Sentenza n. 166 del 2018

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SENTENZA N. 166

ANNO 2018

 

Commenti alla decisione di

 

I. Diletta Tega, Le politiche xenofobe continuano a essere incostituzionali, per g.c. di Diritti Regionali

 

III. Cecilia Corsi, La trilogia della Corte costituzionale: ancora sui requisiti di lungo-residenza per l’accesso alle prestazioni sociali, per g.c. del Foro di Quaderni Costituzionali

 

IV. Michele Belletti, La Corte costituzionale torna, in tre occasioni ravvicinate, sul requisito del radicamento territoriale per accedere ai servizi sociali. Un tentativo di delineare un quadro organico della giurisprudenza in argomento , per g.c. del Foro di Quaderni Costituzionali

 

 

 REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-      Giorgio                       LATTANZI                                       Presidente

-      Aldo                           CAROSI                                            Giudice

-      Marta                          CARTABIA                                              

-      Mario Rosario             MORELLI                                                 

-      Giancarlo                    CORAGGIO                                             

-      Giuliano                      AMATO                                                    

-      Silvana                        SCIARRA                                                 

-      Daria                           de PRETIS                                                

-      Nicolò                         ZANON                                                   

-      Franco                        MODUGNO                                             

-      Augusto Antonio       BARBERA                                               

-      Giulio                         PROSPERETTI                                         

-      Giovanni                     AMOROSO                                               

-      Francesco                    VIGANÒ                                                   

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 13, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, promosso dalla Corte d’appello di Milano, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra V.C. L. e altri e la Regione Lombardia e altro, con ordinanza del 7 novembre 2016, iscritta al n. 41 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visti gli atti di costituzione dell’ASGI - Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e altra, e della Regione Lombardia, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella udienza pubblica del 20 giugno 2018 il Giudice relatore Marta Cartabia;

uditi gli avvocati Alberto Guariso per l’ASGI - Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e altra, Maria Lucia Tamborino per la Regione Lombardia e l’avvocato dello Stato Giuseppe Albenzio per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 7 novembre 2016 (r.o. n. 41 del 2017), la Corte d’appello di Milano, sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 13, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, in riferimento all’art. 3 della Costituzione.

1.1.– La Corte rimettente è investita della causa civile in grado di appello avverso l’ordinanza del Tribunale ordinario di Milano, con la quale è stata rigettata la domanda proposta da V.C. L., dall’ASGI - Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e da Avvocati Per Niente Onlus, per l’accertamento del carattere discriminatorio della deliberazione della Giunta della Regione Lombardia «n. X/3495» del 30 aprile 2015 nonché delle determinazioni del Comune di Milano «PG n. 264079» dell’8 maggio 2015 e «n. 68/2015 - prot.» del 12 maggio 2015, nella parte in cui fissano i requisiti necessari per l’accesso al Fondo «sostegno affitti» (recte: «sostegno alla locazione 2015 per i cittadini in grave disagio economico»).

La Corte rimettente precisa che il Tribunale ha respinto la domanda, non avendo riscontrato il carattere discriminatorio delle condizioni di accesso al fondo di sostegno. A fondamento della decisione sono state richiamate alcune sentenze della Corte costituzionale (n. 187 del 2010 e n. 432 del 2005) con cui si è ammessa la possibilità di prevedere requisiti di accesso alle provvidenze sociali per i cittadini stranieri, nel rispetto del principio di ragionevolezza. Inoltre, nell’ordinanza impugnata sono stati richiamati l’art. 11 della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo e l’art. 9 del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo), che l’ha recepita nell’ordinamento italiano, per desumerne che l’assegno in questione avrebbe natura di misura di sostegno al reddito e non di prestazione assistenziale essenziale a carico dello Stato da garantirsi universalmente.

Il giudice a quo ha poi riferito che i ricorrenti, nell’appellare la suddetta decisione, hanno riproposto l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 11, commi 2 e 13, d.l. n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, nella legge n. 133 del 2008, per contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., già sollevata in primo grado. La Corte d’appello di Milano ha, quindi, ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione, ma limitatamente al citato art. 11, comma 13, e in riferimento al solo art. 3 Cost.

1.2.– Più precisamente, l’ordinanza di rimessione dà conto del fatto che la legge 9 dicembre 1998, n. 431 (Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo) ha istituito il «Fondo Nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione», che mira a sostenere, tramite contributi monetari, le famiglie meno abbienti gravate da canoni di locazione, senza operare distinzioni tra cittadini italiani e stranieri quanto alle possibilità di accesso al fondo medesimo. L’ordinanza espone poi che il citato d.l. n. 112 del 2008, come convertito, ha previsto, all’art. 11, comma 13, che «[a]i fini del riparto del Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione, di cui all’articolo 11 della legge 9 dicembre 1998, n. 431, i requisiti minimi necessari per beneficiare dei contributi integrativi come definiti ai sensi del comma 4 del medesimo articolo devono prevedere per gli immigrati il possesso del certificato storico di residenza da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima regione».

Così ricostruito il quadro normativo, nell’ordinanza di rimessione si osserva che l’impugnata delibera della Giunta della Regione Lombardia del 30 aprile 2015 è frutto di una iniziativa regionale finanziata dal fondo di cui alla legge n. 431 del 1998 a cui sono aggiunte risorse regionali, confluite nel «Fondo Sostegno "Grave Disagio Economico 2015”». Quanto ai criteri per l’accesso a tale fondo, la prodotta delibera ricalca (secondo la ricostruzione del rimettente) quelli previsti dal legislatore statale, come modificati nel 2008; sicché, all’art. 2 dell’Allegato all’impugnata delibera della Giunta regionale, si prevede che possano richiedere i contributi in questione i conduttori residenti nella Regione Lombardia che abbiano l’«indicatore della situazione economica equivalente» (ISEE) non superiore ad euro 7.000 e che, nel caso in cui i richiedenti non siano cittadini italiani o di altro Stato dell’Unione europea, sono condizioni di ammissione anche l’esercizio di un’attività lavorativa (subordinata o autonoma, pure non continuativa) e la certificazione della residenza almeno decennale nel territorio nazionale ovvero quinquennale nel territorio della Regione Lombardia.

La determinazione dirigenziale del Comune di Milano n. 68 del 2015 ha riprodotto i medesimi contenuti della delibera di Giunta regionale.

1.3.– Ciò premesso, la Corte rimettente osserva, in punto di rilevanza, che V.C. L., cittadina salvadoregna residente in Italia dal novembre 2011, non soddisfaceva i requisiti richiesti dalla normativa e perciò non ha potuto ricevere alcun contributo dal «Fondo Sostegno "Grave Disagio Economico 2015”» per il pagamento del canone di locazione, pur essendo titolare di un reddito molto basso e in possesso di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

Quanto al requisito dello svolgimento di attività lavorativa, previsto dalla delibera di Giunta regionale, ad avviso della Corte a quo esso non sarebbe supportato da alcuna fonte normativa di rango primario, nonostante la Regione sostenga di ricavarlo dall’interpretazione analogica di quanto previsto dall’art. 40, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nonché dai principi generali sulla condizione giuridica dello straniero. Conseguentemente, sarebbe possibile per il giudice comune procedere alla disapplicazione dell’atto secondario illegittimo, nella parte in cui stabilisce il suddetto requisito discriminatorio. Al contrario, l’ulteriore presupposto della residenza protratta per dieci anni sul territorio nazionale ovvero per cinque anni su quello regionale trova fondamento nel censurato art. 11, comma 13, d.l. n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, nella legge n. 133 del 2008: da qui la rilevanza della questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto tale norma, in quanto essa offrirebbe una base legale al provvedimento amministrativo discriminatorio oggetto di giudizio.

1.4.– Secondo la Corte rimettente la questione di legittimità costituzionale del citato art. 11, comma 13, sarebbe non manifestamente infondata in riferimento all’art. 3 Cost., per vizi di irragionevolezza. In particolare, il giudice a quo richiama alcune pronunce di questa Corte (sentenze n. 230 e n. 22 del 2015, n. 222, n. 172, n. 133, n. 40 e n. 2 del 2013, n. 329 e n. 40 del 2011 e n. 187 del 2010), nelle quali si trova l’affermazione del principio per cui i limiti alle prestazioni di assistenza devono sempre rispondere a criteri di ragionevolezza, indipendentemente dalla natura essenziale o meno delle stesse. Nella fattispecie, non vi sarebbe alcuna ragionevole correlazione tra la durata della residenza prevista dall’art. 11, comma 13, d.l. n. 112 del 2008, come convertito, e la situazione di disagio economico che il contributo in questione mira ad alleviare. Non sarebbe, infatti, ragionevole presumere, in assoluto, che gli immigrati che vivono in Italia da meno di dieci anni e nella Regione Lombardia da meno di cinque soffrano una condizione di disagio minore rispetto a chi vi risieda da più anni o sia cittadino europeo.

2.– Con atto depositato il 13 aprile 2017, si sono costituite nel giudizio di legittimità costituzionale le associazioni appellanti nel giudizio a quo, insistendo per l’accoglimento della sollevata questione di legittimità costituzionale.

In particolare, esse sostengono che la condizione della cosiddetta "lungo-residenza” prevista per i soli stranieri non è stata mai considerata costituzionalmente legittima dalla Corte costituzionale (sono richiamate le sentenze n. 230 e n. 22 del 2015, n. 168 del 2014, n. 222, n. 133, n. 40 e n. 2 del 2013, n. 329 e n. 40 del 2011, n. 187 del 2010).

La norma oggetto del giudizio costituzionale, in particolare, sarebbe illegittima poiché comporta una diversa valutazione del radicamento territoriale del richiedente la prestazione a seconda della cittadinanza dello stesso: un cittadino italiano, infatti, anche se residente sul territorio italiano o regionale da pochi mesi potrebbe accedere al beneficio, diversamente dal cittadino straniero. Le parti costituite sottolineano che una simile differenziazione di trattamento è stata censurata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nella decisione del caso Kamberaj (sentenza 24 aprile 2012, in causa C-571/10), vertente sulla esclusione dello straniero dall’accesso ad una prestazione di ugual natura rispetto a quella di cui si discute, nella quale la Corte di giustizia ha stabilito che la disciplina del contributo al pagamento del canone di locazione dei conduttori meno abbienti vada letta alla luce dell’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, che riconosce il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa.

3.– Con atto depositato il 14 aprile 2017, si è costituita in giudizio anche la Regione Lombardia, chiedendo che questa Corte dichiari inammissibile, o in subordine non fondata, la questione di legittimità costituzionale.

La Regione sostiene che la questione sarebbe inammissibile per omessa definizione della fattispecie in contenzioso e perché l’ordinanza di rimessione non argomenta adeguatamente con riguardo alla sua rilevanza e non manifesta infondatezza.

In particolare, la Regione nota che si ometterebbe di dar rilievo al fatto che quella in discussione non è una prestazione inerente al diritto fondamentale all’abitazione, come potrebbe essere l’accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica, ma si tratterebbe invece di un «ordinario contributo» di natura non assistenziale. A sostegno di tale assunto viene ricostruito il quadro normativo di riferimento e, segnatamente, si precisa che, con legge della Regione Lombardia 4 dicembre 2009, n. 27 (Testo unico delle leggi regionali in materia di edilizia residenziale pubblica), è stato istituito un fondo regionale, concorrente con quello nazionale previsto dalla legge n. 431 del 1998. Detto fondo regionale è finanziato dallo Stato (per il 50% circa), dalla Regione (per il 35% circa) e dai Comuni (per il 15% circa). I Comuni, ai sensi dell’art. 11, comma 8, legge n. 431 del 1998, definiscono l’entità e le modalità di erogazione dei contributi, nel rispetto dei requisiti minimi fissati dal Ministero per i lavori pubblici. Da ciò viene tratta la conclusione che la Regione – e poi il Comune – ben potrebbero prescrivere ulteriori requisiti di accesso, come accade nel caso di specie, in cui, peraltro, le condizioni stabilite dalla Regione trovano riscontro nelle previsioni della legge statale e in particolare nell’art. 11, comma 13, oggetto del presente giudizio.

Si eccepisce, dunque, l’assenza di argomentazioni sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale, contestandosi la ricostruzione del giudice a quo, secondo la quale la natura essenziale o meno del beneficio in discussione non inciderebbe sulla non manifesta infondatezza della questione stessa. Al contrario, la Regione ritiene che la differenza tra prestazioni essenziali o non essenziali rileva solamente all’interno della categoria delle prestazioni assistenziali, tra le quali il contributo al pagamento dei canoni di locazione non rientrerebbe. Come già affermato dal Tribunale ordinario di Milano in primo grado, infatti, detto contributo costituirebbe una «misura di sostegno al reddito» e non una «prestazione assistenziale». La Regione supporta la propria argomentazione mettendo in rilievo una sere di caratteristiche della prestazione in oggetto: si tratterebbe di una erogazione una tantum (e ciò verrebbe ammesso anche da parte appellante); mirerebbe a sostenere il conduttore, ma andrebbe a beneficio anche del locatore; si tratterebbe di un ammontare non pignorabile presso terzi e, dunque, non annoverabile tra i crediti alimentari, come precisato dalla giurisprudenza di merito; non sarebbe elencata tra quelle rientranti nei livelli essenziali ai sensi della legge 8 novembre 2000, n. 328 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali); non sarebbe in alcun modo destinata a far fronte a situazioni di grave difficoltà, altre essendo le provvidenze pubbliche precipuamente funzionali al sostegno nelle condizioni di indigenza, tanto che il fondo in questione non viene finanziato tutti gli anni.

L’ordinanza di rimessione si baserebbe, secondo la difesa regionale, su un erroneo presupposto interpretativo, poiché lascia intendere che la prestazione de qua avrebbe natura assistenziale.

Si sottolinea, inoltre, che, in base alla direttiva 2003/109/CE, «[g]li Stati membri possono limitare la parità di trattamento in materia di assistenza e protezione sociale alle prestazioni essenziali» (art. 11, paragrafo 4).

La stessa giurisprudenza costituzionale, infine, avrebbe interpretato l’art. 3 Cost. come norma che vieta differenziazioni laddove manchi una correlazione tra requisito richiesto e scopo perseguito dalla norma che prevede le prestazioni: nel caso di specie, sussisterebbe invece una correlazione tra la durata della permanenza sul territorio, il possesso di una regolare attività lavorativa e le finalità del cosiddetto "bonus affitti”.

4.– Con atto depositato il 18 aprile 2017, è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale venga «rigettata in quanto inammissibile» o, comunque, ritenuta non fondata.

4.1.– L’interveniente argomenta l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sostenendo che la Corte d’appello di Milano non ha chiesto né un intervento additivo né uno propriamente ablativo da parte della Corte costituzionale, prospettando semplicemente la necessità di una disciplina che non presuma «in termini assoluti che gli stranieri immigrati in Italia da meno di dieci anni e nella Regione da meno di cinque […] versino in uno stato di disagio e di difficoltà, ai fini delle fruizioni di quei contributi, minori rispetto a chi vi risieda da più anni». L’ordinanza di rimessione non indicherebbe, dunque, alcuna soluzione costituzionalmente obbligata, lasciando indeterminato il contenuto dell’intervento richiesto.

4.2.– Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato ha individuato i ruoli delle Regioni e dei Comuni nella concreta erogazione dei contributi del fondo istituito dalla legge n. 431 del 1998: in particolare, si sottolinea che il Comune rappresenta l’«organismo terminale nell’attuazione del sistema di sostegno all’accesso alle locazioni», come affermato da questa Corte nella sentenza n. 520 del 2000. Afferma poi l’Avvocatura generale dello Stato che il contributo ex art. 11 della legge n. 431 del 1998 non ha né struttura né finalità alimentare e sarebbe, invece, un «mero sussidio», ovvero una «elargizione a fondo perduto» – come definita dalla Corte dei conti, nella sentenza della Corte dei conti, sezione giurisdizionale per l’Umbria, 3 dicembre 2008, n. 193. L’Avvocatura generale dello Stato precisa, poi, che dopo l’entrata in vigore della disposizione impugnata, la Corte costituzionale ha analizzato «gran parte dei commi del citato art. 11» con la sentenza 121 del 2010, dichiarando in parte inammissibili e in parte non fondate le questioni inerenti i commi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 8, 9, 11 e 12.

Più precisamente, a sostegno della infondatezza, l’Avvocatura generale dello Stato richiama l’art. 40, comma 6, d.lgs. n. 286 del 1998, che si occupa proprio di diritti e doveri degli stranieri: la disposizione evocata, in tema di agevolazioni all’accesso alle locazioni abitative, effettua una delimitazione dei beneficiari dei contributi, in modo assimilabile alla normativa oggetto di giudizio. Sarebbe dunque possibile, entro i limiti consentiti dall’art. 11 direttiva 2003/109/CE, cui ha dato attuazione il d.lgs. n. 3 del 2007, e nel rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo costituzionalmente garantiti, riservare talune prestazioni assistenziali ai soli cittadini e alle persone «extra-UE» ad essi equiparati perché residenti in Italia da tempo. L’Avvocatura generale dello Stato ritiene comunque opportuno precisare, in questa prospettiva, che non solo gli stranieri vedono limitate le possibilità di accesso alle prestazioni, giacché anche per i cittadini italiani sono prescritti dei limiti: si può richiedere il contributo, ad esempio, solo se si è titolari di contratto di locazione di immobile utilizzato come residenza anagrafica e abitazione principale (art. 2 della citata delibera della Giunta della Regione Lombardia n. 3495 del 2015); è prescritto che «l’offerta di abitazioni di edilizia residenziale debba essere destinata prioritariamente a prima casa per determinate categorie di soggetti» (art. 11, comma 2, d.l. n.112 del 2008, come convertito). La legge prevederebbe, quindi, in modo non irragionevole, che l’erogazione di determinate prestazioni sia subordinata ad un titolo di legittimazione rappresentato dal soggiorno «non episodico e di non breve durata» nel territorio dello Stato.

5.– Con memoria depositata il 25 maggio 2018, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha insistito perché la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

In particolare, l’interveniente ha insistito sul fatto che la Corte costituzionale con la sentenza n. 121 del 2010 ha già ritenuto non illegittima la gran parte dei commi dell’impugnato art. 11 d.l. n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, nella legge n. 133 del 2008. Sulla base dei principi stabiliti in detta sentenza si dovrebbe, quindi, ritenere non fondata anche la questione sollevata sul comma 13 del citato art. 11, posto che entrambi i requisiti – cioè quelli della residenza e dell’esercizio di regolare attività lavorativa nel territorio (quest’ultimo con base legislativa negli artt. 3, comma 5, 4, comma 3, 5, e 40, comma 6, d.lgs. n. 286 del 1998) – non avrebbero natura discriminatoria, ma rappresenterebbero espressione dell’esigenza che lo straniero, cittadino di Stati non appartenenti all’Unione europea, sia stabilmente inserito nella compagine sociale italiana.

Il necessario e duraturo collegamento con la realtà territoriale sarebbe, poi, già stato considerato, quale base ragionevole di analoghe previsioni legislative, da questa Corte nella sentenza n. 306 del 2008. Del resto, tale collegamento sarebbe previsto anche per i cittadini italiani, in base alla delibera della Giunta della Regione Lombardia n. 3495 del 2015 e, in generale, per l’offerta di abitazioni di edilizia residenziale dal citato d.l. n. 112 del 2008. La duratura integrazione sociale dei cittadini di paesi terzi sarebbe poi coerente anche con la già citata direttiva 2003/109/CE.

Ad avviso dell’interveniente questa stessa Corte avrebbe riconosciuto che lo Stato può riservare determinate prestazioni assistenziali solo ai cittadini di Stati appartenenti all’Unione europea o a quelli appartenenti a paesi terzi che risiedano da lungo tempo in Italia, così da generare un nesso tra la partecipazione alla organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica e l’erogazione del contributo (vengono citate le sentenze n. 4 e n. 222 del 2013).

6.– Con memoria depositata il 30 maggio 2018, le parti ricorrenti nel giudizio a quo hanno svolto precisazioni ritenute necessarie alla luce della giurisprudenza di questa Corte successiva alla ordinanza di rimessione, oltre a richiamare argomenti già sviluppati in precedenza, insistendo per l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale.

In particolare, le parti costituite sostengono che non sia in alcun modo applicabile al caso in esame quanto affermato in ordine all’«accesso all’abitazione» nella recente sentenza n. 106 del 2018, ossia che «l’accesso a un bene di primaria importanza e a godimento tendenzialmente duraturo, come l’abitazione, per un verso, si colloca a conclusione del percorso di integrazione della persona presso la comunità locale e, per altro verso, può richiedere garanzie di stabilità, che, nell’ambito dell’assegnazione di alloggi pubblici in locazione, scongiurino avvicendamenti troppo ravvicinati tra conduttori, aggravando l’azione amministrativa e riducendone l’efficacia». I destinatari del fondo ex lege n. 431 del 1998, infatti, sono soggetti che hanno già avuto accesso all’abitazione: non rileva, dunque, l’esigenza di scongiurare avvicendamenti ravvicinati tra conduttori, bensì la circostanza che essi si trovino in difficoltà con il pagamento del canone di locazione. Rileva, insomma, solamente che siano soggetti in condizioni di grave disagio economico, come si evince dalla rubrica della delibera della Giunta regionale impugnata nel giudizio a quo (del seguente tenore: «[…] iniziativa di sostegno alla locazione 2015 per i cittadini in grave disagio economico») e come si deduce anche dalla previsione di «requisiti economici» per l’accesso al fondo, sia da parte del decreto del Ministero dei lavori pubblici e delle infrastrutture, 7 giugno 1999, che da parte della medesima delibera della Giunta regionale (che fissa il limite dell’ISEE non superiore a 7000 euro). Non sarebbe dunque possibile riscontrare una ragionevole correlazione tra il requisito della cittadinanza (che consente l’accesso alla prestazione indipendentemente dalla residenza prolungata sul territorio) e la ratio legis.

Le due associazioni aggiungono, poi, che la residenza protratta per così lunghi periodi di tempo è requisito contrastante anche con i diritti dei titolari di permesso di soggiorno di lungo periodo, i quali, pur godendo della parità di trattamento rispetto ai cittadini (viene citato l’art. 11 direttiva 2003/109/CE), qualora risiedessero da più di cinque anni (e meno di dieci) sul territorio nazionale, ma decidessero di spostarsi da una Regione all’altra, non potrebbero accedere alla provvidenza, non soddisfacendo «nessuno dei due requisiti alternativamente richiesti dalla norma». Le due associazioni osservano inoltre che la condizione appare illogica poiché, essendo il fondo finanziato con risorse statali, «il requisito della "stabilità regionale” è del tutto incongruo (non si vede quale interesse lo Stato possa vantare a che lo straniero permanga per più di cinque anni nella stessa Regione)»; mentre, per quanto riguarda la «stabilità nazionale» (certificato di residenza decennale), il requisito sarebbe «assolutamente sproporzionato».

La memoria evoca, in conclusione, la sentenza della Corte costituzionale n. 107 del 2018 nella parte in cui richiama la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: essa avrebbe affermato che il criterio per l’individuazione del collegamento col territorio non può essere «troppo esclusivo, potendo sussistere altri elementi rivelatori del nesso reale tra il richiedente e lo Stato». Nel caso in esame, in particolare, la già acquisita titolarità di un contratto di locazione esprimerebbe di per sé un «"nesso reale” che andrebbe valorizzato», così come la titolarità di un rapporto di lavoro o la presenza nel nucleo familiare di figli minori, «che tenderà anch’essa a ridurre la mobilità rafforzando il nesso reale con il territorio».

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 7 novembre 2016 (r.o. n. 41 del 2017), la Corte d’appello di Milano, sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 13, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, in riferimento all’art. 3 della Costituzione.

La norma censurata prevede che «[a]i fini del riparto del Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione, di cui all’articolo 11 della legge 9 dicembre 1998, n. 431, i requisiti minimi necessari per beneficiare dei contributi integrativi come definiti ai sensi del comma 4 del medesimo articolo devono prevedere per gli immigrati il possesso del certificato storico di residenza da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima regione».

Secondo la Corte rimettente questa previsione, a parità di condizioni di bisogno, discriminerebbe i cittadini dei Paesi non appartenenti all’Unione europea, in quanto richiederebbe solo per i questi ultimi un periodo di residenza sul territorio nazionale o regionale, senza che sia ravvisabile alcuna ragionevole correlazione tra la durata della residenza e l’accesso alla misura di sostegno al pagamento del canone di locazione.

2.– In via preliminare deve rilevarsi che si sono costituite nel giudizio costituzionale V.C. L., ASGI - Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, Avvocati Per Niente Onlus e la Regione Lombardia. Trattandosi delle parti del giudizio a quo, risulta pacifica, in base alla giurisprudenza di questa Corte, l’ammissibilità della loro costituzione nel giudizio incidentale.

3.– La Regione Lombardia ha eccepito l’inammissibilità della questione per difetto di motivazione dell’ordinanza di rimessione riguardo alla qualificazione giuridica del contributo di cui alla disposizione impugnata. Secondo la ricostruzione della Regione, infatti, tale contributo non avrebbe natura assistenziale e non costituirebbe una prestazione essenziale inerente alla garanzia del diritto fondamentale all’abitazione, come invece presuppone il giudice a quo.

L’eccezione non è fondata.

Va osservato in proposito che il giudice rimettente, esponendo e richiamando svariate decisioni di questa Corte a sostegno della propria tesi, assume una precisa e argomentata posizione in ordine alla natura assistenziale del «sostegno alla locazione dei cittadini in grave disagio economico». L’ordinanza osserva che, nello stabilire i requisiti per l’accesso a tale prestazione e indipendentemente dal fatto che ad essa debba essere riconosciuto carattere «essenziale», il legislatore deve rispettare i canoni della ragionevolezza: tali canoni nella specie si ritengono violati, in quanto non si potrebbe ravvisare alcuna ragionevole correlazione tra la durata della residenza prevista dalla disposizione impugnata per i soli immigrati e la situazione di disagio economico che il contributo in questione mira ad alleviare. Inoltre, la Corte rimettente espone chiaramente che il requisito di durata della residenza, della cui legittimità si dubita, trova il proprio fondamento legislativo nella disposizione censurata, sicché solo in seguito alla (eventuale) dichiarazione di illegittimità costituzionale di tale disposizione si potrà procedere alla disapplicazione degli atti amministrativi che tali requisiti riproducono.

L’ordinanza di rimessione non presenta, dunque, le lamentate carenze di motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza, di tal che le obiezioni della Regione Lombardia non attengono all’ammissibilità della questione, ma semmai alla sua fondatezza nel merito.

4.– Sempre in punto di ammissibilità, il Presidente del Consiglio dei ministri ha da parte sua eccepito difetti del petitum. Il giudice rimettente non avrebbe chiesto a questa Corte né un intervento additivo, né uno propriamente ablativo, prospettando semplicemente la necessità di una disciplina che «non presuma in termini assoluti che gli stranieri immigrati in Italia da meno di dieci anni e nella Regione da meno di cinque […] versino in uno stato di disagio e di difficoltà, ai fini delle fruizioni di quei contributi, minori rispetto a chi vi risieda da più anni». Sicché, da un lato l’ordinanza di rimessione lascerebbe indeterminato il contenuto dell’intervento richiesto alla Corte costituzionale; e dall’altro, una disciplina sostitutiva non potrebbe essere introdotta dalla Corte in assenza di contenuti costituzionalmente obbligati, dato che l’intervento inciderebbe in una materia riservata alla discrezionalità e alla responsabilità politica del legislatore.

Anche questa eccezione non è fondata.

Il giudice a quo, infatti, non sollecita un intervento sostitutivo di questa Corte che introduca una nuova disciplina in tema di requisiti di accesso al citato fondo di sostegno ai canoni di locazione. L’ordinanza lamenta, invece, una violazione dell’art. 3 Cost., in quanto la disposizione impugnata reca una irragionevole discriminazione tra gli aspiranti alla provvidenza, a danno dei soli cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione europea, per i quali soltanto è richiesta una residenza qualificata: la richiesta rivolta a questa Corte è chiara e prospetta un petitum che mira ad eliminare tale discriminazione attraverso una mera ablazione.

5. Nel merito la questione è fondata per le ragioni di seguito precisate.

5.1.– Il sostegno alle abitazioni in locazione è stato istituito dall’art. 11 della legge 9 dicembre 1998, n. 431 (Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo) e consiste in un contributo destinato al pagamento del canone, da erogarsi a soggetti che si trovino in una situazione di indigenza qualificata.

Più precisamente, l’art. 11, legge n. 431 del 1998 stabilisce che «[p]resso il Ministero dei lavori pubblici è istituito il Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione, la cui dotazione annua è determinata dalla legge finanziaria […]» (comma 1) e che «[l]e somme assegnate al Fondo di cui al comma 1 sono utilizzate per la concessione, ai conduttori aventi i requisiti minimi individuati con le modalità di cui al comma 4, di contributi integrativi per il pagamento dei canoni di locazione dovuti ai proprietari degli immobili, di proprietà sia pubblica sia privata, nonché, qualora le disponibilità del Fondo lo consentano, per sostenere le iniziative intraprese dai comuni anche attraverso la costituzione di agenzie o istituti per la locazione o attraverso attività di promozione in convenzione con cooperative edilizie per la locazione, tese a favorire la mobilità nel settore della locazione attraverso il reperimento di alloggi da concedere in locazione per periodi determinati» (comma 3).

Il richiamato comma 4 dell’art. 11 della medesima legge n. 431 del 1998 precisa che «[i]l Ministro dei lavori pubblici, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, definisce, con proprio decreto, i requisiti minimi necessari per beneficiare dei contributi integrativi di cui al comma 3 e i criteri per la determinazione dell’entità dei contributi stessi in relazione al reddito familiare e all’incidenza sul reddito medesimo del canone di locazione».

In esecuzione della disposizione da ultimo richiamata, il decreto del Ministero dei lavori pubblici e delle infrastrutture, 7 giugno 1999, recante appunto i «[r]equisiti minimi dei conduttori per beneficiare dei contributi integrativi a valere sulle risorse assegnate al Fondo nazionale di sostegno per l’accesso alle abitazioni in locazione di cui all’art. 11 della legge 9 dicembre 1998, n. 431, e criteri per la determinazione degli stessi», prevede, all’art. 1, la compilazione di una graduatoria comunale secondo determinati criteri reddituali, costituiti per ciascun nucleo familiare richiedente da: «a) reddito annuo imponibile complessivo non superiore a due pensioni minime INPS, rispetto al quale l’incidenza del canone di locazione risulti non inferiore al 14 per cento; b) reddito annuo imponibile complessivo non superiore a quello determinato dalle regioni e dalle province autonome di Trento e Bolzano per l’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, rispetto al quale l’incidenza del canone di locazione risulti non inferiore al 24 per cento». L’ammontare dei redditi da assumere a riferimento è quello risultante dall’ultima dichiarazione dei redditi ed il valore dei canoni è quello risultante dai contratti di locazione regolarmente registrati, al netto degli oneri accessori. All’art. 2, si stabilisce poi che le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano ed i Comuni, qualora concorrano con propri fondi ad incrementare le risorse attribuite dal fondo nazionale, possono stabilire ulteriori articolazioni delle classi di reddito o soglie di incidenze del canone più favorevoli (comma 1); che «i comuni fissano l’entità dei contributi secondo un principio di gradualità che favorisca i nuclei familiari con redditi bassi e con elevate soglie di incidenza del canone» (comma 3); e che si tenga conto della presenza nel nucleo familiare di «ultra sessantacinquenni, disabili o […] altre analoghe situazioni di particolare debolezza sociale» (comma 4).

5.2.– In origine, dunque, i destinatari del contributo erano tutti i «conduttori», titolari di un contratto di locazione registrato, che, per basso reddito ed elevate soglie di incidenza del canone, potessero ritenersi in una situazione di indigenza tale da non disporre di risorse sufficienti a sostenere l’onere del pagamento dell’ammontare dovuto per l’abitazione. Né la legge, né il decreto ministeriale prevedevano distinzioni tra cittadini e stranieri e neppure menzionavano requisiti legati alla durata della residenza sul territorio nazionale e regionale, ma individuavano solo criteri di carattere economico, tali da riservare la distribuzione del fondo a soggetti seriamente disagiati.

Il legislatore intendeva, dunque, rivolgersi a situazioni di così grave bisogno da compromettere la fruizione di un bene di primaria importanza qual è l’abitazione.

È pur vero che il contributo in oggetto si distingue da altre misure affini, quale ad esempio l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, che soddisfa direttamente ed esclusivamente l’esigenza abitativa degli indigenti. Il sostegno al pagamento del canone di locazione di alloggi, di proprietà sia pubblica sia privata, qui in discussione, soddisfa varie esigenze e reca beneficio a vari soggetti: senz’altro al conduttore indigente e ai suoi bisogni abitativi, concorrendo alla spesa per la casa in situazioni di contingente povertà economica; al locatore, che viene tutelato dai rischi di morosità dei conduttori; alla pubblica amministrazione, sopperendo alle eventuali insufficienze nell’offerta di alloggi di edilizia residenziale pubblica. Si tratta, perciò di prestazione polifunzionale (sentenza n. 329 del 2011), suscettibile di essere finanziata in modo variabile e discontinuo, in ragione di valutazioni politiche circa la necessità della sua erogazione, nell’an e nel quantum.

La circostanza che plurime siano le esigenze che il contributo può soddisfare non esclude che tra queste ve ne siano di decisive per chi versi in una situazione di indigenza, sì da incontrare gravi difficoltà nel corrispondere il canone di locazione per la casa.

Non è di ostacolo a riconoscere che il sostegno al canone è volto a sostenere gli indigenti e a contrastare la povertà il fatto che tale beneficio sociale sia destinato a soggetti già titolari di un contratto di locazione (art. 11, comma 2, legge n. 431 del 1998): le difficoltà economiche possono manifestarsi successivamente alla locazione e in ogni caso l’erogazione del contributo è subordinata al verificarsi di documentate situazioni di povertà.

Si tratta, quindi, di una misura polifunzionale la cui ratio è quella di sostenere gli indigenti al fine di consentire loro di soddisfare le esigenze abitative mediante ricorso al mercato e prevenire il rischio di sfratti per morosità.

5.3.– Dieci anni dopo l’istituzione del fondo, il d.l. n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, nella legge n. 133 del 2008, ha introdotto una distinzione tra i conduttori beneficiari, richiedendo requisiti ulteriori, per accedere ai fondi, ai soli cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea e agli apolidi. In particolare, il censurato art. 11, comma 13, del citato d.l. stabilisce che «[a]i fini del riparto del Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione, di cui all’articolo 11 della legge n. 431 del 1998, i requisiti minimi necessari per beneficiare dei contributi integrativi come definiti ai sensi del comma 4 del medesimo articolo devono prevedere per gli immigrati il possesso del certificato storico di residenza da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima regione».

Il requisito aggiuntivo della residenza qualificata è dunque richiesto, come si desume dall’inequivoco testo letterale della disposizione, per i soli «immigrati», vale a dire per i cittadini di paesi non appartenenti all’Unione europea e per gli apolidi: la nozione di immigrato e di immigrazione si ricava dal relativo testo unico – decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), anteriore alla stessa legge istitutiva del Fondo nazionale in esame – e, segnatamente, dal Titolo I, contenente i «Principi generali» e dallo stesso art. 1, che definisce l’ambito di applicazione della disciplina sull’immigrazione come rivolta «ai cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea e agli apolidi, di seguito indicati come stranieri».

Per quanto riguarda, infatti, i cittadini degli Stati membri dell’Unione europea si applica, a seguito degli Accordi di Schengen e del Trattato di Maastricht, l’istituto della «cittadinanza europea», che comprende il diritto di soggiorno e circolazione in tutto il territorio dell’Unione europea – secondo le condizioni stabilite con la direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE – e non il testo unico sull’immigrazione.

Il censurato art. 11, comma 13, prevede, dunque, solo per gli «immigrati» una certa durata della residenza, tanto a livello nazionale quanto in territorio regionale; per i cittadini italiani ed europei tale requisito non è richiesto, mentre restano fermi i criteri di carattere economico e l’attestazione di un contratto di locazione registrato, come si desume dall’art. 2 della citata legge n. 431 del 1998.

6.– Alla luce di quanto sopra esposto, risulta che la disposizione censurata introduce una irragionevole discriminazione a danno dei cittadini di paesi non appartenenti all’Unione europea, richiedendo solo ad essi il possesso del certificato storico di residenza da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima regione.

Invero, secondo la giurisprudenza di questa Corte, consolidatasi a partire dalla sentenza n. 432 del 2005, il legislatore può legittimamente circoscrivere la platea dei beneficiari delle prestazioni sociali in ragione della limitatezza delle risorse destinate al loro finanziamento (sentenza n. 133 del 2013). Tuttavia, la scelta legislativa non è esente da vincoli di ordine costituzionale.

La legge deve anzitutto rispettare gli obblighi europei che, anche per quanto riguarda le prestazioni sociali, esigono la parità di trattamento tra i cittadini italiani ed europei e i soggiornanti di lungo periodo. In particolare, la direttiva 2003/109/CE, del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, riconosce lo status di soggiornante di lungo periodo ai cittadini di paesi terzi che risiedano regolarmente in uno Stato membro da almeno cinque anni (art. 4); prevede poi che i soggiornanti di lungo periodo siano equiparati ai cittadini dello Stato membro in cui si trovano ai fini, tra l’altro, del godimento dei servizi e prestazioni sociali (art. 11). Con l’art. 1 del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo) è stato poi modificato l’art. 9 d.lgs. n. 286 del 1998, che ora riconosce al cittadino di un paese terzo la possibilità di ottenere, nel rispetto dei requisiti di legge, lo status di soggiornante di lungo periodo (che gli viene riconosciuto dal questore mediante il rilascio di uno specifico permesso di soggiorno), con ciò acquisendo il diritto di partecipare alla prestazioni di assistenza in condizioni di parità con i cittadini.

Inoltre, ogni norma che imponga distinzioni fra varie categorie di persone in ragione della cittadinanza e della residenza per regolare l’accesso alle prestazioni sociali deve pur sempre rispondere al principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. Come ha recentemente ribadito questa Corte, tale principio può ritenersi rispettato solo qualora esista una «causa normativa» della differenziazione, che sia «giustificata da una ragionevole correlazione tra la condizione cui è subordinata l’attribuzione del beneficio e gli altri peculiari requisiti che ne condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio» (sentenza n. 107 del 2018). Una simile ragionevole causa normativa può in astratto consistere nella richiesta di un titolo che dimostri il carattere non episodico o di breve durata della permanenza sul territorio dello Stato: anche in questi casi, peraltro, occorre pur sempre che sussista una ragionevole correlazione tra la richiesta e le situazioni di bisogno o di disagio, in vista delle quali le singole prestazioni sono state previste (sentenza n. 133 del 2013).

Infine, ma non è questo il caso, occorre che la distinzione non si traduca mai nell’esclusione del non cittadino dal godimento dei diritti fondamentali che attengono ai «bisogni primari» della persona, indifferenziabili e indilazionabili, riconosciuti invece ai cittadini (come precisato in progresso di tempo, ad esempio, dalle sentenze n. 306 del 2008, n. 187 del 2010, n. 2, n. 40 e n. 172 del 2013, n. 22 e n. 230 del 2015, n. 107 del 2018).

Più specificamente, in relazione al requisito della residenza qualificata, questa Corte con la sentenza n. 222 del 2013 ha ritenuto che le politiche sociali dirette al soddisfacimento dei bisogni abitativi possono prendere in considerazione un radicamento territoriale ulteriore rispetto alla semplice residenza, purché contenuto in limiti non palesemente arbitrari o irragionevoli.

7.– Alla luce di tali principi, deve ritenersi che dieci anni di residenza sul territorio nazionale o cinque anni sul territorio regionale – richiesti dal censurato art. 11, comma 13, d.l. n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, nella legge n. 133 del 2008 – costituiscano una durata palesemente irragionevole e arbitraria, oltre che non rispettosa dei vincoli europei, al fine dell’accesso al contributo al pagamento del canone di locazione da parte degli stranieri cittadini di paesi terzi non appartenenti all’Unione europea, così da violare il dedotto parametro costituzionale di cui all’art. 3 Cost.

In primo luogo, la disposizione attinge gli estremi dell’irrazionalità intrinseca nella parte in cui esige una residenza protratta per dieci anni sul territorio nazionale, dato che tale termine coincide con quello necessario e sufficiente a richiedere la cittadinanza italiana ai sensi dell’art. 9, comma 1, lettera f), della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza). In ogni caso, tale previsione contrasta con la richiamata direttiva 2003/109/CE che prevede come regola l’equiparazione tra cittadini e soggiornanti di lungo periodo, condizione quest’ultima che – come si è detto – si può ottenere dopo cinque anni di permanenza sul territorio di uno Stato membro.

In secondo luogo, anche il termine di cinque anni nel territorio regionale risulta palesemente irragionevole e sproporzionato, considerato che i fondi sono stati istituiti dal legislatore in un contesto normativo volto anche a «favorire la mobilità nel settore della locazione attraverso il reperimento di alloggi da concedere in locazione per periodi determinati» (art. 11, comma 3, legge n. 431 del 1998) e, dunque, per esigenze transitorie, relative a periodi limitati, che sarebbero frustrate dalla richiesta di una permanenza addirittura quinquennale.

Inoltre, trattandosi di una provvidenza che, alla luce della scarsità delle risorse destinabili alle politiche sociali nell’attuale contesto storico, viene riservata a casi di vera e propria indigenza, non si può ravvisare alcuna ragionevole correlazione tra il soddisfacimento dei bisogni abitativi primari della persona che versi in condizioni di povertà e sia insediata nel territorio regionale, e la lunga protrazione nel tempo di tale radicamento territoriale (sentenze n. 222 del 2013, n. 40 del 2011 e n. 187 del 2010). D’altra parte, questa Corte ha recentemente dichiarato l’illegittimità costituzionale di una legge regionale che richiedeva una residenza di lunga durata (dieci anni) per l’accesso all’edilizia residenziale pubblica (sentenza n. 106 del 2018).

Tutti questi indici normativi e giurisprudenziali, relativi e attuativi anche di precisi obblighi assunti dallo Stato nel contesto dell’Unione europea, confermano che la previsione di un requisito di residenza decennale nel territorio dello Stato e quinquennale in quello della Regione risulta sproporzionato e perciò irragionevole, oltre che non rispettoso dei predetti obblighi europei.

8.– Alle luce delle osservazioni che precedono, pertanto, il censurato art. 11, comma 13, deve essere dichiarato illegittimo per violazione dell’art. 3 Cost.

Resta ferma ovviamente la possibilità che il legislatore individui altri indici di radicamento territoriale e sociale a cui subordinare l’erogazione del sostegno al canone di locazione ed altri sussidi per l’alloggio, nei limiti imposti dal principio di non discriminazione e di ragionevolezza, come sopra enunciati.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 11, comma 13, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 giugno 2018.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Marta CARTABIA, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 20 luglio 2018.