n. 162
del 2014 e n.
96 del 2015, di taluni divieti posti dalla citata legge sarebbe frutto di una
analisi specifica non riassumibile in un giudizio di valore unitario, in quanto
la Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla
presenza di figli e la libertà di divenire genitori non implica che essa possa esplicarsi
senza limiti. Con la sentenza n. 162 del
2014, la Corte ha, infatti, dichiarato l’illegittimità costituzionale della
preclusione all’accesso alla PMA di tipo eterologo nei confronti delle coppie affette
da grave patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute e irreversibili,
senza porre, tuttavia, in discussione la legittimità in sé del divieto di tale pratica
e precisando, altresì, che la declaratoria di illegittimità costituzionale non incide
sulla disciplina dei requisiti soggettivi (compreso quello della diversità di sesso)
stabilita dall’art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004, che resta, quindi, applicabile
anche alla PMA di tipo eterologo.
Quanto al divieto di
discriminazione delle coppie omosessuali, la stessa Corte costituzionale ha tenuto
ferma l’interpretazione dell’art. 29 Cost. e il modello di matrimonio e di famiglia
che ne deriva, fondati sulla differenza di sesso tra i coniugi (sentenza n. 138 del
2010). Né la disciplina delle unioni civili, di cui alla legge n. 76 del 2016,
potrebbe rappresentare un utile termine di comparazione, posto che tale legge definisce
l’unione civile quale «specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e
3 della Costituzione», attribuendo quindi alla stessa caratteristiche autonome e
distinte rispetto al matrimonio.
L’art. 1, comma 20,
della legge n. 76 del 2016 esclude, inoltre, l’applicabilità alle unioni civili
tanto delle disposizioni del codice civile sulla filiazione, quanto – come chiarito
dalla Corte di cassazione – della disposizione relativa all’adozione speciale del
figlio del coniuge, di cui all’art. 44, comma 1, lettera b), della legge n. 184
del 1983, consentendo la sola adozione in caso di impossibilità di affidamento preadottivo,
prevista dalla successiva lettera d).
La ratio della disciplina
della PMA sarebbe, d’altro canto, quella di tutelare il superiore interesse del
nascituro. Il diritto alla genitorialità sussisterebbe, pertanto, solo ove esso
corrisponda al migliore interesse per il minore («best interest of the child», secondo
la formula rinvenibile nella Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New
York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991,
n. 176). E, proprio nella prospettiva della valutazione di tale interesse, particolarmente
sul piano della conservazione di rapporti affettivi già instaurati, il diritto alla
genitorialità delle coppie omosessuali sarebbe stato, in effetti, evocato dalla
giurisprudenza comune che si è occupata dall’argomento.
Il caso oggi in esame
non riguarda, tuttavia, una ipotesi di «genitorialità sociale», tramite la quale
possa essere tutelato un minore, anche nell’ambito di coppie omosessuali, ma soltanto
il diritto di un adulto di procreare: diritto che non sarebbe garantito in modo
assoluto dall’ordinamento.
Quanto, infine, alla
denunciata violazione degli artt. 8 e 14 CEDU, la difesa dello Stato ricorda come
la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza 1° aprile 2010 [recte:
3 novembre 2011], S. H. e altri contro Austria, abbia ritenuto che il divieto
di fecondazione eterologa previsto dalla legislazione austriaca non configurasse
una ingerenza indebita della pubblica autorità nella vita privata e familiare, vietata
dall’art. 8 CEDU, non eccedendo il margine di discrezionalità di cui gli Stati fruiscono
nella disciplina della materia.
Si sarebbe, in conclusione,
al cospetto di una tematica che implica l’armonizzazione di un complesso di valori
e scelte di opportunità rimesse in via esclusiva al legislatore.
1.4.– È intervenuta,
altresì, l’associazione di promozione sociale Avvocatura per i diritti LGBTI, la
quale ha chiesto, sulla scorta di ampie argomentazioni, l’accoglimento delle questioni
(da intendere, a suo avviso, come limitate alle sole coppie omosessuali femminili).
1.5.– S. B. e C. D.
hanno depositato memoria, con la quale hanno contestato le difese dell’Avvocatura
generale dello Stato.
Non conferente sarebbe,
in specie, il richiamo dell’Avvocatura ai tratti differenziali degli istituti del
matrimonio e dell’unione civile. L’art. 5 della legge n. 40 del 2004 consente, infatti,
l’accesso alla PMA non soltanto alle coppie «coniugate», ma anche alle coppie «conviventi».
La disparità di trattamento che le questioni mirano a rimuovere non è, dunque, quella
tra soggetti coniugati e soggetti uniti civilmente, ma quella fra conviventi eterosessuali
e conviventi omosessuali (uniti civilmente): distinzione che esprimerebbe una discriminazione
fondata esclusivamente sull’orientamento sessuale della coppia.
Parimente privo di
significato sarebbe il fatto che, nelle precedenti pronunce sulla PMA, la Corte
costituzionale abbia tenuto fermo il requisito di accesso rappresentato dalla diversità
di sesso dei richiedenti. In quelle occasioni, il problema della legittimità di
tale requisito non risultava, infatti, sottoposto alla Corte.
La pronuncia della
Grande Camera della Corte EDU sul caso S. H. e altri contro Austria risulterebbe,
a sua volta, superata dalla successiva decisione della Corte costituzionale austriaca,
che ha dichiarato illegittima la normativa che vietava l’accesso alla PMA a coppie
di donne.
1.6.– Ha depositato
memoria anche l’Avvocatura generale dello Stato, la quale ha insistito per la dichiarazione
di inammissibilità o infondatezza delle questioni, riprendendo e sviluppando gli
argomenti già svolti nell’atto di intervento.
2.– Con ordinanza del
3 gennaio 2019 (r. o. n. 60 del 2019), il Tribunale ordinario di Bolzano ha sollevato
questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, limitatamente alle parole
«di sesso diverso», e 12, comma 2, limitatamente alle parole «dello stesso sesso
o», «anche in combinato disposto con i commi 9 e 10», nonché degli artt. 1, commi
1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, «nella parte in cui non consentono il ricorso
alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie formate da due
persone di sesso femminile», deducendone il contrasto con gli artt. 2, 3, 31, secondo
comma, e 32, primo comma, Cost., nonché con gli artt. 11 (parametro evocato solo
in dispositivo) e 117, primo comma, Cost., in riferimento agli artt. 8 e 14 CEDU,
agli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti
civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo
con legge 25 ottobre 1977, n. 881, e agli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo
1, e 25 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità,
fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo
2009, n. 18.
2.1.– Il giudice a
quo riferisce di essere chiamato a pronunciarsi sul ricorso proposto da due donne,
ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ., nei confronti dell’Azienda sanitaria della
Provincia autonoma di Bolzano.
Nel ricorso si deduce
che la coppia ricorrente si era sposata in Danimarca nel 2014, con atto successivamente
trascritto in Italia nel registro delle unioni civili; che a causa delle complicazioni
seguite a trattamenti di inseminazione artificiale operati in Danimarca, a una delle
ricorrenti era stata asportata la salpinge uterina destra e riscontrata l’avvenuta
chiusura di quella sinistra, con conseguente incapacità di produrre ovuli; che l’altra
ricorrente soffriva, a sua volta, di un’aritmia cardiaca, in ragione della quale
le era stato sconsigliato di avere gravidanze e suggerito, anzi, di ricorrere a
una terapia anticoncezionale; che le tecniche di fecondazione assistita avrebbero
consentito di superare gli ostacoli alla procreazione indotti da tali patologie,
tramite l’utilizzazione complementare delle potenzialità riproduttive residue delle
ricorrenti (gestazionale dell’una, di produzione ovarica dell’altra); che, a tal
fine, esse si erano rivolte all’Azienda sanitaria di Bolzano, la quale aveva, tuttavia,
respinto la loro richiesta, rilevando che l’art. 4, comma 3, della legge n. 40 del
2004 vieta le tecniche di fecondazione eterologa e che il successivo art. 5 consente
di accedere alle tecniche di PMA solo alle coppie composte da persone di sesso diverso.
Reputando illegittimo
il diniego, le ricorrenti hanno chiesto al Tribunale rimettente di garantire con
provvedimento d’urgenza il loro diritto di accesso alle menzionate terapie riproduttive.
Costituitasi in giudizio,
l’Azienda sanitaria – sul presupposto ci si trovi a fronte di una controversia in
materia di previdenza e assistenza obbligatorie – ha eccepito l’incompetenza per
territorio del Tribunale ordinario di Bolzano, indicando come competente, ai sensi
dell’art. 444 cod. proc. civ., il giudice del lavoro presso il Tribunale ordinario
di Monza.
Ad avviso del rimettente,
l’eccezione sarebbe infondata. Il giudizio a quo non potrebbe essere, infatti, incluso
tra le controversie di cui all’art. 442 cod. proc. civ., attenendo piuttosto all’esatta
individuazione dei limiti e delle facoltà connessi al diritto alla genitorialità:
diritto che, «solo incidentalmente, verrebbe veicolato attraverso il ricorso ad
un determinato percorso terapeutico». La maggior parte delle pronunce di merito
in materia di PMA risulta del resto emessa, anche quando risultasse evocata in giudizio
una azienda sanitaria, da giudici addetti alle sezioni ordinarie, e non già alla
sezione lavoro dei tribunali e delle corti d’appello. La competenza per territorio
dovrebbe essere, pertanto, stabilita in base non all’art. 444 cod. proc. civ. (che
fa riferimento al foro di residenza dell’attore), ma agli ordinari criteri indicati
dagli artt. 19 e 20 cod. proc. civ., che renderebbero competente il Tribunale adito.
Sarebbe, per altro
verso, ravvisabile il periculum in mora, posto che, in ragione dell’età delle ricorrenti,
l’attesa dei tempi di un ordinario giudizio di cognizione rischierebbe di pregiudicare
definitivamente il buon esito delle tecniche di PMA e, con esso, il diritto azionato.
Quanto al fumus boni
iuris, assumerebbero, per converso, rilievo dirimente le questioni di legittimità
costituzionale sollevate. Alla luce delle motivazioni addotte dall’Azienda sanitaria
a sostegno del diniego delle prestazioni richieste, l’unico ostacolo all’accoglimento
dell’istanza cautelare delle ricorrenti sarebbe, infatti, rappresentato dalle norme
sospettate di illegittimità costituzionale.
L’art. 1 della legge
n. 40 del 2004 prevede, in specie, che il ricorso alla PMA è consentito «[a]l fine
di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla
infertilità umana», «alle condizioni e secondo le modalità previste dalla legge
stessa» (comma 1) e sempre che «non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per
rimuovere le cause di sterilità o infertilità» (comma 2).
L’art. 4, dopo aver
ribadito che il ricorso alle tecniche di PMA è limitato ai casi di sterilità o infertilità
non altrimenti rimovibili (comma 1), vieta specificamente il ricorso a tecniche
di PMA di tipo eterologo (comma 3).
Il successivo art.
5 consente, a sua volta, di accedere alle tecniche in questione soltanto alle «coppie
di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile,
entrambi viventi».
Da ultimo, l’art. 12
punisce con la sanzione amministrativa pecuniaria da 200.000 a 400.000 euro chiunque
applica tecniche di PMA, tra l’altro, a coppie «composte da soggetti dello stesso
sesso» (comma 1), prevedendo altresì sanzioni di tipo interdittivo nei confronti
del personale medico e delle strutture che vi procedano (commi 9 e 10).
Secondo il giudice
a quo, le norme denunciate si porrebbero in contrasto anzitutto con gli artt. 2
e 3 Cost.
È ormai pacifico, infatti,
che la formazione sociale scaturente dall’unione civile, o anche solo da una convivenza
di fatto tra persone dello stesso sesso, abbia natura familiare. Di conseguenza,
alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 162 del
2014, l’unico interesse che potrebbe astrattamente contrapporsi all’utilizzazione
delle tecniche di PMA nel suo ambito è quello del nascituro.
La giurisprudenza più
recente ha riconosciuto, tuttavia, in modo unanime la piena idoneità genitoriale
della coppia omosessuale, sottolineando come non vi siano evidenze scientifiche
dotate di un adeguato margine di certezza in ordine alla configurabilità di eventuali
pregiudizi per il minore derivanti dal suo inserimento in una famiglia formata da
persone dello stesso sesso.
Non sarebbero ravvisabili,
di conseguenza, spazi di valutazione politico-legislativa per negare il diritto
alla genitorialità, mediante accesso alla PMA, a una coppia di donne unite civilmente,
non risultando pregiudicate in alcun modo le aspettative del nuovo nato, né venendo
in rilievo le questioni di ordine etico sollevate dalla cosiddetta maternità surrogata.
Nella specie, non verrebbe, infatti, coinvolto nella gestazione alcun soggetto esterno
alla coppia richiedente, occorrendo soltanto il ricorso, ormai consentito, alle
pratiche di fecondazione eterologa.
Il divieto di accesso
alla PMA da parte di persone dello stesso sesso costituirebbe, pertanto, una discriminazione
fondata sull’orientamento sessuale, lesiva della dignità della persona umana. Esso
implicherebbe una negazione del diritto alla genitorialità sproporzionata e irragionevole,
come tale lesiva anche dell’art. 31, secondo comma, Cost., in forza del quale la
Repubblica «protegge la maternità».
Nella fattispecie oggetto
del giudizio a quo risulterebbe violato, peraltro, anche il diritto alla salute,
garantito dall’art. 32 Cost. Le ricorrenti si vedrebbero, infatti, preclusa – solo
perché componenti di una coppia formata da persone dello stesso sesso – la possibilità
di superare gli ostacoli alla riproduzione indotti dalle patologie da cui sono affette
mediante l’indicata strategia di utilizzazione complementare delle potenzialità
riproduttive residue: ciò quantunque l’art. 1 assegni alla PMA proprio la finalità
di risolvere i «problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità
umana».
La natura espressa
del divieto e della relativa sanzione impedirebbero, d’altronde, un’interpretazione
della normativa in senso conforme alla Costituzione. Né potrebbe procedersi alla
disapplicazione delle norme censurate per contrasto con gli artt. 8 e 14 della CEDU,
che prevedono, rispettivamente, il diritto al rispetto della vita privata e familiare
e il divieto di discriminazione. Alla luce delle indicazioni della giurisprudenza
costituzionale, tale contrasto deve essere fatto valere tramite la proposizione
di una questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 117, primo
comma, Cost., rispetto al quale le disposizioni convenzionali fungono da norme interposte.
Per le medesime ragioni
si renderebbe necessario denunciare di fronte alla Corte costituzionale il sospetto
di illegittimità delle norme censurate per incompatibilità «con ulteriore normativa
pattizia», indicata, «per mere ragioni di completezza», negli artt. 2, paragrafo
1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (i
quali prevedono ancora una volta il divieto di discriminazione e il diritto al rispetto
della vita privata e familiare), nonché negli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo
1, e 25 della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (i quali stabiliscono
il divieto di discriminazione e la promozione del diritto alla salute con specifico
riguardo alle persone con disabilità, da intendere anche quale «disabilità riproduttiva»).
2.2.– Si sono costituite
F. F. e M. R., ricorrenti nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento delle questioni.
Preliminarmente, le
parti costituite pongono in evidenza come la vicenda oggetto del giudizio principale
sia diversa da quella che ha dato origine alle pur analoghe questioni sollevate
dal Tribunale ordinario di Pordenone. In quel caso, infatti, la coppia è composta
da persone dello stesso sesso, ma non consta che esse presentino individualmente
alcuna patologia riproduttiva. Nella fattispecie in esame, di contro, a entrambe
le ricorrenti sono state diagnosticate patologie riproduttive, sicché l’infecondità
non è solo di coppia, ma anche individuale.
Ciò premesso, le parti
costituite rilevano come costituisca un dato ormai acquisito – anche alla luce della
giurisprudenza delle Corti europee – che la coppia omosessuale, tanto unita civilmente
(come le ricorrenti), quanto «in libera unione», costituisca una famiglia e goda,
quindi, del diritto al rispetto della propria vita familiare.
La Corte costituzionale
ha collocato, d’altro canto, tra i diritti inviolabili dell’uomo, tutelati dall’art.
2 Cost., non solo i diritti della persona nell’ambito familiare, ma anche i diritti
relativi alla possibilità di avere una famiglia. In particolare, nella sentenza n. 162 del
2014 la Corte ha affermato che la scelta di diventare genitori e di formare
una famiglia che abbia dei figli «costituisce espressione della fondamentale e generale
libertà di autodeterminarsi, […] riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost., poiché
concerne la sfera privata e familiare». In quest’ottica, «[l]a determinazione di
avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo
la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile,
qualora non vulneri altri valori costituzionali, e ciò anche quando sia esercitata
mediante la scelta di ricorrere a questo scopo alla tecnica di PMA di tipo eterologo».
Se, dunque, la coppia
omosessuale costituisce una formazione sociale tutelata dall’art. 2 Cost. e se la
determinazione di avere un figlio rappresenta un diritto inviolabile della coppia,
anche in assenza di legame genetico, il divieto di accesso alla procreazione assistita
posto dalla legge n. 40 del 2004 nei confronti delle coppie formate da due donne
– in difetto di interessi contrari di pari rango – colliderebbe inevitabilmente
con il citato parametro costituzionale.
Le disposizioni censurate
violerebbero, altresì, l’art. 3 Cost., sia sotto il profilo dell’eguaglianza, sia
sotto quello della ragionevolezza.
Quanto al principio
di eguaglianza, il divieto in discorso risulterebbe discriminatorio sotto molteplici
aspetti, trattando diversamente situazioni omogenee.
Sotto un primo aspetto,
mentre per la coppia eterosessuale sarebbe sufficiente affermare, ai fini dell’accesso
alla PMA, di aver avuto regolari rapporti sessuali per un dato periodo, senza che
abbiano condotto alla gravidanza, la coppia omosessuale che dichiari lo stesso insuccesso
in riferimento a – pur consentiti – tentativi di inseminazione domestica, non può
invece accedere alle tecniche in questione.
In secondo luogo, dall’art.
12, comma 2, della legge n. 40 della 2004 emergerebbe che chi applica tecniche di
PMA – ora anche di tipo eterologo – a una coppia di sesso diverso in assenza delle
condizioni patologiche di sterilità o infertilità, di cui all’art. 4 della medesima
legge, non è soggetto ad alcuna sanzione, mentre la stessa condotta, posta in essere
a vantaggio di una coppia dello stesso sesso, anche in presenza di patologie documentate,
è punita.
Sotto un terzo profilo,
la discriminazione si apprezzerebbe nel raffronto tra una coppia di donne con patologie
riproduttive e una coppia eterosessuale con la donna affetta dalla medesima patologia.
La donna in coppia con un uomo potrebbe, infatti, fruire della PMA, mentre la donna
in coppia con un’altra donna non vi ha accesso.
Anche la violazione
del principio di ragionevolezza si riscontrerebbe sotto molteplici aspetti. Nella
sentenza n. 162 del
2014, la Corte costituzionale ha ritenuto che, alla luce del dichiarato scopo
della legge n. 40 del 2004 «di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti
dalla sterilità o dalla infertilità umana» (art. 1, comma 1), la preclusione assoluta
di accesso alla PMA di tipo eterologo introducesse «un evidente elemento di irrazionalità»,
poiché la negazione assoluta del diritto a realizzare la genitorialità veniva ad
essere stabilita proprio «in danno delle coppie affette dalle patologie più gravi,
in contrasto con la ratio legis».
A conclusioni analoghe
dovrebbe pervenirsi nell’ipotesi in esame. Le componenti di una coppia omosessuale
femminile si vedrebbero, infatti, non semplicemente limitata, ma preclusa in radice
la possibilità di fondare una famiglia con figli in Italia e di divenire madri,
nonostante la Costituzione associ in maniera esplicita la genitorialità alla donna
(art. 31, secondo comma).
Il divieto risulterebbe
particolarmente irragionevole nel caso di specie, dato che le patologie di cui le
ricorrenti sono portatrici rendono necessario l’intervento della scienza medica
e richiedono un’utilizzazione complementare delle loro potenzialità riproduttive
residue. Imporre a ciascuna di esse, per accedere alla PMA, di sposare un uomo o
di convivere con lui, di là dalla intrinseca inaccettabilità della condizione, non
risolverebbe il problema produttivo, ma condannerebbe, anzi, la donna a non divenire
mai madre (genetica).
Si riscontrerebbe,
inoltre, una ingiustificata disparità di trattamento delle coppie in base alla loro
capacità economica, analoga a quella rilevata dalla sentenza n. 162 del
2014 in rapporto al divieto di fecondazione eterologa. L’esercizio del diritto
di formare una famiglia con figli resterebbe, infatti, riservato solo alle coppie
omosessuali più abbienti, che dispongano delle risorse economiche necessarie per
recarsi in un altro Stato che consente ad esse il ricorso alle tecniche di PMA.
Si dovrebbe considerare,
ancora, che con la sentenza n. 96 del 2015
la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime le disposizioni della legge n.
40 del 2004 che non consentivano il ricorso alle tecniche di PMA «alle coppie fertili
portatrici di malattie genetiche trasmissibili». L’ordinamento tutelerebbe, dunque,
attualmente – perché così impone la Costituzione – ogni coppia che incontri ostacoli
alla gravidanza, anche se non correlati alla infertilità o sterilità individuale,
ma a una specifica conformazione di coppia. Il pericolo di trasmissione di malattie
al nascituro può dipendere, infatti, dalla circostanza che entrambi i componenti
della coppia siano portatori di una tara genetica: dunque, se la donna avesse scelto
un uomo non portatore del medesimo gene il problema non vi sarebbe. La scelta della
donna di vivere una relazione con un’altra donna è espressione legittima della propria
vita affettiva e familiare, in nulla diversa e meno meritevole di tutela rispetto
alla scelta di vivere con "quell”’uomo, e non con un altro. Anche in tal caso, dunque,
la donna dovrebbe godere dell’assistenza medica necessaria per superare gli ostacoli
riproduttivi che discendono dalla scelta operata.
Da ultimo, la legge
n. 40 del 2004 moverebbe dal presupposto che la situazione di infertilità o sterilità,
alla quale è subordinata l’erogazione delle prestazioni di PMA, sia di tipo esclusivamente
medico-patologico, quando invece essa può dipendere anche da una «condizione sociale»,
insita nella non complementarità biologica di due donne. Alla luce del principio
personalista che ispira l’ordinamento costituzionale repubblicano, tuttavia, le
finalità terapeutiche potrebbero rilevare solo agli effetti dell’art. 32 Cost. e
degli obblighi di sanità pubblica dello Stato, ma non quale giustificazione per
negare tout court il diritto all’«autoderminazione riproduttiva», in assenza di
libertà altrui o collettive lese.
Sarebbe violato anche
l’art. 30, terzo comma, Cost., in forza del quale «[l]a legge assicura ai figli
nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale». Il divieto di accedere
alle tecniche di PMA da parte delle coppie omosessuali femminili e lo sfavore espresso
dal legislatore, sanzionando i soggetti che le realizzino, determinerebbero, infatti,
una discriminazione legale e sociale nei confronti dei minori che da tali tecniche
«illecite» nascano.
Risulterebbe leso pure
l’art. 31, primo comma, Cost., il quale, con l’espresso riferimento alle «famiglie
numerose», esprimerebbe un favor evidente per la formazione di famiglie con figli,
imponendo al legislatore, non solo di non ostacolarla, ma anzi di agevolarla.
Il divieto censurato
violerebbe anche l’imperativo di proteggere la maternità, favorendo gli istituti
necessari a tale scopo, posto dal secondo comma dello stesso art. 31 Cost., non
potendo la maternità di una donna omosessuale essere oggetto di protezione diversa
da quella di una donna eterosessuale.
Sarebbe violato, ancora,
il diritto alla salute (art. 32, primo comma, Cost.), tanto della persona singolarmente
considerata, quanto nella sua dimensione di coppia.
Con riguardo alla ricorrente
affetta da patologia cardiaca che le impedisce di divenire madre gestazionale, se
non con gravissimo rischio per la propria salute, l’unica possibilità di mantenere
un legame genetico con il figlio è la fecondazione dei propri ovuli in vitro, con
successivo trasferimento degli embrioni così ottenuti nell’utero di altra donna.
Dunque, solo la relazione affettiva con un’altra donna, in grado di realizzare una
gravidanza, le consentirebbe di avere dei figli.
Quanto all’altra ricorrente
– non in grado di produrre ovociti, ma capace di divenire madre partoriente ricevendo
embrioni creati in ambiente extrauterino – ella, quando pure convivesse con un uomo,
avrebbe notevoli difficoltà nel procurarsi gameti femminili in numero sufficiente
per la produzione di embrioni sani, stante la notoria carenza di ovociti in Italia.
Si troverebbe, quindi, costretta ad acquistarli sul mercato internazionale, con
i rischi per la salute connessi al prelievo da donne straniere: ciò quando, nel
caso concreto, vi sarebbe la compagna che è disposta a conferirli.
Il divieto rivolto
al personale sanitario favorirebbe, per altro verso, il ricorso a modalità fecondative
– quali l’inseminazione domestica con sperma di conoscenti o acquisito tramite internet
– che, in assenza di test clinici sui donatori, mettono a rischio la salute tanto
della madre, quanto del nascituro.
Per le medesime ragioni
già indicate nella sentenza n. 162 del
2014, le norme censurate sarebbero produttive di un vulnus alla salute anche
nella sua dimensione psichica e sociale, posto che l’impossibilità di formare una
famiglia con figli insieme al proprio partner è suscettibile di incidere negativamente,
anche in misura rilevante, sulla salute della coppia, intesa nella predetta accezione.
Alla previsione dell’art.
32 Cost. dovrebbe essere ricondotto, infine, anche il dovere dello Stato di tutelare
chi, come le ricorrenti, sia portatore di patologie riproduttive che determinano
una condizione di disabilità: nozione, quest’ultima, che – come rilevato dalla stessa
sentenza n. 162 del
2014 – «per evidenti ragioni solidaristiche, va accolta in un’ampia accezione».
Le disposizioni censurate
si porrebbero in contrasto pure con obblighi derivanti da fonti sovranazionali,
atte a costituire norme interposte rispetto agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.
In aggiunta alle disposizioni
evocate dall’ordinanza di rimessione, verrebbero a questo proposito in rilievo anche
la direttiva 2004/113/CE del Consiglio del 13 dicembre 2004, che attua il principio
della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso a beni
e servizi e la loro fornitura, nonché gli artt. 2, paragrafo 2, 3, 10, paragrafo
1, 12, paragrafo 1, e 15, paragrafo 1, lettera b), del Patto internazionale relativo
ai diritti economici, sociali e culturali, ratificato e reso esecutivo con legge
n. 881 del 1977 (che stabiliscono, rispettivamente, i principi di non discriminazione,
parità tra uomo e donna, protezione e assistenza alla famiglia, e il diritto di
ogni individuo a godere delle migliori condizioni di salute fisica e mentale e dei
benefici del progresso scientifico).
2.3.– È intervenuto
il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili
o infondate, sulla scorta – quanto ai profili di merito – delle medesime considerazioni
svolte in rapporto all’ordinanza r. o. n. 129 del 2018 e sviluppate con successiva
memoria.
2.4.– Sono intervenute,
altresì, l’Associazione radicale Certi Diritti e l’Associazione Luca Coscioni per
la libertà di ricerca scientifica, le quali hanno chiesto che le questioni stesse
vengano accolte, per le ragioni indicate nella memoria successivamente depositata.
2.5.– Anche F. F. e
M. R. hanno depositato memoria, insistendo nelle conclusioni già rassegnate.
Le parti costituite
pongono, in particolare, l’accento sull’esigenza di fugare un possibile equivoco:
la fecondazione con donazione di gameti – consentita a seguito della sentenza n. 162 del
2014 – non è un rimedio terapeutico all’infertilità di uno o di entrambi i componenti
della coppia. Essa non cura, infatti, la patologia riproduttiva, ma si limita ad
«aggirare» una patologia non curabile.
L’ordinamento esprimerebbe,
quindi, un «giudizio di simpatia» per la situazione della coppia, consentendo ad
essa di realizzare altrimenti il desiderio di costituire una famiglia con figli.
Tale favor discenderebbe dall’implicito presupposto per cui non si può esigere che
il componente della coppia privo di patologie riproduttive cerchi un altro partner
per divenire genitore biologico. Da ciò emergerebbe che l’«unità di coppia» è un
valore oggetto di specifica tutela costituzionale e che è rispetto alla coppia che
è favorita la costituzione della famiglia.
In tale ottica, non
si comprenderebbe perché la relazione affettiva di una coppia di donne non debba
essere parimente oggetto di protezione da parte dell’ordinamento. Se – come affermato
dalla sentenza n.
138 del 2010 della Corte costituzionale – alla «unione omosessuale, intesa come
stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso […] spetta il diritto fondamentale
di vivere liberamente una condizione di coppia», tale libertà non dovrebbe essere
lesa, ponendo la donna di fronte alla «terribile scelta» tra coltivare la propria
relazione affettiva con la persona che ama, rinunciando al desiderio naturale di
divenire madre, ovvero «rinnegare il proprio orientamento affettivo e divenire madre
unendosi, quantomeno carnalmente, con una persona di sesso maschile».
2.6.– Con ordinanza
pronunciata all’udienza pubblica del 18 giugno 2019 questa Corte ha dichiarato inammissibili
gli interventi dell’Avvocatura per i diritti LGBTI, dell’Associazione radicale Certi
Diritti e dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario
di Pordenone (ordinanza r. o. n. 129 del 2018) dubita della legittimità costituzionale
degli artt. 5 e 12, commi 2, 9 e 10, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme
in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui, rispettivamente,
limitano l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (d’ora in
avanti: PMA) alle sole «coppie […] di sesso diverso» e sanzionano, di riflesso,
chiunque applichi tali tecniche «a coppie […] composte da soggetti dello stesso
sesso».
Ad avviso del giudice
a quo, le disposizioni censurate violerebbero l’art. 2 della Costituzione, non garantendo
il diritto fondamentale alla genitorialità dell’individuo, sia come soggetto singolo,
sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, tra le quali rientra
anche l’unione civile o la convivenza di fatto tra persone dello stesso sesso.
Le medesime disposizioni
si porrebbero in contrasto anche con l’art. 3 Cost., in quanto determinerebbero
una disparità di trattamento fra i cittadini in ragione del loro orientamento sessuale
e delle loro disponibilità economiche, riconoscendo il diritto alla filiazione alle
sole coppie omosessuali che siano in grado di sostenere i costi per accedere alla
PMA presso uno degli Stati esteri che lo consentono.
Sarebbero violati,
ancora, l’art. 31, secondo comma, Cost., che impone alla Repubblica di proteggere
la maternità, favorendo gli istituti necessari a tale scopo, e l’art. 32, primo
comma, Cost., giacché l’impossibilità di formare una famiglia con figli assieme
al proprio partner sarebbe in grado di nuocere alla salute psicofisica della coppia.
Le norme denunciate
violerebbero, infine, l’art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto con
gli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. Esse attuerebbero, infatti, una interferenza
nella vita familiare della coppia basata solo sull’orientamento sessuale dei suoi
componenti e, dunque, discriminatoria.
2.– Il Tribunale ordinario
di Bolzano (ordinanza r. o. n. 60 del 2019) solleva questioni di legittimità costituzionale
degli artt. 5, limitatamente alle parole «di sesso diverso», e 12, comma 2, limitatamente
alle parole «dello stesso sesso o», «anche in combinato disposto con i commi 9 e
10», nonché degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, «nella parte
in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita
alle coppie formate da due persone di sesso femminile».
Secondo il rimettente,
le disposizioni denunciate violerebbero l’art. 2 Cost., implicando una negazione
del diritto alla genitorialità non giustificata da esigenze di tutela di altri interessi
di rango costituzionale, tenuto conto della natura di «famiglia» della formazione
sociale fondata su un’unione civile o su una convivenza di fatto tra persone dello
stesso sesso e della piena idoneità di una coppia omosessuale ad accogliere e crescere
il nuovo nato.
Il divieto di accesso
alla PMA da parte di coppie di persone dello stesso sesso costituirebbe, inoltre,
una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, lesiva della dignità della
persona umana, ponendosi perciò in contrasto anche con l’art. 3 Cost.
Risulterebbero altresì
violati l’art. 31, secondo comma, Cost., in forza del quale la Repubblica è chiamata
a proteggere la maternità, e l’art. 32, primo comma, Cost., che garantisce il diritto
alla salute. Le disposizioni censurate impedirebbero, infatti, alle componenti della
coppia omosessuale femminile affette da patologie che impediscano loro di procreare
in modo naturale – come nel caso oggetto del giudizio a quo – di superare il problema
tramite l’utilizzazione complementare delle potenzialità riproduttive residue di
ciascuna di esse (gestazionale dell’una, di produzione ovarica dell’altra): ciò
sebbene l’art. 1 della legge n. 40 del 2004 assegni alla PMA proprio la finalità
di risolvere i «problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità
umana».
Le disposizioni censurate
violerebbero, infine, gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto:
a) con gli artt. 8
e 14 CEDU, che prevedono, rispettivamente, il diritto al rispetto della vita privata
e familiare e il divieto di discriminazione;
b) con gli artt. 2,
paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale sui diritti civili e politici,
adottato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25
ottobre 1977, n. 881, che parimente prevedono il divieto di discriminazione e il
diritto al rispetto della vita privata e familiare;
c) con gli artt. 5,
6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione delle Nazioni Unite
sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006,
ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18, i quali stabiliscono
il divieto di discriminazione e la promozione del diritto alla salute con specifico
riguardo alle persone con disabilità, da intendere anche quale «disabilità riproduttiva».
3.– Le due ordinanze
di rimessione sollevano questioni analoghe, relative in parte alle medesime norme,
sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.
4.– In via preliminare,
va rilevato che non può tenersi conto delle deduzioni svolte dalle parti costituite
nel giudizio relativo all’ordinanza del Tribunale di Bolzano, intese a dimostrare
che le norme censurate contrastano anche con parametri diversi e ulteriori rispetto
a quelli evocati dal giudice a quo (in particolare, con gli artt. 30, terzo comma,
e 31, primo comma, Cost., nonché con altre fonti sovranazionali atte a integrare
gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.).
Per costante giurisprudenza
di questa Corte, l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale
è, infatti, limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di
rimessione: con la conseguenza che non possono essere presi in considerazione ulteriori
questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non
fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente
il contenuto delle stesse ordinanze (ex plurimis, sentenze n. 141 del
2019, n. 194,
n. 161, n. 12 e n. 4 del 2018).
5.– Secondo quanto
si riferisce nelle ordinanze di rimessione, entrambi i giudici rimettenti si trovano
investiti del ricorso proposto, ai sensi dell’art. 700 del codice di procedura civile,
da una coppia di donne, parti di una unione civile, inteso a superare, con provvedimento
d’urgenza, il diniego opposto da un’Azienda sanitaria alla loro richiesta di accesso
alla PMA.
Nessun dubbio di ammissibilità
si pone in rapporto alla sedes processuale nell’ambito della quale le questioni
sono state sollevate. Già in precedenti pronunce attinenti alla disciplina della
PMA, questa Corte ha, infatti, ribadito la propria costante giurisprudenza, secondo
la quale la questione di legittimità costituzionale può essere sollevata anche in
sede cautelare, sia quando il giudice non abbia ancora provveduto sull’istanza dei
ricorrenti (come è avvenuto negli odierni giudizi), sia quando abbia concesso la
misura richiesta, purché tale concessione non si risolva nel definitivo esaurimento
del potere del quale il giudice fruisce in quella sede (sentenze n. 162 del 2014
e n. 151 del 2009,
ordinanza n. 150
del 2012; con specifico riferimento alle questioni sollevate nell’ambito di
procedimenti d’urgenza ante causam, sentenze n. 84 del 2016
e n. 96 del 2015).
6.– L’Avvocatura generale
dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate dal Tribunale
di Pordenone per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza.
L’eccezione non è fondata.
Il giudice a quo ha
esposto in modo, primo visu, del tutto adeguato le ragioni del denunciato contrasto
delle norme censurate con gli artt. 2, 3 e 32, primo comma, Cost. Quanto ai parametri
residui (artt. 31, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.), le deduzioni del rimettente,
se pure alquanto stringate, permettono comunque sia di cogliere il nucleo delle
censure, anche perché collegate a quelle relative agli altri parametri.
7.– Entrambi i giudici
rimettenti escludono la praticabilità di una interpretazione conforme a Costituzione
delle disposizioni censurate, ritenendo che una simile operazione ermeneutica trovi
un insormontabile ostacolo nell’univoco tenore letterale dell’enunciato normativo.
L’affermazione appare
corretta.
Stabilendo che alle
tecniche di PMA possano accedere solo coppie formate da persone «di sesso diverso»
(art. 5) e prevedendo sanzioni amministrative a carico di chi le applica a coppie
«composte da soggetti dello stesso sesso» (art. 12, comma 2), la legge n. 40 del
2004 nega in modo puntuale e inequivocabile alle coppie omosessuali la fruizione
delle tecniche considerate. Ciò, peraltro, in piena sintonia con l’ispirazione di
fondo della legge stessa, sulla quale si porterà presto l’attenzione.
Opera, dunque, il principio
– ripetutamente affermato da questa Corte – secondo il quale l’onere di interpretazione
conforme viene meno, lasciando il passo all’incidente di costituzionalità, allorché
il tenore letterale della disposizione non consenta tale interpretazione (ex plurimis,
sentenze n. 141 del
2019, n. 268
e n. 83 del 2017,
n. 241 e n. 36 del 2016;
ordinanza n. 207
del 2018).
8.– Con i quesiti di
costituzionalità proposti, entrambi i Tribunali rimettenti mirano a rimuovere il
requisito soggettivo di accesso alla PMA rappresentato dalla diversità di sesso
dei componenti la coppia richiedente (unitamente al correlato presidio sanzionatorio).
L’effetto della pronuncia auspicata dai giudici a quibus sarebbe, dunque, quello
di rendere fruibile la PMA alle coppie omosessuali in quanto tali: indipendentemente,
cioè, dal fatto che i loro componenti risultino affetti, uti singuli, da patologie
che li pongano in condizioni obiettive di infertilità o di sterilità (come pure
avviene nel caso sottoposto all’esame del Tribunale di Bolzano).
Lo stesso Tribunale
di Bolzano limita, peraltro, espressamente il petitum alle coppie omosessuali femminili.
Di contro, il Tribunale di Pordenone, nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione,
chiede in modo indifferenziato l’ablazione del requisito della diversità di sesso,
coinvolgendo così, apparentemente, nello scrutinio anche le coppie omosessuali maschili
(che pure non vengono in rilievo nel giudizio a quo).
Dal tenore complessivo
dell’ordinanza emerge, tuttavia, come anche le censure del Tribunale friulano debbano
intendersi, in realtà, limitate alle coppie formate da sole donne.
Per le coppie omosessuali
femminili la PMA si attua, infatti, mediante fecondazione eterologa, in vivo o in
vitro, con gameti maschili di un donatore. Tale pratica era originariamente vietata
in modo assoluto dalla legge n. 40 del 2004 (art. 4, comma 3), ma è divenuta fruibile
dalle coppie eterosessuali a seguito della sentenza n. 162 del
2014 di questa Corte, in presenza di patologie che determinino una sterilità
o una infertilità assolute e irreversibili. Con l’eventuale accoglimento delle odierne
questioni, la fecondazione eterologa verrebbe estesa anche all’"infertilità sociale”,
o "relazionale”, fisiologicamente propria della coppia omosessuale femminile, conseguente
alla non complementarità biologica delle loro componenti.
Per le coppie omosessuali
maschili, invece, la genitorialità artificiale passa necessariamente attraverso
una pratica distinta: vale a dire la maternità surrogata (o gestazione per altri).
Il sintagma designa, come è noto, l’accordo con il quale una donna si impegna ad
attuare e a portare a termine una gravidanza per conto di terzi, rinunciando preventivamente
a "reclamare diritti” sul bambino che nascerà. Tale pratica è vietata in assoluto,
sotto minaccia di sanzione penale, dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del
2004, anche nei confronti delle coppie eterosessuali. La disposizione ora citata
– considerata dalla giurisprudenza espressiva di un principio di ordine pubblico
(Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 8 maggio 2019, n. 12193) –
non è inclusa tra quelle sottoposte a scrutinio dal Tribunale di Pordenone, né è
presa affatto in considerazione dal giudice a quo nello svolgimento delle proprie
censure.
Ciò porta a concludere
che, anche nella prospettiva del Tribunale friulano, le coppie omosessuali maschili
siano destinate a restare estranee al panorama decisorio dell’odierno giudizio.
9.– Tanto puntualizzato,
nel merito le questioni non sono però fondate.
Questa Corte ha avuto
modo di porre in evidenza come la legge n. 40 del 2004 costituisca la «prima legislazione
organica relativa ad un delicato settore, che negli anni più recenti ha conosciuto
uno sviluppo correlato a quello della ricerca e delle tecniche mediche, e che indubbiamente
coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali» (sentenza n. 45 del 2005).
La materia tocca, al
tempo stesso, «temi eticamente sensibili» (sentenza n. 162 del
2014), in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio
fra le contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene
«primariamente alla valutazione del legislatore» (sentenza n. 347 del
1998). La linea di composizione tra i diversi interessi in gioco si colloca,
in specie, nell’«area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete
della volontà della collettività, è chiamato a tradurre, sul piano normativo, il
bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti
e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella
coscienza sociale» (sentenza n. 84 del 2016).
Ciò ferma restando la sindacabilità delle scelte operate, al fine di verificare
se con esse sia stato realizzato un bilanciamento non irragionevole (sentenza n. 162 del
2014).
Anche la Corte europea
dei diritti dell’uomo ha affermato, d’altra parte, in più occasioni, che nella materia
della PMA, la quale solleva delicate questioni di ordine etico e morale, gli Stati
conservano – segnatamente quanto ai temi sui quali non si registri un generale consenso
– un ampio margine di apprezzamento (tra le altre, sentenze 28 agosto 2012, Costa
e Pavan contro Italia; Grande
Camera, 3 novembre 2011, S. H. e altri contro Austria).
10.– La possibilità
– dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici – di una scissione tra atto
sessuale e procreazione, mediata dall’intervento del medico, pone, in effetti, un
interrogativo di fondo: se sia configurabile – e in quali limiti – un "diritto a
procreare” (o "alla genitorialità”, che dir si voglia), comprensivo non solo dell’an
e del quando, ma anche del quomodo, e dunque declinabile anche come diritto a procreare
con metodi diversi da quello naturale. Più in particolare, si tratta di stabilire
se il desiderio di avere un figlio tramite l’uso delle tecnologie meriti di essere
soddisfatto sempre e comunque sia, o se sia invece giustificabile la previsione
di specifiche condizioni di accesso alle pratiche considerate: e ciò particolarmente
in una prospettiva di salvaguardia dei diritti del concepito e del futuro nato.
Le soluzioni adottate,
in proposito, dalla legge n. 40 del 2004 sono, come è noto, di segno restrittivo.
Esse riflettono – quanto ai profili che qui vengono in rilievo – due idee di base.
La prima attiene alla
funzione delle tecniche considerate. La legge configura, infatti, in apicibus, queste
ultime come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica
e non altrimenti rimovibile: escludendo chiaramente, con ciò, che la PMA possa rappresentare
una modalità di realizzazione del "desiderio di genitorialità” alternativa ed equivalente
al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati.
L’art. 1 della legge
n. 40 del 2004 stabilisce, in particolare, che il ricorso alla PMA «è consentito»
– alle condizioni e secondo le modalità previste dalla stessa legge, «che assicura
i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito» – «[a]l fine di
favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla
infertilità umana» (comma 1) e sempre che «non vi siano altri metodi terapeutici
efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità» (comma 2).
Il concetto è ribadito
ed esplicitato nel successivo art. 4, comma 1, in forza del quale l’accesso alle
tecniche di PMA «è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere
altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai
casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché
ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico».
La seconda direttrice
attiene alla struttura del nucleo familiare scaturente dalle tecniche in questione.
La legge prevede, infatti, una serie di limitazioni di ordine soggettivo all’accesso
alla PMA, alla cui radice si colloca il trasparente intento di garantire che il
suddetto nucleo riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza
di una madre e di un padre: limitazioni che vanno a sommarsi a quella, di ordine
oggettivo, insita nel disposto dell’art. 4, comma 3, che – nell’ottica di assicurare
il mantenimento di un legame biologico tra il nascituro e gli aspiranti genitori
– pone il divieto (in origine, assoluto) di ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo
(ossia con impiego di almeno un gamete di un donatore "esterno”).
L’art. 5 della legge
n. 40 del 2004 stabilisce, in specie, che possano accedere alla PMA esclusivamente
le «coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente
fertile, entrambi viventi».
La disciplina dell’art.
5 trova eco, sul versante sanzionatorio, nelle previsioni dell’art. 12. Per quanto
al presente più rileva, il comma 2 di tale articolo punisce con una severa sanzione
amministrativa pecuniaria (da 200.000 a 400.000 euro) chi applica tecniche di PMA
«a coppie composte da soggetti dello stesso sesso», oltre che da soggetti non entrambi
viventi, o in età minore, o non coniugati o non conviventi.
La previsione sanzionatoria
è rafforzata da quella del comma 9, in forza della quale nei confronti dell’esercente
una professione sanitaria condannato per uno degli illeciti di cui allo stesso art.
12 (e, dunque, anche per quello di cui al comma 2) è «disposta la sospensione da
uno a tre anni dall’esercizio professionale». Il comma 10 prevede, inoltre, la sospensione
dell’autorizzazione alla realizzazione delle pratiche di PMA concessa alla struttura
nel cui interno è eseguita la pratica vietata, con possibilità di revoca dell’autorizzazione
stessa nell’ipotesi di violazione di più divieti o di recidiva.
11.– Questa Corte è
intervenuta in due occasioni sulla trama normativa ora ricordata, al fine di ampliare,
tramite declaratorie di illegittimità costituzionale, il novero dei soggetti abilitati
ad accedere alla PMA. Lo ha fatto, in particolare, con le sentenze n. 162 del 2014
e n. 96 del 2015:
pronunce che gli odierni rimettenti e le parti private evocano a sostegno dell’ulteriore
intervento ampliativo oggi richiesto, il quale viene prospettato come un ideale
e coerente sviluppo delle decisioni già assunte.
Con le pronunce considerate
questa Corte ha, peraltro, rimosso quelle che apparivano sostanzialmente come distonie,
interne o esterne, della disciplina delineata dal legislatore, senza incidere –
o incidendo solo in modo marginale – sulle coordinate di fondo di quest’ultima.
La sentenza n. 162 del
2014 ha ammesso, in specie, alla riproduzione artificiale le coppie alle quali
«sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità
assolute ed irreversibili», dichiarando illegittimo, limitatamente a tale ipotesi,
il divieto di ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo stabilito dall’art. 4,
comma 3, della legge n. 40 del 2004. In tal modo, si è posto rimedio all’«evidente
elemento di irrazionalità» insito nel fatto che, dopo aver assegnato alla PMA lo
scopo «di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità
o dalla infertilità umana», il legislatore aveva negato in assoluto – con il censurato
divieto di fecondazione eterologa – la possibilità di realizzare il desiderio della
genitorialità proprio alle «coppie affette dalle patologie più gravi, in contrasto
con la ratio legis». Circostanza, questa, che rivelava come il bilanciamento di
interessi operato fosse irragionevole, posto che, sull’altro versante, le esigenze
di tutela del nuovo nato apparivano adeguatamente soddisfatte dalla disciplina vigente,
in rapporto tanto al «rischio psicologico» correlato al difetto di legame biologico
con i genitori (conseguente alla fecondazione eterologa), quanto alla possibile
«violazione del diritto a conoscere la propria identità genetica».
La successiva sentenza n. 96 del 2015
ha dischiuso, a sua volta, l’accesso alla PMA alle coppie fertili portatrici di
gravi malattie genetiche trasmissibili al nascituro («accertate da apposite strutture
pubbliche»). Si è eliminata, con ciò, l’altra «palese antinomia» già censurata dalla
Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza 28 agosto 2012, Costa
e Pavan contro Italia. La legge n. 40 del 2004 vietava, infatti, alle coppie
dianzi indicate di ricorrere alla PMA, con diagnosi preimpianto, quando invece «il
nostro ordinamento consente, comunque, a tali coppie di perseguire l’obiettivo di
procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria di cui sono
portatrici attraverso la, innegabilmente più traumatica, modalità della interruzione
volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali […] consentita dall’art. 6,
comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale
della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza)».
Entrambe le pronunce
si sono mosse, dunque, nella logica del rispetto – e, anzi, della valorizzazione
– della finalità (lato sensu) terapeutica assegnata dal legislatore alla PMA (proiettandola,
nel caso della sentenza
n. 96 del 2015, anche sul nascituro), senza contestare nella sua globalità –
in punto di compatibilità con la Costituzione – l’altra scelta legislativa di fondo:
quella, cioè, di riprodurre il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza
di una figura materna e di una figura paterna. È ben vero che la sentenza n. 162 del
2014 ha fatto venir meno – nella circoscritta ipotesi da essa considerata (quando,
cioè, la fecondazione eterologa rappresenti l’unico modo per superare una infertilità
assoluta e irreversibile di matrice patologica) – la necessità del legame biologico
tra genitori e figli. Ma la pronuncia ha avuto cura di puntualizzare e sottolineare
che alla fecondazione eterologa restano, comunque sia, abilitate ad accedere solo
le coppie che posseggano i requisiti indicati dall’art. 5, comma 1, della legge
n. 40 del 2004, e dunque rispondenti al paradigma familiare riflesso in tale disposizione.
12.– Le questioni oggi
in esame si collocano su un piano ben diverso.
L’ammissione alla PMA
delle coppie omosessuali, conseguente al loro accoglimento, esigerebbe, infatti,
la diretta sconfessione, sul piano della tenuta costituzionale, di entrambe le idee
guida sottese al sistema delineato dal legislatore del 2004, con potenziali effetti
di ricaduta sull’intera platea delle ulteriori posizioni soggettive attualmente
escluse dalle pratiche riproduttive (oltre che con interrogativi particolarmente
delicati quanto alla sorte delle coppie omosessuali maschili, la cui omologazione
alle femminili – in punto di diritto alla genitorialità – richiederebbe, come già
accennato, che venga meno, almeno a certe condizioni, il divieto di maternità surrogata).
Nella specie, non vi
è, d’altronde, alcuna incongruenza interna alla disciplina legislativa della materia,
alla quale occorra por rimedio. Contrariamente a quanto mostrano di ritenere i giudici
a quibus, l’infertilità "fisiologica” della coppia omosessuale (femminile) non è
affatto omologabile all’infertilità (di tipo assoluto e irreversibile) della coppia
eterosessuale affetta da patologie riproduttive: così come non lo è l’infertilità
"fisiologica” della donna sola e della coppia eterosessuale in età avanzata. Si
tratta di fenomeni chiaramente e ontologicamente distinti. L’esclusione dalla PMA
delle coppie formate da due donne non è, dunque, fonte di alcuna distonia e neppure
di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale.
In questo senso si
è, del resto, specificamente espressa anche la Corte europea dei diritti dell’uomo.
Essa ha affermato, infatti, che una legge nazionale che riservi l’inseminazione
artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica,
non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento
nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14
CEDU: ciò, proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella
delle prime (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 15 marzo 2012, Gas e
Dubois contro Francia).
In tali rilievi è evidentemente
già insita l’infondatezza delle questioni sollevate dai rimettenti, sotto il profilo
considerato, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo
in correlazione con le disposizioni convenzionali da ultimo citate.
13.– Ciò posto, e riprendendo
l’ordine delle censure prospettato dai giudici a quibus, neppure è riscontrabile
la denunciata violazione dell’art. 2 Cost.
13.1.– Questa Corte
ha rilevato che la nozione di «formazion[e] sociale» – nel cui ambito l’art. 2 Cost.
riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, e che deve intendersi come
riferita a «ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e
favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto
di una valorizzazione del modello pluralistico» – abbraccia anche l’unione omosessuale,
intesa come stabile convivenza tra due persone del medesimo sesso (sentenza n. 138 del
2010; similmente, sentenza n. 170 del
2014). Indicazione cui fa, peraltro, puntuale eco la legge 20 maggio 2016, n.
76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina
delle convivenze), la quale qualifica espressamente, all’art. 1, comma 1, l’unione
civile tra persone dello stesso sesso «quale specifica formazione sociale ai sensi
degli articoli 2 e 3 della Costituzione».
Questa Corte ha posto
tuttavia in evidenza, in pari tempo, che la Costituzione, pur considerandone favorevolmente
la formazione, «non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla
presenza di figli» e che, d’altra parte, «[l]a libertà e volontarietà dell’atto
che consente di diventare genitori […] di sicuro non implica che la libertà in esame
possa esplicarsi senza limiti» (sentenza n. 162 del
2014). Essa dev’essere, infatti, bilanciata con altri interessi costituzionalmente
protetti: e ciò particolarmente quando si discuta della scelta di ricorrere a tecniche
di PMA, le quali, alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione
degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità
e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è
evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29, 30 e 31 Cost., suscitando
inevitabilmente, con ciò, delicati interrogativi di ordine etico.
In accordo con quanto
si è posto in evidenza in principio, il compito di ponderare gli interessi in gioco
e di trovare un punto di equilibrio fra le diverse istanze – tenendo conto degli
orientamenti maggiormente diffusi nel tessuto sociale, nel singolo momento storico
– deve ritenersi affidato in via primaria al legislatore, quale interprete della
collettività nazionale, salvo il successivo sindacato sulle soluzioni adottate da
parte di questa Corte, onde verificare che esse non decampino dall’alveo della ragionevolezza.
Nella specie, peraltro,
la scelta espressa dalle disposizioni censurate si rivela non eccedente il margine
di discrezionalità del quale il legislatore fruisce in subiecta materia, pur rimanendo
quest’ultima aperta a soluzioni di segno diverso, in parallelo all’evolversi dell’apprezzamento
sociale della fenomenologia considerata.
Di certo, non può considerarsi
irrazionale e ingiustificata, in termini generali, la preoccupazione legislativa
di garantire, a fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni
ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato.
In questa prospettiva,
l’idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae – due
genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti,
in linea di principio, il "luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo
nato non può essere considerata, a sua volta, di per sé arbitraria o irrazionale.
E ciò a prescindere dalla capacità della donna sola, della coppia omosessuale e
della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza,
le funzioni genitoriali.
Nell’esigere, in particolare,
per l’accesso alla PMA, la diversità di sesso dei componenti della coppia – condizione
peraltro chiaramente presupposta dalla disciplina costituzionale della famiglia
– il legislatore ha tenuto conto, d’altronde, anche del grado di accettazione del
fenomeno della cosiddetta "omogenitorialità” nell’ambito della comunità sociale,
ritenendo che, all’epoca del varo della legge, non potesse registrarsi un sufficiente
consenso sul punto.
13.2.– La validità
delle conclusioni ora esposte non è inficiata dai più recenti orientamenti della
giurisprudenza comune sui temi dell’adozione di minori da parte di coppie omosessuali
e del riconoscimento in Italia di atti formati all’estero, dichiarativi del rapporto
di filiazione in confronto a genitori dello stesso sesso: orientamenti ai quali
fanno ampi richiami i giudici a quibus e le parti costituite.
La giurisprudenza predominante
ritiene, in effetti, ammissibile l’adozione cosiddetta non legittimante in favore
del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore, ai sensi dell’art.
44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad
una famiglia).
In questa chiave, si
esclude che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse
del minore possa fondarsi esclusivamente sull’orientamento sessuale del richiedente
l’adozione e del suo partner, non incidendo l’orientamento sessuale della coppia
sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Corte
di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962).
La stessa Corte di
cassazione ha ritenuto, per altro verso, possibile la trascrizione, nel registro
dello stato civile in Italia, di un atto straniero dal quale risulti la nascita
di un figlio da due donne, a seguito della medesima tecnica di procreazione assistita
– comunemente nota come ROPA (Reception of Oocytes from Partner) – che intenderebbero
praticare le due ricorrenti nel giudizio pendente davanti al Tribunale di Bolzano
(donazione dell’ovulo da parte della prima e conduzione della gravidanza da parte
della seconda con utilizzo di un gamete maschile di un terzo). Nell’escludere che
la trascrizione si ponga in contrasto con l’ordine pubblico interno, il giudice
di legittimità ha rilevato, da un lato, che non è configurabile un divieto costituzionale,
per le coppie omosessuali, di accogliere e anche generare figli; dall’altro, che
non esistono neppure certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine al fatto
che l’inserimento del figlio in una famiglia formata da una coppia omosessuale abbia
ripercussioni negative sul piano educativo e dello sviluppo della personalità del
minore, dovendo la dannosità di tale inserimento essere dimostrata in concreto (Corte
di cassazione, sezione prima civile, sentenza 30 settembre 2016, n. 19599). In termini
analoghi la Corte di cassazione si era, peraltro, già espressa con riguardo all’affidamento
del minore nato da una precedente relazione eterosessuale, dopo la manifestazione
dell’omosessualità della madre e l’instaurazione, da parte sua, della convivenza
con altra donna (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 11 gennaio
2013, n. 601).
Tutto ciò, come detto,
non esclude la validità delle conclusioni dianzi raggiunte.
Vi è, infatti, una
differenza essenziale tra l’adozione e la PMA. L’adozione presuppone l’esistenza
in vita dell’adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente
per dare una famiglia al minore che ne è privo. Nel caso dell’adozione, dunque,
il minore è già nato ed emerge come specialmente meritevole di tutela – così nella
circoscritta ipotesi di adozione non legittimante ritenuta applicabile alla coppia
omosessuale – l’interesse del minore stesso a mantenere relazioni affettive già
di fatto instaurate e consolidate: interesse che – in base al ricordato indirizzo
giurisprudenziale – va verificato in concreto (così come, del resto, per l’affidamento
del minore nato da una precedente relazione eterosessuale).
La PMA, di contro,
serve a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza a una coppia (o a un singolo),
realizzandone le aspirazioni genitoriali. Il bambino, quindi, deve ancora nascere:
non è, perciò, irragionevole – come si è detto – che il legislatore si preoccupi
di garantirgli quelle che, secondo la sua valutazione e alla luce degli apprezzamenti
correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni
"di partenza”.
14.– Per quel che attiene,
poi, alla denunciata violazione dell’art. 3 Cost., si è già posta precedentemente
in evidenza l’insussistenza di quella legata a una pretesa discriminazione fondata
sull’orientamento sessuale (supra, punto 12 del Considerato in diritto).
Ma altrettanto deve
dirsi anche quanto all’ulteriore censura, formulata dal solo Tribunale di Pordenone,
secondo la quale la normativa in esame darebbe luogo a una ingiustificata disparità
di trattamento in base alle capacità economiche, facendo sì che l’aspirazione alla
genitorialità possa essere realizzata da quelle sole, tra le coppie omosessuali,
che siano in grado di sostenere i costi per sottoporsi alle pratiche di PMA in uno
dei Paesi esteri che lo consentono.
In assenza di altri
vulnera costituzionali, il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi
all’estero non può costituire una valida ragione per dubitare della sua conformità
a Costituzione. La circostanza che esista una differenza tra la normativa italiana
e le molteplici normative mondiali è un fatto che l’ordinamento non può tenere in
considerazione. Diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre
allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva
tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia.
15.– Inoltre, non è
violato l’art. 31, secondo comma, Cost., il quale riguarda la maternità e non l’aspirazione
a diventare genitore.
16.– Neppure è ravvisabile
la violazione dell’art. 32, primo comma, Cost., prospettata dal Tribunale di Pordenone
sull’assunto che l’impossibilità di formare una famiglia con figli assieme al proprio
partner dello stesso sesso sarebbe suscettibile di incidere negativamente, anche
in modo rilevante, sulla salute psicofisica della coppia.
La tutela costituzionale
della «salute» non può essere estesa fino a imporre la soddisfazione di qualsiasi
aspirazione soggettiva o bisogno che una coppia (o anche un individuo) reputi essenziale,
così da rendere incompatibile con l’evocato parametro ogni ostacolo normativo frapposto
alla sua realizzazione. La contraria affermazione che pure si rinviene nella sentenza n. 162 del
2014 – richiamata dal rimettente – deve intendersi calibrata sulla specifica
fattispecie alla quale la pronuncia si riferisce (la coppia eterosessuale cui sia
stata diagnosticata una patologia produttiva di infertilità o sterilità assolute
e irreversibili). Se così non fosse, sarebbero destinate a cadere automaticamente,
in quanto frustranti il desiderio di genitorialità, non solo la limitazione oggi
in esame, ma tutte le altre limitazioni all’accesso alla PMA poste dall’art. 5,
comma 1, della legge n. 40 del 2004: limitazioni che la stessa sentenza n. 162 del
2014 ha, per converso, specificamente richiamato anche in rapporto alla fecondazione
eterologa.
17.– Il Tribunale di
Bolzano ha denunciato la violazione dell’art. 32, primo comma, Cost. sotto un diverso
e più specifico profilo, che riflette le peculiarità della vicenda concreta sottoposta
al suo esame, nella quale – come già più volte ricordato – entrambe le ricorrenti,
parti di una unione civile, risultano affette da patologie che le rendono incapaci
di procreare naturalmente: una perché non produce ovociti; l’altra perché non in
grado di portare a termine una gravidanza senza grave rischio.
Secondo il Tribunale
rimettente, il divieto censurato si porrebbe in contrasto con la tutela costituzionale
del diritto alla salute, in quanto impedirebbe alle componenti di una coppia di
persone dello stesso sesso di superare le loro patologie riproduttive, tramite l’utilizzazione
complementare delle potenzialità riproduttive rispettive (gestazionale dell’una,
di produzione ovarica dell’altra): ciò in contrasto con lo stesso scopo lato sensu
terapeutico che la legge n. 40 del 2004 assegna alla PMA.
Al riguardo, occorre
rilevare che la censura – ove fondata – non giustificherebbe la pronuncia richiesta
dal giudice a quo: ossia l’eliminazione tout court del requisito della diversità
di sesso dal novero delle condizioni di accesso alle tecniche di PMA. Tale requisito
dovrebbe essere rimosso, per converso, esclusivamente nel caso in cui fosse riscontrabile
l’esigenza "terapeutica” alla quale fa riferimento il rimettente: ossia quando le
componenti della coppia omosessuale femminile versino in condizioni obiettive di
infertilità per ragioni patologiche.
L’assetto che scaturirebbe
da un simile intervento – pure teoricamente praticabile in questa sede, tramite
una "resezione” del petitum – sarebbe, peraltro, palesemente insostenibile. Nell’ambito
delle coppie omosessuali femminili, potrebbero accedere alla PMA – e dunque realizzare
il desiderio della genitorialità – solo quelle le cui componenti non siano in grado
di procreare in modo naturale.
Tale rilievo disvela
il vizio di prospettiva che inficia l’argomento posto in campo dal rimettente. La
presenza di patologie riproduttive è un dato significativo nell’ambito della coppia
eterosessuale, in quanto fa venir meno la normale fertilità di tale coppia. Rappresenta
invece una variabile irrilevante – ai fini che qui interessano – nell’ambito della
coppia omosessuale, la quale sarebbe infertile in ogni caso.
18.– L’art. 11 Cost.
– richiamato dal Tribunale ordinario di Bolzano (peraltro solo in dispositivo) con
riferimento tanto agli artt. 8 e 14 CEDU, quanto a varie disposizioni del Patto
internazionale relativo ai diritti civili e politici del 19 dicembre 1966, e della
Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 13
dicembre 2006 – è parametro inconferente, posto che dalle indicate convenzioni internazionali
non derivano limitazioni di sovranità nei confronti dello Stato italiano (ex plurimis,
con particolare riguardo alla CEDU, sentenze n. 22 del 2018,
n. 210 del 2013
e n. 349 del 2007).
19.– Va esclusa, infine,
la dedotta violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. in relazione a tutte le
disposizioni sovranazionali evocate dai giudici a quibus.
19.1.– Quanto al contrasto
– denunciato da entrambi i rimettenti – con gli artt. 8 e 14 CEDU (in tema di diritto
al rispetto della vita privata e familiare e di divieto di discriminazione), è ben
vero che, a partire dalla sentenza
24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria, la giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo è costante nell’affermare che alla coppia omosessuale
compete il diritto al rispetto della vita, non solo privata, ma anche familiare,
al pari della coppia di sesso opposto che si trovi nella stessa situazione. Essa
costituisce, pertanto, una «famiglia», anche agli effetti del divieto di discriminazione
(pur rimanendo affidate all’apprezzamento dei singoli Stati le modalità della sua
tutela, che non deve necessariamente aver luogo tramite l’estensione dell’istituto
del matrimonio) (ex plurimis, sentenze 14 dicembre 2017, Orlandi
e altri contro Italia; 21
luglio 2015, Oliari e altri contro Italia). Principio, questo, del quale è stata
fatta specifica applicazione anche in tema di adozione dei minori (Grande Camera, sentenza 19 febbraio
2013, X e altri contro Austria).
La Corte di Strasburgo
ha pure affermato, per altro verso, che il concetto di «vita privata», di cui all’art.
8 CEDU, comprende il diritto all’autodeterminazione e, dunque, anche il diritto
al rispetto della decisione di diventare genitore e su come diventarlo (in modo
naturale, tramite fecondazione assistita, mediante procedura di adozione, ecc.).
La scelta di ricorrere alla PMA ricade, pertanto, nel relativo ambito di tutela,
con la conseguenza che le ingerenze in essa da parte della pubblica autorità debbono
rispondere alle finalità indicate dal paragrafo 2 dello stesso art. 8 e risultare
proporzionate allo scopo (sentenze
16 gennaio 2018, Nedescu contro Romania; Grande Camera, 27 agosto 2015,
Parrillo contro Italia; 2
ottobre 2012, Knecht contro Romania; 28 agosto 2012, Costa e Pavan
contro Italia; Grande Camera,
3 novembre 2011, S.H. e altri contro Austria).
E, però, si è già ricordato
come la stessa Corte di Strasburgo abbia escluso che una legge nazionale che riservi
la PMA a coppie eterosessuali sterili, assegnandole una finalità terapeutica, possa
dar luogo a una disparità di trattamento, rilevante agli effetti degli artt. 8 e
14 CEDU, nei confronti delle coppie omosessuali, stante la non equiparabilità delle
rispettive situazioni (sentenza
15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia).
Si è del pari ricordato
come, secondo la Corte europea, nella disciplina della fecondazione medicalmente
assistita – la quale suscita delicati problemi di ordine etico e morale – gli Stati
fruiscano di un ampio margine di apprezzamento, particolarmente quanto ai profili
sui quali non si riscontri un generale consenso a livello europeo (supra, punto
9 del Considerato in diritto): prospettiva nella quale essa ha ritenuto non incompatibile
con la CEDU il divieto di fecondazione eterologa previsto dalla legislazione austriaca
(Grande camera, sentenza 3
novembre 2011, S. H. contro Austria, che ha ribaltato la conclusione cui era
giunta la prima sezione della Corte con la sentenza 1° aprile 2010, S. H.
contro Austria).
In tale ottica, possono
dunque valere anche in rapporto ai parametri convenzionali evocati le considerazioni
precedentemente svolte onde escludere l’ipotizzata violazione del diritto alla procreazione
costituzionalmente garantito (supra, punto 13 del Considerato in diritto).
19.2.– Quanto osservato
in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU può essere evidentemente esteso alle corrispondenti
disposizioni – richiamate dal solo Tribunale di Bolzano – del Patto internazionale
relativo ai diritti civili e politici, in tema di divieto di discriminazione e diritto
al rispetto della vita privata e familiare (artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26).
19.3.– Per quel che
attiene, da ultimo, alle previsioni – invocate anch’esse dal solo Tribunale di Bolzano
– della Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità (artt.
5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25, in tema, rispettivamente, di eguaglianza
e non discriminazione, donne con disabilità, rispetto della vita privata, rispetto
della famiglia e tutela della salute), può ripetersi quanto già osservato con riferimento
alla censura di violazione del diritto alla salute, formulata dallo stesso Tribunale
(supra, punto 17 del Considerato in diritto).
È evidente, infatti,
che le coppie omosessuali femminili non possono essere ritenute, in quanto tali,
«disabili».
20.– Alla luce delle considerazioni svolte, le questioni vanno dichiarate non
fondate.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara non fondate
le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 12, commi 2, 9 e 10,
della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente
assistita), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma, 32, primo
comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt.
8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva
con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale ordinario di Pordenone con l’ordinanza
indicata in epigrafe;
2) dichiara non fondate
le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, limitatamente alle parole
«di sesso diverso», e 12, comma 2, limitatamente alle parole «dello stesso sesso
o», «anche in combinato disposto con i commi 9 e 10», nonché degli artt. 1, commi
1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3,
31, secondo comma, e 32, primo comma, Cost., nonché agli artt. 11 e 117, primo comma,
Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, agli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e
26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New
York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977,
n. 881, e agli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione
delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il
13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18, dal
Tribunale ordinario di Bolzano con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma,
nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 giugno 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Franco MODUGNO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria
il 23 ottobre 2019.
Allegato:
ordinanza letta all'udienza
del 18 giugno 2019