SENTENZA N. 166
ANNO 2018
Commenti
alla decisione di
I. Diletta Tega, Le
politiche xenofobe continuano a essere incostituzionali, per g.c. di Diritti
Regionali
III. Cecilia Corsi, La
trilogia della Corte costituzionale: ancora sui requisiti di lungo-residenza
per l’accesso alle prestazioni sociali, per g.c.
del Foro di Quaderni
Costituzionali
IV. Michele Belletti, La
Corte costituzionale torna, in tre occasioni ravvicinate, sul requisito del
radicamento territoriale per accedere ai servizi sociali. Un tentativo di
delineare un quadro organico della giurisprudenza in argomento , per g.c. del Foro di Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI
Presidente
- Aldo CAROSI
Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANÒ ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità
costituzionale dell’art. 11, comma 13, del decreto-legge
25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e
la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6
agosto 2008, n. 133, promosso dalla Corte d’appello di Milano, sezione
lavoro, nel procedimento vertente tra V.C. L. e altri e la Regione Lombardia e
altro, con ordinanza
del 7 novembre 2016, iscritta al n. 41 del registro ordinanze 2017 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale,
dell’anno 2017.
Visti gli atti di costituzione
dell’ASGI - Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e altra, e
della Regione Lombardia, nonché l’atto di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito nella udienza pubblica del
20 giugno 2018 il Giudice relatore Marta Cartabia;
uditi gli avvocati Alberto Guariso per l’ASGI - Associazione
per gli studi giuridici sull’immigrazione e altra, Maria Lucia Tamborino per la Regione Lombardia e l’avvocato dello Stato
Giuseppe Albenzio per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 7
novembre 2016 (r.o. n. 41 del 2017), la Corte d’appello
di Milano, sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale
dell’art. 11, comma 13, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni
urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la
stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria),
convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, in
riferimento all’art.
3 della Costituzione.
1.1.– La Corte rimettente è
investita della causa civile in grado di appello avverso l’ordinanza del
Tribunale ordinario di Milano, con la quale è stata rigettata la domanda
proposta da V.C. L., dall’ASGI - Associazione per gli studi giuridici
sull’immigrazione e da Avvocati Per Niente Onlus, per l’accertamento del
carattere discriminatorio della deliberazione della Giunta della Regione
Lombardia «n. X/3495» del 30 aprile 2015 nonché delle determinazioni del Comune
di Milano «PG n. 264079» dell’8 maggio 2015 e «n. 68/2015 - prot.» del 12
maggio 2015, nella parte in cui fissano i requisiti necessari per l’accesso al
Fondo «sostegno affitti» (recte: «sostegno alla
locazione 2015 per i cittadini in grave disagio economico»).
La Corte rimettente precisa
che il Tribunale ha respinto la domanda, non avendo riscontrato il carattere
discriminatorio delle condizioni di accesso al fondo di sostegno. A fondamento
della decisione sono state richiamate alcune sentenze della Corte
costituzionale (n. 187 del 2010 e n. 432 del 2005) con cui si è ammessa la
possibilità di prevedere requisiti di accesso alle provvidenze sociali per i
cittadini stranieri, nel rispetto del principio di ragionevolezza. Inoltre,
nell’ordinanza impugnata sono stati richiamati l’art. 11 della direttiva
2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei
cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo e l’art. 9 del
decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva
2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di
lungo periodo), che l’ha recepita nell’ordinamento italiano, per desumerne che
l’assegno in questione avrebbe natura di misura di sostegno al reddito e non di
prestazione assistenziale essenziale a carico dello Stato da garantirsi
universalmente.
Il giudice a quo ha poi
riferito che i ricorrenti, nell’appellare la suddetta decisione, hanno
riproposto l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 11, commi 2 e
13, d.l. n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, nella legge n. 133 del
2008, per contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., già sollevata in
primo grado. La Corte d’appello di Milano ha, quindi, ritenuto rilevante e non
manifestamente infondata la questione, ma limitatamente al citato art. 11, comma
13, e in riferimento al solo art. 3 Cost.
1.2.– Più precisamente,
l’ordinanza di rimessione dà conto del fatto che la legge 9 dicembre 1998, n.
431 (Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso
abitativo) ha istituito il «Fondo Nazionale per il sostegno all’accesso alle
abitazioni in locazione», che mira a sostenere, tramite contributi monetari, le
famiglie meno abbienti gravate da canoni di locazione, senza operare
distinzioni tra cittadini italiani e stranieri quanto alle possibilità di
accesso al fondo medesimo. L’ordinanza espone poi che il citato d.l. n. 112 del
2008, come convertito, ha previsto, all’art. 11, comma 13, che «[a]i fini del
riparto del Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle abitazioni in
locazione, di cui all’articolo 11 della legge 9 dicembre 1998, n. 431, i
requisiti minimi necessari per beneficiare dei contributi integrativi come
definiti ai sensi del comma 4 del medesimo articolo devono prevedere per gli
immigrati il possesso del certificato storico di residenza da almeno dieci anni
nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima regione».
Così ricostruito il quadro
normativo, nell’ordinanza di rimessione si osserva che l’impugnata delibera
della Giunta della Regione Lombardia del 30 aprile 2015 è frutto di una
iniziativa regionale finanziata dal fondo di cui alla legge n. 431 del 1998 a
cui sono aggiunte risorse regionali, confluite nel «Fondo Sostegno "Grave
Disagio Economico 2015”». Quanto ai criteri per l’accesso a tale fondo, la
prodotta delibera ricalca (secondo la ricostruzione del rimettente) quelli
previsti dal legislatore statale, come modificati nel 2008; sicché, all’art. 2
dell’Allegato all’impugnata delibera della Giunta regionale, si prevede che
possano richiedere i contributi in questione i conduttori residenti nella
Regione Lombardia che abbiano l’«indicatore della situazione economica
equivalente» (ISEE) non superiore ad euro 7.000 e che, nel caso in cui i
richiedenti non siano cittadini italiani o di altro Stato dell’Unione europea,
sono condizioni di ammissione anche l’esercizio di un’attività lavorativa
(subordinata o autonoma, pure non continuativa) e la certificazione della
residenza almeno decennale nel territorio nazionale ovvero quinquennale nel
territorio della Regione Lombardia.
La determinazione
dirigenziale del Comune di Milano n. 68 del 2015 ha riprodotto i medesimi
contenuti della delibera di Giunta regionale.
1.3.– Ciò premesso, la
Corte rimettente osserva, in punto di rilevanza, che V.C. L., cittadina
salvadoregna residente in Italia dal novembre 2011, non soddisfaceva i
requisiti richiesti dalla normativa e perciò non ha potuto ricevere alcun
contributo dal «Fondo Sostegno "Grave Disagio Economico 2015”» per il pagamento
del canone di locazione, pur essendo titolare di un reddito molto basso e in
possesso di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
Quanto al requisito dello
svolgimento di attività lavorativa, previsto dalla delibera di Giunta
regionale, ad avviso della Corte a quo esso non sarebbe supportato da alcuna
fonte normativa di rango primario, nonostante la Regione sostenga di ricavarlo
dall’interpretazione analogica di quanto previsto dall’art. 40, comma 6, del
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo Unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero), nonché dai principi generali sulla condizione giuridica dello
straniero. Conseguentemente, sarebbe possibile per il giudice comune procedere
alla disapplicazione dell’atto secondario illegittimo, nella parte in cui
stabilisce il suddetto requisito discriminatorio. Al contrario, l’ulteriore
presupposto della residenza protratta per dieci anni sul territorio nazionale
ovvero per cinque anni su quello regionale trova fondamento nel censurato art.
11, comma 13, d.l. n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, nella legge
n. 133 del 2008: da qui la rilevanza della questione di legittimità
costituzionale avente ad oggetto tale norma, in quanto essa offrirebbe una base
legale al provvedimento amministrativo discriminatorio oggetto di giudizio.
1.4.– Secondo la Corte
rimettente la questione di legittimità costituzionale del citato art. 11, comma
13, sarebbe non manifestamente infondata in riferimento all’art. 3 Cost., per
vizi di irragionevolezza. In particolare, il giudice a quo richiama alcune
pronunce di questa Corte (sentenze n. 230
e n. 22 del 2015,
n. 222, n. 172, n. 133, n. 40 e n. 2 del 2013, n. 329 e n. 40 del 2011
e n. 187 del
2010), nelle quali si trova l’affermazione del principio per cui i limiti
alle prestazioni di assistenza devono sempre rispondere a criteri di
ragionevolezza, indipendentemente dalla natura essenziale o meno delle stesse.
Nella fattispecie, non vi sarebbe alcuna ragionevole correlazione tra la durata
della residenza prevista dall’art. 11, comma 13, d.l. n. 112 del 2008, come
convertito, e la situazione di disagio economico che il contributo in questione
mira ad alleviare. Non sarebbe, infatti, ragionevole presumere, in assoluto,
che gli immigrati che vivono in Italia da meno di dieci anni e nella Regione
Lombardia da meno di cinque soffrano una condizione di disagio minore rispetto
a chi vi risieda da più anni o sia cittadino europeo.
2.– Con atto depositato il
13 aprile 2017, si sono costituite nel giudizio di legittimità costituzionale
le associazioni appellanti nel giudizio a quo, insistendo per l’accoglimento
della sollevata questione di legittimità costituzionale.
In particolare, esse
sostengono che la condizione della cosiddetta "lungo-residenza” prevista per i
soli stranieri non è stata mai considerata costituzionalmente legittima dalla
Corte costituzionale (sono richiamate le sentenze n. 230
e n. 22 del 2015,
n. 168 del 2014,
n. 222, n. 133, n. 40 e n. 2 del 2013, n. 329 e n. 40 del 2011,
n. 187 del 2010).
La norma oggetto del
giudizio costituzionale, in particolare, sarebbe illegittima poiché comporta
una diversa valutazione del radicamento territoriale del richiedente la
prestazione a seconda della cittadinanza dello stesso: un cittadino italiano,
infatti, anche se residente sul territorio italiano o regionale da pochi mesi
potrebbe accedere al beneficio, diversamente dal cittadino straniero. Le parti
costituite sottolineano che una simile differenziazione di trattamento è stata
censurata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nella decisione del caso
Kamberaj (sentenza
24 aprile 2012, in causa C-571/10), vertente sulla esclusione dello
straniero dall’accesso ad una prestazione di ugual natura rispetto a quella di
cui si discute, nella quale la Corte di giustizia ha stabilito che la
disciplina del contributo al pagamento del canone di locazione dei conduttori
meno abbienti vada letta alla luce dell’art. 34 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e
adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, che riconosce il diritto
all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa.
3.– Con atto depositato il
14 aprile 2017, si è costituita in giudizio anche la Regione Lombardia,
chiedendo che questa Corte dichiari inammissibile, o in subordine non fondata,
la questione di legittimità costituzionale.
La Regione sostiene che la
questione sarebbe inammissibile per omessa definizione della fattispecie in
contenzioso e perché l’ordinanza di rimessione non argomenta adeguatamente con
riguardo alla sua rilevanza e non manifesta infondatezza.
In particolare, la Regione
nota che si ometterebbe di dar rilievo al fatto che quella in discussione non è
una prestazione inerente al diritto fondamentale all’abitazione, come potrebbe
essere l’accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica, ma si
tratterebbe invece di un «ordinario contributo» di natura non assistenziale. A
sostegno di tale assunto viene ricostruito il quadro normativo di riferimento
e, segnatamente, si precisa che, con legge della Regione Lombardia 4 dicembre
2009, n. 27 (Testo unico delle leggi regionali in materia di edilizia
residenziale pubblica), è stato istituito un fondo regionale, concorrente con
quello nazionale previsto dalla legge n. 431 del 1998. Detto fondo regionale è
finanziato dallo Stato (per il 50% circa), dalla Regione (per il 35% circa) e
dai Comuni (per il 15% circa). I Comuni, ai sensi dell’art. 11, comma 8, legge
n. 431 del 1998, definiscono l’entità e le modalità di erogazione dei
contributi, nel rispetto dei requisiti minimi fissati dal Ministero per i
lavori pubblici. Da ciò viene tratta la conclusione che la Regione – e poi il
Comune – ben potrebbero prescrivere ulteriori requisiti di accesso, come accade
nel caso di specie, in cui, peraltro, le condizioni stabilite dalla Regione
trovano riscontro nelle previsioni della legge statale e in particolare
nell’art. 11, comma 13, oggetto del presente giudizio.
Si eccepisce, dunque,
l’assenza di argomentazioni sulla rilevanza della questione di legittimità
costituzionale, contestandosi la ricostruzione del giudice a quo, secondo la
quale la natura essenziale o meno del beneficio in discussione non inciderebbe
sulla non manifesta infondatezza della questione stessa. Al contrario, la
Regione ritiene che la differenza tra prestazioni essenziali o non essenziali
rileva solamente all’interno della categoria delle prestazioni assistenziali,
tra le quali il contributo al pagamento dei canoni di locazione non
rientrerebbe. Come già affermato dal Tribunale ordinario di Milano in primo
grado, infatti, detto contributo costituirebbe una «misura di sostegno al
reddito» e non una «prestazione assistenziale». La Regione supporta la propria
argomentazione mettendo in rilievo una sere di caratteristiche della
prestazione in oggetto: si tratterebbe di una erogazione una tantum (e ciò
verrebbe ammesso anche da parte appellante); mirerebbe a sostenere il
conduttore, ma andrebbe a beneficio anche del locatore; si tratterebbe di un
ammontare non pignorabile presso terzi e, dunque, non annoverabile tra i
crediti alimentari, come precisato dalla giurisprudenza di merito; non sarebbe
elencata tra quelle rientranti nei livelli essenziali ai sensi della legge 8
novembre 2000, n. 328 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato
di interventi e servizi sociali); non sarebbe in alcun modo destinata a far
fronte a situazioni di grave difficoltà, altre essendo le provvidenze pubbliche
precipuamente funzionali al sostegno nelle condizioni di indigenza, tanto che
il fondo in questione non viene finanziato tutti gli anni.
L’ordinanza di rimessione
si baserebbe, secondo la difesa regionale, su un erroneo presupposto
interpretativo, poiché lascia intendere che la prestazione de qua avrebbe
natura assistenziale.
Si sottolinea, inoltre,
che, in base alla direttiva 2003/109/CE, «[g]li Stati membri possono limitare
la parità di trattamento in materia di assistenza e protezione sociale alle
prestazioni essenziali» (art. 11, paragrafo 4).
La stessa giurisprudenza
costituzionale, infine, avrebbe interpretato l’art. 3 Cost. come norma che
vieta differenziazioni laddove manchi una correlazione tra requisito richiesto
e scopo perseguito dalla norma che prevede le prestazioni: nel caso di specie,
sussisterebbe invece una correlazione tra la durata della permanenza sul
territorio, il possesso di una regolare attività lavorativa e le finalità del
cosiddetto "bonus affitti”.
4.– Con atto depositato il
18 aprile 2017, è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che la questione di legittimità costituzionale venga «rigettata in
quanto inammissibile» o, comunque, ritenuta non fondata.
4.1.– L’interveniente argomenta
l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sostenendo che
la Corte d’appello di Milano non ha chiesto né un intervento additivo né uno
propriamente ablativo da parte della Corte costituzionale, prospettando
semplicemente la necessità di una disciplina che non presuma «in termini
assoluti che gli stranieri immigrati in Italia da meno di dieci anni e nella
Regione da meno di cinque […] versino in uno stato di disagio e di difficoltà,
ai fini delle fruizioni di quei contributi, minori rispetto a chi vi risieda da
più anni». L’ordinanza di rimessione non indicherebbe, dunque, alcuna soluzione
costituzionalmente obbligata, lasciando indeterminato il contenuto
dell’intervento richiesto.
4.2.– Nel merito,
l’Avvocatura generale dello Stato ha individuato i ruoli delle Regioni e dei
Comuni nella concreta erogazione dei contributi del fondo istituito dalla legge
n. 431 del 1998: in particolare, si sottolinea che il Comune rappresenta
l’«organismo terminale nell’attuazione del sistema di sostegno all’accesso alle
locazioni», come affermato da questa Corte nella sentenza n. 520 del
2000. Afferma poi l’Avvocatura generale dello Stato che il contributo ex
art. 11 della legge n. 431 del 1998 non ha né struttura né finalità alimentare
e sarebbe, invece, un «mero sussidio», ovvero una «elargizione a fondo perduto»
– come definita dalla Corte dei conti, nella sentenza della Corte dei conti,
sezione giurisdizionale per l’Umbria, 3 dicembre 2008, n. 193. L’Avvocatura
generale dello Stato precisa, poi, che dopo l’entrata in vigore della
disposizione impugnata, la Corte costituzionale ha analizzato «gran parte dei
commi del citato art. 11» con la sentenza 121 del
2010, dichiarando in parte inammissibili e in parte non fondate le
questioni inerenti i commi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 8, 9, 11 e 12.
Più precisamente, a
sostegno della infondatezza, l’Avvocatura generale dello Stato richiama l’art.
40, comma 6, d.lgs. n. 286 del 1998, che si occupa proprio di diritti e doveri
degli stranieri: la disposizione evocata, in tema di agevolazioni all’accesso
alle locazioni abitative, effettua una delimitazione dei beneficiari dei contributi,
in modo assimilabile alla normativa oggetto di giudizio. Sarebbe dunque
possibile, entro i limiti consentiti dall’art. 11 direttiva 2003/109/CE, cui ha
dato attuazione il d.lgs. n. 3 del 2007, e nel rispetto dei diritti
fondamentali dell’uomo costituzionalmente garantiti, riservare talune
prestazioni assistenziali ai soli cittadini e alle persone «extra-UE» ad essi
equiparati perché residenti in Italia da tempo. L’Avvocatura generale dello
Stato ritiene comunque opportuno precisare, in questa prospettiva, che non solo
gli stranieri vedono limitate le possibilità di accesso alle prestazioni,
giacché anche per i cittadini italiani sono prescritti dei limiti: si può
richiedere il contributo, ad esempio, solo se si è titolari di contratto di
locazione di immobile utilizzato come residenza anagrafica e abitazione
principale (art. 2 della citata delibera della Giunta della Regione Lombardia
n. 3495 del 2015); è prescritto che «l’offerta di abitazioni di edilizia
residenziale debba essere destinata prioritariamente a prima casa per
determinate categorie di soggetti» (art. 11, comma 2, d.l. n.112 del 2008, come
convertito). La legge prevederebbe, quindi, in modo non irragionevole, che
l’erogazione di determinate prestazioni sia subordinata ad un titolo di legittimazione
rappresentato dal soggiorno «non episodico e di non breve durata» nel
territorio dello Stato.
5.– Con memoria depositata
il 25 maggio 2018, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha insistito perché la questione
sia dichiarata inammissibile o infondata.
In particolare,
l’interveniente ha insistito sul fatto che la Corte costituzionale con la sentenza n. 121 del
2010 ha già ritenuto non illegittima la gran parte dei commi dell’impugnato
art. 11 d.l. n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, nella legge n. 133
del 2008. Sulla base dei principi stabiliti in detta sentenza si dovrebbe,
quindi, ritenere non fondata anche la questione sollevata sul comma 13 del
citato art. 11, posto che entrambi i requisiti – cioè quelli della residenza e
dell’esercizio di regolare attività lavorativa nel territorio (quest’ultimo con
base legislativa negli artt. 3, comma 5, 4, comma 3, 5, e 40, comma 6, d.lgs.
n. 286 del 1998) – non avrebbero natura discriminatoria, ma rappresenterebbero
espressione dell’esigenza che lo straniero, cittadino di Stati non appartenenti
all’Unione europea, sia stabilmente inserito nella compagine sociale italiana.
Il necessario e duraturo
collegamento con la realtà territoriale sarebbe, poi, già stato considerato,
quale base ragionevole di analoghe previsioni legislative, da questa Corte
nella sentenza
n. 306 del 2008. Del resto, tale collegamento sarebbe previsto anche per i
cittadini italiani, in base alla delibera della Giunta della Regione Lombardia
n. 3495 del 2015 e, in generale, per l’offerta di abitazioni di edilizia
residenziale dal citato d.l. n. 112 del 2008. La duratura integrazione sociale
dei cittadini di paesi terzi sarebbe poi coerente anche con la già citata
direttiva 2003/109/CE.
Ad avviso
dell’interveniente questa stessa Corte avrebbe riconosciuto che lo Stato può
riservare determinate prestazioni assistenziali solo ai cittadini di Stati
appartenenti all’Unione europea o a quelli appartenenti a paesi terzi che
risiedano da lungo tempo in Italia, così da generare un nesso tra la
partecipazione alla organizzazione politica, economica e sociale della
Repubblica e l’erogazione del contributo (vengono citate le sentenze n. 4 e
n. 222 del 2013).
6.– Con memoria depositata
il 30 maggio 2018, le parti ricorrenti nel giudizio a quo hanno svolto
precisazioni ritenute necessarie alla luce della giurisprudenza di questa Corte
successiva alla ordinanza di rimessione, oltre a richiamare argomenti già sviluppati
in precedenza, insistendo per l’accoglimento della questione di legittimità
costituzionale.
In particolare, le parti
costituite sostengono che non sia in alcun modo applicabile al caso in esame
quanto affermato in ordine all’«accesso all’abitazione» nella recente sentenza n. 106 del
2018, ossia che «l’accesso a un bene di primaria importanza e a godimento
tendenzialmente duraturo, come l’abitazione, per un verso, si colloca a conclusione
del percorso di integrazione della persona presso la comunità locale e, per
altro verso, può richiedere garanzie di stabilità, che, nell’ambito
dell’assegnazione di alloggi pubblici in locazione, scongiurino avvicendamenti
troppo ravvicinati tra conduttori, aggravando l’azione amministrativa e
riducendone l’efficacia». I destinatari del fondo ex lege n. 431 del 1998,
infatti, sono soggetti che hanno già avuto accesso all’abitazione: non rileva,
dunque, l’esigenza di scongiurare avvicendamenti ravvicinati tra conduttori,
bensì la circostanza che essi si trovino in difficoltà con il pagamento del
canone di locazione. Rileva, insomma, solamente che siano soggetti in
condizioni di grave disagio economico, come si evince dalla rubrica della
delibera della Giunta regionale impugnata nel giudizio a quo (del seguente
tenore: «[…] iniziativa di sostegno alla locazione 2015 per i cittadini in
grave disagio economico») e come si deduce anche dalla previsione di «requisiti
economici» per l’accesso al fondo, sia da parte del decreto del Ministero dei
lavori pubblici e delle infrastrutture, 7 giugno 1999, che da parte della
medesima delibera della Giunta regionale (che fissa il limite dell’ISEE non
superiore a 7000 euro). Non sarebbe dunque possibile riscontrare una
ragionevole correlazione tra il requisito della cittadinanza (che consente
l’accesso alla prestazione indipendentemente dalla residenza prolungata sul
territorio) e la ratio legis.
Le due associazioni
aggiungono, poi, che la residenza protratta per così lunghi periodi di tempo è
requisito contrastante anche con i diritti dei titolari di permesso di
soggiorno di lungo periodo, i quali, pur godendo della parità di trattamento
rispetto ai cittadini (viene citato l’art. 11 direttiva 2003/109/CE), qualora risiedessero
da più di cinque anni (e meno di dieci) sul territorio nazionale, ma
decidessero di spostarsi da una Regione all’altra, non potrebbero accedere alla
provvidenza, non soddisfacendo «nessuno dei due requisiti alternativamente
richiesti dalla norma». Le due associazioni osservano inoltre che la condizione
appare illogica poiché, essendo il fondo finanziato con risorse statali, «il
requisito della "stabilità regionale” è del tutto incongruo (non si vede quale
interesse lo Stato possa vantare a che lo straniero permanga per più di cinque
anni nella stessa Regione)»; mentre, per quanto riguarda la «stabilità
nazionale» (certificato di residenza decennale), il requisito sarebbe
«assolutamente sproporzionato».
La memoria evoca, in
conclusione, la sentenza della Corte costituzionale n. 107 del 2018
nella parte in cui richiama la giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo: essa avrebbe affermato che il criterio per l’individuazione del
collegamento col territorio non può essere «troppo esclusivo, potendo
sussistere altri elementi rivelatori del nesso reale tra il richiedente e lo
Stato». Nel caso in esame, in particolare, la già acquisita titolarità di un
contratto di locazione esprimerebbe di per sé un «"nesso reale” che andrebbe
valorizzato», così come la titolarità di un rapporto di lavoro o la presenza
nel nucleo familiare di figli minori, «che tenderà anch’essa a ridurre la
mobilità rafforzando il nesso reale con il territorio».
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 7
novembre 2016 (r.o. n. 41 del 2017), la Corte
d’appello di Milano, sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimità
costituzionale dell’art. 11, comma 13, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112
(Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione
tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133,
in riferimento all’art. 3 della Costituzione.
La norma censurata prevede
che «[a]i fini del riparto del Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle
abitazioni in locazione, di cui all’articolo 11 della legge 9 dicembre 1998, n.
431, i requisiti minimi necessari per beneficiare dei contributi integrativi
come definiti ai sensi del comma 4 del medesimo articolo devono prevedere per
gli immigrati il possesso del certificato storico di residenza da almeno dieci
anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima regione».
Secondo la Corte rimettente
questa previsione, a parità di condizioni di bisogno, discriminerebbe i
cittadini dei Paesi non appartenenti all’Unione europea, in quanto
richiederebbe solo per i questi ultimi un periodo di residenza sul territorio nazionale
o regionale, senza che sia ravvisabile alcuna ragionevole correlazione tra la
durata della residenza e l’accesso alla misura di sostegno al pagamento del
canone di locazione.
2.– In via preliminare deve
rilevarsi che si sono costituite nel giudizio costituzionale V.C. L., ASGI -
Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, Avvocati Per Niente
Onlus e la Regione Lombardia. Trattandosi delle parti del giudizio a quo,
risulta pacifica, in base alla giurisprudenza di questa Corte, l’ammissibilità
della loro costituzione nel giudizio incidentale.
3.– La Regione Lombardia ha
eccepito l’inammissibilità della questione per difetto di motivazione
dell’ordinanza di rimessione riguardo alla qualificazione giuridica del
contributo di cui alla disposizione impugnata. Secondo la ricostruzione della
Regione, infatti, tale contributo non avrebbe natura assistenziale e non
costituirebbe una prestazione essenziale inerente alla garanzia del diritto
fondamentale all’abitazione, come invece presuppone il giudice a quo.
L’eccezione non è fondata.
Va osservato in proposito
che il giudice rimettente, esponendo e richiamando svariate decisioni di questa
Corte a sostegno della propria tesi, assume una precisa e argomentata posizione
in ordine alla natura assistenziale del «sostegno alla locazione dei cittadini
in grave disagio economico». L’ordinanza osserva che, nello stabilire i
requisiti per l’accesso a tale prestazione e indipendentemente dal fatto che ad
essa debba essere riconosciuto carattere «essenziale», il legislatore deve
rispettare i canoni della ragionevolezza: tali canoni nella specie si ritengono
violati, in quanto non si potrebbe ravvisare alcuna ragionevole correlazione
tra la durata della residenza prevista dalla disposizione impugnata per i soli
immigrati e la situazione di disagio economico che il contributo in questione
mira ad alleviare. Inoltre, la Corte rimettente espone chiaramente che il
requisito di durata della residenza, della cui legittimità si dubita, trova il
proprio fondamento legislativo nella disposizione censurata, sicché solo in
seguito alla (eventuale) dichiarazione di illegittimità costituzionale di tale
disposizione si potrà procedere alla disapplicazione degli atti amministrativi
che tali requisiti riproducono.
L’ordinanza di rimessione
non presenta, dunque, le lamentate carenze di motivazione sulla rilevanza e
sulla non manifesta infondatezza, di tal che le obiezioni della Regione
Lombardia non attengono all’ammissibilità della questione, ma semmai alla sua
fondatezza nel merito.
4.– Sempre in punto di
ammissibilità, il Presidente del Consiglio dei ministri ha da parte sua
eccepito difetti del petitum. Il giudice rimettente
non avrebbe chiesto a questa Corte né un intervento additivo, né uno
propriamente ablativo, prospettando semplicemente la necessità di una
disciplina che «non presuma in termini assoluti che gli stranieri immigrati in
Italia da meno di dieci anni e nella Regione da meno di cinque […] versino in
uno stato di disagio e di difficoltà, ai fini delle fruizioni di quei
contributi, minori rispetto a chi vi risieda da più anni». Sicché, da un lato
l’ordinanza di rimessione lascerebbe indeterminato il contenuto dell’intervento
richiesto alla Corte costituzionale; e dall’altro, una disciplina sostitutiva
non potrebbe essere introdotta dalla Corte in assenza di contenuti
costituzionalmente obbligati, dato che l’intervento inciderebbe in una materia
riservata alla discrezionalità e alla responsabilità politica del legislatore.
Anche questa eccezione non
è fondata.
Il giudice a quo, infatti,
non sollecita un intervento sostitutivo di questa Corte che introduca una nuova
disciplina in tema di requisiti di accesso al citato fondo di sostegno ai
canoni di locazione. L’ordinanza lamenta, invece, una violazione dell’art. 3
Cost., in quanto la disposizione impugnata reca una irragionevole
discriminazione tra gli aspiranti alla provvidenza, a danno dei soli cittadini
di Paesi non appartenenti all’Unione europea, per i quali soltanto è richiesta
una residenza qualificata: la richiesta rivolta a questa Corte è chiara e
prospetta un petitum che mira ad eliminare tale
discriminazione attraverso una mera ablazione.
5. Nel merito la questione
è fondata per le ragioni di seguito precisate.
5.1.– Il sostegno alle
abitazioni in locazione è stato istituito dall’art. 11 della legge 9 dicembre
1998, n. 431 (Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti
ad uso abitativo) e consiste in un contributo destinato al pagamento del
canone, da erogarsi a soggetti che si trovino in una situazione di indigenza
qualificata.
Più precisamente, l’art.
11, legge n. 431 del 1998 stabilisce che «[p]resso il
Ministero dei lavori pubblici è istituito il Fondo nazionale per il sostegno
all’accesso alle abitazioni in locazione, la cui dotazione annua è determinata
dalla legge finanziaria […]» (comma 1) e che «[l]e somme assegnate al Fondo di
cui al comma 1 sono utilizzate per la concessione, ai conduttori aventi i
requisiti minimi individuati con le modalità di cui al comma 4, di contributi
integrativi per il pagamento dei canoni di locazione dovuti ai proprietari
degli immobili, di proprietà sia pubblica sia privata, nonché, qualora le
disponibilità del Fondo lo consentano, per sostenere le iniziative intraprese
dai comuni anche attraverso la costituzione di agenzie o istituti per la
locazione o attraverso attività di promozione in convenzione con cooperative
edilizie per la locazione, tese a favorire la mobilità nel settore della
locazione attraverso il reperimento di alloggi da concedere in locazione per
periodi determinati» (comma 3).
Il richiamato comma 4
dell’art. 11 della medesima legge n. 431 del 1998 precisa che «[i]l Ministro
dei lavori pubblici, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della
presente legge, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti
fra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano,
definisce, con proprio decreto, i requisiti minimi necessari per beneficiare
dei contributi integrativi di cui al comma 3 e i criteri per la determinazione
dell’entità dei contributi stessi in relazione al reddito familiare e
all’incidenza sul reddito medesimo del canone di locazione».
In esecuzione della
disposizione da ultimo richiamata, il decreto del Ministero dei lavori pubblici
e delle infrastrutture, 7 giugno 1999, recante appunto i «[r]equisiti minimi dei conduttori per beneficiare dei
contributi integrativi a valere sulle risorse assegnate al Fondo nazionale di
sostegno per l’accesso alle abitazioni in locazione di cui all’art. 11 della
legge 9 dicembre 1998, n. 431, e criteri per la determinazione degli stessi»,
prevede, all’art. 1, la compilazione di una graduatoria comunale secondo
determinati criteri reddituali, costituiti per ciascun nucleo familiare
richiedente da: «a) reddito annuo imponibile complessivo non superiore a due
pensioni minime INPS, rispetto al quale l’incidenza del canone di locazione
risulti non inferiore al 14 per cento; b) reddito annuo imponibile complessivo
non superiore a quello determinato dalle regioni e dalle province autonome di
Trento e Bolzano per l’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale
pubblica, rispetto al quale l’incidenza del canone di locazione risulti non
inferiore al 24 per cento». L’ammontare dei redditi da assumere a riferimento è
quello risultante dall’ultima dichiarazione dei redditi ed il valore dei canoni
è quello risultante dai contratti di locazione regolarmente registrati, al
netto degli oneri accessori. All’art. 2, si stabilisce poi che le Regioni e le
Province autonome di Trento e Bolzano ed i Comuni, qualora concorrano con
propri fondi ad incrementare le risorse attribuite dal fondo nazionale, possono
stabilire ulteriori articolazioni delle classi di reddito o soglie di incidenze
del canone più favorevoli (comma 1); che «i comuni fissano l’entità dei
contributi secondo un principio di gradualità che favorisca i nuclei familiari
con redditi bassi e con elevate soglie di incidenza del canone» (comma 3); e
che si tenga conto della presenza nel nucleo familiare di «ultra sessantacinquenni,
disabili o […] altre analoghe situazioni di particolare debolezza sociale»
(comma 4).
5.2.– In origine, dunque, i destinatari del
contributo erano tutti i «conduttori», titolari di un contratto di locazione
registrato, che, per basso reddito ed elevate soglie di incidenza del canone,
potessero ritenersi in una situazione di indigenza tale da non disporre di
risorse sufficienti a sostenere l’onere del pagamento dell’ammontare dovuto per
l’abitazione. Né la legge, né il decreto ministeriale prevedevano distinzioni
tra cittadini e stranieri e neppure menzionavano requisiti legati alla durata
della residenza sul territorio nazionale e regionale, ma individuavano solo
criteri di carattere economico, tali da riservare la distribuzione del fondo a
soggetti seriamente disagiati.
Il legislatore intendeva,
dunque, rivolgersi a situazioni di così grave bisogno da compromettere la
fruizione di un bene di primaria importanza qual è l’abitazione.
È pur vero che il
contributo in oggetto si distingue da altre misure affini, quale ad esempio
l’assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, che soddisfa
direttamente ed esclusivamente l’esigenza abitativa degli indigenti. Il
sostegno al pagamento del canone di locazione di alloggi, di proprietà sia
pubblica sia privata, qui in discussione, soddisfa varie esigenze e reca
beneficio a vari soggetti: senz’altro al conduttore indigente e ai suoi bisogni
abitativi, concorrendo alla spesa per la casa in situazioni di contingente
povertà economica; al locatore, che viene tutelato dai rischi di morosità dei
conduttori; alla pubblica amministrazione, sopperendo alle eventuali
insufficienze nell’offerta di alloggi di edilizia residenziale pubblica. Si
tratta, perciò di prestazione polifunzionale (sentenza n. 329 del
2011), suscettibile di essere finanziata in modo variabile e discontinuo,
in ragione di valutazioni politiche circa la necessità della sua erogazione, nell’an e nel quantum.
La circostanza che plurime
siano le esigenze che il contributo può soddisfare non esclude che tra queste
ve ne siano di decisive per chi versi in una situazione di indigenza, sì da
incontrare gravi difficoltà nel corrispondere il canone di locazione per la casa.
Non è di ostacolo a
riconoscere che il sostegno al canone è volto a sostenere gli indigenti e a
contrastare la povertà il fatto che tale beneficio sociale sia destinato a
soggetti già titolari di un contratto di locazione (art. 11, comma 2, legge n.
431 del 1998): le difficoltà economiche possono manifestarsi successivamente
alla locazione e in ogni caso l’erogazione del contributo è subordinata al
verificarsi di documentate situazioni di povertà.
Si tratta, quindi, di una
misura polifunzionale la cui ratio è quella di sostenere gli indigenti al fine
di consentire loro di soddisfare le esigenze abitative mediante ricorso al
mercato e prevenire il rischio di sfratti per morosità.
5.3.– Dieci anni dopo
l’istituzione del fondo, il d.l. n. 112 del 2008, convertito, con
modificazioni, nella legge n. 133 del 2008, ha introdotto una distinzione tra i
conduttori beneficiari, richiedendo requisiti ulteriori, per accedere ai fondi,
ai soli cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea e agli apolidi.
In particolare, il censurato art. 11, comma 13, del citato d.l. stabilisce che
«[a]i fini del riparto del Fondo nazionale per il sostegno all’accesso alle
abitazioni in locazione, di cui all’articolo 11 della legge n. 431 del 1998, i
requisiti minimi necessari per beneficiare dei contributi integrativi come
definiti ai sensi del comma 4 del medesimo articolo devono prevedere per gli
immigrati il possesso del certificato storico di residenza da almeno dieci anni
nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima regione».
Il requisito aggiuntivo
della residenza qualificata è dunque richiesto, come si desume dall’inequivoco
testo letterale della disposizione, per i soli «immigrati», vale a dire per i
cittadini di paesi non appartenenti all’Unione europea e per gli apolidi: la
nozione di immigrato e di immigrazione si ricava dal relativo testo unico –
decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo Unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero), anteriore alla stessa legge istitutiva del Fondo nazionale in esame
– e, segnatamente, dal Titolo I, contenente i «Principi generali» e dallo
stesso art. 1, che definisce l’ambito di applicazione della disciplina
sull’immigrazione come rivolta «ai cittadini di Stati non appartenenti
all’Unione europea e agli apolidi, di seguito indicati come stranieri».
Per quanto riguarda,
infatti, i cittadini degli Stati membri dell’Unione europea si applica, a
seguito degli Accordi di Schengen e del Trattato di Maastricht, l’istituto
della «cittadinanza europea», che comprende il diritto di soggiorno e
circolazione in tutto il territorio dell’Unione europea – secondo le condizioni
stabilite con la direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro
familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati
membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive
64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE,
90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE – e non il testo unico sull’immigrazione.
Il censurato art. 11, comma
13, prevede, dunque, solo per gli «immigrati» una certa durata della residenza,
tanto a livello nazionale quanto in territorio regionale; per i cittadini
italiani ed europei tale requisito non è richiesto, mentre restano fermi i
criteri di carattere economico e l’attestazione di un contratto di locazione
registrato, come si desume dall’art. 2 della citata legge n. 431 del 1998.
6.– Alla luce di quanto
sopra esposto, risulta che la disposizione censurata introduce una
irragionevole discriminazione a danno dei cittadini di paesi non appartenenti
all’Unione europea, richiedendo solo ad essi il possesso del certificato
storico di residenza da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da
almeno cinque anni nella medesima regione.
Invero, secondo la
giurisprudenza di questa Corte, consolidatasi a partire dalla sentenza n. 432 del
2005, il legislatore può legittimamente circoscrivere la platea dei
beneficiari delle prestazioni sociali in ragione della limitatezza delle
risorse destinate al loro finanziamento (sentenza n. 133 del
2013). Tuttavia, la scelta legislativa non è esente da vincoli di ordine
costituzionale.
La legge deve anzitutto
rispettare gli obblighi europei che, anche per quanto riguarda le prestazioni
sociali, esigono la parità di trattamento tra i cittadini italiani ed europei e
i soggiornanti di lungo periodo. In particolare, la direttiva 2003/109/CE, del
Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi
terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, riconosce lo status di
soggiornante di lungo periodo ai cittadini di paesi terzi che risiedano
regolarmente in uno Stato membro da almeno cinque anni (art. 4); prevede poi
che i soggiornanti di lungo periodo siano equiparati ai cittadini dello Stato
membro in cui si trovano ai fini, tra l’altro, del godimento dei servizi e
prestazioni sociali (art. 11). Con l’art. 1 del decreto legislativo 8 gennaio
2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di
cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo) è stato poi modificato
l’art. 9 d.lgs. n. 286 del 1998, che ora riconosce al cittadino di un paese
terzo la possibilità di ottenere, nel rispetto dei requisiti di legge, lo
status di soggiornante di lungo periodo (che gli viene riconosciuto dal
questore mediante il rilascio di uno specifico permesso di soggiorno), con ciò
acquisendo il diritto di partecipare alla prestazioni di assistenza in
condizioni di parità con i cittadini.
Inoltre, ogni norma che
imponga distinzioni fra varie categorie di persone in ragione della
cittadinanza e della residenza per regolare l’accesso alle prestazioni sociali
deve pur sempre rispondere al principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. Come
ha recentemente ribadito questa Corte, tale principio può ritenersi rispettato
solo qualora esista una «causa normativa» della differenziazione, che sia
«giustificata da una ragionevole correlazione tra la condizione cui è
subordinata l’attribuzione del beneficio e gli altri peculiari requisiti che ne
condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio» (sentenza n. 107 del
2018). Una simile ragionevole causa normativa può in astratto consistere
nella richiesta di un titolo che dimostri il carattere non episodico o di breve
durata della permanenza sul territorio dello Stato: anche in questi casi,
peraltro, occorre pur sempre che sussista una ragionevole correlazione tra la
richiesta e le situazioni di bisogno o di disagio, in vista delle quali le
singole prestazioni sono state previste (sentenza n. 133 del
2013).
Infine, ma non è questo il
caso, occorre che la distinzione non si traduca mai nell’esclusione del non
cittadino dal godimento dei diritti fondamentali che attengono ai «bisogni
primari» della persona, indifferenziabili e indilazionabili, riconosciuti
invece ai cittadini (come precisato in progresso di tempo, ad esempio, dalle sentenze n. 306 del
2008, n. 187
del 2010, n.
2, n. 40
e n. 172 del
2013, n. 22
e n. 230 del
2015, n. 107
del 2018).
Più specificamente, in
relazione al requisito della residenza qualificata, questa Corte con la sentenza n. 222 del
2013 ha ritenuto che le politiche sociali dirette al soddisfacimento dei
bisogni abitativi possono prendere in considerazione un radicamento
territoriale ulteriore rispetto alla semplice residenza, purché contenuto in
limiti non palesemente arbitrari o irragionevoli.
7.– Alla luce di tali
principi, deve ritenersi che dieci anni di residenza sul territorio nazionale o
cinque anni sul territorio regionale – richiesti dal censurato art. 11, comma
13, d.l. n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, nella legge n. 133 del
2008 – costituiscano una durata palesemente irragionevole e arbitraria, oltre
che non rispettosa dei vincoli europei, al fine dell’accesso al contributo al
pagamento del canone di locazione da parte degli stranieri cittadini di paesi
terzi non appartenenti all’Unione europea, così da violare il dedotto parametro
costituzionale di cui all’art. 3 Cost.
In primo luogo, la
disposizione attinge gli estremi dell’irrazionalità intrinseca nella parte in
cui esige una residenza protratta per dieci anni sul territorio nazionale, dato
che tale termine coincide con quello necessario e sufficiente a richiedere la
cittadinanza italiana ai sensi dell’art. 9, comma 1, lettera f), della legge 5
febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza). In ogni caso, tale
previsione contrasta con la richiamata direttiva 2003/109/CE che prevede come
regola l’equiparazione tra cittadini e soggiornanti di lungo periodo,
condizione quest’ultima che – come si è detto – si può ottenere dopo cinque
anni di permanenza sul territorio di uno Stato membro.
In secondo luogo, anche il
termine di cinque anni nel territorio regionale risulta palesemente irragionevole
e sproporzionato, considerato che i fondi sono stati istituiti dal legislatore
in un contesto normativo volto anche a «favorire la mobilità nel settore della
locazione attraverso il reperimento di alloggi da concedere in locazione per
periodi determinati» (art. 11, comma 3, legge n. 431 del 1998) e, dunque, per
esigenze transitorie, relative a periodi limitati, che sarebbero frustrate
dalla richiesta di una permanenza addirittura quinquennale.
Inoltre, trattandosi di una
provvidenza che, alla luce della scarsità delle risorse destinabili alle
politiche sociali nell’attuale contesto storico, viene riservata a casi di vera
e propria indigenza, non si può ravvisare alcuna ragionevole correlazione tra
il soddisfacimento dei bisogni abitativi primari della persona che versi in
condizioni di povertà e sia insediata nel territorio regionale, e la lunga
protrazione nel tempo di tale radicamento territoriale (sentenze n. 222 del
2013, n. 40
del 2011 e n.
187 del 2010). D’altra parte, questa Corte ha recentemente dichiarato
l’illegittimità costituzionale di una legge regionale che richiedeva una
residenza di lunga durata (dieci anni) per l’accesso all’edilizia residenziale
pubblica (sentenza
n. 106 del 2018).
Tutti questi indici normativi
e giurisprudenziali, relativi e attuativi anche di precisi obblighi assunti
dallo Stato nel contesto dell’Unione europea, confermano che la previsione di
un requisito di residenza decennale nel territorio dello Stato e quinquennale
in quello della Regione risulta sproporzionato e perciò irragionevole, oltre
che non rispettoso dei predetti obblighi europei.
8.– Alle luce delle osservazioni che precedono,
pertanto, il censurato art. 11, comma 13, deve essere dichiarato illegittimo
per violazione dell’art. 3 Cost.
Resta ferma ovviamente la
possibilità che il legislatore individui altri indici di radicamento
territoriale e sociale a cui subordinare l’erogazione del sostegno al canone di
locazione ed altri sussidi per l’alloggio, nei limiti imposti dal principio di
non discriminazione e di ragionevolezza, come sopra enunciati.
per
questi motivi
LA
CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 11, comma 13, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112
(Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione
tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133.
Così deciso in Roma, nella
sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 giugno 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI,
Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Filomena PERRONE,
Cancelliere
Depositata in Cancelleria
il 20 luglio 2018.