SENTENZA N. 33
ANNO 2018
Commento alla
decisione di
per g.c.
di Diritto Penale Contemporaneo
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario
Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto
Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di
legittimità costituzionale dell’art. 12-sexies, comma 1, del decreto-legge
8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e
provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con
modificazioni, in legge 7 agosto 1992, n. 356, promosso dalla Corte
d’appello di Reggio Calabria, nel procedimento a carico di R. V., con ordinanza
del 17 marzo 2015, iscritta al n. 154 del registro ordinanze 2015 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale,
dell’anno 2015.
Visti l’atto di costituzione R. V., nonché l’atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 7 novembre 2017 il Giudice
relatore Franco Modugno;
udito l’avvocato dello Stato Maurizio Greco per il Presidente
del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza
del 17 marzo 2015, la Corte d’appello di Reggio Calabria ha sollevato, in
riferimento all’art.
3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art.
12-sexies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti
al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla
criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, in legge 7 agosto 1992, n.
356, nella parte in cui include il delitto di ricettazione tra quelli per i
quali, nel caso di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444
del codice di procedura penale, è sempre disposta la speciale confisca prevista
dal medesimo art. 12-sexies.
La Corte
rimettente riferisce che, con ordinanza depositata l’11 dicembre 2013, essa Corte
d’appello, in veste di giudice dell’esecuzione, aveva disposto, inaudita altera
parte, la confisca, ai sensi della norma censurata, di vari cespiti mobiliari
(buoni postali, titoli e un libretto postale), intestati a una persona
condannata con sentenza irrevocabile del 14 luglio 2009 per il delitto di
ricettazione e a due suoi congiunti: cespiti il cui valore (pari, nel
complesso, ad oltre 170.000 euro) appariva, alla luce degli accertamenti svolti
dalla polizia giudiziaria, sproporzionato rispetto alla capacità reddituale del
condannato e del suo nucleo familiare (attestatasi, nel periodo compreso tra il
1990 e il 2011, attorno a una media di 12.000 euro anni lordi, ossia a livelli
di mera sussistenza).
Avverso il
provvedimento avevano proposto opposizione, a norma degli artt. 667, comma 4, e
676 cod. proc. pen., il condannato e i terzi
interessati, assumendo che i redditi del nucleo familiare – ricostruiti in modo
incompleto dalla polizia giudiziaria, essendo rappresentati, per una
considerevole parte, anche da poste non oggetto di dichiarazione fiscale –
erano, in realtà, del tutto compatibili con la disponibilità dei beni oggetto
di confisca.
Ciò premesso, la
Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale dell’art. 12-sexies,
comma 1, del d.l. n. 306 del 1992, nella parte in cui riconnette la speciale
misura ablativa anche alla condanna (o al "patteggiamento”) per il delitto di
ricettazione.
La questione
sarebbe rilevante nel giudizio a quo, giacché, anche riconoscendo «valenza
implementativa» ad alcuni degli apporti finanziari evidenziati dagli opponenti,
non considerati dalla polizia giudiziaria, il provvedimento opposto dovrebbe
essere confermato «pressoché integralmente». Le deduzioni difensive
risulterebbero, infatti, inidonee a sovvertire la valutazione di manifesta
sproporzione tra i flussi reddituali degli interessati e il valore dei beni
confiscati (sostanzialmente, denaro contante): ciò, tenuto conto anche del
fatto che nel medesimo torno di tempo erano stati operati dagli opponenti consistenti
investimenti immobiliari (non oggetto di confisca), atti ad erodere
ulteriormente la loro capacità di risparmio.
Quanto, poi, alla
non manifesta infondatezza, la Corte calabrese osserva che, per far luogo alla
misura ablativa in questione, è necessario – ma anche sufficiente – che
sussista una sproporzione tra il reddito dichiarato dal condannato o i proventi
della sua attività economica e il valore dei beni di cui è titolare o ha la
disponibilità, anche per interposta persona, e che non venga, altresì, fornita
una giustificazione credibile in ordine alla provenienza dei beni stessi. Come
chiarito dalle sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza 17
dicembre 2003-19 gennaio 2004, n. 920, dirimendo un pregresso contrasto di
giurisprudenza, non è invece richiesta la dimostrazione che i beni da
confiscare derivino dal singolo reato per cui la condanna è intervenuta, o da
una più ampia attività criminosa del condannato; né, d’altra parte, il
provvedimento ablativo resta escluso dal fatto che i beni siano stati acquisiti
in epoca anteriore o successiva al reato per cui si è proceduto, o che il loro
valore superi il provento di quest’ultimo.
Alla stregua di
tale lettura della norma, qualificabile ormai come «ius
receptum», il condannato e il suo nucleo familiare
dovrebbero subire, nel caso di specie, l’ablazione forzosa di un cospicuo
patrimonio mobiliare – che, per una considerevole parte, potrebbe anche essere
frutto dell’accaparramento di risorse finanziarie provenienti dalla liquidazione
di cespiti appartenenti ad un affine premorto, in danno degli altri coeredi
(punto sul quale è mancata, peraltro, «un’autentica e piena allegazione
difensiva») – in ragione di un’unica condanna definitiva per la ricettazione di
un’autovettura, commessa in epoca prossima alla data del furto (8 aprile 2003)
e accertata il 31 agosto 2004.
Occorrerebbe
considerare, tuttavia, che l’istituto si basa sulla presunzione che le risorse
economiche, sproporzionate e non giustificate, rinvenute in capo al condannato
derivino dall’accumulazione di illecita ricchezza che talune categorie di reati
sono ordinariamente idonee a produrre: accumulazione ritenuta socialmente
pericolosa, a fronte della possibile utilizzazione delle risorse per il
finanziamento di ulteriori delitti o del loro reimpiego nel circuito
economico-finanziario, con effetti distorsivi del sistema economico legale;
donde l’esigenza di sottrarle all’interessato.
Il giudice
rimettente si dichiara consapevole del fatto che la Corte costituzionale ha
ritenuto non irragionevole la predetta presunzione, escludendo conseguentemente
che la confisca cosiddetta "allargata” si ponga in contrasto con il principio
di eguaglianza e il diritto di difesa, anche in riferimento all’art. 42 Cost. (ordinanza n. 18 del
1996).
Ma, se questo vale
per l’istituto «globalmente considerato», non altrettanto potrebbe dirsi –
secondo il giudice a quo – con riguardo alla sua applicabilità alle condanne
per ricettazione.
Come posto in
evidenza anche nella richiamata sentenza delle sezioni unite, la ragionevolezza
della presunzione di cui si discute rimarrebbe collegata alla circostanza che
ci si trovi al cospetto di delitti usualmente perpetrati «in forma quasi
professionale» e che si pongano come fonte ordinaria di un illecito accumulo di
ricchezza.
Simili connotati
non sarebbero riscontrabili in rapporto al delitto di ricettazione. Alla luce
dell’esperienza giudiziaria, infatti, tale reato risulta non solo ampiamente
diffuso, ma presenta, altresì, una casistica estremamente varia, «sia sul piano
della criminogenesi che sul piano del modello di
agente tipo».
Mentre i
condannati per ognuno degli altri delitti cui la norma denunciata riconnette la
presunzione – ad esempio, l’associazione di tipo mafioso, il traffico di
stupefacenti, l’estorsione, il sequestro di persona a scopo di estorsione,
l’usura, la corruzione o il riciclaggio – apparirebbero razionalmente
omologabili tra loro ai fini considerati, altrettanto non avverrebbe riguardo
ai condannati per ricettazione. Accanto al condannato corrispondente «ad un
modello di agente tipico […] abbastanza delineato», assimilabile
sostanzialmente all’autore del reato di cui all’art. 648-bis del codice penale
(riciclaggio), rispetto al quale la presunzione legale di accumulo di ricchezza
illecita manterrebbe un «certo fondamento», si porrebbe la «stragrande
maggioranza» dei condannati per il delitto in questione, costituita da soggetti
in rapporto ai quali la presunzione non avrebbe ragione di operare. Si
tratterebbe, infatti, di persone che hanno commesso il reato
«estemporaneamente», procurandosi cose provenienti da delitto sul «mercato
nero» solo per realizzare un risparmio di spesa o per acquisire beni fuori
dalla loro portata economica o legale, o «per altre innumerevoli ragioni».
Né, al fine di
contenere in limiti accettabili siffatta eterogeneità di situazioni, basterebbe
la circostanza che all’ambito applicativo della confisca cosiddetta "allargata”
sia espressamente sottratta la fattispecie attenuata di ricettazione prevista
dal secondo comma dell’art. 648 cod. pen. Per
consolidata giurisprudenza, l’ipotesi del fatto «di particolare tenuità», cui
fa riferimento tale disposizione, sarebbe ravvisabile solo entro ristretti limiti,
venendo al riguardo in rilievo precipuamente il valore della cosa ricettata,
con esclusione di qualsiasi valutazione della personalità del reo e della sua
pericolosità sociale.
In questa
prospettiva, la norma censurata violerebbe, in parte qua, l’art. 3 Cost. sotto
un duplice profilo.
In primo luogo,
per l’irragionevole assimilazione del delitto di ricettazione agli altri gravi
delitti indicati dalla norma denunciata, rispetto ai quali la presunzione di
illecito accumulo di ricchezza potrebbe ritenersi legittimata dalle
caratteristiche della condotta incriminata.
In secondo luogo,
per la ingiustificata equiparazione del trattamento dei condannati per il reato
in questione. Il riferimento alla condanna per il delitto di cui all’art. 648
cod. pen. come presupposto della misura, senza
ulteriori specificazioni che consentano o impongano al giudice una valutazione
della effettiva riconducibilità del fatto per cui è intervenuta condanna al
«modello» atto a fondare la presunzione legale di arricchimento illecito, si
risolverebbe, infatti, nell’omologazione «di situazioni ontologicamente affatto
diverse ed esplicanti una diversa significatività in termini di ragionevole
presunzione di pericolosità sociale».
A quanto precede
non gioverebbe opporre che la norma censurata non autorizza il giudice ad
espropriare un patrimonio quando sia di ingente valore, ma solo ove se ne
accerti la sproporzione rispetto ai redditi e alle attività economiche del
condannato. Alla verifica della sproporzione si procede, comunque sia, in forza
e a motivo di una presunzione che non troverebbe adeguata giustificazione in
rapporto all’esperienza applicativa del delitto di ricettazione.
D’altra parte,
tenuto conto anche dell’eventualità che l’indagine sulla sproporzione investa
periodi di tempo ampiamente anteriori a quello dell’accertamento del reato, con
conseguente difficoltà per gli interessati di recuperare gli elementi
dimostrativi della provenienza lecita dei beni, apparirebbe evidente come il
rischio che la confisca "allargata” colpisca anche beni lecitamente acquisiti
resti circoscritto in limiti tollerabili solo ove la presunzione di illecito
arricchimento che sta alla base dell’istituto mantenga un fondamento razionale.
2.– È intervenuto
il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata
inammissibile o infondata.
La questione
coinvolgerebbe, infatti, scelte discrezionali spettanti in via esclusiva al
legislatore, quali quelle attinenti all’individuazione delle condotte punibili
e alla determinazione del relativo trattamento sanzionatorio: scelte che – per
costante giurisprudenza della Corte costituzionale – possono formare oggetto di
censura, in sede di scrutinio di costituzionalità, solo ove trasmodino
nell’irragionevolezza manifesta o nell’arbitrio.
La speciale
ipotesi di confisca regolata dall’art. 12-sexies del
d.l. n. 306 del 1992 configurerebbe una misura di sicurezza patrimoniale
atipica, modellata sulla falsariga della similare misura di prevenzione
prevista dalla legislazione antimafia, della quale mutua la finalità
preventiva. Il legislatore avrebbe individuato, in specie, delitti
particolarmente allarmanti, potenzialmente idonei a creare un’accumulazione di
ricchezza, a sua volta possibile strumento di ulteriori delitti, traendone una
presunzione iuris tantum di origine illecita del patrimonio a disposizione del
condannato per tali delitti, non proporzionato al reddito dichiarato ai fini
delle imposte sul reddito o all’attività economica svolta: presunzione che può
essere vinta dal condannato tramite l’allegazione di elementi che attestino la
legittima provenienza dei beni.
Nel corso degli
anni, vi è stato un progressivo ampliamento dei delitti ricompresi nell’ambito
di operatività della norma, derivante dalla maggiore attenzione del legislatore
per gli strumenti di aggressione dei patrimoni illecitamente accumulati.
La questione
apparirebbe inammissibile, o comunque sia infondata, anche in considerazione
della contraddittorietà della motivazione posta a suo sostegno. Lo stesso
giudice rimettente avrebbe, infatti, riconosciuto che il delitto di
ricettazione è potenzialmente idoneo a creare un’accumulazione economica,
possibile strumento di ulteriori delitti, nel caso del condannato che risponda
«ad un modello di agente tipico», analogamente all’autore del delitto di cui
all’art. 648-bis cod. pen. (riciclaggio).
Al fine di
riportare nell’ambito della ragionevolezza la disciplina della confisca
"allargata” per i casi di condanna per ricettazione, il rimettente avrebbe
chiesto, in sostanza, alla Corte costituzionale un intervento modificativo che
consenta al giudice una concreta verifica della riconducibilità del fatto per
cui è intervenuta condanna al «modello di ricettazione fondante la presunzione
legale di arricchimento illecito»: intervento che risulterebbe, tuttavia,
precluso, non potendo la Corte sostituire la sua valutazione a quella spettante
al legislatore.
3.– Si è
costituita, altresì, R. V., opponente nel giudizio a quo, chiedendo
l’accoglimento della questione.
Secondo la parte
privata, la norma censurata si porrebbe in contrasto – oltre che con l’art. 3 Cost., per
le condivisibili considerazioni svolte nell’ordinanza di rimessione – anche con
l’art. 117, primo
comma, Cost., in relazione all’art. 1, paragrafo 2, del Protocollo
addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso
esecutivo con legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte
europea dei diritti dell’uomo.
Pur avendo
manifestato in più occasioni un atteggiamento di favore nei confronti degli
strumenti di confisca "allargata”, previsti da diversi ordinamenti per
contrastare il crimine organizzato, e in particolare nei confronti della
confisca di prevenzione, la Corte di Strasburgo ha, tuttavia, affermato – con
giurisprudenza costante – che ogni interferenza con il diritto di proprietà
deve esprimere un «giusto equilibrio» tra le esigenze dell’interesse generale
della comunità e quelle di tutela dei diritti fondamentali della persona:
equilibrio non riscontrabile, per converso, nell’ipotesi in esame.
4.– Con successiva
memoria, il Presidente del Consiglio dei ministri ha insistito per la
dichiarazione di inammissibilità o di infondatezza della questione.
L’Avvocatura
generale dello Stato osserva come lo stesso giudice a quo abbia sottolineato
l’evidente sproporzione tra il denaro contante nella disponibilità del nucleo
familiare del condannato e le entrate di detto nucleo familiare: ciò, tenuto
conto del fatto che erano stati operati anche notevoli investimenti
immobiliari, non interessati dal provvedimento di confisca, i quali avevano
diminuito il montante della liquidità.
In tale
prospettiva, la questione sollevata si risolverebbe in una mera quaestio facti, attinente all’interpretazione e all’applicazione
della norma censurata, senza toccarne la coerenza con i principi
costituzionali.
Considerato in diritto
1.– La Corte
d’appello di Reggio Calabria dubita della legittimità costituzionale dell’art.
12-sexies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti
al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla
criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, in legge 7 agosto 1992, n.
356, nella parte in cui include il delitto di ricettazione tra quelli per i
quali, nel caso di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444
del codice di procedura penale, è sempre disposta la speciale confisca – cosiddetta
"allargata” – prevista dal medesimo art. 12-sexies.
Il giudice a quo
rileva come, rispetto al delitto di ricettazione, la presunzione legale di
provenienza illecita del patrimonio del condannato, sottesa all’istituto,
risulti priva di giustificazione razionale, non trattandosi, alla luce
dell’esperienza giudiziaria, di reato normalmente commesso «in forma quasi
professionale» e costituente «fonte ordinaria di illecito accumulo di
ricchezza».
In questa
prospettiva, la norma censurata violerebbe l’art. 3 della Costituzione sotto un
duplice profilo.
Da un lato, per
l’irragionevole assimilazione del predetto reato agli altri gravi delitti
indicati dalla norma censurata, rispetto ai quali la presunzione apparirebbe
invece razionalmente giustificata alla luce delle caratteristiche della
condotta incriminata.
Dall’altro lato,
per l’irragionevole equiparazione del trattamento delle diverse ipotesi
riconducibili al paradigma punitivo considerato, fortemente eterogenee tra loro
sul piano dell’idoneità a fondare una presunzione di pericolosità sociale.
2.– In via
preliminare, va rilevato che resta estranea all’odierno scrutinio l’ulteriore
censura formulata dalla parte privata costituita, la quale ha denunciato anche
la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., conseguente all’asserito
contrasto della norma in esame con l’art. 1, paragrafo 2, del Protocollo
addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso
esecutivo con legge 4 agosto 1955, n. 848, così come interpretato dalla Corte
europea dei diritti dell’uomo.
Per costante
giurisprudenza di questa Corte, infatti, non è consentito alle parti ampliare –
con la deduzione di ulteriori questioni e profili di costituzionalità – il thema decidendum del giudizio
incidentale, che resta limitato alle disposizioni e ai parametri indicati
nell’ordinanza di rimessione (ex plurimis, sentenze n. 251 del
2017, n. 214
del 2016, n.
231 e n. 83
del 2015).
3.– Sempre in via
preliminare, si deve osservare come, successivamente all’ordinanza di
rimessione, la norma censurata sia stata oggetto di ben cinque interventi
novellistici.
I primi tre –
operati rispettivamente dall’art. 1, comma 4, della legge 22 maggio 2015, n. 68
(Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente), dall’art. 5 della legge
29 ottobre 2016, n. 199 (Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del
lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento
retributivo nel settore agricolo) e dall’art. 5 del decreto legislativo 29
ottobre 2016, n. 202 (Attuazione della direttiva 2014/42/UE relativa al
congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato
nell’Unione europea) – si sono esauriti in un (ulteriore) ampliamento
dell’elenco dei reati cui accede la confisca "allargata”, apparendo perciò
chiaramente ininfluenti sull’odierno giudizio.
Ben più ampie ed
articolate risultano, invece, le modifiche introdotte dall’art. 31 della legge
17 ottobre 2017, n. 161 (Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle
misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159,
al codice penale e alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del
codice di procedura penale e altre disposizioni. Delega al Governo per la
tutela del lavoro nelle aziende sequestrate e confiscate). Oltre a riscrivere
integralmente il denunciato comma 1 dell’art. 12-sexies
del d.l. n. 306 del 1992, inserendo in esso l’intiero
elenco dei reati presupposto, prima scisso nei commi 1 e 2 (elenco che,
nell’occasione, è stato ancora rimaneggiato), la novella legislativa ha anche
apportato consistenti innovazioni alla disciplina della misura patrimoniale recata
dai commi successivi dello stesso art. 12-sexies.
Neppure tali
modifiche giustificano, tuttavia, la restituzione degli atti al giudice a quo,
per una nuova valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza
della questione. Le innovazioni si muovono, infatti, nella direzione del
potenziamento e dell’ampliamento del campo di operatività della confisca
"allargata” – dunque, in direzione antitetica rispetto all’intervento auspicato
dall’ordinanza di rimessione, di segno riduttivo – lasciando, comunque sia,
inalterate tanto le condizioni di applicabilità dell’istituto, quanto
l’inclusione della ricettazione tra i reati presupposto, contro cui
specificamente si rivolgono le censure del rimettente.
Da ultimo, il
comma 1 dell’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992
è stato novamente sostituito dall’art. 13-ter del
decreto-legge 16 ottobre 2017, n. 148 (Disposizioni urgenti in materia
finanziaria e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, in
legge 4 dicembre 2017, n. 172, ma al solo fine di reinserire nella lista dei
reati presupposto le figure criminose che, già aggiunte dall’art. 5 del d.lgs.
n. 202 del 2016 in attuazione della normativa dell’Unione europea, ne erano
state espunte in sede di riscrittura della disposizione ad opera dell’art. 31
della legge n. 161 del 2017. Anche in questo caso, dunque, l’ininfluenza della
sopravvenienza normativa sul presente giudizio è palese.
4.– Il Presidente
del Consiglio dei ministri ha eccepito l’inammissibilità della questione sotto
vari profili. Nessuna delle eccezioni è, tuttavia, fondata.
L’Avvocatura
generale dello Stato evoca, anzitutto, la discrezionalità del legislatore
nell’individuazione delle condotte punibili e nella determinazione del relativo
trattamento sanzionatorio: rilievo che attiene, però, più propriamente al
merito della questione.
Viene prospettata,
poi, la contraddittorietà della motivazione dell’ordinanza di rimessione,
avendo lo stesso rimettente riconosciuto che il delitto di ricettazione è
idoneo a creare un’accumulazione economica, possibile strumento di ulteriori
delitti, nel caso del condannato che risponda «ad un modello di agente tipico»,
analogamente all’autore del delitto di cui all’art. 648-bis del codice penale
(riciclaggio). La denunciata contraddittorietà si rivela, tuttavia,
insussistente, posto che il giudice a quo basa il dubbio di costituzionalità
proprio sulla considerazione che quella ora indicata non rappresenterebbe una
costante, ma una mera eventualità, per di più marginale nell’esperienza applicativa
della figura delittuosa in questione.
L’Avvocatura
generale dello Stato assume, ancora, che il rimettente avrebbe chiesto, nella
sostanza, una modifica della norma censurata che consenta al giudice di
verificare se il fatto di ricettazione per cui è intervenuta condanna
giustifichi, in concreto, la presunzione legale di arricchimento illecito:
intervento che risulterebbe precluso, tuttavia, alla Corte costituzionale,
implicando una manipolazione della disciplina dell’istituto rimessa alla
discrezionalità del legislatore. Anche tale eccezione – che fa leva su alcuni
passaggi argomentativi dell’ordinanza di rimessione – non coglie nel segno. Il
giudice a quo non invoca una pronuncia di tipo additivo, ma formula – inequivocamente – un petitum di
segno meramente ablativo, richiedendo la rimozione pura e semplice del delitto
di ricettazione dal catalogo dei reati cui accede la misura patrimoniale in
discussione.
Da ultimo, va
escluso che le considerazioni svolte dal giudice a quo in sede di motivazione sulla
rilevanza, riguardo alla sproporzione, nel caso di specie, delle disponibilità
economiche del nucleo familiare del condannato rispetto alle sue capacità
reddituali, trasformino l’odierno incidente di costituzionalità in una
«quaestio facti» attinente all’interpretazione e
all’applicazione della norma censurata, così come sostenuto dall’Avvocatura
generale dello Stato nella memoria illustrativa.
5.– Sotto diverso
profilo, nessun problema di ammissibilità della questione si pone in ragione
del fatto che la Corte rimettente sia stata chiamata a pronunciarsi
sull’applicabilità della confisca "allargata” in veste di giudice
dell’esecuzione.
È, infatti,
pacifico in giurisprudenza, dopo l’intervento chiarificatore delle sezioni
unite della Corte di cassazione con la sentenza 30 maggio-17 luglio 2001, n.
29022, che la confisca prevista dall’art. 12-sexies
del d.l. n. 306 del 1992 possa essere disposta dal giudice dell’esecuzione a
norma dell’art. 676, comma 1, cod. proc. pen.,
qualora non vi abbia provveduto il giudice della cognizione. La competenza del
giudice dell’esecuzione si ricollega, infatti, alla natura obbligatoria della
confisca, senza che possa operarsi alcuna distinzione tra la fattispecie
generale descritta dall’art. 240 cod. pen. e le
fattispecie speciali introdotte da altre disposizioni.
La giurisprudenza
è, altresì, unanime nel ritenere che la confisca "allargata” possa essere
disposta senza formalità con ordinanza, a norma del combinato disposto degli
artt. 676 e 667, comma 4, cod. proc. pen. (cosiddetta
procedura de plano): ipotesi nella quale l’iniziale deficit di garanzie
verrebbe colmato dalla facoltà dell’interessato di attivare, mediante
opposizione, il procedimento di esecuzione ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen., che assicura il contraddittorio e l’acquisizione
delle prove, così come è avvenuto nel procedimento a quo. Tale soluzione
giurisprudenziale risulta ora normativamente recepita dal nuovo comma 4-sexies
dell’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992,
aggiunto dall’art. 31 della legge n. 161 del 2017.
6.– Nel merito, la
questione non è fondata.
La misura
patrimoniale prevista dalla norma censurata si colloca nell’alveo delle forme
"moderne” di confisca alle quali, già da tempo, plurimi Stati europei hanno
fatto ricorso per superare i limiti di efficacia della confisca penale
"classica”: limiti legati all’esigenza di dimostrare l’esistenza di un nesso di
pertinenza – in termini di strumentalità o di derivazione – tra i beni da
confiscare e il singolo reato per cui è pronunciata condanna. Le difficoltà cui
tale prova va incontro hanno fatto sì che la confisca "tradizionale” si
rivelasse inidonea a contrastare in modo adeguato il fenomeno
dell’accumulazione di ricchezze illecite da parte della criminalità, e in
specie della criminalità organizzata: fenomeno particolarmente allarmante, a
fronte tanto del possibile reimpiego delle risorse per il finanziamento di
ulteriori attività illecite, quanto del loro investimento nel sistema economico
legale, con effetti distorsivi del funzionamento del mercato.
Di qui, dunque, la
diffusa tendenza ad introdurre speciali tipologie di confisca, caratterizzate
sia da un allentamento del rapporto tra l’oggetto dell’ablazione e il singolo
reato, sia, soprattutto, da un affievolimento degli oneri probatori gravanti
sull’accusa.
Tra i diversi
modelli di intervento in tale direzione, il più diffuso nel panorama europeo è
quello della cosiddetta confisca dei beni di sospetta origine illecita: modello
al quale è riconducibile anche la confisca "allargata” prevista dalla norma
oggi censurata. Esso poggia, nella sostanza, su una presunzione di provenienza
criminosa dei beni posseduti dai soggetti condannati per taluni reati, per lo
più (ma non sempre) connessi a forme di criminalità organizzata: in presenza di
determinate condizioni, si presume, cioè, che il condannato abbia commesso non
solo il delitto che ha dato luogo alla condanna, ma anche altri reati, non
accertati giudizialmente, dai quali deriverebbero i beni di cui egli dispone.
Il ricorso a forme
di confisca congegnate in questa chiave è caldeggiato anche a livello
sovranazionale. Sollecitazioni a prevedere inversioni dell’onere della prova
riguardo all’origine illecita dei beni suscettibili di confisca si rivengono,
in specie, nella Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico illecito di
stupefacenti e sostanze psicotrope, fatta a Vienna il 20 dicembre 1988,
ratificata e resa esecutiva con legge 5 novembre 1990, n. 328 (art. 5,
paragrafo 7), e nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità
organizzata transnazionale, adottata a Palermo il 15 dicembre 2000, ratificata
e resa esecutiva con legge 16 marzo 2006, n. 146 (art. 12, paragrafo 7).
Assai più puntuali
e stringenti risultano, peraltro, al riguardo, le indicazioni promananti dalla
normativa dell’Unione europea. Nella cornice del generale processo di
valorizzazione degli strumenti patrimoniali di lotta alla criminalità
organizzata, da tempo in atto a livello dell’Unione, dapprima la decisione
quadro 24 febbraio 2005, n. 2005/212/GAI del Consiglio, relativa alla confisca
di beni, strumenti e proventi di reato (art. 3), e indi la direttiva 3 aprile
2014, n. 2014/42/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa al
congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato
nell’Unione europea, hanno, infatti, specificamente richiesto agli Stati membri
di riconoscere all’autorità giudiziaria poteri di «confisca estesa»,
collocabili chiaramente all’interno del ricordato genus
della confisca dei beni di sospetta origine illecita.
L’art. 5,
paragrafo 1, della citata direttiva stabilisce, in particolare, che gli Stati
membri devono adottare «le misure necessarie per poter procedere alla confisca,
totale o parziale, dei beni che appartengono a una persona condannata per un
reato suscettibile di produrre, direttamente o indirettamente, un vantaggio
economico, laddove l’autorità giudiziaria, in base alle circostanze del caso,
compresi i fatti specifici e gli elementi di prova disponibili, come il fatto
che il valore dei beni è sproporzionato rispetto al reddito legittimo della
persona condannata, sia convinta che i beni in questione derivino da attività
criminose». Diversamente dalla decisione quadro 2005/212/GAI, la direttiva non
limita l’applicazione della confisca estesa ai soli reati di criminalità
organizzata o collegati al terrorismo, ma la richiede anche in relazione ad una
serie di altri reati previsti da strumenti normativi dell’Unione, benché non
commessi nel quadro di organizzazioni criminali.
7.– Per quanto più
specificamente attiene alla misura prevista dall’art. 12-sexies
del d.l. n. 306 del 1992, essa è nata storicamente come "sostituto” del delitto
di «possesso ingiustificato di valori», già previsto dall’art. 12-quinquies,
comma 2, del medesimo decreto-legge. Tale disposizione puniva la persona
sottoposta a procedimento penale per il delitto di associazione mafiosa o per
altre ipotesi delittuose ritenute tipiche delle organizzazioni criminali –
compresa la ricettazione – o nei cui confronti fosse in corso di applicazione o
si procedesse per l’applicazione di una misura di prevenzione personale, la
quale, anche per interposta persona, avesse la disponibilità di denaro, beni o
altre utilità di valore sproporzionato al proprio reddito o alla propria
attività economica e dei quali non potesse giustificare la legittima
provenienza. Era altresì prevista la confisca dei beni, del denaro o di altre
utilità.
La norma
incriminatrice fu dichiarata illegittima da questa Corte, dopo un breve periodo
di vigenza, con la sentenza n. 48 del
1994, per violazione della presunzione di non colpevolezza sancita all’art.
27, secondo comma, Cost. Si rilevò, infatti, che la previsione punitiva,
«ispirandosi con fin troppa chiarezza a modelli tipici del procedimento di
prevenzione» – e così agglomerando in un «confuso ordito normativo […] settori
dell’ordinamento del tutto eterogenei» – fondava sulla qualità di indagato o di
imputato il presupposto soggettivo che rendeva punibile un dato di fatto – la
sproporzione non giustificata tra beni e redditi – che altrimenti non sarebbe
stato perseguito: col risultato che la persona indagata o imputata, ancorché
presunta non colpevole, veniva sottoposta a pena per una condotta che rimaneva
invece penalmente indifferente ove posta in essere da qualsiasi altro soggetto.
A fronte di tale
declaratoria, il legislatore introdusse, con il decreto-legge 20 giugno 1994,
n. 399 (Disposizioni urgenti in materia di confisca di valori ingiustificati),
convertito, con modificazioni, in legge 8 agosto 1994, n. 501, non già una
nuova figura criminosa diversamente strutturata, ma una speciale ipotesi di
confisca, disciplinata in un articolo aggiunto, immediatamente successivo a
quello caducato (il 12-sexies).
La formulazione
della norma fu motivata con la necessità di creare un nuovo strumento che fosse
in grado, per un verso, di realizzare le medesime finalità che si volevano
raggiungere con la disposizione dichiarata illegittima (permettere, cioè,
dinanzi ad una situazione di evidente sproporzione tra beni e reddito, di
aggredire, nel corso del processo penale per reati di criminalità organizzata o
a questi collegati, i patrimoni illecitamente costituiti); per altro verso, di
recepire le indicazioni offerte da questa Corte con la citata sentenza n. 48 del
1994 (venendo la misura ablativa collegata alla condanna per il reato
presupposto, e non già al semplice avvio del procedimento penale).
In tale ottica, la
norma prevedeva – e tuttora prevede, per questa parte – che, in caso di
condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per taluno dei
delitti in essa indicati, è «sempre disposta» (si tratta, dunque, di confisca
speciale obbligatoria) «la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità
di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per
interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la
disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito,
dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività
economica».
La norma
denunciata riconnette, dunque, a due elementi – la qualità di condannato per
determinati reati e la sproporzione del patrimonio di cui il condannato
dispone, anche indirettamente, rispetto al suo reddito o alla sua attività
economica – la presunzione che il patrimonio stesso derivi da attività
criminose che non è stato possibile accertare: presunzione, peraltro, solo
relativa, potendo il condannato vincerla giustificando la provenienza dei beni.
La confisca
"allargata” italiana si caratterizza, quindi, rispetto al modello di confisca
"estesa” prefigurato dalla direttiva 2014/42/UE (la quale si limita, peraltro,
a stabilire «norme minime», senza impedire agli Stati membri di adottare
soluzioni più rigorose), per il diverso e più ridotto standard probatorio. La
sproporzione tra il valore dei beni e i redditi legittimi del condannato – che
in base all’art. 5 della direttiva costituisce uno dei «fatti specifici» e
degli «elementi di prova» dai quali il giudice può trarre la convinzione che i
beni da confiscare «derivino da condotte criminose» – vale, invece, da sola a
fondare la misura ablativa in esame, allorché il condannato non giustifichi la
provenienza dei beni, senza che occorra alcuna ulteriore dimostrazione della
loro origine delittuosa.
8.– Al riguardo,
costituisce, in effetti, approdo ermeneutico ampiamente consolidato nella
giurisprudenza di legittimità – specie dopo l’intervento delle sezioni unite
della Corte di cassazione con la sentenza 17 dicembre 2003-19 gennaio 2004, n.
920 – che, in presenza delle condizioni indicate dalla norma, il giudice non
debba ricercare alcun nesso di derivazione tra i beni confiscabili ed il reato
per cui è stata pronunciata condanna, e neppure tra i medesimi beni e una più
generica attività criminosa del condannato.
Si rileva,
infatti, che, se fosse richiesto il nesso di "pertinenzialità” al reato per cui
si è proceduto, la norma risulterebbe priva di "valore aggiunto” rispetto alla
generale previsione dell’art. 240 cod. pen.,
limitandosi a rendere obbligatoria la confisca di alcune cose che la
disposizione del codice configura come facoltativa (senza considerare,
peraltro, che in rapporto a plurimi delitti inseriti nella lista dei reati
presupposto – quali, ad esempio, l’associazione mafiosa o l’usura – la confisca
dei beni derivati dal reato è già prevista, in generale, come obbligatoria).
L’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992
risulterebbe, anzi, paradossalmente più restrittivo della norma del codice, col
richiedere anche la prova del carattere "sproporzionato” del patrimonio del
condannato (si tratterebbe, in pratica, di una interpretatio
abrogans). Né le cose cambierebbero ove il nesso di
derivazione fosse rapportato ad una più ampia attività delittuosa del
condannato. Parlare di attività delittuosa non significa altro che fare
riferimento, sia pur generico, a reati commessi dal condannato: sicché il
vincolo di derivazione andrebbe accertato per i singoli reati che compongono la
serie, con le incongrue conseguenze in precedenza poste in evidenza.
Di qui la
conclusione per cui la confiscabilità non è esclusa
dal fatto che i beni siano stati acquisiti in data anteriore o successiva al
reato per cui si è proceduto, o che il loro valore superi il provento di tale
reato.
In questa
prospettiva – come ulteriormente rilevato dalle sezioni unite nella sentenza da
ultimo citata – la disposizione in esame si presenta espressiva di una «scelta
di politica criminale del legislatore, operata con l’individuare delitti
particolarmente allarmanti, idonei a creare una accumulazione economica, a sua
volta possibile strumento di ulteriori delitti, e quindi col trarne una
presunzione, iuris tantum, di origine illecita del patrimonio "sproporzionato”
a disposizione del condannato per tali delitti»: presunzione che trova «base
nella nota capacità dei delitti individuati dal legislatore […] ad essere
perpetrati in forma quasi professionale e a porsi quali fonti di illecita
ricchezza».
Si tratta di
presunzione che questa Corte ha avuto già modo di ritenere, in termini
generali, non irragionevole, all’indomani dell’introduzione della misura, con
l’ordinanza n. 18
del 1996.
9.– Dichiarandosi
di ciò consapevole, il giudice a quo non censura, tuttavia, l’istituto in sé,
ma l’articolazione dell’elenco dei reati presupposto della misura, dolendosi segnatamente
del fatto che in esso figuri (peraltro, fin dalle origini) anche il delitto di
ricettazione: delitto che – a suo avviso – sarebbe privo, sul piano
socio-criminologico, delle connotazioni che rendono razionalmente
giustificabile la presunzione in parola.
Secondo la Corte
calabrese, a differenza dei condannati per ciascuno degli altri delitti inclusi
nella lista – i quali dovrebbero ritenersi tutti parimente espressivi di un
«modello di agente tipico», consentaneo alla presunzione di illecita accumulazione
di ricchezza sottesa alla misura ablatoria – i condannati per ricettazione
rappresenterebbero una platea tanto vasta quanto eterogenea, costituita,
comunque sia, in modo preponderante da soggetti rivoltisi estemporaneamente al
«mercato nero» dei beni provenienti da delitto per realizzare risparmi di spesa
o per altre analoghe ragioni, e dunque da delinquenti meramente "occasionali”.
Annettere alla condanna per un simile reato la presunzione di origine illecita
dell’intero patrimonio "sproporzionato” del condannato, salvo che questi ne
dimostri la legittima provenienza – onere il cui assolvimento può risultare
oltremodo problematico, specie allorché si discuta di beni acquisiti molti anni
prima – costituirebbe soluzione ineluttabilmente contrastante con il principio
di eguaglianza: e ciò sia per l’indebita assimilazione della ricettazione agli
altri delitti elencati dalla norma, di diversa caratura ai fini considerati;
sia per l’altrettanto irragionevole omologazione dell’intera platea dei
condannati per il delitto in questione, composta da "tipi d’autore”
marcatamente differenziati in punto di idoneità a fondare una presunzione di
pericolosità sociale.
10.– A questo
proposito, occorre peraltro osservare come la visione della Corte rimettente –
secondo la quale il delitto di ricettazione rappresenterebbe, per le sue
caratteristiche, un "unicum” nell’ambito della lista dei reati presupposto, sul
piano dell’asserito difetto di correlazione con la ratio della misura – non
trovi, in realtà, conforto dall’analisi di detta lista.
Sebbene
l’obiettivo della confisca "allargata” fosse stato esplicitamente individuato
nel contrasto all’accumulazione dei patrimoni della criminalità organizzata, e
mafiosa in specie, e alla loro infiltrazione massiccia nel circuito economico,
la scelta dei "reati matrice” è risultata fin dal principio non rigorosamente
sintonica rispetto a tale dichiarazione d’intenti.
A fianco di figure
criminose che postulano un’organizzazione stabile e strutturata, diretta al
conseguimento di profitti illeciti, quali l’associazione di tipo mafioso o
l’associazione finalizzata al traffico illecito di stupefacenti, la norma
censurata richiamava, infatti, sin dall’origine, una serie di altri delitti –
quali l’estorsione, il sequestro di persona a scopo di estorsione, l’usura, il
riciclaggio, il reimpiego, l’intestazione fittizia di beni, il traffico
illecito di stupefacenti, il contrabbando aggravato (oltre, appunto, alla
ricettazione, esclusa l’ipotesi del fatto di lieve entità di cui all’art. 648,
secondo comma, cod. pen.) – i quali, pur essendo
considerati tipici della criminalità organizzata (e mafiosa in particolare), in
fatto ben possono essere perpetrati in contesti del tutto avulsi da questa e
che neppure implicano, in modo assoluto e indefettibile, la qualità di
delinquente "seriale” del loro autore.
Lo stesso delitto
di riciclaggio (art. 648-bis cod. pen.) – che la
Corte rimettente addita, in opposto alla ricettazione, come uniformemente
evocativo di un «modello di agente tipico» sintonico con la presunzione
espressa dalla norma denunciata – abbraccia, in realtà, anch’esso fattispecie
eterogenee sotto il profilo considerato. L’analisi della casistica
giurisprudenziale rivela, in effetti, come una significativa porzione delle
condanne pronunciate per tale delitto riguardi, non necessariamente la
"ripulitura” di "denaro sporco” derivante dalle attività del crimine
organizzato, ma pure fatti di manomissione di autoveicoli di provenienza
illecita, volti ad ostacolare l’accertamento di quest’ultima, che possono
risultare anche affatto episodici per il loro autore, allo stesso modo di
quelli di ricettazione.
In prosieguo di
tempo, peraltro, il catalogo dei reati presupposto è stato arricchito, in modo
progressivo ed "alluvionale”, da una serie di interventi novellistici. Tale
processo di implementazione – proseguito, senza soluzione di continuità anche
dopo l’odierna ordinanza di rimessione – si è ispirato, in più d’un caso, a
logiche chiaramente estranee a quella primigenia dell’istituto.
Emblematica, in
tale direzione, appare l’estensione della confisca "allargata” ad una ampia
platea di delitti contro la pubblica amministrazione, disposta dall’art. 1,
comma 220, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria
2007)». Come è stato da più parti osservato, si tratta di una categoria di
reati che – specie in rapporto ad alcune figure (vengono citati, ad esempio, il
peculato e il peculato mediante profitto dell’errore altrui, la malversazione a
danno dello Stato, l’utilizzazione di invenzioni o scoperte conosciute per
ragioni di ufficio) – risulta del tutto priva di diretta attinenza con la
criminalità organizzata, e che neppure denota, nell’autore del singolo fatto,
una necessaria "professionalità” o dedizione all’illecito.
11.– Ciò posto, va
peraltro rilevato che – come lo stesso rimettente, del resto, riconosce – la
ricettazione (reato contro il patrimonio, integrato dal fatto di chi, a fini di
profitto, «acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un
qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farle acquistare, ricevere od
occultare») resta, per sua natura, un delitto idoneo a determinare un’illecita
accumulazione di ricchezza e suscettibile, secondo l’osservazione
"sociologica”, di essere perpetrato in forma "professionale” o, comunque sia,
continuativa.
La presunzione di
origine illecita dei beni del condannato insorge, d’altro canto, non per
effetto della mera condanna, ma unicamente ove si appuri – con onere probatorio
a carico della pubblica accusa – la sproporzione tra detti beni e il reddito
dichiarato o le attività economiche del condannato stesso: sproporzione che –
secondo i correnti indirizzi giurisprudenziali – non consiste in una qualsiasi
discrepanza tra guadagni e possidenze, ma in uno squilibrio incongruo e
significativo, da verificare con riferimento al momento dell’acquisizione dei
singoli beni.
La presunzione,
d’altra parte, è solo relativa, rimanendo confutabile dal condannato tramite la
giustificazione della provenienza dei cespiti. Per giurisprudenza costante –
almeno a partire dalla citata sentenza delle sezioni unite della Corte di
cassazione n. 920 del 2004 – non si tratta neppure di una vera e propria
inversione dell’onere della prova, ma di un semplice onere di allegazione di
elementi che rendano credibile la provenienza lecita dei beni (per la
valorizzazione di analogo elemento, al fine di escludere l’illegittimità
costituzionale della presunzione di destinazione illecita di determinati
oggetti da parte del condannato per delitti contro il patrimonio – tra cui
anche la ricettazione – si veda già la sentenza n. 225 del
2008).
Occorre rilevare,
inoltre, che secondo un indirizzo della giurisprudenza di legittimità, emerso
già prima dell’intervento delle sezioni unite (Corte di cassazione, sezione
prima penale, 5 febbraio-21 marzo 2001, n. 11049; sezione quinta penale, 23
aprile-30 luglio 1998, n. 2469) e ribadito anche in recenti pronunce (Corte di
cassazione, sezione prima penale, 16 aprile-3 ottobre 2014, n. 41100; sezione
quarta penale, 7 maggio-28 agosto 2013, n. 35707; sezione prima penale, 11
dicembre 2012-17 gennaio 2013, n. 2634) – indirizzo che il giudice a quo non ha
preso in considerazione, anche solo per contestarne la validità – la
presunzione di illegittima acquisizione dei beni oggetto della misura resta
circoscritta, comunque sia, in un ambito di cosiddetta «ragionevolezza
temporale». Il momento di acquisizione del bene non dovrebbe risultare, cioè,
talmente lontano dall’epoca di realizzazione del "reato spia” da rendere ictu oculi irragionevole la presunzione di derivazione del
bene stesso da una attività illecita, sia pure diversa e complementare rispetto
a quella per cui è intervenuta condanna. Si tratta di una delimitazione
temporale corrispondente, mutatis mutandis,
a quella che le stesse sezioni unite hanno ritenuto operante con riferimento
alla misura affine della confisca di prevenzione antimafia, già prevista
dall’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le
organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere) e attualmente
disciplinata dall’art. 24 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice
delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni
in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della
legge 13 agosto 2010, n. 136), anch’essa imperniata sull’elemento della
sproporzione tra redditi e disponibilità del soggetto: misura che si è ritenuta
trovare un limite temporale nella stessa pericolosità sociale del soggetto,
presupposto indefettibile per la sua applicazione (Corte di cassazione, sezioni
unite, 26 giugno 2014-2 febbraio 2015, n. 4880).
La ricordata tesi
della «ragionevolezza temporale» risponde, in effetti, all’esigenza di evitare
una abnorme dilatazione della sfera di operatività dell’istituto della confisca
"allargata”, il quale legittimerebbe altrimenti – anche a fronte della condanna
per un singolo reato compreso nella lista – un monitoraggio patrimoniale esteso
all’intiera vita del condannato. Risultato che – come
la Corte rimettente pure denuncia – rischierebbe di rendere particolarmente
problematico l’assolvimento dell’onere dell’interessato di giustificare la
provenienza dei beni (ancorché inteso come di semplice allegazione), il quale
tanto più si complica quanto più è retrodatato l’acquisto del bene da
confiscare.
In una simile
prospettiva, la fascia di «ragionevolezza temporale», entro la quale la
presunzione è destinata ad operare, andrebbe determinata tenendo conto anche
delle diverse caratteristiche della singola vicenda concreta e, dunque, del
grado di pericolosità sociale che il fatto rivela agli effetti della misura ablatoria.
Nella medesima
ottica di valorizzazione della ratio legis, può
ritenersi, peraltro, che – quando si discuta di reati che, per loro natura, non
implicano un programma criminoso dilatato nel tempo (com’è per la ricettazione)
e che non risultino altresì commessi, comunque sia, in un ambito di criminalità
organizzata – il giudice conservi la possibilità di verificare se, in relazione
alle circostanze del caso concreto e alla personalità del suo autore – le quali
valgano, in particolare, a connotare la vicenda criminosa come del tutto
episodica ed occasionale e produttiva di modesto arricchimento – il fatto per
cui è intervenuta condanna esuli in modo manifesto dal "modello” che vale a
fondare la presunzione di illecita accumulazione di ricchezza da parte del
condannato.
12.– Alla luce di
quanto precede, i denunciati profili di violazione del principio di eguaglianza
si rivelano, dunque, insussistenti, sicché la questione va dichiarata non
fondata.
A fronte del
ricordato processo di accrescimento della compagine dei reati cui è annessa la
misura ablativa speciale, questa Corte non può astenersi, peraltro, dal
formulare l’auspicio che la selezione dei "delitti matrice” da parte del
legislatore avvenga, fin tanto che l’istituto conservi la sua attuale fisionomia,
secondo criteri ad essa strettamente coesi e, dunque, ragionevolmente
restrittivi. Ad evitare, infatti, evidenti tensioni sul piano delle garanzie
che devono assistere misure tanto invasive sul piano patrimoniale, non può non
sottolinearsi l’esigenza che la rassegna dei reati presupposto si fondi su
tipologie e modalità di fatti in sé sintomatiche di un illecito arricchimento
del loro autore, che trascenda la singola vicenda giudizialmente accertata,
così da poter veramente annettere il patrimonio "sproporzionato” e
"ingiustificato” di cui l’agente dispone ad una ulteriore attività criminosa
rimasta "sommersa”.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 12-sexies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306
(Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di
contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, in legge 7
agosto 1992, n. 356, sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione,
dalla Corte d’appello di Reggio Calabria con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in
Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8
novembre 2017.
F.to:
Paolo GROSSI,
Presidente
Franco MODUGNO,
Redattore
Roberto MILANA,
Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 21 febbraio 2018.