Sentenza n. 67 del 2024

SENTENZA N. 67

ANNO 2024

Commento alla decisione di

Giacomo Menegus
 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da:

Presidente: Augusto Antonio BARBERA;

Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, lettera a), della legge della Regione Veneto 3 novembre 2017, n. 39 (Norme in materia di edilizia residenziale pubblica), promosso dal Tribunale ordinario di Padova, sezione seconda civile, nel procedimento vertente tra Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI) aps e altri, Regione Veneto e Comune di Venezia, con ordinanza del 22 maggio 2023, iscritta al n. 113 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell’anno 2023.

Visti gli atti di costituzione della Regione Veneto, di ASGI, di Razzismo Stop onlus, di G.A. G.F., di R.S. N. e di J. E.;

udita nell’udienza pubblica del 6 marzo 2024 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta;

uditi gli avvocati Alberto Guariso per ASGI, per R.S. N. e per J. E.; Marco Ferrero per Razzismo Stop onlus e per G.A. G.F.; Giacomo Quarneti e Marcello Cecchetti per la Regione Veneto;

deliberato nella camera di consiglio del 7 marzo 2024.

Ritenuto in fatto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 113 del 2023), il Tribunale ordinario di Padova, sezione seconda civile, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, lettera a), della legge della Regione Veneto 3 novembre 2017, n. 39 (Norme in materia di edilizia residenziale pubblica), nella parte in cui prevede, tra i requisiti per l’accesso all’edilizia residenziale pubblica (di seguito: ERP), quello della «residenza anagrafica nel Veneto da almeno cinque anni, anche non consecutivi e calcolati negli ultimi dieci anni».

2.– In punto di fatto, il rimettente riferisce di essere stato adito con ricorso promosso ai sensi degli artt. 702-bis del codice di procedura civile e 28 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69).

2.1.– Secondo quanto riporta il giudice a quo, i ricorrenti – Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI) aps, Razzismo Stop Onlus, SUNIA-Federazione di Padova, G.A. G.F., R.S. N. e J. E. – hanno chiesto di «accertare e dichiarare il carattere discriminatorio della condotta tenuta» dalla Regione del Veneto e dal Comune di Venezia nell’aver approvato ed emanato l’art. 4, comma 1, del regolamento regionale 10 agosto 2018, n. 4 (Regolamento Regionale in materia di edilizia residenziale pubblica. Articolo 49, comma 2, legge regionale 3 novembre 2017, n. 39), nonché il «bando di concorso per l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica anno 2022 sotto ambiti: Venezia centro storico e isole; terra ferma veneziana».

I ricorrenti hanno segnalato che entrambi i citati atti, nel richiedere, ai fini dell’accesso all’ERP, il requisito della residenza anagrafica nel Veneto da almeno cinque anni, anche non consecutivi e calcolati negli ultimi dieci anni, riproducevano il contenuto precettivo dell’art. 25, comma 1, lettera a), della legge reg. Veneto n. 39 del 2017. Pertanto, hanno prospettato possibili questioni di legittimità costituzionale di tale previsione, per violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, all’art. 12 della direttiva 2011/98/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di Paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, nonché all’art. 11 della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo.

Da ultimo, hanno chiesto che fosse rimossa l’asserita discriminazione e che venissero riaperti i termini per la partecipazione al bando impugnato.

Nel giudizio principale si sono costituite la Regione Veneto e il Comune di Venezia, facendo valere l’inammissibilità del ricorso e adducendo, comunque, ragioni a sostegno del rigetto.

2.2.– Il Tribunale di Padova riferisce di avere respinto l’eccezione di difetto di giurisdizione, ritenendo che il giudizio spettasse al giudice ordinario sulla base di quanto sostenuto, con costante orientamento, dalla giurisprudenza di legittimità (vengono richiamate, ex plurimis, Corte di cassazione, sezione prima civile, ordinanza 15 febbraio 2021, n. 3842, e sezioni unite civili, ordinanza 15 febbraio 2011, n. 3670).

Parimenti, il rimettente dà conto di aver respinto l’eccezione di difetto di interesse ad agire con riguardo sia alle persone fisiche sia agli enti ricorrenti.

Quanto ai primi, rileva che trattandosi di azione antidiscriminatoria, l’interesse ad agire sussiste indipendentemente dalla presentazione della domanda di partecipazione al bando, considerato che «è la stessa previsione di un requisito “escludente” […] a tradursi nella lesione del diritto dei ricorrenti alla parità di trattamento in relazione all’accesso alle abitazioni di edilizia residenziale pubblica». Osserva, inoltre, che i ricorrenti non avrebbero potuto inviare le domande secondo la modalità prevista dal bando, perché avrebbero dovuto falsamente dichiarare di essere in possesso dei requisiti censurati; pertanto, reputa legittimo il ricorso a modalità equipollenti, quale l’invio «di una pec o di una raccomandata a.r. (come verificatosi nel caso di specie)».

Con riferimento agli enti ricorrenti, il giudice a quo osserva che essi agiscono per tutelare «l’interesse di tutti i soggetti, non immediatamente e direttamente identificabili, a non subire discriminazioni nell’accesso a beni e servizi, incluso l’alloggio, in ragione della nazionalità».

3.– Così riferite le premesse in fatto, il Tribunale di Padova, preso atto che il tenore testuale della disposizione censurata non ammette margini ermeneutici idonei a renderlo conforme alla Costituzione, se non accedendo a «interpretazioni “creative” di dubbia ammissibilità», argomenta la rilevanza e la non manifesta infondatezza dei dubbi che solleva in riferimento all’art. 3 Cost.

4.– In punto di rilevanza, il giudice a quo afferma che «la decisione delle domande proposte dai ricorrenti» richiede necessariamente l’applicazione nel giudizio principale della norma censurata, avendo questa «“orientato” la condotta tanto della Regione quanto del Comune».

Il Tribunale di Padova – dopo aver preso atto «che i ricorrenti lamentano l’esistenza di una discriminazione indiretta, individuale e collettiva, derivante dalla applicazione da parte del Comune di Venezia e della Regione del Veneto, dell’art. 25 comma 2, lett. a) della L.R. Veneto 3.11.2017 n. 39» – ritiene che la citata previsione costituirebbe «l’indefettibile presupposto normativo del Regolamento e del Bando per mezzo dei quali, nella prospettiva dei ricorrenti, [sarebbe] stata attuata la discriminazione nell’accesso ai servizi di edilizia residenziale pubblica».

I ricorrenti persone fisiche – prosegue il rimettente – sono impossibilitati a partecipare al bando ERP emanato dal Comune di Venezia per l’anno 2022 «esclusivamente in ragione della mancanza del requisito delle pregressa residenza quinquennale in Veneto», essendo pacifico, «perché non contestato specificamente dai convenuti ai sensi dell’art. 115 comma 1 c.p.c., il possesso in capo ai ricorrenti di tutti gli altri requisiti richiesti dal bando, ossia i requisiti di cittadinanza o di soggiorno e quelli di reddito». Nello specifico, il rimettente riferisce che G.A. G.F., «cittadino venezuelano, risulta titolare dello status di rifugiato e di permesso di soggiorno; [R.S. N.], cittadina camerunense, risulta titolare di un permesso per protezione internazionale; [J. E.] risulta titolare di un permesso per motivi di lavoro subordinato» e che tutti i ricorrenti rientrano nei requisiti reddituali previsti dal bando.

5.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente richiama le argomentazioni di cui alla sentenza n. 44 del 2020 di questa Corte, con la quale è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 22, comma 1, lettera b), della legge della Regione Lombardia 8 luglio 2016, n. 16 (Disciplina regionale dei servizi abitativi), nella parte in cui prevedeva il requisito della residenza ultraquinquennale per l’accesso ai servizi abitativi pubblici. Il rimettente ritiene che tale pronuncia abbia costituito il punto di approdo di una più ampia giurisprudenza costituzionale sui requisiti di accesso ai servizi sociali (vengono richiamate le sentenze n. 166, n. 107 e n. 106 del 2018, n. 168 e n. 141 del 2014, n. 222, n. 172, n. 133 e n. 2 del 2013, n. 40 del 2011, n. 107 del 2010, n. 32 del 2008 e n. 432 del 2005, nonché le successive pronunce n. 9 e n. 7 del 2021, n. 281 del 2020).

In tale percorso giurisprudenziale, questa Corte avrebbe ascritto il diritto all’abitazione tra i «requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione» (sono richiamate le sentenze n. 106 del 2018, n. 168 del 2014, n. 209 del 2009, n. 404 e n. 217 del 1988) e lo avrebbe qualificato quale diritto inviolabile (sono richiamate le sentenze n. 151 del 2013, n. 51 del 2011 e n. 404 del 1988, nonché l’ordinanza n. 76 del 2010), avente a oggetto un «bene di primaria importanza» (sono richiamate le sentenze n. 166 del 2018, n. 38 del 2016, n. 168 del 2014 e n. 209 del 2009).

Il rimettente, proseguendo nella sua ricostruzione della giurisprudenza costituzionale, ritiene, di seguito, che questa Corte abbia considerato l’edilizia residenziale pubblica uno strumento vòlto a garantire in concreto il soddisfacimento del primario bisogno abitativo, onde «assicurare un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti» (è richiamato in proposito l’art. 34 CDFUE).

5.1.– Così inquadrato il servizio sociale ERP, il rimettente sintetizza i criteri progressivamente adottati da questa Corte per verificare la conformità a Costituzione dei criteri di accesso a tale beneficio.

Il giudice a quo precisa che i requisiti «devono presentare un collegamento con la funzione del servizio» (sono richiamate, ex plurimis, le sentenze n. 166 e n. 107 del 2018, n. 168 del 2014, n. 172 e n. 133 del 2013, n. 40 del 2011) e che il vaglio di «ragionevolezza e adeguatezza», in base alla struttura tipica del giudizio ex art. 3 Cost., dovrebbe muovere «dall’identificazione della ratio della norma di riferimento», per poi passare a valutare la coerenza «del filtro selettivo introdotto».

Applicando tale modello di scrutinio, il rimettente esclude qualsivoglia «ragionevole connessione» fra «la ratio del servizio relativo alla edilizia residenziale pubblica [che] è quella di garantire “il soddisfacimento del bisogno abitativo”» e «la condizione della pregressa residenza nella regione», che non sarebbe «indice “di alcuna condizione rilevante in funzione del bisogno che il servizio tende a soddisfare”» (si richiama in proposito ancora la sentenza n. 107 del 2018).

5.2.– Di conseguenza, il Tribunale di Padova ritiene che la norma censurata condivida gli stessi vizi di illegittimità costituzionale delle altre previsioni concernenti la prolungata residenza che questa Corte ha già avuto modo di dichiarare costituzionalmente illegittime sulla base del vaglio sopra richiamato.

In particolare, il requisito contemplato dalla legge veneta – vale a dire la residenza ultraquinquennale nell’arco degli ultimi dieci anni – sarebbe, ad avviso del giudice a quo, privo di «collegamento con la ratio del servizio» ERP, «non potendo ragionevolmente ritenersi che coloro che vivono nella regione Veneto da meno di cinque anni versino in una situazione di bisogno “affievolita” rispetto a chi vi risiede da più anni» (è richiamata sul punto la sentenza di questa Corte n. 222 del 2013).

Il rimettente ritiene ormai superata la giurisprudenza, richiamata dalla difesa della Regione nel giudizio principale, che ha reputato «ragionevole e legittima la previsione di un requisito di pregressa residenza nella regione ai fini dell’accesso al servizio di edilizia residenziale pubblica, valorizzando il radicamento territoriale prolungato quale criterio selettivo per l’accesso ai servizi abitativi pubblici» (il riferimento è ancora alla sentenza n. 222 del 2013, avente a oggetto una legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia). Tale orientamento sarebbe stato «definitivamente superato alla luce delle considerazioni espresse» da questa Corte nella sentenza n. 44 del 2020, ove si sarebbe chiarito che «[l]a previa residenza ultraquinquennale non è di per sé indice di un’elevata probabilità di permanenza in un determinato ambito territoriale, mentre a tali fini risulterebbero ben più significativi altri elementi sui quali si può ragionevolmente fondare una prognosi di stanzialità. In altri termini, la rilevanza conferita a una condizione del passato, quale è la residenza nei cinque anni precedenti, non sarebbe comunque oggettivamente idonea a evitare il “rischio di instabilità” del beneficiario dell’alloggio di edilizia residenziale pubblica, obiettivo che dovrebbe invece essere perseguito avendo riguardo agli indici di probabilità di permanenza per il futuro».

Di seguito, il giudice a quo considera non dirimente il fatto che, nel caso in esame, il requisito della residenza protratta per almeno cinque anni possa realizzarsi non continuativamente nell’arco temporale dei precedenti dieci anni: tale modulazione del requisito non inciderebbe, infatti, sulle considerazioni svolte, lasciando il criterio di selezione privo di ragionevole collegamento con la ratio della disciplina.

Ad avviso del rimettente, i dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, lettera a) della legge reg. Veneto n. 39 del 2017 sarebbero dunque non manifestamente infondati, in riferimento: sia ai principi di eguaglianza e di ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma, Cost., in quanto la norma censurata produrrebbe «una irragionevole disparità di trattamento a danno di chi, cittadino o straniero, non sia in possesso del requisito ivi previsto», sia con il principio di eguaglianza sostanziale, di cui all’art. 3, secondo comma, Cost., poiché si porrebbe in contrasto «con la funzione sociale dell’edilizia residenziale pubblica».

6.– Con atto depositato il 26 settembre 2023, si è costituita in giudizio la Regione Veneto, eccependo l’inammissibilità e la non fondatezza delle questioni.

6.1.– In rito, la Regione Veneto rileva che, a fronte di un articolato quadro di dati introdotto dai ricorrenti per comprovare fatti da cui sarebbe dato desumere il carattere discriminatorio della norma censurata, il Tribunale di Padova avrebbe omesso di farvi qualunque riferimento, limitandosi ad affermare che la decisione sulla domanda dei ricorrenti implicherebbe l’applicazione di tale previsione.

Ad avviso della difesa regionale, il giudice rimettente sarebbe in tal modo incorso in un «grave difetto di motivazione sulla rilevanza delle questioni» sollevate, che si apprezzerebbe sotto un duplice profilo.

Da un lato, il giudice a quo non avrebbe adeguatamente descritto la fattispecie, in quanto avrebbe omesso di «offrire una qualche rappresentazione dei dati statistici forniti dai ricorrenti a sostegno della presunta discriminazione». Simile omissione non sarebbe emendabile attraverso l’accesso al fascicolo di causa, stante la preclusione derivante dal principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione (sono richiamate le ordinanze di questa Corte n. 64 del 2019, n. 242 del 2018 e n. 185 del 2013).

Da un altro lato, la mancata valutazione preliminare della compiutezza e correttezza del quadro di fatto su cui è basata la prospettazione dei ricorrenti avrebbe determinato una erronea anticipazione del giudizio di applicabilità al caso di specie della norma censurata. Tale giudizio sarebbe un passaggio logico successivo rispetto all’accertamento degli elementi presuntivi da cui inferire la discriminazione lamentata nel ricorso che ha introdotto il processo principale, «tenuto conto, altresì, che lo stesso rimettente non ha ritenuto, in alcun passo dell’ordinanza, che quella stessa disposizione legislativa possa o debba essere considerata, in sé e per sé, come avente carattere discriminatorio».

6.2.– Nel merito, la difesa della Regione Veneto ritiene che le questioni debbano essere dichiarate non fondate.

La norma censurata, ad avviso della difesa regionale, non sarebbe assimilabile a quelle relative al requisito di residenza ultraquinquennale per accedere all’ERP, che questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittime.

In quei casi (vengono citate le sentenze n. 145 e n. 77 del 2023, n. 44 del 2020), le norme dichiarate costituzionalmente illegittime non stabilivano che la residenza ultraquinquennale potesse essere maturata in forma discontinua nell’arco degli ultimi dieci anni. Simile possibilità, prevista invece dalla norma censurata, consentirebbe, secondo la difesa regionale, di soddisfare la «necessità – più volte sottolineate da questa Corte – di contemplare, nell’ambito della introduzione di requisiti basati sulla residenza per l’accesso all’ERP, soluzioni che “non corrano il rischio di privare certi soggetti dell’accesso alle prestazioni pubbliche solo per il fatto di avere esercitato il proprio diritto di circolazione o di aver dovuto mutare regione di residenza” (sentenza n. 145 del 2023)».

Il legislatore veneto si sarebbe limitato a richiedere, «quale indicatore sintomatico di un animus di stabilità per il godimento di un beneficio di carattere continuativo, un periodo di residenza, anche non continuativo, in misura contenuta (5 anni) e comunque maturata, anche in forme di discontinuità, in un lasso temporale senz’altro congruo e più che significativo rispetto alla sua ratio (10 anni)». Tale specificità sarebbe idonea a evitare la lesione della libertà di circolazione e, al contempo, costituirebbe un indicatore sviluppatosi nel passato, ma «senza dubbio ragionevolmente predittivo di un comportamento futuro», quello di radicarsi nel territorio regionale.

7.– Con atti di identico tenore, depositati il 2 ottobre 2023, si sono costituiti in giudizio tutti i ricorrenti del giudizio principale.

Nelle memorie di costituzione, la parti private aderiscono alle motivazioni dell’ordinanza di rimessione, evocando la recente giurisprudenza costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del requisito della residenza ultraquinquennale.

Sostengono, inoltre, che la variante introdotta dalla norma censurata – che consente di maturare il requisito in forma discontinua negli ultimi dieci anni – non possa in alcun modo essere ritenuta decisiva per approdare a esiti diversi. Nello specifico, la difesa delle parti private rileva che, «se anche si dovesse ritenere che il “radicamento territoriale” possa costituire un requisito di accesso e possa essere dimostrato dalla mera presenza pregressa sul territorio, è di tutta evidenza che la presenza discontinua è di per sé ancor meno significativa di quella continua».

La difesa delle parti private sostiene, inoltre, che il giudizio di ragionevolezza non può essere impermeabile all’evoluzione del contesto economico e sociale. A tal fine, viene richiamata l’attenzione: a) sulla «mobilità come un valore positivo, sia sotto il profilo dell’interesse individuale, sia sotto il profilo dell’interesse collettivo»; b) sulla inesistenza di «una norma di analogo rilievo che tuteli un consociato per il solo fatto di essere rimasto stanziale in un determinato luogo»; c) sul rilievo per cui la Corte di giustizia dell’Unione europea avrebbe «sempre censurato i requisiti “troppo esclusivi” di lungo-residenza per l’accesso a diritti sociali proprio facendo leva sul principio di libera circolazione all’interno dell’Unione che trova perfetta corrispondenza nell’analogo principio da applicarsi all’interno del territorio nazionale. (CGUE 14.6.2012, Commissione c. Paesi Bassi, causa C-542/09; CGUE 20.6.2013, C-20/12; come pure, al di fuori dell’ambito dei diritti sociali, 11.6.2020 C-206/19).»; d) sulla maggiore «propensione alla mobilità» da parte di chi sia in «condizioni sociali più precarie»; e) sulla trasformazione della realtà nel mondo del lavoro, con il «progressivo incremento dei contratti a termine e, più in generale, la minor durata dei rapporti di lavoro»; f) sull’esistenza di fattori di futura stabilità marcatamente più idonei rispetto alla pregressa residenza (ad esempio la tipologia e durata contrattuale, l’esistenza di bambini in età scolare nel nucleo familiare, e l’età stessa del richiedente).

Le parti private rilevano, infine, che l’indirizzo giurisprudenziale, che si sarebbe assestato con la citata sentenza n. 44 del 2020, avrebbe progressivamente indotto la maggior parte delle regioni a modificare la propria normativa in conformità a tale indirizzo, e che a oggi «le uniche Regioni presso le quali il requisito è ancora in essere sono, a quanto risulta, il Veneto, il Piemonte e l’Umbria».

8.– Con atto depositato il 12 febbraio 2024, ASGI ha prodotto memoria integrativa di replica alle argomentazioni della Regione Veneto.

8.1.– Quanto alle eccezioni di inammissibilità dedotte dalla difesa regionale, rileva che il giudice comune, essendo stato investito di una discriminazione sulla base della nazionalità, sarebbe chiamato preliminarmente a verificare «la sussistenza e la legittimità della “copertura normativa” della differenza di trattamento, perché, ove sussista una norma che legittima la differenza e detta norma sia conforme ai precetti costituzionali o eurounitari, il problema della discriminazione non [potrebbe] neppure porsi». Dunque, il controllo sulla «legittimità costituzionale della norma contestata [sarebbe] condizione preliminare e necessaria per procedere oltre nel giudizio avanti il giudice comune». La difesa di ASGI ritiene dunque che, ove il rimettente avesse già ritenuto sussistente la discriminazione, in presenza di una norma di legge che autorizza la differenza di trattamento, «sarebbe probabilmente incorso in una fondata censura di irrilevanza, avendo anticipato un giudizio sulla sussistenza della discriminazione che invece […] può essere formulato solo una volta che sia rimossa la norma che autorizza la differenza di trattamento».

Quanto all’asserita «necessità di una ulteriore e più ampia motivazione relativa ai dati forniti dai ricorrenti nel giudizio a quo», la difesa della parte osserva che il carattere potenzialmente discriminatorio della pregressa e prolungata residenza sarebbe «un dato talmente radicato nella comune esperienza e talmente notorio» da poter «essere acquisito al giudizio, anche di costituzionalità, senza necessità di specifiche argomentazioni» e da poter essere considerato «implicito nelle argomentazioni svolte dal giudice rimettente in punto di rilevanza».

8.2.– Nel merito, la difesa di ASGI rileva che il criterio adottato dalla norma censurata sarebbe persino più rigido di quello presente in altre normative regionali esaminate e dichiarate costituzionalmente illegittime da questa Corte, posto che non considera l’attività lavorativa in Regione come requisito alternativo alla residenza.

Inoltre, la previsione introdurrebbe elementi di ulteriore illogicità, considerando meritevoli di accesso alla provvidenza coloro che hanno maturato una residenza quinquennale in un passato relativamente remoto.

Da ultimo, contesta l’asserito radicamento territoriale rispetto all’incidenza sulla contribuzione alle risorse regionali, posto che non esisterebbe «alcuna norma che preveda la devoluzione della tassazione regionale alla costruzione di alloggi di edilizia pubblica, per i quali i finanziamenti sono di esclusiva competenza nazionale», e perché in ogni caso «il sistema di welfare non [potrebbe] essere costruito quale “corrispettivo” di un contributo pregresso o futuro».

9.– La Regione Veneto ha depositato memoria integrativa il 13 febbraio 2024, insistendo sulle ragioni già esposte in sede di costituzione.

In punto di ammissibilità, la difesa regionale ribadisce il difetto di motivazione della rilevanza in cui sarebbe incorso il giudice rimettente. La struttura del giudizio riferito a una discriminazione indiretta implicherebbe l’accertamento di «due presupposti parimenti necessari e concorrenti: 1) la disparità di trattamento apparentemente neutra; 2) il fatto o i fatti discriminatori, ovvero gli elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico (art. 28, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011) dai quali si possa presumere l’effetto di “particolare svantaggio” che quella disparità di trattamento produce a carico dei titolari del fattore protetto (in questo caso lo status di non cittadino)». Il rimettente avrebbe omesso di fare qualunque riferimento ai dati statistici prodotti e alla «loro idoneità a fare almeno “presumere” il fatto discriminatorio».

Nel merito, la difesa regionale insiste sulla «esigenza di distinguishing», già invocata in sede di atto di costituzione, «rivolta a compiere un’attenta valutazione degli elementi differenziali che connotano la norma regionale oggetto di censura rispetto a quelle già scrutinate […] e dichiarate incostituzionali con le sentenze nn. 44/2020, 77/2023 e 145/2023». In particolare, la difesa della Regione insiste sui «diritti e la posizione costituzionale della comunità regionale di cui la Regione è ente esponenziale, anch’essi parimenti richiamati e valorizzati – a più riprese e sotto molteplici profili – dalla giurisprudenza di questa Corte, nei quali, sul fondamento basilare del principio autonomistico sancito dall’art. 5 Cost., trovano espressione gli elementi dell’identità collettiva, dell’appartenenza, dell’integrazione e dell’impegno del singolo (e delle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità) a concorrere al progresso morale e materiale di quella comunità territoriale, nonché, con specifico riferimento agli amministratori titolari di mandato elettivo, della responsabilità nell’uso delle risorse pubbliche disponibili nel bilancio dell’ente». La difesa contesta quindi l’argomento della parte privata sull’inesistenza di un legame tra il servizio reso e la finanza regionale, perché «contrariamente a quanto affermano le controparti, non si tratt[erebbe] affatto di “risorse statali” appartenenti alla comunità nazionale, risultando evidentemente irrilevante, sotto questo profilo, la circostanza che a tutt’oggi la finanza delle autonomie territoriali che dovrebbe assicurare (ai sensi dell’art. 119, quarto comma, Cost.) l’esercizio ordinario delle funzioni pubbliche loro attribuite sia ancora una finanza sostanzialmente “derivata”, come tale alimentata, in larghissima prevalenza, da trasferimenti a carico del bilancio dello Stato e da risorse reperite mediante la fiscalità di livello nazionale».

Infine, la difesa regionale ritiene che gli argomenti di ASGI sull’intrinseca irragionevolezza del requisito di residenza discontinua «ai fini di comprovare il “radicamento territoriale” […] si risolv[erebbero] in meri inconvenienti di fatto fisiologicamente conseguenti a qualunque previsione di un discrimine temporale».

10.– Nel corso dell’udienza pubblica del 6 marzo 2024 le parti hanno insistito per le conclusioni rassegnate negli scritti difensivi.

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 103 del 2023), il Tribunale di Padova, sezione seconda civile, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, lettera a), della legge reg. Veneto n. 39 del 2017, nella parte in cui prevede, tra i requisiti per l’accesso all’edilizia residenziale pubblica, quello della «residenza anagrafica nel Veneto da almeno cinque anni, anche non consecutivi e calcolati negli ultimi dieci anni».

2.– Secondo il giudice a quo, la norma censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost. sotto plurimi profili: da un lato, contrasterebbe con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza, di cui al primo comma, in quanto produrrebbe «una irragionevole disparità di trattamento a danno di chi, cittadino o straniero, non sia in possesso del requisito ivi previsto»; da un altro lato, violerebbe il principio di eguaglianza sostanziale, di cui al secondo comma, poiché determinerebbe «effetti contrastanti con la funzione sociale dell’edilizia residenziale pubblica».

3.– In rito, la Regione Veneto obietta che il rimettente avrebbe omesso di fare qualunque riferimento a elementi idonei a suffragare il carattere discriminatorio di una norma che, in astratto, trova applicazione sia a cittadini sia a non cittadini.

Di conseguenza, il giudice rimettente sarebbe incorso in un «grave difetto di motivazione sulla rilevanza delle questioni» sollevate, che si apprezzerebbe sotto un duplice aspetto.

In primo luogo, l’ordinanza risulterebbe gravemente carente «nella descrizione della fattispecie», in quanto non avrebbe offerto una «rappresentazione dei dati statistici forniti dai ricorrenti a sostegno della presunta discriminazione». Simile mancanza non sarebbe emendabile attraverso l’accesso al fascicolo di causa, stante la preclusione derivante dal principio di autosufficienza dell’ordinanza di rimessione (sono richiamate in proposito le ordinanze di questa Corte n. 64 del 2019, n. 242 del 2018 e n. 185 del 2013).

L’omessa valutazione preliminare della compiutezza e correttezza del quadro di fatto, su cui sarebbe basata la prospettazione dei ricorrenti nel giudizio principale, avrebbe poi determinato una erronea anticipazione del giudizio di applicabilità al caso di specie della norma censurata, che costituirebbe un passaggio logico successivo rispetto all’accertamento degli elementi presuntivi da cui inferire la discriminazione lamentata nel ricorso che ha introdotto il giudizio principale.

4.– L’eccezione non è fondata, in relazione a entrambi i profili contestati.

Gli indici rivelatori dell’impatto potenzialmente discriminatorio, rispetto alla nazionalità, del requisito della residenza protratta in una regione italiana non sono specifici della norma censurata, ma sono gli stessi che hanno indotto questa Corte a ritenere potenzialmente discriminatorie previsioni parimenti incentrate sulla prolungata residenza.

Pertanto, il rimettente – nel precisare che i ricorrenti lamentano la «esistenza di una discriminazione indiretta, individuale e collettiva, derivante dalla applicazione [del] requisito della residenza quinquennale in Veneto» e nel richiamare giurisprudenza di questa Corte, che ha riconosciuto il carattere potenzialmente discriminatorio di discipline analoghe (da ultimo, sentenze n. 145 e n. 77 del 2023 e n. 44 del 2020) – ha implicitamente condiviso l’assunto secondo cui il requisito della residenza protratta, benché formalmente neutro, sia suscettibile di determinare un indiretto effetto discriminatorio sulla base della nazionalità. E, tuttavia, tale effetto discriminatorio non si produce, in alcun modo, se la norma non si pone in contrasto con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza.

Di conseguenza, il giudice a quo, nel sottoporre a questa Corte il vaglio sulla conformità della disciplina censurata ai citati principi, ha seguito un corretto iter logico e non è incorso in alcuna anticipazione del giudizio di applicabilità della norma al caso di specie.

5.– Nel merito, le questioni sollevate in riferimento all’art. 3, commi primo e secondo, Cost. sono fondate.

6.– Questa Corte ha da tempo riconosciuto che il bisogno abitativo esprime un’istanza primaria della persona umana radicata sul fondamento della dignità.

Per questo ha ravvisato nel diritto all’abitazione i tratti di un diritto sociale inviolabile (fra le altre, sentenze n. 161 del 2013, n. 61 del 2011 e n. 404 del 1988, nonché ordinanza n. 76 del 2010), funzionale a che «la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana» (sentenza n. 217 del 1988; nello stesso senso sentenze n. 106 del 2018, n. 168 del 2014, n. 209 del 2009 e n. 404 del 1988).

Vari sono i percorsi pubblici e privati tesi a garantire, tramite l’interazione con le categorie del contratto o della proprietà, il nesso funzionale fra l’istanza di natura personale e i beni destinati al bisogno abitativo.

Fra questi spicca l’edilizia residenziale pubblica, che consente a persone in situazioni economiche disagiate di stipulare contratti di locazione o di compravendita a condizioni agevolate, aventi a oggetto beni immobili di proprietà pubblica.

Gli alloggi ERP assicurano, in tal modo, a persone che non hanno la capacità economica di accedere al mercato, di soddisfare in concreto il loro fondamentale bisogno (sentenza n. 44 del 2020), conseguendo quel «bene di primaria importanza» che è l’abitazione (sentenza n. 166 del 2018; si vedano anche le sentenze n. 38 del 2016, n. 168 del 2014 e n. 209 del 2009).

7.– La finalità di assicurare il diritto inviolabile all’abitazione deve coniugarsi con il rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza nella selezione dei criteri che regolano l’accesso al servizio sociale.

Deve, pertanto, sussistere un rapporto di coerenza tra i requisiti di ammissione ai benefici dell’ERP e la ratio dell’istituto protesa al soddisfacimento del bisogno abitativo.

7.1.– Ebbene – come questa Corte ha già avuto modo di sottolineare – non si ravvisa alcuna ragionevole correlazione fra l’esigenza di accedere al bene casa, ove si versi in condizioni economiche di fragilità, e la pregressa e protratta residenza – comunque la si declini (infra, punto 7.2.) – nel territorio regionale (sentenze n. 145 del 2023, n. 44 del 2020, n. 166 del 2018 e n. 168 del 2014).

7.1.1.– Il criterio della prolungata residenza si risolve nella previsione di «una soglia rigida che porta a negare l’accesso all’ERP a prescindere da qualsiasi valutazione attinente alla situazione di bisogno o di disagio del richiedente (quali ad esempio condizioni economiche, presenza di disabili o di anziani nel nucleo familiare, numero dei figli)» (sentenza n. 44 del 2020, nello stesso senso, sentenze n. 145 e n. 77 del 2023).

La durata della permanenza nel territorio regionale non incide in alcun modo sullo stato di bisogno e, pertanto, lo sbarramento che comporta tale requisito nell’accesso al bene casa è «incompatibile con il concetto stesso di servizio sociale, […] destinato prioritariamente ai soggetti economicamente deboli» (ancora sentenza n. 44 del 2020).

7.1.2.– Inoltre, occorre rilevare che la residenza prolungata nel territorio regionale non considera che proprio chi versa in stato di bisogno si vede più di frequente costretto a trasferirsi da un luogo all’altro spinto dalla ricerca di opportunità di lavoro (sentenza n. 53 del 2024, punto 7.2. del Considerato in diritto, e sentenze ivi richiamate).

In sostanza, «se la residenza costituisce un requisito ragionevole al fine d’identificare l’ente pubblico competente a erogare una certa prestazione, non è invece possibile che l’accesso alle prestazioni pubbliche sia escluso per il solo fatto di aver esercitato il proprio diritto di circolazione o di aver dovuto mutare regione di residenza» (sentenza n. 199 del 2022; in senso analogo sentenza n. 7 del 2021).

7.1.3.– Ciò chiarito, non sfugge a questa Corte che i flussi migratori comportano un costante movimento di persone, talora solo in transito talora con una qualche prospettiva di stabilità nel territorio nazionale, e che si assiste a un continuo incremento di coloro che competono nel far valere il medesimo bisogno rispetto a risorse comunque limitate.

E tuttavia anche questo non giustifica la previsione del requisito della residenza prolungata per accedere agli alloggi ERP.

7.1.3.1.– Anzitutto, è evidente che gli strumenti di tutela dell’istanza abitativa ben possono modularsi in funzione della assenza o presenza di una prospettiva di radicamento nel territorio, procedendo dalla previsione di centri di accoglienza, adeguati al rispetto della dignità umana, all’accesso all’ERP o ad altri servizi sociali, diretti alla stipula di contratti di locazione o di compravendita e, dunque, rivolti a chi è orientato a una qualche prospettiva di stabilità nel territorio.

Nondimeno, non è dalla pregressa permanenza in una regione che è dato inferire una simile prospettiva di radicamento (sentenze n. 145 e n. 77 del 2023, nonché sentenza n. 44 del 2020), poiché, viceversa, conta principalmente che sia stato avviato un percorso di inclusione nel contesto ordinamentale statale. Inoltre, questa Corte non ha escluso che, in sede di formazione delle graduatorie, sia possibile valorizzare indici ragionevolmente idonei «a fondare una prognosi di stanzialità» (sentenza n. 44 del 2020), purché compatibili con lo stato di bisogno e, dunque, tali da non privarlo di rilievo (sentenze n. 77 del 2023 e n. 44 del 2020).

7.1.3.2.– Infine, la durata della residenza nel territorio regionale non ha rilievo neppure al fine di valorizzare il tempo dell’attesa per poter accedere al beneficio che realizza il bisogno abitativo (sentenza n. 9 del 2021).

Piuttosto – come questa Corte ha già sottolineato – il protrarsi dell’attesa può opportunamente riflettersi nell’anzianità di presenza nella graduatoria di assegnazione, in quanto circostanza che documenta l’acuirsi della sofferenza sociale dovuta alla mancata realizzazione dell’istanza abitativa e che, dunque, dà effettiva «evidenza a un fattore di bisogno rilevante in funzione del servizio erogato» (ancora sentenza n. 9 del 2021).

7.2.– Per le ragioni esposte, questa Corte ha più volte sostenuto, anche nella recente giurisprudenza (sentenze n. 145 e n. 77 del 2023, n. 44 del 2020 e n. 166 del 2018), e non può che ribadire, il carattere irragionevole del requisito della residenza quinquennale in un territorio regionale ai fini dell’accesso al beneficio dell’alloggio ERP.

Né l’esito è destinato a mutare sol perché la norma censurata diluisce nel tempo il criterio della residenza protratta nel territorio regionale, consentendo di maturare il requisito quinquennale nell’arco degli ultimi dieci anni.

Al contrario, la soluzione adottata dal legislatore veneto continua a rifarsi a un criterio di pregressa residenza prolungata nel territorio regionale – privo di alcuna correlazione con lo stato di bisogno e insensibile alla condizione di chi è costretto a muoversi proprio per effetto della sua condizione di fragilità economica – e non fa venire meno l’irragionevolezza del medesimo criterio.

Se, infatti, dalla protratta residenza passata non è dato inferire alcunché in merito alle prospettive future di stabilità, nemmeno assume valore indiziario, rispetto alle medesime prospettive, il comportamento di chi – pur sommando il quinquennio di residenza regionale nell’arco di dieci anni – si allontana dal territorio e, dunque, non mantiene con esso un rapporto costante neppure nella proiezione del passato.

Sennonché è proprio la pregressa e prolungata residenza, pur se verificabile nell’ambito di un più ampio arco temporale, a disegnare uno scenario privo di collegamento funzionale con la finalità di soddisfare il «bisogno abitativo» di «soggetti economicamente deboli» (ancora sentenza n. 145 del 2023).

8.– L’effetto dell’adozione di un criterio irragionevole rispetto alla ratio della prestazione sociale si traduce, dunque, nella violazione del principio di eguaglianza fra chi può o meno vantare una condizione – quella della prolungata residenza nel territorio regionale – del tutto dissociata dal suo stato di bisogno.

E questo chiaramente può riguardare tanto i cittadini italiani quanto gli stranieri, salvo potersi ulteriormente colorare di tratti discriminatori nei confronti di questi ultimi.

9.– Infine – come questa Corte ha già in passato evidenziato (sentenze n. 77 del 2023 e n. 44 del 2020) – il criterio della residenza protratta per accedere ai servizi sociali dell’ERP tradisce il principio di eguaglianza non solo rispetto al primo comma dell’art. 3 Cost., ma anche con riguardo al suo secondo comma, che affida alla Repubblica il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana».

Una norma che prevede quale criterio di accesso ai servizi dell’ERP la residenza protratta nel territorio regionale equivale, infatti, ad aggiungere agli ostacoli di fatto costituiti dal disagio economico e sociale un ulteriore e irragionevole ostacolo che allontana vieppiù le persone dal traguardo di conseguire una casa, tradendo l’ontologica destinazione sociale al soddisfacimento paritario del diritto all’abitazione della proprietà pubblica degli immobili ERP.

10.– In conclusione, l’art. 25, comma 2, lettera a), della legge reg. Veneto n. 39 del 2017 è costituzionalmente illegittimo, per violazione dei principi di ragionevolezza e di eguaglianza formale e sostanziale, di cui all’art. 3 Cost., nella parte in cui richiede che la residenza nel Veneto debba protrarsi da almeno cinque anni, anche non consecutivi e calcolati negli ultimi dieci anni.

Resta fermo il requisito della residenza anagrafica nel Veneto alla data di scadenza del bando di concorso.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, lettera a), della legge della Regione Veneto 3 novembre 2017, n. 39 (Norme in materia di edilizia residenziale pubblica), limitatamente alle parole «nel Veneto da almeno cinque anni, anche non consecutivi e calcolati negli ultimi dieci anni, fermo restando che il richiedente deve essere, comunque, residente».

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Emanuela NAVARRETTA, Redattrice

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 22 aprile 2024