Sentenza n. 80 del 2020

CONSULTA ONLINE 

 

SENTENZA N. 80

 

ANNO 2020

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente: Marta CARTABIA;

 

Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 170 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)»

, e dell’art. 15 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), promosso dal giudice delegato della Corte d’appello di Torino nel procedimento a carico di A. P. con ordinanza del 22 giugno 2017, iscritta al n. 92 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 2019.

 

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nella camera di consiglio del 10 marzo 2020 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;

 

deliberato nella camera di consiglio dell’11 marzo 2020.

 

Ritenuto in fatto

 

1.‒ Il giudice delegato della Corte d’appello di Torino, con ordinanza del 22 giugno 2017, iscritta al n. 92 del registro ordinanze 2019, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 170 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)» e dell’art. 15 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), nella parte in cui, in tema di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, prevedono la inderogabile competenza monocratica del «capo» dell’ufficio giudiziario cui appartiene il «magistrato» che ha emesso il provvedimento opposto, anche ove quest’ultimo sia un giudice collegiale.

 

2.‒ Il giudice rimettente è stato investito dell’opposizione contro un decreto di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, in favore di un richiedente protezione internazionale, emesso, a seguito del rigetto per manifesta infondatezza del gravame proposto, dalla stessa Corte d’appello in composizione collegiale.

 

In particolare, a fronte del rigetto del ricorso proposto, ai sensi dell’art. 35 del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25 (Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato), avverso il provvedimento di diniego della protezione internazionale e umanitaria emesso dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, l’appellante era stato ammesso dal locale Consiglio dell’ordine degli avvocati al patrocinio a spese dello Stato per proporre impugnazione. Il giudizio di gravame era stato definito con sentenza di rigetto e, con decreto in pari data, era stata revocata l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato ai sensi dell’art. 136, comma 2, del d.P.R. n. 115 del 2002, per avere il beneficiario agito quanto meno con colpa grave. Contro quest’ultimo provvedimento veniva proposta opposizione ai sensi dell’art. 170 del d.P.R. n. 115 del 2002, la cui decisione era demandata, in conformità all’art. 15 del d.lgs. n. 150 del 2011, al capo dell’ufficio.

 

L’ordinanza di rimessione premette che la parte propone opposizione contro il decreto di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, assumendone l’erroneità per essere i motivi posti a fondamento dell’appello, pure rigettato, né inammissibili né manifestamente infondati, stante la «consistenza, plausibilità e ragionevolezza» degli stessi rispetto alla credibilità dell’appellante e al suo percorso di integrazione sociale.

 

Nell’ordinanza si ricorda, poi, che sebbene il testo unico in materia di spese di giustizia non contempli un rimedio contro i provvedimenti sulla revoca del beneficio del patrocinio a spese dello Stato emessi dal giudice civile, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, è proponibile l’opposizione ex art. 170 dello stesso d.P.R. n. 115 del 2002, la cui disciplina processuale è dettata dall’art. 15 del d.lgs. n. 150 del 2011, che assoggetta le relative controversie al rito sommario di cognizione demandando la decisione sul ricorso «al capo dell’ufficio cui appartiene il magistrato che ha emesso il provvedimento impugnato».

 

Sottolinea, quindi, il giudice a quo che il decreto impugnato dinanzi a sé è stato emanato dalla Corte d’appello in composizione collegiale e che l’irragionevolezza di un sistema nel quale il riesame di un provvedimento di un giudice collegiale è demandato alla cognizione di un giudice monocratico è tanto più evidente per i provvedimenti, come nella fattispecie processuale posta all’attenzione dello stesso, di revoca dell’ammissione al patrocinio per avere la parte agito o resistito in giudizio per mala fede o colpa grave, involgendo il relativo sindacato valutazioni che dovrebbero essere demandate al giudice dell’impugnazione della decisione di merito e che in ogni caso finirebbero con il sovrapporsi con quelle a quest’ultimo rimesse.

 

Al fine di suffragare la non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, rispetto ai parametri di cui agli artt. 3 e 97 della Costituzione, il giudice rimettente pone in evidenza ulteriori contraddizioni interne al sistema normativo quali, ad esempio, la decisione da parte di un giudice ordinario monocratico contro i provvedimenti, sempre collegiali, sul patrocinio a spese statali emessi dal giudice amministrativo e la previsione da parte dell’art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011 della collegialità per le opposizioni contro i provvedimenti di liquidazione dei compensi degli avvocati, che pure di norma sarebbero caratterizzate da maggiore semplicità rispetto a quelle in esame.

 

In punto di rilevanza, il giudice delegato della Corte d’appello di Torino assume che non è percorribile un’interpretazione costituzionalmente orientata demandando la decisione dell’opposizione a un decreto di revoca emesso da un giudice collegiale a un collegio, in considerazione dell’orientamento della Corte di cassazione secondo cui ciò determinerebbe un vizio di costituzione del giudice ai sensi dell’art. 158 del codice di procedura civile, stante la competenza funzionale del presidente dell’ufficio giudiziario in composizione monocratica e l’esplicazione di funzioni decisorie da parte di magistrati ai quali le stesse non sono attribuite dalla legge (è citata Corte di cassazione, sezione seconda civile, sentenza 4 marzo 2015, n. 4362).

 

Pertanto, per il complesso delle ragioni indicate, il giudice a quo, ritenendo la natura giurisdizionale dell’opposto decreto di revoca del patrocinio, dubita della ragionevolezza dell’assetto processuale delineato dal combinato disposto delle norme censurate laddove “impone” una competenza monocratica, costituente un unicum nel sistema processuale, per l’impugnazione di un provvedimento collegiale. Ha quindi sollevato questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 170 del d.P.R. n. 115 del 2002 e 15 del d.lgs. n. 150 del 2011, per violazione degli artt. 3 e 97 Cost., «nella parte in cui prevedono la inderogabile competenza (monocratica) del “capo” dell’ufficio giudiziario a cui appartiene il giudice che ha emesso il provvedimento opposto anche se quest’ultimo sia un giudice collegiale».

 

3.‒ Con atto del 9 luglio 2019, depositato il giorno successivo, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e comunque manifestamente infondate.

 

Quanto alla dedotta violazione dell’art. 97 Cost., l’Avvocatura ricorda che la Corte costituzionale ha più volte affermato che il principio del buon andamento è riferibile all’amministrazione della giustizia soltanto per quanto attiene all’organizzazione e al funzionamento degli uffici giudiziari, mentre non è invocabile con riferimento a disposizioni di natura squisitamente processuale.

 

Rispetto alla denunciata violazione dell’art. 3 Cost., l’Avvocatura rammenta che, sempre secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, il legislatore gode di ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali, fermo restando il limite della manifesta irragionevolezza.

 

In ogni caso, sottolinea l’Avvocatura, la scelta del legislatore, da iscrivere in un sistema nel quale, a partire dalla riforma operata dal decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51 (Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado), la composizione monocratica del giudice costituisce la regola, deve considerarsi ragionevole, tanto più in virtù della natura sostanzialmente amministrativa, corroborata anche dalla giurisprudenza costituzionale, dei provvedimenti in tema di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

 

Considerato in diritto

 

1.‒ Il giudice delegato della Corte d’appello di Torino, con ordinanza del 22 giugno 2017, iscritta al n. 92 del registro ordinanze 2019, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 170 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)» e dell’art. 15 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), nella parte in cui, in caso di revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, prevedono la inderogabile competenza monocratica del «capo» dell’ufficio giudiziario cui appartiene il «magistrato» che ha emesso il provvedimento opposto, anche ove quest’ultimo sia un giudice collegiale.

 

In particolare, il giudice rimettente assume che tale assetto ‒ che può comportare, come nel caso di specie, che un giudice monocratico sia chiamato a pronunciarsi in sede di opposizione avverso un provvedimento giurisdizionale di un giudice collegiale ‒ costituisca un unicum nel processo civile e determini contraddizioni tali da risultare irragionevole e da compromettere il buon andamento degli uffici giudiziari, in violazione, rispettivamente, dei parametri di cui agli artt. 3 e 97 della Costituzione.

 

Le questioni sono state sollevate dal giudice delegato alla trattazione del ricorso dal Presidente della Corte d’appello di Torino, quale capo dell’ufficio giudiziario cui appartiene il collegio che ha emesso l’opposto decreto di revoca del beneficio del patrocinio a spese dello Stato, in precedenza riconosciuto in via provvisoria al richiedente dal Consiglio dell’ordine degli avvocati per la proposizione del gravame; decreto emesso dalla Corte d’appello in composizione collegiale contestualmente e a seguito della sentenza di rigetto dell’impugnazione.

 

2.‒ È opportuno premettere il quadro dei riferimenti normativi essenziali, nei quali si collocano le questioni incidentali di legittimità costituzionale, non senza innanzi tutto muovere dall’art. 24, terzo comma, Cost., che prescrive in generale che «sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione», ossia – ha precisato questa Corte (sentenza n. 41 del 1972) – a «coloro che non sono in grado di sopportare il costo di un processo».

 

Tale norma si correla sia ai precedenti commi dello stesso articolo, che assicurano a «tutti» la possibilità di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, e di difendersi e farsi difendere in qualsiasi stato e grado del procedimento (sentenza n. 144 del 1992), sia all’art. 3, secondo comma, Cost., che individua tra i compiti fondamentali della Repubblica quello di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che di fatto limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini.

 

A fronte di questi principi introdotti dalla Costituzione repubblicana, la tutela del diritto di agire e difendersi in giudizio dei non abbienti era, all’epoca, ancora contenuta nel regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3282 (Approvazione del testo di legge sul gratuito patrocinio), che, mutuando l’assetto della legge postunitaria 6 dicembre 1865, n. 2626 (Sull’ordinamento giudiziario), demandava la difesa in giudizio dei “poveri” a un ufficio onorifico e gratuito della classe forense, secondo una concezione liberale della giustizia, che aveva peraltro finito per determinare significative diseguaglianze sul piano sostanziale.

 

In seguito, il sistema del gratuito patrocinio è stato sostituito da quello del patrocinio a spese dello Stato, ma per le sole controversie in materia di lavoro e di previdenza e assistenza sociale obbligatoria, dalla legge 11 agosto 1973, n. 533 (Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie). Le relative previsioni sono state in seguito estese, “in quanto applicabili”, dall’art. 15, comma 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), alle cause in tema di responsabilità civile dei magistrati.

 

L’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale ha comportato, poi, l’urgenza di estendere questo modello, in coerenza con il ruolo fondamentale affidato al difensore in un processo di tipo accusatorio, alla materia penale e ciò è avvenuto con la legge 30 luglio 1990, n. 217 (Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti), che ha trovato applicazione per il processo penale ‒ con esclusione dei reati contravvenzionali, salva l’ipotesi di connessione a delitti o di riunione a procedimenti per delitti ‒ in favore dell’imputato, della persona offesa, del danneggiato che intendeva costituirsi parte civile e del civilmente obbligato per la pena pecuniaria e ai giudizi civili aventi ad oggetto il risarcimento del danno e le restituzioni derivanti da reato.

 

Rimaneva, però, la limitata applicabilità dell’istituto ai settori diversi da quello penale.

 

Questa Corte, investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del r.d. n. 3282 del 1923, nella parte in cui residuava per alcune materie, soprattutto nel settore civile, la disciplina del gratuito patrocinio, ha evidenziato che trascenderebbe largamente i limiti della giustizia costituzionale «disporre un così imponente intervento riformatore», non potendosi modificare il sistema mediante la mera soppressione del termine «onorifico» contenuto nella disposizione denunciata, essendo a tal fine necessario un complessivo riordino del sistema (ordinanza n. 200 del 2000).

 

È stato, quindi, il legislatore a intervenire per porre una nuova e più ampia disciplina della materia con la legge 29 marzo 2001, n. 134 (Modifiche alla legge 30 luglio 1990, n. 217, recante istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti), che ha esteso la portata della legge n. 217 del 1990, mediante gli artt. da 15-bis a 15-noniesdecies, al patrocinio a spese dello Stato nei giudizi civili e amministrativi.

 

Allo scopo di procedere a un riordino della materia delle spese di giustizia, è stato, poco dopo, adottato il d.P.R. n. 115 del 2002 (d’ora in avanti anche solo t.u.), che ha abrogato il complesso delle precedenti disposizioni, dettando una disciplina di carattere generale e realizzando, così, il definitivo passaggio all’attuale sistema del patrocinio a spese dello Stato. Ma, oltre alla previsione di norme generali (artt. 74-89), questa, pur ampia, regolamentazione, conserva ancora una netta distinzione tra disposizioni particolari sul patrocinio a spese dello Stato nel processo penale (artt. 90-118) e quelle nel processo civile, amministrativo, contabile e tributario (artt. 119-145).

 

2.1.‒ In questo articolato quadro normativo, dopo l’introduzione dell’indicato testo unico, si è, parallelamente, registrata una significativa evoluzione sulla questione centrale, ai fini che qui interessano, della natura dei provvedimenti del giudice in tema di patrocinio a spese dello Stato, che, sino a un certo momento, nella stessa giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 52 del 2005), sono stati ritenuti, anche se promananti dall’autorità giudiziaria, di natura non strettamente giurisdizionale, in quanto assimilabili a forme di giurisdizione volontaria.

 

La funzionalità di siffatti provvedimenti all’esercizio del diritto di azione e difesa in giudizio ha, nel tempo, tuttavia, portato a delinearne la natura giurisdizionale, come affermato da questa Corte (ordinanza n. 128 del 2016 e, più recentemente, sentenza n. 35 del 2019), in quanto, nel decidere se spetti il patrocinio a spese dello Stato, il giudice esercita una funzione giurisdizionale avente ad oggetto l’accertamento della sussistenza di un diritto, peraltro dotato di fondamento costituzionale.

 

Da ultimo, la natura pienamente giurisdizionale di questi provvedimenti – e segnatamente del decreto di revoca del beneficio – è stata affermata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 20 febbraio 2020, n. 4315), che ha composto il contrasto di giurisprudenza insorto in ordine alla possibilità – affermata da alcune pronunce, ma negata da altre – per la stessa Corte di cassazione, di emettere il decreto di revoca del patrocinio a spese dello Stato nei giudizi civili, ricorrendo i presupposti dell’art. 136 del t.u. La Suprema Corte ha ritenuto, in analogia a quanto espressamente previsto dall’art. 112 del t.u. in materia penale, che anche nella materia civile il decreto di revoca non possa essere pronunciato dalla Corte di cassazione, ma ciò possa fare il giudice del rinvio o, in alternativa, il giudice della pronuncia impugnata.

 

L’affermazione della natura giurisdizionale dei provvedimenti resi dal giudice in tema di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, e in particolare di quelli di revoca, che incidono, di norma con efficacia retroattiva, su un diritto già riconosciuto al beneficiario, ha finito, inevitabilmente, con il porre interrogativi che non sempre trovano una risposta coerente in un complesso quadro normativo nel quale il passaggio dal sistema del gratuito patrocinio a quello del patrocinio a spese dello Stato si è realizzato, come evidenziato, solo dopo una serie di interventi di settore, ispirati a esigenze differenti, e raccolti nel testo unico.

 

In particolare, la natura giurisdizionale dei provvedimenti di revoca del patrocinio, seppur pronunciati senza contraddittorio e d’ufficio, implica da una parte, come evidenziato da questa Corte, che gli stessi non siano modificabili e revocabili in ogni momento dal giudice, dovendo applicarsi ai medesimi il regime proprio degli atti di giurisdizione (ordinanza n. 128 del 2016); e d’altra parte, che è necessario, perché la tutela giurisdizionale sia assicurata (art. 24 Cost.) nelle forme del giusto processo (art. 111 Cost.), prefigurare una successiva fase processuale di merito a contraddittorio pieno in cui chi è stato privato del beneficio, a seguito del decreto di revoca, possa far valere le sue ragioni nei confronti dell’amministrazione della giustizia.

 

2.2.‒ Il carattere prevalentemente settoriale della disciplina del patrocinio a spese dello Stato si rinviene, specialmente, nei provvedimenti di ammissione e revoca del beneficio, che sono disciplinati, non già unitariamente nelle disposizioni generali del Titolo I della Parte III del t.u., ma distintamente con riferimento al processo penale e a quello civile, amministrativo, contabile e tributario.

 

In particolare, nel processo civile l’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato deve essere presentata al locale Consiglio dell’ordine degli avvocati che, ai sensi dell’art. 126 del t.u., deve verificare non solo la sussistenza in capo al richiedente dei requisiti di cui all’art. 76 dello stesso t.u., ma anche se le pretese che lo stesso intende far valere non appaiono manifestamente infondate, mediante una valutazione di carattere sommario che si rende necessaria per evitare che il beneficio, con i conseguenti oneri finanziari a carico dell’erario, venga accordato per la proposizione di domande che concretino un abuso del diritto di agire in giudizio. Il provvedimento di ammissione al patrocinio «in via anticipata e provvisoria» non ha natura giurisdizionale.

 

Invece – si è già rilevato – ha natura giurisdizionale la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, che è disciplinata dall’art. 136 del t.u. la cui emanazione è demandata, nella forma del decreto, all’autorità giudiziaria che procede. Essa può fondarsi sia sull’insussistenza ovvero sul mutamento dei presupposti reddituali, sia sulla circostanza che l’interessato abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, valutazione, quest’ultima, che, come il vaglio preliminare dei Consigli degli ordini forensi sulla non manifesta infondatezza delle ragioni della parte che richiede l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, si correla alla “meritevolezza” dell’azione o della difesa della parte beneficiaria dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, senza poter coincidere tout court con la soccombenza, stante il riconoscimento costituzionale per i «non abbienti» del diritto di agire e difendersi in giudizio per la tutela delle proprie situazioni giuridiche soggettive (art. 24, terzo comma, Cost.).

 

In tal modo, come ha sottolineato questa Corte, «il legislatore ha previsto sia una valutazione ex ante del requisito della non manifesta infondatezza (da compiersi al momento della presentazione della domanda, con rigetto della stessa nei casi in cui, sin dall’origine, l’istante voglia far valere una pretesa palesemente infondata); sia la revoca, ex post, della ammissione al beneficio quando, a seguito del giudizio, risulta provato che la persona ammessa ha agito o resistito con mala fede o colpa grave» (ordinanza n. 220 del 2009).

 

2.3.‒ Il t.u., però, non contempla alcuna disposizione che individui espressamente lo strumento processuale che ha l’interessato per contestare la legittimità del decreto di revoca, la cui sicura impugnabilità, comunque, discende dalla considerazione che è in gioco un diritto che ha finanche copertura costituzionale (art. 24, terzo comma, Cost.); diritto prima riconosciuto in via provvisoria (con il provvedimento di ammissione al beneficio da parte del Consiglio dell’ordine degli avvocati, di natura non giurisdizionale) e poi negato (con il provvedimento di revoca emesso dal «magistrato che procede», la cui natura giurisdizionale può ormai considerarsi unanimemente riconosciuta).

 

L’unica norma sull’impugnazione del decreto di revoca è contenuta nell’art. 113 del t.u., rubricato appunto «[r]icorso avverso il decreto di revoca», che però riguarda solo la revoca del beneficio in materia penale e solo uno dei casi, tra quelli catalogati dal precedente art. 112, comma 1, in cui la revoca è possibile (quello di cui alla lettera d, ossia la revoca per mancanza, originaria o sopravvenuta, delle condizioni di reddito). In tale evenienza, il rimedio processuale, previsto dall’art. 113, è il ricorso per cassazione proponibile nel termine di venti giorni dall’avviso comunicato all’interessato del deposito del provvedimento di revoca.

 

In materia civile, invece, in mancanza di un’espressa disposizione, ha supplito la giurisprudenza, che tuttavia non ha ritenuto di ricavare dall’art. 113 una regola simmetrica e analoga. Ha, invece, affermato l’applicabilità dell’art. 170 del t.u., che ha previsto e disciplinato ‒ fino a quando non è stato sostituito dall’art. 34, comma 17, lettera a), del d.lgs. n. 150 del 2011 – l’opposizione avverso il decreto di pagamento emesso a favore dell’ausiliario del magistrato. L’opposizione poteva proporsi, entro venti giorni dall’avvenuta comunicazione del decreto, «al presidente dell’ufficio giudiziario competente» e il processo era quello speciale previsto per gli onorari di avvocato; era altresì espressamente prescritto che l’ufficio giudiziario procedesse in composizione monocratica.

 

Nella nuova e vigente formulazione dell’art. 170 ‒ ora costituito solo dal suo comma 1 ‒ è, invece, previsto un mero rinvio: «[l]’opposizione è disciplinata dall’articolo 15 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150». A tale disposizione fa riferimento la giurisprudenza, puntualizzata da ultimo in un recente intervento chiarificatore (Cass., sez. un. civ., n. 4315 del 2020), che ha superato, tra l’altro, un precedente orientamento giurisprudenziale secondo cui, ove la revoca fosse contenuta nella sentenza o ordinanza che aveva deciso la controversia per la quale il beneficio del patrocinio a spese dello Stato era stato accordato, l’impugnazione della revoca seguiva le stesse regole processuali di impugnazione della sentenza o dell’ordinanza (Corte di cassazione, sezione sesta civile, sentenza 13 aprile 2016, n. 7191, che ha ritenuto esperibile il rimedio ordinario dell’appello).

 

3.‒ Espressione della complessità di questo sistema che si è evoluto non senza incertezze sul piano normativo è, a riguardo, proprio la problematica del regime processuale del decreto di revoca, nel processo civile, dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato; sul quale regime si appuntano le censure del giudice rimettente quanto alla mancata previsione della collegialità del giudice dell’opposizione allorché sia collegiale il giudice che ha pronunciato il decreto di revoca.

 

Il riconoscimento della natura giurisdizionale di tale decreto, di cui si è detto sopra, comporta che il procedimento di primo (e unico) grado è a struttura bifasica eventuale e a contraddittorio differito. L’opposizione non introduce un giudizio di impugnazione in un grado superiore, non essendo ammissibile un primo grado di giudizio senza contradditorio, ma apre a una fase in prosecuzione nell’unico grado con la costituzione del contraddittorio tra l’opponente, che contesta la legittimità della revoca del patrocinio, e l’opposto (amministrazione della giustizia). Del resto, l’espressa previsione dell’art. 15, comma 6, del d.lgs. n. 150 del 2011 secondo cui «[l]’ordinanza che definisce il giudizio non è appellabile», mostra che la fase decisoria dell’opposizione sia da ritenere una prosecuzione del giudizio di primo grado e non già una revisio prioris instantiae. Ciò tra l’altro comporta – in sintonia con il carattere semplificato del procedimento – che non opera la ragione di astensione di cui all’art. 51, primo comma, numero 4), del codice di procedura civile, che preclude al giudice che ha conosciuto della causa «in altro grado del processo» di decidere o di partecipare alla decisione (in tal senso, con riferimento ad altro procedimento di opposizione a struttura bifasica, la sentenza n. 78 del 2015 di questa Corte).

 

3.1.‒ Quanto poi alla monocraticità del giudice dell’opposizione, c’è da considerare che il censurato art. 15 è inserito tra le disposizioni che disciplinano le controversie regolate dal rito sommario di cognizione di cui al Capo III, che accorpa plurimi modelli processuali (articoli da 14 a 30), ai quali si applicano anche le disposizioni comuni alle controversie disciplinate dal rito sommario di cognizione, richiamate dal precedente art. 3.

 

In particolare, rileva, da una parte, il comma 2 dell’articolo da ultimo citato, che detta una regola generale sulla collegialità del giudice dell’impugnazione quando la causa è giudicata in primo grado in composizione collegiale, prescrivendo espressamente che il presidente del «collegio» designa il giudice relatore. Ma plausibilmente il giudice rimettente esclude un’interpretazione estensiva di tale regola anche alla fattispecie al suo esame. È vero, infatti, che nell’opposizione ex art. 15 censurato non è individuabile una vera e propria “impugnazione”, bensì una fase dell’unico giudizio di primo grado.

 

D’altra parte, la collegialità del giudice dell’opposizione è talora prevista nei singoli procedimenti speciali regolati dal rito sommario di cognizione, tra cui il giudizio di opposizione alla liquidazione degli onorari e dei diritti di avvocato (art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2011). Invece, l’art. 15 citato, pur avendo una struttura simile a quella dell’art. 14, non prevede la collegialità. Anzi, come già ricordato, l’art. 170 del t.u. nella sua originaria formulazione prescriveva all’opposto la monocraticità del giudice dell’opposizione. Questa prescrizione e quella del termine di venti giorni per proporre l’opposizione sono state abrogate, in parte qua, con la riformulazione dell’art. 170, che più non le contiene.

 

Ma – anche se, per il termine, si è ritenuto applicabile alla “opposizione” ex art. 15, con interpretazione estensiva, proprio quello previsto per l’“impugnazione” vera e propria (sentenza n. 106 del 2016) – analoga interpretazione estensiva non è praticabile, quanto alla composizione del giudice dell’opposizione, non potendosi ricavare a contrario una regola opposta a quella della generale monocraticità, prima prevista dall’art. 170 t.u., non essendo ciò compatibile con il rinvio che lo stesso art. 170 fa all’art. 15 del d. lgs. n. 150 del 2011. Disposizione questa che – come plausibilmente ritiene il giudice rimettente – contiene una regola specifica e più puntuale: il ricorso è proposto al capo dell’ufficio giudiziario – presidente del tribunale o presidente della corte d’appello ‒ cui appartiene il magistrato che ha emesso il provvedimento impugnato (art. 15, comma 2). Da ciò il giudice rimettente, in sintonia con la giurisprudenza di legittimità, desume una competenza funzionale, che significa, in particolare, generale monocraticità del giudice dell’opposizione in un’ottica di semplificazione del procedimento.

 

4.‒ In questo complesso e articolato quadro normativo, in continua evoluzione, finora esaminato, si collocano le questioni di legittimità costituzionale sollevate dall’ordinanza di rimessione, che sono inammissibili in riferimento a entrambi i parametri evocati dal giudice rimettente.

 

4.1.‒ Con riferimento all’art. 3 Cost., deve considerarsi, come si è sopra evidenziato, che la disciplina normativa dei provvedimenti, specie quelli di revoca, in tema di patrocinio a spese dello Stato, è storicamente connotata da lacune e attraversata da discrasie che l’intervento del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia non è riuscito a superare completamente.

 

In questo contesto si collocano anche le questioni sollevate dal rimettente, ossia la singolare attribuzione – a opera dell’art. 15 del d.lgs. n. 150 del 2011 che, sotto tale profilo, detta una regola speciale rispetto a quanto previsto per i procedimenti sommari di cognizione semplificati dall’art. 3 dello stesso decreto in ordine alla necessaria collegialità del giudice dell’impugnazione ‒ a un giudice monocratico della cognizione su opposizioni contro provvedimenti, aventi natura giurisdizionale, pronunciati da un giudice in composizione collegiale; questione che, tuttavia, non può essere risolta da questa Corte, poiché implica, proprio in ragione del descritto contesto normativo, valutazioni sistematiche rientranti nella discrezionalità del legislatore, discrezionalità che è peraltro particolarmente ampia in materia processuale (ex plurimis, sentenza n. 45 del 2019; ordinanza n. 273 del 2019).

 

Anche recentemente questa Corte (ordinanza n. 3 del 2020) ha ribadito che «la giurisprudenza costituzionale ha in più occasioni ricondotto l’istituto del patrocinio a spese dello Stato nell’alveo della disciplina processuale (sentenza n. 81 del 2017; ordinanze n. 122 del 2016 e n. 270 del 2012), nella cui conformazione il legislatore gode di ampia discrezionalità, con il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte adottate (ex plurimis, sentenza n. 97 del 2019)». E, proprio con riferimento alla disciplina della revoca del decreto di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, questa Corte (sentenza n. 47 del 2020) ha ritenuto «inammissibili questioni rispetto alle quali si chiede una pronuncia connotata da un cospicuo tasso di manipolatività (sentenze n. 219 del 2019, n. 23 del 2016 e n. 277 del 2014; ordinanze n. 254 e n. 122 del 2016)».

 

Insomma, questa Corte non può sostituirsi al legislatore in tali valutazioni discrezionali, tanto più che un intervento additivo come quello auspicato dal giudice rimettente rischierebbe di creare non secondarie disarmonie applicative.

 

Occorre considerare, infatti, che la problematica non riguarda i soli provvedimenti emessi dai giudici civili in composizione collegiale. In particolare, la giurisprudenza della Corte di cassazione, per un verso, riconduce le controversie incardinate dall’opposizione ex art. 170 del d.P.R. n. 115 del 2002 alla materia civile, e quindi alla cognizione del giudice civile, anche se i provvedimenti sono stati emessi dal giudice penale (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 3 settembre 2009, n. 19161) e, per un altro, ha sancito la sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario anche sulle opposizioni proposte contro provvedimenti resi dai giudici amministrativi (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 23 dicembre 2016, n. 26907).

 

In sostanza, sebbene nella fattispecie risulti distonica la previsione dell’ordinanza di un giudice monocratico che deliberi in sede di opposizione avverso un decreto di natura giurisdizionale anche quando questo è emesso da un giudice collegiale, vi è che una pronuncia di accoglimento di questa Corte, per non comportare incertezze nella stessa declinazione del principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25, primo comma, Cost.), richiederebbe di indicare in modo puntuale il collegio che, a seconda del giudice collegiale (non solo civile, ma anche penale e amministrativo) che ha emesso il provvedimento impugnato di revoca del patrocinio, sarebbe competente a decidere dell’opposizione ai sensi degli artt. 170 del t.u. e 15 del d.lgs. n. 150 del 2011.

 

È evidente che un intervento di tale portata, che implica un pur auspicabile riordino del sistema normativo, esula dai compiti di questa Corte ed è demandato alle valutazioni e scelte del legislatore.

 

Né, infine, può trascurarsi di evidenziare che una pronuncia additiva, come quella richiesta dal giudice rimettente, sarebbe comunque inidonea a ricondurre a piena coerenza il sistema, poiché la collegialità finirebbe con il divenire una regola non generale bensì asimmetrica, in quanto operante, o no, in ragione della composizione monocratica o collegiale del giudice che ha emesso il decreto impugnato; la quale potrebbe anche essere, in ipotesi, controversa e sub iudice.

 

4.2.‒ Parimenti inammissibili sono le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento all’art. 97 Cost., atteso che, secondo costante giurisprudenza costituzionale, il principio di buon andamento, di cui all’evocato parametro, è «riferibile all’amministrazione della giustizia soltanto per quanto attiene all’organizzazione e al funzionamento degli uffici giudiziari, non all’attività giurisdizionale in senso stretto» (ex multis, sentenze n. 90 del 2019 e n. 91 del 2018).

 

5.‒ Le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal giudice rimettente, vanno, quindi, dichiarate inammissibili con riferimento a entrambi gli evocati parametri.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 170 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)» e dell’art. 15 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Torino, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 marzo 2020.

 

F.to:

 

Marta CARTABIA, Presidente

 

Giovanni AMOROSO, Redattore

 

Roberto MILANA, Cancelliere

 

Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2020.