Sentenza n. 221 del 2019

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SENTENZA N. 221

ANNO 2019

Commenti alla decisione di

 

I. Lavinia Del Corona, Il difficile coordinamento tra progresso scientifico, tutela dei diritti, convinzioni etiche e sentire sociale: quali spazi per la discrezionalità legislativa? Nota alla sentenza della Corte costituzionale, 23 ottobre 2019, n. 221, per g.c. dell’Osservatorio AIC

 

II. Marta Picchi, Il divieto per le coppie omosessuali di accedere alla PMA: la Corte costituzionale compie un’interpretazione autentica della pregressa giurisprudenza. (Riflessioni sulla sentenza n. 221/2019), per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali

 

III. Nikolaj Vinai, Il confine. La sentenza n. 221 del 2019 e i suoi echi di sistema, per g.c. di Federalismi.it

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI;

Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, 4, 5 e 12, commi 2, 9 e 10 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), promossi dal Tribunale ordinario di Pordenone e dal Tribunale ordinario di Bolzano, con ordinanze del 2 luglio 2018 e del 3 gennaio 2019, rispettivamente iscritte al n. 129 del registro ordinanze 2018 e al n. 60 del registro ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2018 e n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visti gli atti di costituzione di S. B. e altra, e di F. F. e altra, gli atti di intervento ad adiuvandum dell’Avvocatura per i diritti LGBTI, e dell’Associazione radicale Certi Diritti e altra nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 18 giugno 2019 il Giudice relatore Franco Modugno;

uditi gli avvocati Susanna Lollini per l’Avvocatura per i diritti LGBTI, Filomena Gallo e Massimo Clara per l’Associazione radicale Certi Diritti e altra, Maria Antonia Pili per S. B. e altra, Alexander Schuster per F. F. e altra e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 2 luglio 2018 (r. o. n. 129 del 2018), il Tribunale ordinario di Pordenone ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione – quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 – degli artt. 5 e 12, commi 2, 9 e 10, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui, rispettivamente, limitano l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (d’ora in avanti: PMA) alle sole «coppie […] di sesso diverso» e sanzionano, di riflesso, chiunque applichi tali tecniche «a coppie […] composte da soggetti dello stesso sesso».

1.1.– Il giudice a quo premette di essere investito del procedimento cautelare promosso, ai sensi dell’art. 700 del codice di procedura civile, da due donne, parti di una unione civile, in seguito al rifiuto opposto dalla locale Azienda sanitaria alla loro richiesta di accesso alla PMA.

Le ricorrenti hanno esposto di convivere more uxorio dal 2012 e di aver contratto unione civile nel 2017; di aver maturato nel corso del tempo il desiderio della genitorialità, tanto che una di loro aveva intrapreso un percorso di PMA in Spagna, all’esito del quale aveva dato alla luce in Italia due gemelli; che anche l’altra ricorrente intendeva realizzare il suo desiderio di maternità, senza tuttavia recarsi all’estero, con costi piuttosto elevati, poiché, a suo parere, la legge n. 40 del 2004 – dopo le sentenze della Corte costituzionale n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015 e alla luce di alcune importanti pronunce della giurisprudenza di legittimità – avrebbe consentito alle coppie omosessuali di accedere alle tecniche di PMA anche in Italia; che le ricorrenti si erano quindi rivolte all’Azienda per l’assistenza sanitaria n. 5 "Friuli occidentale”, presso la quale era stato istituito un servizio di PMA di elevato livello qualitativo; che il responsabile del servizio aveva, tuttavia, respinto la loro richiesta, sul rilievo che l’art. 5 della legge n. 40 del 2004 riserva la fecondazione assistita alle sole coppie composte da persone di sesso diverso. Reputando illegittimo il diniego, le ricorrenti hanno chiesto al giudice adito di ordinare, con provvedimento d’urgenza, all’Azienda sanitaria di consentire loro l’accesso alla PMA, previa proposizione – ove il problema non fosse ritenuto superabile in via interpretativa – di questioni di legittimità costituzionale del citato art. 5 ed, eventualmente, dell’art. 4, comma 1, della medesima legge n. 40 del 2004, nella parte in cui limita la PMA «ai casi di sterilità o di infertilità», anche quando si tratti di coppie formate da persone dello stesso sesso.

Nel costituirsi in giudizio, l’Azienda sanitaria ha eccepito preliminarmente l’incompetenza per materia del giudice adito, assumendo che la competenza a decidere sulla domanda cautelare spetterebbe al «Giudice del Lavoro del Tribunale di Pordenone»: ciò in quanto le cause concernenti le prestazioni erogate nell’ambito del servizio sanitario nazionale rientrerebbero tra le controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatoria (art. 442 cod. proc. civ.), devolute dall’art. 444 del medesimo codice alla competenza del giudice del lavoro.

L’eccezione – secondo il giudice rimettente – sarebbe «mal posta» e, comunque sia, infondata. Per consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, infatti, la ripartizione delle funzioni tra le sezioni specializzate (quale la sezione lavoro) e le sezioni ordinarie del medesimo Tribunale non determina l’insorgenza di una questione di competenza, ma attiene alla distribuzione degli affari all’interno dello stesso ufficio. In ogni caso, poi, l’eccezione risulterebbe infondata, in quanto oggetto del giudizio a quo non è l’erogazione di una prestazione sanitaria a tutela del diritto del cittadino a una specifica cura, ma l’esatta individuazione dei limiti al diritto alla genitorialità: «diritto che, solo incidentalmente, verrebbe veicolato attraverso il ricorso ad un determinato percorso terapeutico».

Quanto, poi, ai presupposti del provvedimento cautelare richiesto, sarebbe ravvisabile quello del periculum in mora, tenuto conto dell’età della ricorrente che dovrebbe sottoporsi alla fecondazione assistita. È, infatti, notorio che le probabilità di successo delle relative tecniche diminuiscono sensibilmente con l’avanzare dell’età della donna, specie dopo i trentacinque anni, con correlato aumento dei rischi per la salute della gestante e del nascituro. Nella specie, l’attesa dei tempi di un giudizio ordinario di cognizione rischierebbe, quindi, di pregiudicare definitivamente il diritto azionato.

Per quanto attiene, invece, al fumus boni iuris, il giudice a quo rileva che, in base all’art. 5 della legge n. 40 del 2004, «[f]ermo restando quanto stabilito dall’articolo 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi». Nella specie, le ricorrenti sono maggiorenni, coniugate o conviventi (avendo costituito un’unione civile), in età potenzialmente fertile ed entrambe viventi. Esse rimarrebbero, tuttavia, escluse dall’accesso alla procedura, trattandosi di una coppia di persone non di sesso diverso, ma dello stesso sesso.

Tale preclusione risulterebbe, d’altra parte, presidiata da incisive previsioni sanzionatorie. L’art. 12 della legge n. 40 del 2004 punisce, infatti, al comma 2, con la sanzione amministrativa pecuniaria da 200.000 a 400.000 euro «[c]hiunque a qualsiasi titolo, in violazione dell’articolo 5, applica tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie […] che siano composte da soggetti dello stesso sesso». Prevede, inoltre, al comma 9, «la sospensione da uno a tre anni dall’esercizio professionale nei confronti dell’esercente una professione sanitaria condannato per uno degli illeciti» di cui al medesimo articolo. Stabilisce, infine, al comma 10, la sospensione per un anno dell’autorizzazione concessa «alla struttura al cui interno è eseguita una delle pratiche vietate», con possibilità di revoca della stessa «[n]ell’ipotesi di più violazioni dei divieti […] o di recidiva».

Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale delle disposizioni dianzi indicate.

Il divieto di accesso alla PMA, stabilito nei confronti delle coppie omosessuali, e la correlata previsione di sanzioni nei confronti del personale medico e delle strutture che non lo rispettino si porrebbero in contrasto, anzitutto, con l’art. 2 Cost., in quanto non garantirebbero il diritto fondamentale alla genitorialità dell’individuo, sia come soggetto singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.

Secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 138 del 2010, la nozione di formazione sociale, di cui al citato art. 2 Cost., abbraccia «ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico». Essa comprende, pertanto, anche l’unione civile tra persone dello stesso sesso: conclusione che trova conferma nell’art. 1, comma 1, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), ove l’unione civile è espressamente qualificata come «specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione». In tal modo, il legislatore italiano avrebbe superato l’impostazione tradizionale, in base alla quale la coppia familiare era necessariamente composta da soggetti di sesso diverso, rendendo omogenee le famiglie, sia omosessuali, sia eterosessuali.

Le norme censurate violerebbero, altresì, l’art. 3 Cost., dando origine a disparità di trattamento basate sull’orientamento sessuale e sulle condizioni economiche dei cittadini.

Risulterebbe, infatti, irragionevole e «logicamente contraddittoria» la mancata inclusione delle coppie formate da persone dello stesso sesso tra i soggetti legittimati ad accedere alle tecniche in questione, le quali mirano precipuamente a favorire la soluzione dei problemi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana: requisito, questo, che la Corte di cassazione ha ritenuto senz’altro sussistente nel caso della coppia omosessuale, la quale verrebbe a trovarsi «in una situazione assimilabile a quella di una coppia di persone di sesso diverso cui sia diagnosticata una sterilità o infertilità assoluta e irreversibile» (è citata Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 30 settembre 2016, n. 19599). Tale rilievo – ad avviso del giudice a quo – renderebbe manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, della legge n. 40 del 2004, prospettata peraltro dalle ricorrenti solo in via subordinata.

Vietando alle coppie di cittadini dello stesso sesso di accedere in Italia alla PMA, le disposizioni denunciate finirebbero, d’altra parte, per riconoscere il diritto alla filiazione alle sole coppie omosessuali che siano in grado di sostenere i costi per sottoporsi a tali tecniche in uno dei numerosi Stati esteri che, viceversa, lo consentono. Come già rilevato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 162 del 2014 – sia pure in riferimento al ricorso alla PMA di tipo eterologo da parte di una coppia eterosessuale – si realizzerebbe, in questo modo, «un ingiustificato, diverso trattamento delle coppie […], in base alla capacità economica delle stesse, che assurge intollerabilmente a requisito dell’esercizio di un diritto fondamentale»: esito che rappresenterebbe «non un mero inconveniente di fatto, bensì il diretto effetto delle disposizioni in esame, conseguente ad un bilanciamento degli interessi manifestamente irragionevole».

Risulterebbero violati, ancora, l’art. 31, secondo comma, Cost., in forza del quale la Repubblica è chiamata a proteggere la maternità, favorendo gli istituti necessari a tale scopo, e l’art. 32, primo comma, Cost., in quanto – come rilevato dalla citata sentenza n. 162 del 2014 – il diritto alla salute, tutelato dal precetto costituzionale, deve ritenersi comprensivo della salute psichica, oltre che fisica: e, nella specie, sarebbe «certo che l’impossibilità di formare una famiglia con figli insieme al proprio partner, mediante il ricorso alla PMA […], possa incidere negativamente, in misura anche rilevante, sulla salute della coppia».

Le norme censurate violerebbero, infine, l’art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto con gli artt. 8 e 14 CEDU, che prevedono, rispettivamente, il diritto al rispetto della vita familiare e il divieto di discriminazione. Il divieto in discussione si tradurrebbe, infatti, in una inammissibile interferenza in una scelta di vita che compete alla coppia familiare, attuando, al tempo stesso, una irragionevole discriminazione fondata sul mero orientamento sessuale dei suoi componenti.

Le questioni sarebbero rilevanti nel giudizio a quo, posto che, allo stato, la richiesta delle ricorrenti di accedere alla PMA trova ostacolo nelle disposizioni denunciate. L’univoco tenore letterale di queste ultime escluderebbe, d’altronde, la praticabilità dell’interpretazione costituzionalmente orientata prospettata in via principale dalle ricorrenti.

1.2.– Si sono costituite S. B. e C. D., parti ricorrenti nel giudizio a quo, le quali hanno chiesto che le questioni siano accolte.

Le parti costituite osservano come la Corte costituzionale sia intervenuta più volte sulla legge n. 40 del 2004, al fine di estendere l’accesso alla PMA a soggetti inizialmente esclusi. In particolare, con la sentenza n. 162 del 2014 è caduto il divieto di ricorso a tecniche di tipo eterologo per le coppie eterosessuali affette da sterilità o infertilità assolute e irreversibili, mentre la successiva sentenza n. 96 del 2015 ha garantito l’accesso alla PMA anche alle coppie eterosessuali fertili, ma portatrici di gravi patologie genetiche trasmissibili.

Nel solco di tale processo di adeguamento ai principi costituzionali non potrebbe ora non inserirsi anche l’"apertura” delle tecniche di PMA alle coppie formate da persone dello stesso sesso.

Come rilevato dalla Corte di cassazione (in particolare, con la sentenza n. 19599 del 2016), se l’unione fra persone dello stesso sesso è una formazione sociale ove l’individuo «svolge la sua personalità», e se la volontà dei componenti della coppia di divenire genitori e formare una famiglia con prole costituisce espressione della generale libertà di autodeterminazione della persona, ricondotta dalla Corte costituzionale agli artt. 2, 3 e 31 Cost. (e non pure all’art. 29 Cost.), deve escludersi che esista, a livello costituzionale, un divieto per le coppie dello stesso sesso di accogliere e anche di generare figli. Ciò tenuto conto del fatto che non vi sono certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine a specifiche ripercussioni negative sul piano educativo e della crescita del minore, derivanti dal suo inserimento in una famiglia formata da una coppia omosessuale.

Su tale rilievo, la Cassazione ha ritenuto, quindi, possibile l’adozione del figlio del partner omosessuale ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia) (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962).

Una volta assodato che l’unione omosessuale può bene costituire un contesto familiare nel quale esercitare le funzioni genitoriali, la tendenziale unitarietà dello status di figlio – senza discriminazioni tra figli legittimi, naturali o adottivi – renderebbe irragionevole ogni disparità nel riconoscimento del diritto alla genitorialità che risulti collegata unicamente alle «modalità di ingresso» dei figli all’interno dell’unione civile: ossia alla circostanza che l’ingresso avvenga a seguito di adozione ovvero di tecniche di PMA.

La giurisprudenza più recente riconosce, d’altronde, piena efficacia nel nostro ordinamento agli atti di nascita stranieri relativi a minori concepiti all’estero con tecniche di PMA da partner dello stesso sesso, con conseguente attribuzione della qualità di genitori a entrambi i partner. Impedire il ricorso a tecniche di PMA a coppie dello stesso sesso in Italia e nel contempo riconoscerne pienamente gli effetti se operate all’estero (anche da cittadini italiani) rappresenterebbe una «intollerabile "ipocrisia” interpretativa», anch’essa contrastante con l’art. 3 Cost.

Pienamente condivisibili sarebbero, per il resto, le censure formulate dal rimettente in riferimento agli artt. 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, Cost. A quest’ultimo riguardo, le parti costituite ricordano come la Corte costituzionale austriaca, con una pronuncia del 19 dicembre 2013, abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge austriaca che vietava a coppie di donne (nella specie, unite civilmente in Germania) di accedere alle tecniche di PMA, ravvisando in tale divieto una lesione del principio di eguaglianza di cui all’art. 7 della Costituzione austriaca e una inammissibile interferenza con la vita familiare protetta dall’art. 8 CEDU.

1.3.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità delle questioni per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza. Il giudice a quo avrebbe, infatti, affermato il contrasto delle norme censurate con i parametri costituzionali in modo puramente assiomatico, senza un adeguato supporto argomentativo.

Nel merito, le questioni sarebbero, in ogni caso, infondate.

Come sottolineato nella sentenza n. 162 del 2014 della Corte costituzionale, la legge n. 40 del 2004 costituisce la «prima legislazione organica relativa ad un delicato settore […] che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali». Le relative questioni di costituzionalità toccano temi eticamente sensibili, in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze appartiene primariamente alla valutazione del legislatore.

La progressiva eliminazione, da parte della Corte, con le sentenze n. 151 del 2009, n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015, di taluni divieti posti dalla citata legge sarebbe frutto di una analisi specifica non riassumibile in un giudizio di valore unitario, in quanto la Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli e la libertà di divenire genitori non implica che essa possa esplicarsi senza limiti. Con la sentenza n. 162 del 2014, la Corte ha, infatti, dichiarato l’illegittimità costituzionale della preclusione all’accesso alla PMA di tipo eterologo nei confronti delle coppie affette da grave patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute e irreversibili, senza porre, tuttavia, in discussione la legittimità in sé del divieto di tale pratica e precisando, altresì, che la declaratoria di illegittimità costituzionale non incide sulla disciplina dei requisiti soggettivi (compreso quello della diversità di sesso) stabilita dall’art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004, che resta, quindi, applicabile anche alla PMA di tipo eterologo.

Quanto al divieto di discriminazione delle coppie omosessuali, la stessa Corte costituzionale ha tenuto ferma l’interpretazione dell’art. 29 Cost. e il modello di matrimonio e di famiglia che ne deriva, fondati sulla differenza di sesso tra i coniugi (sentenza n. 138 del 2010). Né la disciplina delle unioni civili, di cui alla legge n. 76 del 2016, potrebbe rappresentare un utile termine di comparazione, posto che tale legge definisce l’unione civile quale «specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione», attribuendo quindi alla stessa caratteristiche autonome e distinte rispetto al matrimonio.

L’art. 1, comma 20, della legge n. 76 del 2016 esclude, inoltre, l’applicabilità alle unioni civili tanto delle disposizioni del codice civile sulla filiazione, quanto – come chiarito dalla Corte di cassazione – della disposizione relativa all’adozione speciale del figlio del coniuge, di cui all’art. 44, comma 1, lettera b), della legge n. 184 del 1983, consentendo la sola adozione in caso di impossibilità di affidamento preadottivo, prevista dalla successiva lettera d).

La ratio della disciplina della PMA sarebbe, d’altro canto, quella di tutelare il superiore interesse del nascituro. Il diritto alla genitorialità sussisterebbe, pertanto, solo ove esso corrisponda al migliore interesse per il minore («best interest of the child», secondo la formula rinvenibile nella Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176). E, proprio nella prospettiva della valutazione di tale interesse, particolarmente sul piano della conservazione di rapporti affettivi già instaurati, il diritto alla genitorialità delle coppie omosessuali sarebbe stato, in effetti, evocato dalla giurisprudenza comune che si è occupata dall’argomento.

Il caso oggi in esame non riguarda, tuttavia, una ipotesi di «genitorialità sociale», tramite la quale possa essere tutelato un minore, anche nell’ambito di coppie omosessuali, ma soltanto il diritto di un adulto di procreare: diritto che non sarebbe garantito in modo assoluto dall’ordinamento.

Quanto, infine, alla denunciata violazione degli artt. 8 e 14 CEDU, la difesa dello Stato ricorda come la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza 1° aprile 2010 [recte: 3 novembre 2011], S. H. e altri contro Austria, abbia ritenuto che il divieto di fecondazione eterologa previsto dalla legislazione austriaca non configurasse una ingerenza indebita della pubblica autorità nella vita privata e familiare, vietata dall’art. 8 CEDU, non eccedendo il margine di discrezionalità di cui gli Stati fruiscono nella disciplina della materia.

Si sarebbe, in conclusione, al cospetto di una tematica che implica l’armonizzazione di un complesso di valori e scelte di opportunità rimesse in via esclusiva al legislatore.

1.4.– È intervenuta, altresì, l’associazione di promozione sociale Avvocatura per i diritti LGBTI, la quale ha chiesto, sulla scorta di ampie argomentazioni, l’accoglimento delle questioni (da intendere, a suo avviso, come limitate alle sole coppie omosessuali femminili).

1.5.– S. B. e C. D. hanno depositato memoria, con la quale hanno contestato le difese dell’Avvocatura generale dello Stato.

Non conferente sarebbe, in specie, il richiamo dell’Avvocatura ai tratti differenziali degli istituti del matrimonio e dell’unione civile. L’art. 5 della legge n. 40 del 2004 consente, infatti, l’accesso alla PMA non soltanto alle coppie «coniugate», ma anche alle coppie «conviventi». La disparità di trattamento che le questioni mirano a rimuovere non è, dunque, quella tra soggetti coniugati e soggetti uniti civilmente, ma quella fra conviventi eterosessuali e conviventi omosessuali (uniti civilmente): distinzione che esprimerebbe una discriminazione fondata esclusivamente sull’orientamento sessuale della coppia.

Parimente privo di significato sarebbe il fatto che, nelle precedenti pronunce sulla PMA, la Corte costituzionale abbia tenuto fermo il requisito di accesso rappresentato dalla diversità di sesso dei richiedenti. In quelle occasioni, il problema della legittimità di tale requisito non risultava, infatti, sottoposto alla Corte.

La pronuncia della Grande Camera della Corte EDU sul caso S. H. e altri contro Austria risulterebbe, a sua volta, superata dalla successiva decisione della Corte costituzionale austriaca, che ha dichiarato illegittima la normativa che vietava l’accesso alla PMA a coppie di donne.

1.6.– Ha depositato memoria anche l’Avvocatura generale dello Stato, la quale ha insistito per la dichiarazione di inammissibilità o infondatezza delle questioni, riprendendo e sviluppando gli argomenti già svolti nell’atto di intervento.

2.– Con ordinanza del 3 gennaio 2019 (r. o. n. 60 del 2019), il Tribunale ordinario di Bolzano ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, limitatamente alle parole «di sesso diverso», e 12, comma 2, limitatamente alle parole «dello stesso sesso o», «anche in combinato disposto con i commi 9 e 10», nonché degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, «nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie formate da due persone di sesso femminile», deducendone il contrasto con gli artt. 2, 3, 31, secondo comma, e 32, primo comma, Cost., nonché con gli artt. 11 (parametro evocato solo in dispositivo) e 117, primo comma, Cost., in riferimento agli artt. 8 e 14 CEDU, agli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, e agli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18.

2.1.– Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a pronunciarsi sul ricorso proposto da due donne, ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ., nei confronti dell’Azienda sanitaria della Provincia autonoma di Bolzano.

Nel ricorso si deduce che la coppia ricorrente si era sposata in Danimarca nel 2014, con atto successivamente trascritto in Italia nel registro delle unioni civili; che a causa delle complicazioni seguite a trattamenti di inseminazione artificiale operati in Danimarca, a una delle ricorrenti era stata asportata la salpinge uterina destra e riscontrata l’avvenuta chiusura di quella sinistra, con conseguente incapacità di produrre ovuli; che l’altra ricorrente soffriva, a sua volta, di un’aritmia cardiaca, in ragione della quale le era stato sconsigliato di avere gravidanze e suggerito, anzi, di ricorrere a una terapia anticoncezionale; che le tecniche di fecondazione assistita avrebbero consentito di superare gli ostacoli alla procreazione indotti da tali patologie, tramite l’utilizzazione complementare delle potenzialità riproduttive residue delle ricorrenti (gestazionale dell’una, di produzione ovarica dell’altra); che, a tal fine, esse si erano rivolte all’Azienda sanitaria di Bolzano, la quale aveva, tuttavia, respinto la loro richiesta, rilevando che l’art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 2004 vieta le tecniche di fecondazione eterologa e che il successivo art. 5 consente di accedere alle tecniche di PMA solo alle coppie composte da persone di sesso diverso.

Reputando illegittimo il diniego, le ricorrenti hanno chiesto al Tribunale rimettente di garantire con provvedimento d’urgenza il loro diritto di accesso alle menzionate terapie riproduttive.

Costituitasi in giudizio, l’Azienda sanitaria – sul presupposto ci si trovi a fronte di una controversia in materia di previdenza e assistenza obbligatorie – ha eccepito l’incompetenza per territorio del Tribunale ordinario di Bolzano, indicando come competente, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. civ., il giudice del lavoro presso il Tribunale ordinario di Monza.

Ad avviso del rimettente, l’eccezione sarebbe infondata. Il giudizio a quo non potrebbe essere, infatti, incluso tra le controversie di cui all’art. 442 cod. proc. civ., attenendo piuttosto all’esatta individuazione dei limiti e delle facoltà connessi al diritto alla genitorialità: diritto che, «solo incidentalmente, verrebbe veicolato attraverso il ricorso ad un determinato percorso terapeutico». La maggior parte delle pronunce di merito in materia di PMA risulta del resto emessa, anche quando risultasse evocata in giudizio una azienda sanitaria, da giudici addetti alle sezioni ordinarie, e non già alla sezione lavoro dei tribunali e delle corti d’appello. La competenza per territorio dovrebbe essere, pertanto, stabilita in base non all’art. 444 cod. proc. civ. (che fa riferimento al foro di residenza dell’attore), ma agli ordinari criteri indicati dagli artt. 19 e 20 cod. proc. civ., che renderebbero competente il Tribunale adito.

Sarebbe, per altro verso, ravvisabile il periculum in mora, posto che, in ragione dell’età delle ricorrenti, l’attesa dei tempi di un ordinario giudizio di cognizione rischierebbe di pregiudicare definitivamente il buon esito delle tecniche di PMA e, con esso, il diritto azionato.

Quanto al fumus boni iuris, assumerebbero, per converso, rilievo dirimente le questioni di legittimità costituzionale sollevate. Alla luce delle motivazioni addotte dall’Azienda sanitaria a sostegno del diniego delle prestazioni richieste, l’unico ostacolo all’accoglimento dell’istanza cautelare delle ricorrenti sarebbe, infatti, rappresentato dalle norme sospettate di illegittimità costituzionale.

L’art. 1 della legge n. 40 del 2004 prevede, in specie, che il ricorso alla PMA è consentito «[a]l fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana», «alle condizioni e secondo le modalità previste dalla legge stessa» (comma 1) e sempre che «non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità» (comma 2).

L’art. 4, dopo aver ribadito che il ricorso alle tecniche di PMA è limitato ai casi di sterilità o infertilità non altrimenti rimovibili (comma 1), vieta specificamente il ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo (comma 3).

Il successivo art. 5 consente, a sua volta, di accedere alle tecniche in questione soltanto alle «coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi».

Da ultimo, l’art. 12 punisce con la sanzione amministrativa pecuniaria da 200.000 a 400.000 euro chiunque applica tecniche di PMA, tra l’altro, a coppie «composte da soggetti dello stesso sesso» (comma 1), prevedendo altresì sanzioni di tipo interdittivo nei confronti del personale medico e delle strutture che vi procedano (commi 9 e 10).

Secondo il giudice a quo, le norme denunciate si porrebbero in contrasto anzitutto con gli artt. 2 e 3 Cost.

È ormai pacifico, infatti, che la formazione sociale scaturente dall’unione civile, o anche solo da una convivenza di fatto tra persone dello stesso sesso, abbia natura familiare. Di conseguenza, alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 162 del 2014, l’unico interesse che potrebbe astrattamente contrapporsi all’utilizzazione delle tecniche di PMA nel suo ambito è quello del nascituro.

La giurisprudenza più recente ha riconosciuto, tuttavia, in modo unanime la piena idoneità genitoriale della coppia omosessuale, sottolineando come non vi siano evidenze scientifiche dotate di un adeguato margine di certezza in ordine alla configurabilità di eventuali pregiudizi per il minore derivanti dal suo inserimento in una famiglia formata da persone dello stesso sesso.

Non sarebbero ravvisabili, di conseguenza, spazi di valutazione politico-legislativa per negare il diritto alla genitorialità, mediante accesso alla PMA, a una coppia di donne unite civilmente, non risultando pregiudicate in alcun modo le aspettative del nuovo nato, né venendo in rilievo le questioni di ordine etico sollevate dalla cosiddetta maternità surrogata. Nella specie, non verrebbe, infatti, coinvolto nella gestazione alcun soggetto esterno alla coppia richiedente, occorrendo soltanto il ricorso, ormai consentito, alle pratiche di fecondazione eterologa.

Il divieto di accesso alla PMA da parte di persone dello stesso sesso costituirebbe, pertanto, una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, lesiva della dignità della persona umana. Esso implicherebbe una negazione del diritto alla genitorialità sproporzionata e irragionevole, come tale lesiva anche dell’art. 31, secondo comma, Cost., in forza del quale la Repubblica «protegge la maternità».

Nella fattispecie oggetto del giudizio a quo risulterebbe violato, peraltro, anche il diritto alla salute, garantito dall’art. 32 Cost. Le ricorrenti si vedrebbero, infatti, preclusa – solo perché componenti di una coppia formata da persone dello stesso sesso – la possibilità di superare gli ostacoli alla riproduzione indotti dalle patologie da cui sono affette mediante l’indicata strategia di utilizzazione complementare delle potenzialità riproduttive residue: ciò quantunque l’art. 1 assegni alla PMA proprio la finalità di risolvere i «problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana».

La natura espressa del divieto e della relativa sanzione impedirebbero, d’altronde, un’interpretazione della normativa in senso conforme alla Costituzione. Né potrebbe procedersi alla disapplicazione delle norme censurate per contrasto con gli artt. 8 e 14 della CEDU, che prevedono, rispettivamente, il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il divieto di discriminazione. Alla luce delle indicazioni della giurisprudenza costituzionale, tale contrasto deve essere fatto valere tramite la proposizione di una questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., rispetto al quale le disposizioni convenzionali fungono da norme interposte.

Per le medesime ragioni si renderebbe necessario denunciare di fronte alla Corte costituzionale il sospetto di illegittimità delle norme censurate per incompatibilità «con ulteriore normativa pattizia», indicata, «per mere ragioni di completezza», negli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (i quali prevedono ancora una volta il divieto di discriminazione e il diritto al rispetto della vita privata e familiare), nonché negli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (i quali stabiliscono il divieto di discriminazione e la promozione del diritto alla salute con specifico riguardo alle persone con disabilità, da intendere anche quale «disabilità riproduttiva»).

2.2.– Si sono costituite F. F. e M. R., ricorrenti nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento delle questioni.

Preliminarmente, le parti costituite pongono in evidenza come la vicenda oggetto del giudizio principale sia diversa da quella che ha dato origine alle pur analoghe questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Pordenone. In quel caso, infatti, la coppia è composta da persone dello stesso sesso, ma non consta che esse presentino individualmente alcuna patologia riproduttiva. Nella fattispecie in esame, di contro, a entrambe le ricorrenti sono state diagnosticate patologie riproduttive, sicché l’infecondità non è solo di coppia, ma anche individuale.

Ciò premesso, le parti costituite rilevano come costituisca un dato ormai acquisito – anche alla luce della giurisprudenza delle Corti europee – che la coppia omosessuale, tanto unita civilmente (come le ricorrenti), quanto «in libera unione», costituisca una famiglia e goda, quindi, del diritto al rispetto della propria vita familiare.

La Corte costituzionale ha collocato, d’altro canto, tra i diritti inviolabili dell’uomo, tutelati dall’art. 2 Cost., non solo i diritti della persona nell’ambito familiare, ma anche i diritti relativi alla possibilità di avere una famiglia. In particolare, nella sentenza n. 162 del 2014 la Corte ha affermato che la scelta di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia dei figli «costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, […] riconducibile agli artt. 2, 3 e 31 Cost., poiché concerne la sfera privata e familiare». In quest’ottica, «[l]a determinazione di avere o meno un figlio, anche per la coppia assolutamente sterile o infertile, concernendo la sfera più intima ed intangibile della persona umana, non può che essere incoercibile, qualora non vulneri altri valori costituzionali, e ciò anche quando sia esercitata mediante la scelta di ricorrere a questo scopo alla tecnica di PMA di tipo eterologo».

Se, dunque, la coppia omosessuale costituisce una formazione sociale tutelata dall’art. 2 Cost. e se la determinazione di avere un figlio rappresenta un diritto inviolabile della coppia, anche in assenza di legame genetico, il divieto di accesso alla procreazione assistita posto dalla legge n. 40 del 2004 nei confronti delle coppie formate da due donne – in difetto di interessi contrari di pari rango – colliderebbe inevitabilmente con il citato parametro costituzionale.

Le disposizioni censurate violerebbero, altresì, l’art. 3 Cost., sia sotto il profilo dell’eguaglianza, sia sotto quello della ragionevolezza.

Quanto al principio di eguaglianza, il divieto in discorso risulterebbe discriminatorio sotto molteplici aspetti, trattando diversamente situazioni omogenee.

Sotto un primo aspetto, mentre per la coppia eterosessuale sarebbe sufficiente affermare, ai fini dell’accesso alla PMA, di aver avuto regolari rapporti sessuali per un dato periodo, senza che abbiano condotto alla gravidanza, la coppia omosessuale che dichiari lo stesso insuccesso in riferimento a – pur consentiti – tentativi di inseminazione domestica, non può invece accedere alle tecniche in questione.

In secondo luogo, dall’art. 12, comma 2, della legge n. 40 della 2004 emergerebbe che chi applica tecniche di PMA – ora anche di tipo eterologo – a una coppia di sesso diverso in assenza delle condizioni patologiche di sterilità o infertilità, di cui all’art. 4 della medesima legge, non è soggetto ad alcuna sanzione, mentre la stessa condotta, posta in essere a vantaggio di una coppia dello stesso sesso, anche in presenza di patologie documentate, è punita.

Sotto un terzo profilo, la discriminazione si apprezzerebbe nel raffronto tra una coppia di donne con patologie riproduttive e una coppia eterosessuale con la donna affetta dalla medesima patologia. La donna in coppia con un uomo potrebbe, infatti, fruire della PMA, mentre la donna in coppia con un’altra donna non vi ha accesso.

Anche la violazione del principio di ragionevolezza si riscontrerebbe sotto molteplici aspetti. Nella sentenza n. 162 del 2014, la Corte costituzionale ha ritenuto che, alla luce del dichiarato scopo della legge n. 40 del 2004 «di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana» (art. 1, comma 1), la preclusione assoluta di accesso alla PMA di tipo eterologo introducesse «un evidente elemento di irrazionalità», poiché la negazione assoluta del diritto a realizzare la genitorialità veniva ad essere stabilita proprio «in danno delle coppie affette dalle patologie più gravi, in contrasto con la ratio legis».

A conclusioni analoghe dovrebbe pervenirsi nell’ipotesi in esame. Le componenti di una coppia omosessuale femminile si vedrebbero, infatti, non semplicemente limitata, ma preclusa in radice la possibilità di fondare una famiglia con figli in Italia e di divenire madri, nonostante la Costituzione associ in maniera esplicita la genitorialità alla donna (art. 31, secondo comma).

Il divieto risulterebbe particolarmente irragionevole nel caso di specie, dato che le patologie di cui le ricorrenti sono portatrici rendono necessario l’intervento della scienza medica e richiedono un’utilizzazione complementare delle loro potenzialità riproduttive residue. Imporre a ciascuna di esse, per accedere alla PMA, di sposare un uomo o di convivere con lui, di là dalla intrinseca inaccettabilità della condizione, non risolverebbe il problema produttivo, ma condannerebbe, anzi, la donna a non divenire mai madre (genetica).

Si riscontrerebbe, inoltre, una ingiustificata disparità di trattamento delle coppie in base alla loro capacità economica, analoga a quella rilevata dalla sentenza n. 162 del 2014 in rapporto al divieto di fecondazione eterologa. L’esercizio del diritto di formare una famiglia con figli resterebbe, infatti, riservato solo alle coppie omosessuali più abbienti, che dispongano delle risorse economiche necessarie per recarsi in un altro Stato che consente ad esse il ricorso alle tecniche di PMA.

Si dovrebbe considerare, ancora, che con la sentenza n. 96 del 2015 la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime le disposizioni della legge n. 40 del 2004 che non consentivano il ricorso alle tecniche di PMA «alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili». L’ordinamento tutelerebbe, dunque, attualmente – perché così impone la Costituzione – ogni coppia che incontri ostacoli alla gravidanza, anche se non correlati alla infertilità o sterilità individuale, ma a una specifica conformazione di coppia. Il pericolo di trasmissione di malattie al nascituro può dipendere, infatti, dalla circostanza che entrambi i componenti della coppia siano portatori di una tara genetica: dunque, se la donna avesse scelto un uomo non portatore del medesimo gene il problema non vi sarebbe. La scelta della donna di vivere una relazione con un’altra donna è espressione legittima della propria vita affettiva e familiare, in nulla diversa e meno meritevole di tutela rispetto alla scelta di vivere con "quell”’uomo, e non con un altro. Anche in tal caso, dunque, la donna dovrebbe godere dell’assistenza medica necessaria per superare gli ostacoli riproduttivi che discendono dalla scelta operata.

Da ultimo, la legge n. 40 del 2004 moverebbe dal presupposto che la situazione di infertilità o sterilità, alla quale è subordinata l’erogazione delle prestazioni di PMA, sia di tipo esclusivamente medico-patologico, quando invece essa può dipendere anche da una «condizione sociale», insita nella non complementarità biologica di due donne. Alla luce del principio personalista che ispira l’ordinamento costituzionale repubblicano, tuttavia, le finalità terapeutiche potrebbero rilevare solo agli effetti dell’art. 32 Cost. e degli obblighi di sanità pubblica dello Stato, ma non quale giustificazione per negare tout court il diritto all’«autoderminazione riproduttiva», in assenza di libertà altrui o collettive lese.

Sarebbe violato anche l’art. 30, terzo comma, Cost., in forza del quale «[l]a legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale». Il divieto di accedere alle tecniche di PMA da parte delle coppie omosessuali femminili e lo sfavore espresso dal legislatore, sanzionando i soggetti che le realizzino, determinerebbero, infatti, una discriminazione legale e sociale nei confronti dei minori che da tali tecniche «illecite» nascano.

Risulterebbe leso pure l’art. 31, primo comma, Cost., il quale, con l’espresso riferimento alle «famiglie numerose», esprimerebbe un favor evidente per la formazione di famiglie con figli, imponendo al legislatore, non solo di non ostacolarla, ma anzi di agevolarla.

Il divieto censurato violerebbe anche l’imperativo di proteggere la maternità, favorendo gli istituti necessari a tale scopo, posto dal secondo comma dello stesso art. 31 Cost., non potendo la maternità di una donna omosessuale essere oggetto di protezione diversa da quella di una donna eterosessuale.

Sarebbe violato, ancora, il diritto alla salute (art. 32, primo comma, Cost.), tanto della persona singolarmente considerata, quanto nella sua dimensione di coppia.

Con riguardo alla ricorrente affetta da patologia cardiaca che le impedisce di divenire madre gestazionale, se non con gravissimo rischio per la propria salute, l’unica possibilità di mantenere un legame genetico con il figlio è la fecondazione dei propri ovuli in vitro, con successivo trasferimento degli embrioni così ottenuti nell’utero di altra donna. Dunque, solo la relazione affettiva con un’altra donna, in grado di realizzare una gravidanza, le consentirebbe di avere dei figli.

Quanto all’altra ricorrente – non in grado di produrre ovociti, ma capace di divenire madre partoriente ricevendo embrioni creati in ambiente extrauterino – ella, quando pure convivesse con un uomo, avrebbe notevoli difficoltà nel procurarsi gameti femminili in numero sufficiente per la produzione di embrioni sani, stante la notoria carenza di ovociti in Italia. Si troverebbe, quindi, costretta ad acquistarli sul mercato internazionale, con i rischi per la salute connessi al prelievo da donne straniere: ciò quando, nel caso concreto, vi sarebbe la compagna che è disposta a conferirli.

Il divieto rivolto al personale sanitario favorirebbe, per altro verso, il ricorso a modalità fecondative – quali l’inseminazione domestica con sperma di conoscenti o acquisito tramite internet – che, in assenza di test clinici sui donatori, mettono a rischio la salute tanto della madre, quanto del nascituro.

Per le medesime ragioni già indicate nella sentenza n. 162 del 2014, le norme censurate sarebbero produttive di un vulnus alla salute anche nella sua dimensione psichica e sociale, posto che l’impossibilità di formare una famiglia con figli insieme al proprio partner è suscettibile di incidere negativamente, anche in misura rilevante, sulla salute della coppia, intesa nella predetta accezione.

Alla previsione dell’art. 32 Cost. dovrebbe essere ricondotto, infine, anche il dovere dello Stato di tutelare chi, come le ricorrenti, sia portatore di patologie riproduttive che determinano una condizione di disabilità: nozione, quest’ultima, che – come rilevato dalla stessa sentenza n. 162 del 2014 – «per evidenti ragioni solidaristiche, va accolta in un’ampia accezione».

Le disposizioni censurate si porrebbero in contrasto pure con obblighi derivanti da fonti sovranazionali, atte a costituire norme interposte rispetto agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.

In aggiunta alle disposizioni evocate dall’ordinanza di rimessione, verrebbero a questo proposito in rilievo anche la direttiva 2004/113/CE del Consiglio del 13 dicembre 2004, che attua il principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso a beni e servizi e la loro fornitura, nonché gli artt. 2, paragrafo 2, 3, 10, paragrafo 1, 12, paragrafo 1, e 15, paragrafo 1, lettera b), del Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, ratificato e reso esecutivo con legge n. 881 del 1977 (che stabiliscono, rispettivamente, i principi di non discriminazione, parità tra uomo e donna, protezione e assistenza alla famiglia, e il diritto di ogni individuo a godere delle migliori condizioni di salute fisica e mentale e dei benefici del progresso scientifico).

2.3.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate, sulla scorta – quanto ai profili di merito – delle medesime considerazioni svolte in rapporto all’ordinanza r. o. n. 129 del 2018 e sviluppate con successiva memoria.

2.4.– Sono intervenute, altresì, l’Associazione radicale Certi Diritti e l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, le quali hanno chiesto che le questioni stesse vengano accolte, per le ragioni indicate nella memoria successivamente depositata.

2.5.– Anche F. F. e M. R. hanno depositato memoria, insistendo nelle conclusioni già rassegnate.

Le parti costituite pongono, in particolare, l’accento sull’esigenza di fugare un possibile equivoco: la fecondazione con donazione di gameti – consentita a seguito della sentenza n. 162 del 2014 – non è un rimedio terapeutico all’infertilità di uno o di entrambi i componenti della coppia. Essa non cura, infatti, la patologia riproduttiva, ma si limita ad «aggirare» una patologia non curabile.

L’ordinamento esprimerebbe, quindi, un «giudizio di simpatia» per la situazione della coppia, consentendo ad essa di realizzare altrimenti il desiderio di costituire una famiglia con figli. Tale favor discenderebbe dall’implicito presupposto per cui non si può esigere che il componente della coppia privo di patologie riproduttive cerchi un altro partner per divenire genitore biologico. Da ciò emergerebbe che l’«unità di coppia» è un valore oggetto di specifica tutela costituzionale e che è rispetto alla coppia che è favorita la costituzione della famiglia.

In tale ottica, non si comprenderebbe perché la relazione affettiva di una coppia di donne non debba essere parimente oggetto di protezione da parte dell’ordinamento. Se – come affermato dalla sentenza n. 138 del 2010 della Corte costituzionale – alla «unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso […] spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia», tale libertà non dovrebbe essere lesa, ponendo la donna di fronte alla «terribile scelta» tra coltivare la propria relazione affettiva con la persona che ama, rinunciando al desiderio naturale di divenire madre, ovvero «rinnegare il proprio orientamento affettivo e divenire madre unendosi, quantomeno carnalmente, con una persona di sesso maschile».

2.6.– Con ordinanza pronunciata all’udienza pubblica del 18 giugno 2019 questa Corte ha dichiarato inammissibili gli interventi dell’Avvocatura per i diritti LGBTI, dell’Associazione radicale Certi Diritti e dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Pordenone (ordinanza r. o. n. 129 del 2018) dubita della legittimità costituzionale degli artt. 5 e 12, commi 2, 9 e 10, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui, rispettivamente, limitano l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (d’ora in avanti: PMA) alle sole «coppie […] di sesso diverso» e sanzionano, di riflesso, chiunque applichi tali tecniche «a coppie […] composte da soggetti dello stesso sesso».

Ad avviso del giudice a quo, le disposizioni censurate violerebbero l’art. 2 della Costituzione, non garantendo il diritto fondamentale alla genitorialità dell’individuo, sia come soggetto singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, tra le quali rientra anche l’unione civile o la convivenza di fatto tra persone dello stesso sesso.

Le medesime disposizioni si porrebbero in contrasto anche con l’art. 3 Cost., in quanto determinerebbero una disparità di trattamento fra i cittadini in ragione del loro orientamento sessuale e delle loro disponibilità economiche, riconoscendo il diritto alla filiazione alle sole coppie omosessuali che siano in grado di sostenere i costi per accedere alla PMA presso uno degli Stati esteri che lo consentono.

Sarebbero violati, ancora, l’art. 31, secondo comma, Cost., che impone alla Repubblica di proteggere la maternità, favorendo gli istituti necessari a tale scopo, e l’art. 32, primo comma, Cost., giacché l’impossibilità di formare una famiglia con figli assieme al proprio partner sarebbe in grado di nuocere alla salute psicofisica della coppia.

Le norme denunciate violerebbero, infine, l’art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto con gli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. Esse attuerebbero, infatti, una interferenza nella vita familiare della coppia basata solo sull’orientamento sessuale dei suoi componenti e, dunque, discriminatoria.

2.– Il Tribunale ordinario di Bolzano (ordinanza r. o. n. 60 del 2019) solleva questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, limitatamente alle parole «di sesso diverso», e 12, comma 2, limitatamente alle parole «dello stesso sesso o», «anche in combinato disposto con i commi 9 e 10», nonché degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, «nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie formate da due persone di sesso femminile».

Secondo il rimettente, le disposizioni denunciate violerebbero l’art. 2 Cost., implicando una negazione del diritto alla genitorialità non giustificata da esigenze di tutela di altri interessi di rango costituzionale, tenuto conto della natura di «famiglia» della formazione sociale fondata su un’unione civile o su una convivenza di fatto tra persone dello stesso sesso e della piena idoneità di una coppia omosessuale ad accogliere e crescere il nuovo nato.

Il divieto di accesso alla PMA da parte di coppie di persone dello stesso sesso costituirebbe, inoltre, una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, lesiva della dignità della persona umana, ponendosi perciò in contrasto anche con l’art. 3 Cost.

Risulterebbero altresì violati l’art. 31, secondo comma, Cost., in forza del quale la Repubblica è chiamata a proteggere la maternità, e l’art. 32, primo comma, Cost., che garantisce il diritto alla salute. Le disposizioni censurate impedirebbero, infatti, alle componenti della coppia omosessuale femminile affette da patologie che impediscano loro di procreare in modo naturale – come nel caso oggetto del giudizio a quo – di superare il problema tramite l’utilizzazione complementare delle potenzialità riproduttive residue di ciascuna di esse (gestazionale dell’una, di produzione ovarica dell’altra): ciò sebbene l’art. 1 della legge n. 40 del 2004 assegni alla PMA proprio la finalità di risolvere i «problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana».

Le disposizioni censurate violerebbero, infine, gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto:

a) con gli artt. 8 e 14 CEDU, che prevedono, rispettivamente, il diritto al rispetto della vita privata e familiare e il divieto di discriminazione;

b) con gli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, che parimente prevedono il divieto di discriminazione e il diritto al rispetto della vita privata e familiare;

c) con gli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18, i quali stabiliscono il divieto di discriminazione e la promozione del diritto alla salute con specifico riguardo alle persone con disabilità, da intendere anche quale «disabilità riproduttiva».

3.– Le due ordinanze di rimessione sollevano questioni analoghe, relative in parte alle medesime norme, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.

4.– In via preliminare, va rilevato che non può tenersi conto delle deduzioni svolte dalle parti costituite nel giudizio relativo all’ordinanza del Tribunale di Bolzano, intese a dimostrare che le norme censurate contrastano anche con parametri diversi e ulteriori rispetto a quelli evocati dal giudice a quo (in particolare, con gli artt. 30, terzo comma, e 31, primo comma, Cost., nonché con altre fonti sovranazionali atte a integrare gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.).

Per costante giurisprudenza di questa Corte, l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è, infatti, limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione: con la conseguenza che non possono essere presi in considerazione ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (ex plurimis, sentenze n. 141 del 2019, n. 194, n. 161, n. 12 e n. 4 del 2018).

5.– Secondo quanto si riferisce nelle ordinanze di rimessione, entrambi i giudici rimettenti si trovano investiti del ricorso proposto, ai sensi dell’art. 700 del codice di procedura civile, da una coppia di donne, parti di una unione civile, inteso a superare, con provvedimento d’urgenza, il diniego opposto da un’Azienda sanitaria alla loro richiesta di accesso alla PMA.

Nessun dubbio di ammissibilità si pone in rapporto alla sedes processuale nell’ambito della quale le questioni sono state sollevate. Già in precedenti pronunce attinenti alla disciplina della PMA, questa Corte ha, infatti, ribadito la propria costante giurisprudenza, secondo la quale la questione di legittimità costituzionale può essere sollevata anche in sede cautelare, sia quando il giudice non abbia ancora provveduto sull’istanza dei ricorrenti (come è avvenuto negli odierni giudizi), sia quando abbia concesso la misura richiesta, purché tale concessione non si risolva nel definitivo esaurimento del potere del quale il giudice fruisce in quella sede (sentenze n. 162 del 2014 e n. 151 del 2009, ordinanza n. 150 del 2012; con specifico riferimento alle questioni sollevate nell’ambito di procedimenti d’urgenza ante causam, sentenze n. 84 del 2016 e n. 96 del 2015).

6.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate dal Tribunale di Pordenone per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza.

L’eccezione non è fondata.

Il giudice a quo ha esposto in modo, primo visu, del tutto adeguato le ragioni del denunciato contrasto delle norme censurate con gli artt. 2, 3 e 32, primo comma, Cost. Quanto ai parametri residui (artt. 31, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.), le deduzioni del rimettente, se pure alquanto stringate, permettono comunque sia di cogliere il nucleo delle censure, anche perché collegate a quelle relative agli altri parametri.

7.– Entrambi i giudici rimettenti escludono la praticabilità di una interpretazione conforme a Costituzione delle disposizioni censurate, ritenendo che una simile operazione ermeneutica trovi un insormontabile ostacolo nell’univoco tenore letterale dell’enunciato normativo.

L’affermazione appare corretta.

Stabilendo che alle tecniche di PMA possano accedere solo coppie formate da persone «di sesso diverso» (art. 5) e prevedendo sanzioni amministrative a carico di chi le applica a coppie «composte da soggetti dello stesso sesso» (art. 12, comma 2), la legge n. 40 del 2004 nega in modo puntuale e inequivocabile alle coppie omosessuali la fruizione delle tecniche considerate. Ciò, peraltro, in piena sintonia con l’ispirazione di fondo della legge stessa, sulla quale si porterà presto l’attenzione.

Opera, dunque, il principio – ripetutamente affermato da questa Corte – secondo il quale l’onere di interpretazione conforme viene meno, lasciando il passo all’incidente di costituzionalità, allorché il tenore letterale della disposizione non consenta tale interpretazione (ex plurimis, sentenze n. 141 del 2019, n. 268 e n. 83 del 2017, n. 241 e n. 36 del 2016; ordinanza n. 207 del 2018).

8.– Con i quesiti di costituzionalità proposti, entrambi i Tribunali rimettenti mirano a rimuovere il requisito soggettivo di accesso alla PMA rappresentato dalla diversità di sesso dei componenti la coppia richiedente (unitamente al correlato presidio sanzionatorio). L’effetto della pronuncia auspicata dai giudici a quibus sarebbe, dunque, quello di rendere fruibile la PMA alle coppie omosessuali in quanto tali: indipendentemente, cioè, dal fatto che i loro componenti risultino affetti, uti singuli, da patologie che li pongano in condizioni obiettive di infertilità o di sterilità (come pure avviene nel caso sottoposto all’esame del Tribunale di Bolzano).

Lo stesso Tribunale di Bolzano limita, peraltro, espressamente il petitum alle coppie omosessuali femminili. Di contro, il Tribunale di Pordenone, nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione, chiede in modo indifferenziato l’ablazione del requisito della diversità di sesso, coinvolgendo così, apparentemente, nello scrutinio anche le coppie omosessuali maschili (che pure non vengono in rilievo nel giudizio a quo).

Dal tenore complessivo dell’ordinanza emerge, tuttavia, come anche le censure del Tribunale friulano debbano intendersi, in realtà, limitate alle coppie formate da sole donne.

Per le coppie omosessuali femminili la PMA si attua, infatti, mediante fecondazione eterologa, in vivo o in vitro, con gameti maschili di un donatore. Tale pratica era originariamente vietata in modo assoluto dalla legge n. 40 del 2004 (art. 4, comma 3), ma è divenuta fruibile dalle coppie eterosessuali a seguito della sentenza n. 162 del 2014 di questa Corte, in presenza di patologie che determinino una sterilità o una infertilità assolute e irreversibili. Con l’eventuale accoglimento delle odierne questioni, la fecondazione eterologa verrebbe estesa anche all’"infertilità sociale”, o "relazionale”, fisiologicamente propria della coppia omosessuale femminile, conseguente alla non complementarità biologica delle loro componenti.

Per le coppie omosessuali maschili, invece, la genitorialità artificiale passa necessariamente attraverso una pratica distinta: vale a dire la maternità surrogata (o gestazione per altri). Il sintagma designa, come è noto, l’accordo con il quale una donna si impegna ad attuare e a portare a termine una gravidanza per conto di terzi, rinunciando preventivamente a "reclamare diritti” sul bambino che nascerà. Tale pratica è vietata in assoluto, sotto minaccia di sanzione penale, dall’art. 12, comma 6, della legge n. 40 del 2004, anche nei confronti delle coppie eterosessuali. La disposizione ora citata – considerata dalla giurisprudenza espressiva di un principio di ordine pubblico (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 8 maggio 2019, n. 12193) – non è inclusa tra quelle sottoposte a scrutinio dal Tribunale di Pordenone, né è presa affatto in considerazione dal giudice a quo nello svolgimento delle proprie censure.

Ciò porta a concludere che, anche nella prospettiva del Tribunale friulano, le coppie omosessuali maschili siano destinate a restare estranee al panorama decisorio dell’odierno giudizio.

9.– Tanto puntualizzato, nel merito le questioni non sono però fondate.

Questa Corte ha avuto modo di porre in evidenza come la legge n. 40 del 2004 costituisca la «prima legislazione organica relativa ad un delicato settore, che negli anni più recenti ha conosciuto uno sviluppo correlato a quello della ricerca e delle tecniche mediche, e che indubbiamente coinvolge una pluralità di rilevanti interessi costituzionali» (sentenza n. 45 del 2005).

La materia tocca, al tempo stesso, «temi eticamente sensibili» (sentenza n. 162 del 2014), in relazione ai quali l’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene «primariamente alla valutazione del legislatore» (sentenza n. 347 del 1998). La linea di composizione tra i diversi interessi in gioco si colloca, in specie, nell’«area degli interventi, con cui il legislatore, quale interprete della volontà della collettività, è chiamato a tradurre, sul piano normativo, il bilanciamento tra valori fondamentali in conflitto, tenendo conto degli orientamenti e delle istanze che apprezzi come maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale» (sentenza n. 84 del 2016). Ciò ferma restando la sindacabilità delle scelte operate, al fine di verificare se con esse sia stato realizzato un bilanciamento non irragionevole (sentenza n. 162 del 2014).

Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato, d’altra parte, in più occasioni, che nella materia della PMA, la quale solleva delicate questioni di ordine etico e morale, gli Stati conservano – segnatamente quanto ai temi sui quali non si registri un generale consenso – un ampio margine di apprezzamento (tra le altre, sentenze 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; Grande Camera, 3 novembre 2011, S. H. e altri contro Austria).

10.– La possibilità – dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici – di una scissione tra atto sessuale e procreazione, mediata dall’intervento del medico, pone, in effetti, un interrogativo di fondo: se sia configurabile – e in quali limiti – un "diritto a procreare” (o "alla genitorialità”, che dir si voglia), comprensivo non solo dell’an e del quando, ma anche del quomodo, e dunque declinabile anche come diritto a procreare con metodi diversi da quello naturale. Più in particolare, si tratta di stabilire se il desiderio di avere un figlio tramite l’uso delle tecnologie meriti di essere soddisfatto sempre e comunque sia, o se sia invece giustificabile la previsione di specifiche condizioni di accesso alle pratiche considerate: e ciò particolarmente in una prospettiva di salvaguardia dei diritti del concepito e del futuro nato.

Le soluzioni adottate, in proposito, dalla legge n. 40 del 2004 sono, come è noto, di segno restrittivo. Esse riflettono – quanto ai profili che qui vengono in rilievo – due idee di base.

La prima attiene alla funzione delle tecniche considerate. La legge configura, infatti, in apicibus, queste ultime come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimovibile: escludendo chiaramente, con ciò, che la PMA possa rappresentare una modalità di realizzazione del "desiderio di genitorialità” alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati.

L’art. 1 della legge n. 40 del 2004 stabilisce, in particolare, che il ricorso alla PMA «è consentito» – alle condizioni e secondo le modalità previste dalla stessa legge, «che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito» – «[a]l fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana» (comma 1) e sempre che «non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità» (comma 2).

Il concetto è ribadito ed esplicitato nel successivo art. 4, comma 1, in forza del quale l’accesso alle tecniche di PMA «è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico».

La seconda direttrice attiene alla struttura del nucleo familiare scaturente dalle tecniche in questione. La legge prevede, infatti, una serie di limitazioni di ordine soggettivo all’accesso alla PMA, alla cui radice si colloca il trasparente intento di garantire che il suddetto nucleo riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre: limitazioni che vanno a sommarsi a quella, di ordine oggettivo, insita nel disposto dell’art. 4, comma 3, che – nell’ottica di assicurare il mantenimento di un legame biologico tra il nascituro e gli aspiranti genitori – pone il divieto (in origine, assoluto) di ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo (ossia con impiego di almeno un gamete di un donatore "esterno”).

L’art. 5 della legge n. 40 del 2004 stabilisce, in specie, che possano accedere alla PMA esclusivamente le «coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi».

La disciplina dell’art. 5 trova eco, sul versante sanzionatorio, nelle previsioni dell’art. 12. Per quanto al presente più rileva, il comma 2 di tale articolo punisce con una severa sanzione amministrativa pecuniaria (da 200.000 a 400.000 euro) chi applica tecniche di PMA «a coppie composte da soggetti dello stesso sesso», oltre che da soggetti non entrambi viventi, o in età minore, o non coniugati o non conviventi.

La previsione sanzionatoria è rafforzata da quella del comma 9, in forza della quale nei confronti dell’esercente una professione sanitaria condannato per uno degli illeciti di cui allo stesso art. 12 (e, dunque, anche per quello di cui al comma 2) è «disposta la sospensione da uno a tre anni dall’esercizio professionale». Il comma 10 prevede, inoltre, la sospensione dell’autorizzazione alla realizzazione delle pratiche di PMA concessa alla struttura nel cui interno è eseguita la pratica vietata, con possibilità di revoca dell’autorizzazione stessa nell’ipotesi di violazione di più divieti o di recidiva.

11.– Questa Corte è intervenuta in due occasioni sulla trama normativa ora ricordata, al fine di ampliare, tramite declaratorie di illegittimità costituzionale, il novero dei soggetti abilitati ad accedere alla PMA. Lo ha fatto, in particolare, con le sentenze n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015: pronunce che gli odierni rimettenti e le parti private evocano a sostegno dell’ulteriore intervento ampliativo oggi richiesto, il quale viene prospettato come un ideale e coerente sviluppo delle decisioni già assunte.

Con le pronunce considerate questa Corte ha, peraltro, rimosso quelle che apparivano sostanzialmente come distonie, interne o esterne, della disciplina delineata dal legislatore, senza incidere – o incidendo solo in modo marginale – sulle coordinate di fondo di quest’ultima.

La sentenza n. 162 del 2014 ha ammesso, in specie, alla riproduzione artificiale le coppie alle quali «sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili», dichiarando illegittimo, limitatamente a tale ipotesi, il divieto di ricorso a tecniche di PMA di tipo eterologo stabilito dall’art. 4, comma 3, della legge n. 40 del 2004. In tal modo, si è posto rimedio all’«evidente elemento di irrazionalità» insito nel fatto che, dopo aver assegnato alla PMA lo scopo «di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana», il legislatore aveva negato in assoluto – con il censurato divieto di fecondazione eterologa – la possibilità di realizzare il desiderio della genitorialità proprio alle «coppie affette dalle patologie più gravi, in contrasto con la ratio legis». Circostanza, questa, che rivelava come il bilanciamento di interessi operato fosse irragionevole, posto che, sull’altro versante, le esigenze di tutela del nuovo nato apparivano adeguatamente soddisfatte dalla disciplina vigente, in rapporto tanto al «rischio psicologico» correlato al difetto di legame biologico con i genitori (conseguente alla fecondazione eterologa), quanto alla possibile «violazione del diritto a conoscere la propria identità genetica».

La successiva sentenza n. 96 del 2015 ha dischiuso, a sua volta, l’accesso alla PMA alle coppie fertili portatrici di gravi malattie genetiche trasmissibili al nascituro («accertate da apposite strutture pubbliche»). Si è eliminata, con ciò, l’altra «palese antinomia» già censurata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia. La legge n. 40 del 2004 vietava, infatti, alle coppie dianzi indicate di ricorrere alla PMA, con diagnosi preimpianto, quando invece «il nostro ordinamento consente, comunque, a tali coppie di perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria di cui sono portatrici attraverso la, innegabilmente più traumatica, modalità della interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali […] consentita dall’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza)».

Entrambe le pronunce si sono mosse, dunque, nella logica del rispetto – e, anzi, della valorizzazione – della finalità (lato sensu) terapeutica assegnata dal legislatore alla PMA (proiettandola, nel caso della sentenza n. 96 del 2015, anche sul nascituro), senza contestare nella sua globalità – in punto di compatibilità con la Costituzione – l’altra scelta legislativa di fondo: quella, cioè, di riprodurre il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una figura materna e di una figura paterna. È ben vero che la sentenza n. 162 del 2014 ha fatto venir meno – nella circoscritta ipotesi da essa considerata (quando, cioè, la fecondazione eterologa rappresenti l’unico modo per superare una infertilità assoluta e irreversibile di matrice patologica) – la necessità del legame biologico tra genitori e figli. Ma la pronuncia ha avuto cura di puntualizzare e sottolineare che alla fecondazione eterologa restano, comunque sia, abilitate ad accedere solo le coppie che posseggano i requisiti indicati dall’art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004, e dunque rispondenti al paradigma familiare riflesso in tale disposizione.

12.– Le questioni oggi in esame si collocano su un piano ben diverso.

L’ammissione alla PMA delle coppie omosessuali, conseguente al loro accoglimento, esigerebbe, infatti, la diretta sconfessione, sul piano della tenuta costituzionale, di entrambe le idee guida sottese al sistema delineato dal legislatore del 2004, con potenziali effetti di ricaduta sull’intera platea delle ulteriori posizioni soggettive attualmente escluse dalle pratiche riproduttive (oltre che con interrogativi particolarmente delicati quanto alla sorte delle coppie omosessuali maschili, la cui omologazione alle femminili – in punto di diritto alla genitorialità – richiederebbe, come già accennato, che venga meno, almeno a certe condizioni, il divieto di maternità surrogata).

Nella specie, non vi è, d’altronde, alcuna incongruenza interna alla disciplina legislativa della materia, alla quale occorra por rimedio. Contrariamente a quanto mostrano di ritenere i giudici a quibus, l’infertilità "fisiologica” della coppia omosessuale (femminile) non è affatto omologabile all’infertilità (di tipo assoluto e irreversibile) della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive: così come non lo è l’infertilità "fisiologica” della donna sola e della coppia eterosessuale in età avanzata. Si tratta di fenomeni chiaramente e ontologicamente distinti. L’esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne non è, dunque, fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale.

In questo senso si è, del resto, specificamente espressa anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa ha affermato, infatti, che una legge nazionale che riservi l’inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU: ciò, proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia).

In tali rilievi è evidentemente già insita l’infondatezza delle questioni sollevate dai rimettenti, sotto il profilo considerato, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in correlazione con le disposizioni convenzionali da ultimo citate.

13.– Ciò posto, e riprendendo l’ordine delle censure prospettato dai giudici a quibus, neppure è riscontrabile la denunciata violazione dell’art. 2 Cost.

13.1.– Questa Corte ha rilevato che la nozione di «formazion[e] sociale» – nel cui ambito l’art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, e che deve intendersi come riferita a «ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico» – abbraccia anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone del medesimo sesso (sentenza n. 138 del 2010; similmente, sentenza n. 170 del 2014). Indicazione cui fa, peraltro, puntuale eco la legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), la quale qualifica espressamente, all’art. 1, comma 1, l’unione civile tra persone dello stesso sesso «quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione».

Questa Corte ha posto tuttavia in evidenza, in pari tempo, che la Costituzione, pur considerandone favorevolmente la formazione, «non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli» e che, d’altra parte, «[l]a libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori […] di sicuro non implica che la libertà in esame possa esplicarsi senza limiti» (sentenza n. 162 del 2014). Essa dev’essere, infatti, bilanciata con altri interessi costituzionalmente protetti: e ciò particolarmente quando si discuta della scelta di ricorrere a tecniche di PMA, le quali, alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29, 30 e 31 Cost., suscitando inevitabilmente, con ciò, delicati interrogativi di ordine etico.

In accordo con quanto si è posto in evidenza in principio, il compito di ponderare gli interessi in gioco e di trovare un punto di equilibrio fra le diverse istanze – tenendo conto degli orientamenti maggiormente diffusi nel tessuto sociale, nel singolo momento storico – deve ritenersi affidato in via primaria al legislatore, quale interprete della collettività nazionale, salvo il successivo sindacato sulle soluzioni adottate da parte di questa Corte, onde verificare che esse non decampino dall’alveo della ragionevolezza.

Nella specie, peraltro, la scelta espressa dalle disposizioni censurate si rivela non eccedente il margine di discrezionalità del quale il legislatore fruisce in subiecta materia, pur rimanendo quest’ultima aperta a soluzioni di segno diverso, in parallelo all’evolversi dell’apprezzamento sociale della fenomenologia considerata.

Di certo, non può considerarsi irrazionale e ingiustificata, in termini generali, la preoccupazione legislativa di garantire, a fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato.

In questa prospettiva, l’idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae – due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile – rappresenti, in linea di principio, il "luogo” più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato non può essere considerata, a sua volta, di per sé arbitraria o irrazionale. E ciò a prescindere dalla capacità della donna sola, della coppia omosessuale e della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali.

Nell’esigere, in particolare, per l’accesso alla PMA, la diversità di sesso dei componenti della coppia – condizione peraltro chiaramente presupposta dalla disciplina costituzionale della famiglia – il legislatore ha tenuto conto, d’altronde, anche del grado di accettazione del fenomeno della cosiddetta "omogenitorialità” nell’ambito della comunità sociale, ritenendo che, all’epoca del varo della legge, non potesse registrarsi un sufficiente consenso sul punto.

13.2.– La validità delle conclusioni ora esposte non è inficiata dai più recenti orientamenti della giurisprudenza comune sui temi dell’adozione di minori da parte di coppie omosessuali e del riconoscimento in Italia di atti formati all’estero, dichiarativi del rapporto di filiazione in confronto a genitori dello stesso sesso: orientamenti ai quali fanno ampi richiami i giudici a quibus e le parti costituite.

La giurisprudenza predominante ritiene, in effetti, ammissibile l’adozione cosiddetta non legittimante in favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore, ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia).

In questa chiave, si esclude che una valutazione negativa circa la sussistenza del requisito dell’interesse del minore possa fondarsi esclusivamente sull’orientamento sessuale del richiedente l’adozione e del suo partner, non incidendo l’orientamento sessuale della coppia sull’idoneità dell’individuo all’assunzione della responsabilità genitoriale (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 22 giugno 2016, n. 12962).

La stessa Corte di cassazione ha ritenuto, per altro verso, possibile la trascrizione, nel registro dello stato civile in Italia, di un atto straniero dal quale risulti la nascita di un figlio da due donne, a seguito della medesima tecnica di procreazione assistita – comunemente nota come ROPA (Reception of Oocytes from Partner) – che intenderebbero praticare le due ricorrenti nel giudizio pendente davanti al Tribunale di Bolzano (donazione dell’ovulo da parte della prima e conduzione della gravidanza da parte della seconda con utilizzo di un gamete maschile di un terzo). Nell’escludere che la trascrizione si ponga in contrasto con l’ordine pubblico interno, il giudice di legittimità ha rilevato, da un lato, che non è configurabile un divieto costituzionale, per le coppie omosessuali, di accogliere e anche generare figli; dall’altro, che non esistono neppure certezze scientifiche o dati di esperienza in ordine al fatto che l’inserimento del figlio in una famiglia formata da una coppia omosessuale abbia ripercussioni negative sul piano educativo e dello sviluppo della personalità del minore, dovendo la dannosità di tale inserimento essere dimostrata in concreto (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 30 settembre 2016, n. 19599). In termini analoghi la Corte di cassazione si era, peraltro, già espressa con riguardo all’affidamento del minore nato da una precedente relazione eterosessuale, dopo la manifestazione dell’omosessualità della madre e l’instaurazione, da parte sua, della convivenza con altra donna (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 11 gennaio 2013, n. 601).

Tutto ciò, come detto, non esclude la validità delle conclusioni dianzi raggiunte.

Vi è, infatti, una differenza essenziale tra l’adozione e la PMA. L’adozione presuppone l’esistenza in vita dell’adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo. Nel caso dell’adozione, dunque, il minore è già nato ed emerge come specialmente meritevole di tutela – così nella circoscritta ipotesi di adozione non legittimante ritenuta applicabile alla coppia omosessuale – l’interesse del minore stesso a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate: interesse che – in base al ricordato indirizzo giurisprudenziale – va verificato in concreto (così come, del resto, per l’affidamento del minore nato da una precedente relazione eterosessuale).

La PMA, di contro, serve a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza a una coppia (o a un singolo), realizzandone le aspirazioni genitoriali. Il bambino, quindi, deve ancora nascere: non è, perciò, irragionevole – come si è detto – che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle che, secondo la sua valutazione e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni "di partenza”.

14.– Per quel che attiene, poi, alla denunciata violazione dell’art. 3 Cost., si è già posta precedentemente in evidenza l’insussistenza di quella legata a una pretesa discriminazione fondata sull’orientamento sessuale (supra, punto 12 del Considerato in diritto).

Ma altrettanto deve dirsi anche quanto all’ulteriore censura, formulata dal solo Tribunale di Pordenone, secondo la quale la normativa in esame darebbe luogo a una ingiustificata disparità di trattamento in base alle capacità economiche, facendo sì che l’aspirazione alla genitorialità possa essere realizzata da quelle sole, tra le coppie omosessuali, che siano in grado di sostenere i costi per sottoporsi alle pratiche di PMA in uno dei Paesi esteri che lo consentono.

In assenza di altri vulnera costituzionali, il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi all’estero non può costituire una valida ragione per dubitare della sua conformità a Costituzione. La circostanza che esista una differenza tra la normativa italiana e le molteplici normative mondiali è un fatto che l’ordinamento non può tenere in considerazione. Diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia.

15.– Inoltre, non è violato l’art. 31, secondo comma, Cost., il quale riguarda la maternità e non l’aspirazione a diventare genitore.

16.– Neppure è ravvisabile la violazione dell’art. 32, primo comma, Cost., prospettata dal Tribunale di Pordenone sull’assunto che l’impossibilità di formare una famiglia con figli assieme al proprio partner dello stesso sesso sarebbe suscettibile di incidere negativamente, anche in modo rilevante, sulla salute psicofisica della coppia.

La tutela costituzionale della «salute» non può essere estesa fino a imporre la soddisfazione di qualsiasi aspirazione soggettiva o bisogno che una coppia (o anche un individuo) reputi essenziale, così da rendere incompatibile con l’evocato parametro ogni ostacolo normativo frapposto alla sua realizzazione. La contraria affermazione che pure si rinviene nella sentenza n. 162 del 2014 – richiamata dal rimettente – deve intendersi calibrata sulla specifica fattispecie alla quale la pronuncia si riferisce (la coppia eterosessuale cui sia stata diagnosticata una patologia produttiva di infertilità o sterilità assolute e irreversibili). Se così non fosse, sarebbero destinate a cadere automaticamente, in quanto frustranti il desiderio di genitorialità, non solo la limitazione oggi in esame, ma tutte le altre limitazioni all’accesso alla PMA poste dall’art. 5, comma 1, della legge n. 40 del 2004: limitazioni che la stessa sentenza n. 162 del 2014 ha, per converso, specificamente richiamato anche in rapporto alla fecondazione eterologa.

17.– Il Tribunale di Bolzano ha denunciato la violazione dell’art. 32, primo comma, Cost. sotto un diverso e più specifico profilo, che riflette le peculiarità della vicenda concreta sottoposta al suo esame, nella quale – come già più volte ricordato – entrambe le ricorrenti, parti di una unione civile, risultano affette da patologie che le rendono incapaci di procreare naturalmente: una perché non produce ovociti; l’altra perché non in grado di portare a termine una gravidanza senza grave rischio.

Secondo il Tribunale rimettente, il divieto censurato si porrebbe in contrasto con la tutela costituzionale del diritto alla salute, in quanto impedirebbe alle componenti di una coppia di persone dello stesso sesso di superare le loro patologie riproduttive, tramite l’utilizzazione complementare delle potenzialità riproduttive rispettive (gestazionale dell’una, di produzione ovarica dell’altra): ciò in contrasto con lo stesso scopo lato sensu terapeutico che la legge n. 40 del 2004 assegna alla PMA.

Al riguardo, occorre rilevare che la censura – ove fondata – non giustificherebbe la pronuncia richiesta dal giudice a quo: ossia l’eliminazione tout court del requisito della diversità di sesso dal novero delle condizioni di accesso alle tecniche di PMA. Tale requisito dovrebbe essere rimosso, per converso, esclusivamente nel caso in cui fosse riscontrabile l’esigenza "terapeutica” alla quale fa riferimento il rimettente: ossia quando le componenti della coppia omosessuale femminile versino in condizioni obiettive di infertilità per ragioni patologiche.

L’assetto che scaturirebbe da un simile intervento – pure teoricamente praticabile in questa sede, tramite una "resezione” del petitum – sarebbe, peraltro, palesemente insostenibile. Nell’ambito delle coppie omosessuali femminili, potrebbero accedere alla PMA – e dunque realizzare il desiderio della genitorialità – solo quelle le cui componenti non siano in grado di procreare in modo naturale.

Tale rilievo disvela il vizio di prospettiva che inficia l’argomento posto in campo dal rimettente. La presenza di patologie riproduttive è un dato significativo nell’ambito della coppia eterosessuale, in quanto fa venir meno la normale fertilità di tale coppia. Rappresenta invece una variabile irrilevante – ai fini che qui interessano – nell’ambito della coppia omosessuale, la quale sarebbe infertile in ogni caso.

18.– L’art. 11 Cost. – richiamato dal Tribunale ordinario di Bolzano (peraltro solo in dispositivo) con riferimento tanto agli artt. 8 e 14 CEDU, quanto a varie disposizioni del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 19 dicembre 1966, e della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006 – è parametro inconferente, posto che dalle indicate convenzioni internazionali non derivano limitazioni di sovranità nei confronti dello Stato italiano (ex plurimis, con particolare riguardo alla CEDU, sentenze n. 22 del 2018, n. 210 del 2013 e n. 349 del 2007).

19.– Va esclusa, infine, la dedotta violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. in relazione a tutte le disposizioni sovranazionali evocate dai giudici a quibus.

19.1.– Quanto al contrasto – denunciato da entrambi i rimettenti – con gli artt. 8 e 14 CEDU (in tema di diritto al rispetto della vita privata e familiare e di divieto di discriminazione), è ben vero che, a partire dalla sentenza 24 giugno 2010, Schalk e Kopf contro Austria, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è costante nell’affermare che alla coppia omosessuale compete il diritto al rispetto della vita, non solo privata, ma anche familiare, al pari della coppia di sesso opposto che si trovi nella stessa situazione. Essa costituisce, pertanto, una «famiglia», anche agli effetti del divieto di discriminazione (pur rimanendo affidate all’apprezzamento dei singoli Stati le modalità della sua tutela, che non deve necessariamente aver luogo tramite l’estensione dell’istituto del matrimonio) (ex plurimis, sentenze 14 dicembre 2017, Orlandi e altri contro Italia; 21 luglio 2015, Oliari e altri contro Italia). Principio, questo, del quale è stata fatta specifica applicazione anche in tema di adozione dei minori (Grande Camera, sentenza 19 febbraio 2013, X e altri contro Austria).

La Corte di Strasburgo ha pure affermato, per altro verso, che il concetto di «vita privata», di cui all’art. 8 CEDU, comprende il diritto all’autodeterminazione e, dunque, anche il diritto al rispetto della decisione di diventare genitore e su come diventarlo (in modo naturale, tramite fecondazione assistita, mediante procedura di adozione, ecc.). La scelta di ricorrere alla PMA ricade, pertanto, nel relativo ambito di tutela, con la conseguenza che le ingerenze in essa da parte della pubblica autorità debbono rispondere alle finalità indicate dal paragrafo 2 dello stesso art. 8 e risultare proporzionate allo scopo (sentenze 16 gennaio 2018, Nedescu contro Romania; Grande Camera, 27 agosto 2015, Parrillo contro Italia; 2 ottobre 2012, Knecht contro Romania; 28 agosto 2012, Costa e Pavan contro Italia; Grande Camera, 3 novembre 2011, S.H. e altri contro Austria).

E, però, si è già ricordato come la stessa Corte di Strasburgo abbia escluso che una legge nazionale che riservi la PMA a coppie eterosessuali sterili, assegnandole una finalità terapeutica, possa dar luogo a una disparità di trattamento, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU, nei confronti delle coppie omosessuali, stante la non equiparabilità delle rispettive situazioni (sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia).

Si è del pari ricordato come, secondo la Corte europea, nella disciplina della fecondazione medicalmente assistita – la quale suscita delicati problemi di ordine etico e morale – gli Stati fruiscano di un ampio margine di apprezzamento, particolarmente quanto ai profili sui quali non si riscontri un generale consenso a livello europeo (supra, punto 9 del Considerato in diritto): prospettiva nella quale essa ha ritenuto non incompatibile con la CEDU il divieto di fecondazione eterologa previsto dalla legislazione austriaca (Grande camera, sentenza 3 novembre 2011, S. H. contro Austria, che ha ribaltato la conclusione cui era giunta la prima sezione della Corte con la sentenza 1° aprile 2010, S. H. contro Austria).

In tale ottica, possono dunque valere anche in rapporto ai parametri convenzionali evocati le considerazioni precedentemente svolte onde escludere l’ipotizzata violazione del diritto alla procreazione costituzionalmente garantito (supra, punto 13 del Considerato in diritto).

19.2.– Quanto osservato in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU può essere evidentemente esteso alle corrispondenti disposizioni – richiamate dal solo Tribunale di Bolzano – del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, in tema di divieto di discriminazione e diritto al rispetto della vita privata e familiare (artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26).

19.3.– Per quel che attiene, da ultimo, alle previsioni – invocate anch’esse dal solo Tribunale di Bolzano – della Convenzione di New York sui diritti delle persone con disabilità (artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25, in tema, rispettivamente, di eguaglianza e non discriminazione, donne con disabilità, rispetto della vita privata, rispetto della famiglia e tutela della salute), può ripetersi quanto già osservato con riferimento alla censura di violazione del diritto alla salute, formulata dallo stesso Tribunale (supra, punto 17 del Considerato in diritto).

È evidente, infatti, che le coppie omosessuali femminili non possono essere ritenute, in quanto tali, «disabili».

20.– Alla luce delle considerazioni svolte, le questioni vanno dichiarate non fondate.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 12, commi 2, 9 e 10, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale ordinario di Pordenone con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, limitatamente alle parole «di sesso diverso», e 12, comma 2, limitatamente alle parole «dello stesso sesso o», «anche in combinato disposto con i commi 9 e 10», nonché degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma, e 32, primo comma, Cost., nonché agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, agli artt. 2, paragrafo 1, 17, 23 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, e agli artt. 5, 6, 22, paragrafo 1, 23, paragrafo 1, e 25 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, fatta a New York il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18, dal Tribunale ordinario di Bolzano con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 giugno 2019.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Franco MODUGNO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 ottobre 2019.

Allegato:

ordinanza letta all'udienza del 18 giugno 2019