SENTENZA N. 101
ANNO 2023
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Silvana SCIARRA;
Giudici: Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 32, commi 7 e 10, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione prima ter, nel procedimento vertente tra G. spa e il Ministero dell’interno e altri, con ordinanza del 25 luglio 2022, iscritta al n. 113 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 2022.
Visti l’atto di costituzione di G. spa, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 22 marzo 2023 il Giudice relatore Filippo Patroni Griffi;
uditi l’avvocato Antonio Bartolini per G. spa e l’avvocato dello Stato Carmela Pluchino per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 22 marzo 2023.
Ritenuto in fatto
1.− Con ordinanza del 25 luglio 2022, iscritta al n. 113 del registro ordinanze 2022, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione prima ter, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 23, 41 e 42 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 32, commi 7 e 10, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, nella parte in cui, secondo l’interpretazione assunta quale diritto vivente, dispone «la retrocessione degli utili alle stazioni appaltanti» in caso di definitività del provvedimento di informativa antimafia che abbia attinto l’impresa appaltatrice in corso di esecuzione del contratto e che, in ragione della necessità del suo completamento, sia stata sottoposta alla misura della «gestione straordinaria e temporanea».
1.1.− Il TAR Lazio riferisce di essere chiamato a decidere dell’impugnazione da parte di impresa sottoposta alla gestione commissariale di cui all’art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, in esito a interdittiva antimafia: a) del provvedimento prefettizio che ha disposto il versamento in favore dell’amministrazione appaltante, anziché in suo favore, degli utili derivanti dall’esecuzione dei contratti affidata alla gestione commissariale e accantonati in apposito fondo vincolato; b) dei relativi atti procedimentali; c) dell’atto generale ad esso presupposto costituito dalle «Quinte linee guida per la gestione degli utili derivanti dalla esecuzione dei contratti d’appalto o di concessione sottoposti alla misura di straordinaria gestione, ai sensi dell’articolo 32 del decreto-legge n. 90/2014» del 16 ottobre 2018 dettate dal Ministero dell’interno e dall’Agenzia nazionale anticorruzione (ANAC), nella parte in cui disciplinano il meccanismo della retrocessione.
Il rimettente espone in punto di fatto che:
− la ricorrente nel 2015 è stata destinataria di informazione antimafia a carattere interdittivo ai sensi degli artt. 84 e 91 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136) per la riscontrata sussistenza di rischi di infiltrazione mafiosa;
− sulla base di tale presupposto è stata disposta dal Prefetto di Perugia la gestione straordinaria della società in relazione ad alcuni contratti di appalto in corso con nomina di tre amministratori;
− l’impugnazione proposta dalla società avverso l’interdittiva è stata respinta in primo grado;
− a seguito di istanza di aggiornamento liberatorio la prefettura nel 2016 ha «revocat[o]» tanto l’interdittiva quanto la gestione straordinaria;
− nel 2019 è stato confermato in secondo grado il rigetto dell’impugnazione del provvedimento interdittivo;
− la società ha anche proposto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo avverso la sentenza di appello;
− il Prefetto, in esito alla sentenza del Consiglio di Stato, ha disposto in favore della stazione appaltante la devoluzione degli utili contrattuali accantonati dai commissari nel fondo vincolato.
1.2.− Tanto premesso, il TAR in via preliminare afferma essere munito di giurisdizione nel giudizio a quo.
Infatti, il provvedimento di retrocessione sarebbe conseguenza dell’informazione interdittiva e del “commissariamento” disposto ai sensi dell’art. 32, commi 2 e 10, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, di cui condividerebbe il carattere potestativo e di conseguenza la posizione del privato sarebbe di interesse legittimo.
Tale conclusione − per come anche affermato dalla Commissione speciale del Consiglio di Stato nel parere 18 giugno 2018, n. 1567 − non contrasterebbe con l’affermazione della giurisdizione del giudice ordinario in relazione a controversia sull’accantonamento degli utili rinvenibile nell’ordinanza delle sezioni unite civili della Corte di cassazione, 11 maggio 2018, n. 11576: tale unica pronuncia in materia sarebbe stata adottata nella diversa ipotesi di commissariamento disposto dal prefetto ai sensi del comma 1 del medesimo art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, ovvero per fatti di corruzione, in cui, secondo il giudice della giurisdizione, «l’accantonamento degli utili, nella struttura della disposizione sopra richiamata, non deriva da una valutazione di natura discrezionale, ma costituisce un atto vincolato, come conseguenza automatica del commissariamento».
D’altro canto, sottolinea il TAR, la stessa ordinanza precisa significativamente che «appartiene alla cognizione del giudice ordinario la controversia in cui venga in rilievo un diritto soggettivo nei cui confronti la pubblica amministrazione eserciti un’attività vincolata, dovendo verificare soltanto se sussistano i presupposti predeterminati dalla legge per l’adozione di una determinata misura, e non esercitando, pertanto, alcun potere autoritativo correlato all’esercizio di poteri di natura discrezionale».
1.3.− Il rimettente si dedica, poi, all’analisi delle disposizioni censurate, evidenziando che esse nulla indicano sul destino degli utili accantonati, né per l’ipotesi di rigetto dell’impugnazione dell’informativa antimafia né per l’ipotesi di sua revoca.
A fronte di tale silenzio normativo, il TAR afferma, tuttavia, che gli utili spetterebbero alle stazioni appaltanti secondo il diritto vivente, che assume fondato sull’interpretazione fornita dal parere del Consiglio di Stato n. 1567 del 2018, recepita dalle menzionate quinte linee guida di ANAC e Ministero dell’interno, da una pronuncia del giudice amministrativo (si cita Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 16 gennaio 2019, n. 392) e da una del giudice ordinario (si cita Tribunale ordinario di Napoli [Nord], sezione terza, ordinanza 19 ottobre 2020).
Secondo il parere del Consiglio di Stato, per effetto dell’interdittiva l’originario rapporto contrattuale si scioglie ai sensi dell’art. 94 cod. antimafia e il commissariamento prefettizio obbliga l’impresa appaltatrice interdetta a portare ad esecuzione l’originaria prestazione per specifiche ragioni di pubblica utilità. La fonte dell’obbligazione sarebbe, dunque, novata dal provvedimento e determinerebbe, sotto il versante civilistico, una vicenda inquadrabile in una (imposta) gestione di affari altrui e, sotto quello pubblicistico, in una prestazione imposta.
Al venir meno del titolo contrattuale conseguirebbe il venir meno del corrispettivo pattuito e, piuttosto, all’impresa spetterebbe il solo rimborso dei costi e delle spese con ablazione del profitto. Ciò troverebbe fondamento sia nella necessità di precludere all’impresa attinta da interdittiva di conseguire un arricchimento patrimoniale in virtù di un proprio comportamento antigiuridico, sia nella connotazione restitutoria (e non corrispettiva) di quanto dovuto per il compimento della prestazione nell’interesse pubblico sia, ancora, nella logica compensativa (e non retributiva) che caratterizza le prestazioni personali imposte.
1.4.− L’ordinanza motiva, quindi, sui presupposti per sollevare le questioni di legittimità costituzionale.
In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva che l’impugnato provvedimento prefettizio è diretta applicazione della norma censurata e che solo la declaratoria di illegittimità costituzionale della stessa potrebbe condurre al suo annullamento per accoglimento del corrispondente motivo di ricorso.
Chiarisce, inoltre, che la rilevanza non può essere esclusa dalla pendenza del ricorso proposto dalla ricorrente alla Corte europea dei diritti dell’uomo, in quanto essa non determina una fattispecie di sospensione necessaria ex art. 295 del codice di procedura civile, per difetto tanto della pregiudizialità logica quanto di quella giuridica.
1.5.− Alla illustrazione delle ragioni di non manifesta infondatezza delle questioni sollevate il TAR fa antecedere talune premesse ricostruttive del quadro normativo.
Il rimettente rammenta, anzitutto, la natura cautelare e preventiva del potere di interdittiva antimafia − frutto del bilanciamento dei contrapposti interessi all’ordine e sicurezza pubblica, da un lato, e alla tutela della libertà di iniziativa economica, dall’altra − al cui esercizio è richiesto il rigoroso rispetto del principio di legalità sostanziale.
Lo stesso principio, a suo dire, imporrebbe una interpretazione rigorosa dei suoi effetti, con respingimento di ricostruzioni non ricavabili dal dettato legislativo. Per contro l’art. 32, commi 7 e 10, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, prevede la sola misura dell’accantonamento degli utili di impresa in apposito fondo e non la retrocessione all’appaltante affermata dal diritto vivente.
Il rimettente critica, poi, la ricostruzione del parere del Consiglio di Stato posta a fondamento di tale meccanismo.
In primo luogo, non ricorrerebbe alcuna novazione della fonte atteso che l’originario contratto, nel difetto di risoluzione, continuerebbe a essere eseguito dalla società ricorrente con propri mezzi, umani e patrimoniali, con correlativa responsabilità, seppur sotto l’amministrazione dei commissari prefettizi.
In secondo luogo, sono contestate le conclusioni dell’accostamento della misura del commissariamento alla negotiorum gestio: secondo la disciplina degli artt. 2030 e 2031 del codice civile il soggetto gerendo (il commissario prefettizio) sarebbe, al contrario, tenuto a versare al gerito (la società) i corrispettivi ottenuti dall’esecuzione dei contratti gestiti.
Il TAR Lazio, piuttosto, accosta l’incapacità parziale e temporanea derivante dall’interdittiva all’incapacità naturale di cui agli artt. 427 e 428 cod. civ., cui conseguirebbe l’efficacia degli atti compiuti dall’incapace sino all’annullamento.
1.5.1.− Alla luce del delineato quadro, il Tribunale amministrativo regionale assume, anzitutto, il contrasto della norma censurata con l’art. 3 Cost. perché la misura della retrocessione, quanto meno nel caso di impresa cui sia stata revocata l’interdittiva, sarebbe misura sproporzionata e irragionevole.
Il previsto accantonamento degli utili in apposito fondo costituirebbe misura già sufficiente a salvaguardare l’economia legale dai tentativi di infiltrazione mafiosa in quanto sottrarrebbe all’impresa interdetta ogni forma di locupletazione durante il periodo di vigenza dell’interdittiva.
Inoltre, la norma censurata contrasterebbe con lo stesso parametro costituzionale trattando la fattispecie in maniera differente da quella similare (per identità di ratio) contemplata dall’art. 94, comma 3, del d.lgs. n. 159 del 2011.
Tale ultima disposizione − che costituisce una deroga alla regola generale dettata dal precedente comma 2 dello stesso articolo, secondo cui a seguito del rilascio dell’informazione interdittiva le stazioni appaltanti recedono dai contratti in corso – consente all’appaltante la prosecuzione dei contratti di appalti con l’impresa infiltrata se l’opera sia in corso di ultimazione o se la fornitura di beni e servizi sia essenziale per il perseguimento dell’interesse pubblico, qualora l’appaltatore non sia sostituibile in tempi rapidi. In tale fattispecie di prosecuzione contrattuale «non si dubita», afferma il TAR, che l’impresa percepisca il corrispettivo previsto dal contratto.
1.5.2.− Tale normativa inciderebbe, ancora, eccessivamente sulla libertà di iniziativa economica privata e sul diritto di proprietà tutelati dagli artt. 41 e 42 Cost.
1.5.3.− I commi censurati contrasterebbero, infine, con l’art. 23 Cost.
Il silenzio sulla sorte degli utili derivanti dalle prestazioni rese dall’impresa per effetto del commissariamento prefettizio darebbe luogo a una ipotesi di prestazione imposta in cui la fonte primaria non detterebbe i criteri direttivi e le linee generali della relativa disciplina in particolare in ordine alla sua concreta entità.
2.– Con atto depositato il 21 ottobre 2022, si è costituita in giudizio la società ricorrente nel giudizio principale che ha chiesto la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 32, commi 7 e 10, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito e come interpretato dal diritto vivente, negli stessi termini auspicati dal rimettente.
In via subordinata, per l’ipotesi in cui questa Corte non ritenesse sussistere il diritto vivente nella interpretazione delle disposizioni censurate, la parte domanda di «chiarire che il giudice a quo possa rendere un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 32 cc. 7 e 10 del d.l. n. 90/2014, la quale si differenzi da quella oggi offerta dal Parere n. 1567/2018 del Consiglio di Stato».
L’impresa, dopo aver ricostruito i fatti, ha illustrato, condiviso e sostenuto le argomentazioni spese dall’ordinanza di rimessione.
In particolare, con riguardo alla ammissibilità della questione in relazione alla giurisdizione del giudice rimettente, ha sottolineato che appartengono alla giurisdizione del giudice amministrativo tutte le controversie nelle quali venga in rilievo l’esercizio di un potere autoritativo anche solo correlato all’esercizio di poteri di natura discrezionale e ha aggiunto che da una eventuale pronuncia di fondatezza di questa Corte deriverebbe la riconfigurazione del potere prefettizio e, di conseguenza il chiarimento sulla qualificazione della posizione giuridica soggettiva del privato.
Nel contestare il fondamento della retrocessione alla stazione appaltante degli utili ha prospettato che: a) la revoca dell’interdittiva determinerebbe il venir meno delle ragioni per cui si era proceduto all’accantonamento degli utili; b) diversamente da quanto affermato nel parere n. 1567 del 2018 del Consiglio di Stato, nel caso della gestione straordinaria e temporanea, da un lato, vi sarebbe prosecuzione del rapporto contrattuale senza alcuna novazione del titolo e, dall’altro, pur riconducendo la fattispecie alla negotiorum gestio, i corrispettivi dei contratti stipulati dal gestore spetterebbero al soggetto sostituito.
3.− Con atto depositato l’8 novembre 2022, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le sollevate questioni siano dichiarate inammissibili o, in subordine, non fondate.
3.1.− In via preliminare, l’Avvocatura dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di giurisdizione del giudice a quo.
Diversamente da quanto ritenuto dall’ordinanza di rimessione, l’accantonamento degli utili nella gestione straordinaria e temporanea troverebbe nel comma 7 dell’art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, la medesima disciplina tanto se la gestione sia stata disposta per finalità di anticorruzione (comma 1, lettera b) quanto per finalità di prevenzione dell’infiltrazione mafiosa (comma 10). Conseguentemente, secondo la difesa statale, per entrambi i casi dovrebbe valere l’affermazione delle sezioni unite civili della Corte di cassazione, di cui all’ordinanza n. 11576 del 2018, dell’appartenenza della giurisdizione al giudice ordinario, in quanto la controversia sugli utili accantonati concerne un diritto soggettivo corrispondente ad una attività vincolata della pubblica amministrazione.
3.2.– Il Governo nell’affrontare il merito delle questioni illustra, anzitutto, l’interpretazione delle disposizioni censurate.
Il legislatore, ad avviso dell’interveniente, distinguerebbe sotto il profilo temporale la cessazione della misura della gestione straordinaria dalla statuizione sulla destinazione del fondo.
Il limite temporale dell’accantonamento degli utili sarebbe individuato nel passaggio in giudicato della sentenza che decide sul ricorso per l’annullamento del provvedimento interdittivo comportando, in caso di suo rigetto, la restituzione degli utili all’amministrazione appaltante e, in caso di suo accoglimento, la restituzione all’operatore economico. Nulla, invece, sarebbe previsto in caso di aggiornamento dell’interdittiva ai sensi dell’art. 91, comma 5, del d.lgs. n. 159 del 2011.
Diversamente, in relazione alla misura della gestione straordinaria il comma 10 dell’art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, ne prevede la cessazione in caso di sentenza di annullamento o di ordinanza cautelare che la sospenda «in via definitiva» e anche in caso di aggiornamento dell’informazione interdittiva.
In tale ultimo caso si avrebbe un «ritorno in bonis» dell’operatore, ma non anche la restituzione degli utili dipendente dalla decisione sull’impugnazione dell’interdittiva.
Ancora, secondo la difesa statale, le disposizioni censurate distinguerebbero la durata dell’accantonamento, coincidente con il periodo di applicazione della misura, dalla durata dell’obbligo di tenuta del relativo fondo segnata dall’esito dei giudizi di impugnazione dell’interdittiva.
In tale contesto normativo, secondo l’interveniente, l’interpretazione dell’art. 32, commi 7 e 10, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, adottata dalle quinte linee guida a firma del Ministro dell’interno e del Presidente dell’ANAC − riconducibili al potere di regolazione di tale Autorità previsto dall’art. 213 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici) − sarebbe coerente con il sistema normativo in materia di prevenzione antimafia e rispettosa del dettato costituzionale.
3.3.– Il Presidente del Consiglio si sofferma, poi, sull’informazione antimafia liberatoria che ha interessato la ricorrente del giudizio principale e della cui portata il TAR non si sarebbe debitamente occupato.
Tale provvedimento è emanato, infatti, in esito a nuova istruttoria e nuova valutazione, al ricorrere di sopravvenienze fattuali che non sconfessano la legittimità della precedente valutazione interdittiva e, dunque, ha effetti ex nunc. Coerentemente, dovrebbe ritenersi che l’impresa destinataria del provvedimento di aggiornamento liberatorio non possa essere destinataria degli utili accantonati sotto la gestione commissariale.
Nell’arco temporale tra l’adozione dell’interdittiva e il suo aggiornamento vige, infatti, il divieto per l’interdetta di stipulare i contratti con la pubblica amministrazione e di ricevere erogazioni (art. 94, comma 1, del d.lgs. n. 159 del 2011) e il principio della caducazione dei contratti in corso di esecuzione. Rispetto a tali regole generali la prosecuzione di specifici contratti prevista dall’art. 32, comma 10, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, è deroga prevista in via eccezionale per la necessità e l’urgenza di garantire la continuità di funzioni e servizi indifferibili per la salvaguardia di determinati diritti e interessi (per tutela di diritti fondamentali, per l’integrità dei livelli occupazionali e dell’integrità dei bilanci pubblici).
Per l’Avvocatura dello Stato, inoltre, tale cornice normativa avvalorerebbe l’interpretazione del Consiglio di Stato secondo cui all’esecuzione contrattuale eccezionalmente imposta dal provvedimento prefettizio corrispondono non utili, ma solo rimborso di costi e spese.
3.4.– Alla luce dell’illustrato quadro normativo, l’atto di intervento ha resistito alle singole questioni.
3.4.1.– La violazione dell’art. 3 Cost. sarebbe, anzitutto, non fondata sotto entrambi i profili denunciati.
In primo luogo, in relazione alla comparazione delle norme censurate con l’art. 94, comma 3, del d.lgs. n. 159 del 2011, il giudice rimettente non avrebbe tenuto conto della valenza applicativa ormai nulla di tale norma proprio a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito.
Il comma 10 di tale articolo, con la dicitura «ancorché ricorrano i presupposti di cui all’articolo 94, comma 3, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159», in particolare, sancirebbe la prevalenza della misura prefettizia della gestione straordinaria sulla determinazione della stazione appaltante nella prosecuzione del contratto stipulato e ciò per l’intento di sottrarre all’operatore economico la gestione dei contratti in corso e l’incameramento degli utili.
In secondo luogo, la misura della gestione straordinaria e temporanea non risulterebbe irragionevole alla luce del complessivo sistema di prevenzione.
Il legislatore, infatti, ha previsto plurimi strumenti con diverso grado di pervasività sulla gestione dell’impresa in ragione della diversa rilevanza dell’infiltrazione criminale. Così, se per l’agevolazione mafiosa di carattere solo occasionale il codice antimafia prevede misure di controllo (il controllo giudiziario dell’art. 34-bis cod. antimafia) e di tutoraggio (la prevenzione collaborativa dell’art. 94-bis cod. antimafia), in cui l’impresa conserva la capacità di contrattare, di eseguire i contratti e di incamerare i corrispettivi, di contro per le ipotesi più gravi è adottabile la gestione temporanea e straordinaria con l’ablazione degli utili riportabile all’incapacità dell’operatore economico.
Ragionando diversamente, si garantirebbe alle imprese infiltrate la permanenza nel mercato a detrimento delle imprese sane.
3.4.2.– Le disposizioni censurate per come interpretate dalle quinte linee guida sarebbero, inoltre, rispettose dell’art. 23 Cost.
Il legislatore stesso stabilisce che i corrispettivi versati dalle appaltanti non entrino a far parte nella disponibilità dell’operatore, ma siano versati in un fondo cautelare le cui somme non sono pignorabili dai creditori né distribuibili tra i soci.
L’ablazione degli utili all’impresa con retrocessione alla appaltante per l’ipotesi di intervenuta definitività del provvedimento interdittivo (per rigetto della sua impugnazione o per mancata impugnazione) troverebbe fondamento nell’evocato parametro in quanto la gestione straordinaria e temporanea «assume i connotati di un munus publicum per il soddisfacimento di interessi pubblici superiori».
3.4.3.– In ultimo, il Presidente del Consiglio dei ministri deduce l’insussistenza della violazione degli artt. 41 e 42 Cost. non essendo rinvenibile, alla luce della ratio dell’istituto, alcuna irragionevole incidenza su iniziativa economica privata e su diritto di proprietà.
4.− In vista dell’udienza pubblica la parte ha depositato memoria, ove ha replicato all’eccezione di inammissibilità dell’Avvocatura dello Stato deducendo essere superabile con il rilievo che il giudice a quo abbia espressamente motivato in modo non implausibile sulla giurisdizione.
Nel merito ha dedotto che gli argomenti della difesa statale non superano le ragioni di fondatezza delle questioni sollevate dal TAR.
Considerato in diritto
1.− Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione prima ter, dubita della legittimità costituzionale di alcune disposizioni inserite nell’art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, che disciplina il potere del prefetto di disporre un parziale commissariamento delle imprese destinatarie di informazioni interdittive antimafia al fine di dare completa esecuzione ai contratti pubblici loro aggiudicati, in deroga alla regola generale dell’obbligo delle appaltanti di risolvere il contratto al sopravvenire del provvedimento interdittivo.
È censurato, in particolare, in riferimento agli artt. 3, 23, 41 e 42 Cost., il combinato disposto dei commi 7 e 10 del citato art. 32, nella parte in cui, «per come interpretato nel cd. “diritto vivente”», dispone che gli utili contrattuali, accantonati dai commissari prefettizi in apposito fondo vincolato, siano «retrocessi» alle stazioni appaltanti in caso di rigetto dell’impugnazione dell’informazione interdittiva anziché corrisposti all’impresa.
Il giudice amministrativo solleva le questioni nell’ambito di un giudizio per l’annullamento del provvedimento del prefetto (e degli atti ad esso presupposti) che ha fatto applicazione di tale previsione, nonostante che l’appaltatrice interdetta, tra il rigetto del ricorso avverso l’informativa in primo e in secondo grado, avesse ottenuto “informazione liberatoria” ai sensi dell’art. 91, comma 5, cod. antimafia e, di conseguenza, l’anticipata cessazione della misura della «gestione straordinaria».
Secondo il rimettente la retrocessione degli utili sarebbe, anzitutto, contraria al principio di proporzionalità − quanto meno nel caso in cui l’impresa abbia ottenuto la “riabilitazione” con l’aggiornamento in senso liberatorio −, perché il fine di salvaguardia dell’economia legale dai tentativi di infiltrazione mafiosa sarebbe già adeguatamente preservato dal legislatore con l’accantonamento degli utili nell’apposito fondo (e dunque con relativa sottrazione) in costanza di interdittiva.
La norma censurata tratterebbe, inoltre, la fattispecie con ingiustificata disparità rispetto alla ipotesi simile della continuazione del rapporto contrattuale con l’impresa interdetta per decisione dell’appaltante, disciplinata dall’art. 94, comma 3, cod. antimafia, nel qual caso «non si dubita» del riconoscimento del corrispettivo contrattuale alla appaltatrice.
Ancora, il riversamento del guadagno all’amministrazione contrasterebbe con gli artt. 41 e 42 Cost., incidendo in maniera eccessiva sulla libertà di iniziativa economica privata e sul diritto di proprietà.
Infine, l’imposizione all’impresa interdetta dell’ultimazione della prestazione contrattuale costituirebbe una prestazione imposta che, nel silenzio della norma sulla sorte dei relativi utili, non troverebbe nella fonte primaria criteri di determinazione della sua concreta entità, in violazione dell’art. 23 Cost.
2.− In via preliminare, il Presidente del Consiglio dei ministri ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di giurisdizione del giudice a quo.
La controversia sugli utili accantonati ai sensi del comma 7 dell’art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, apparterrebbe alla giurisdizione del giudice ordinario, concernendo una posizione di diritto soggettivo, per come già affermato dalla Corte di cassazione (Cass., sez. un., n. 11576 del 2018), in relazione alla similare ipotesi della misura di straordinaria gestione disposta per finalità anticorruzione ai sensi del comma 2 dello stesso art. 32. L’accantonamento costituirebbe, infatti, atto vincolato quale conseguenza del commissariamento.
2.1.− L’eccezione non è fondata.
È noto che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, la sussistenza della giurisdizione costituisce un presupposto della legittima instaurazione del processo principale, la cui valutazione è rimessa al giudice a quo, rispetto al quale spetta a questa Corte una verifica esterna e strumentale al riscontro della rilevanza della questione (ex plurimis, sentenze n. 44 del 2020 e n. 52 del 2018). Ne consegue che il difetto di giurisdizione del rimettente determina l’inammissibilità della questione, per irrilevanza, solo ove esso sia macroscopico e, quindi, rilevabile ictu oculi (tra le tante, sentenze n. 79 del 2022, n. 65 del 2021 e n. 267 del 2020).
Ebbene, nella specie il TAR Lazio afferma la propria giurisdizione sul rilievo che la decisione di retrocessione degli utili adottata dal prefetto è conseguenza (pur automatica) del provvedimento di informativa antimafia e di quello del correlativo “commissariamento”, emessi nell’esercizio di poteri di natura discrezionale, sicché ne condividerebbe il carattere di autoritatività. A tale determinazione potestativa corrisponderebbe, dunque, in capo al privato una posizione di interesse legittimo.
L’ordinanza esclude, inoltre, la pertinenza di quanto affermato nella citata ordinanza della Corte di cassazione in ordine alla sussistenza della giurisdizione del giudice ordinario perché relativa all’accantonamento delle somme in diversa ipotesi di commissariamento, quello “anticorruzione”, come anche sostenuto dal Consiglio di Stato nel parere n. 1567 del 2018.
Per contro, il TAR sottolinea come nella motivazione delle stesse sezioni unite si escluda il ricorrere di un diritto soggettivo nei confronti della pubblica amministrazione quando questa esercita un «potere autoritativo correlato all’esercizio di poteri di natura discrezionale».
La motivazione del rimettente sul potere prefettizio in ordine (non all’accantonamento, ma) al versamento degli utili accantonati per effetto della conferma del provvedimento interdittivo e sulla correlativa posizione sostanziale dell’impresa non è implausibile: tanto basta per escludere che la giurisdizione del giudice amministrativo sia ictu oculi manifestamente insussistente (di recente, sentenze n. 152 del 2021, n. 99 e n. 24 del 2020).
3.− L’esame del merito delle questioni sollevate richiede una essenziale ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale in cui si inserisce la misura della «gestione straordinaria e temporanea dell’impresa» per l’esecuzione del contratto pubblico tramite amministratori (d’ora in avanti, anche: commissariamento del contratto) disposta dal prefetto in esito alla informazione antimafia interdittiva (art. 32, comma 10, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito) e del conseguente necessario accantonamento, in apposito fondo, dell’utile di impresa derivante da quel contratto (art. 32, comma 7, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito).
3.1.− L’informazione antimafia con effetto interdittivo (artt. 84, 92 e 94 cod. antimafia) è provvedimento rivolto all’imprenditore (individuale o collettivo) con cui il prefetto attesta (in termini vincolati, al pari della comunicazione antimafia) la sussistenza di un provvedimento definitivo di prevenzione personale emesso dall’autorità giudiziaria o di una sentenza di condanna (definitiva o anche solo in grado di appello) per uno dei delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale nonché (in termini tipicamente discrezionali), sulla base degli elementi elencati dal legislatore (artt. 84, comma 4, e 91, comma 6, cod. antimafia), la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa.
Come rilevato da questa Corte, il provvedimento interdittivo ha natura cautelare e preventiva in funzione di difesa della legalità dalla penetrazione della criminalità organizzata nell’economia (sentenze n. 180 del 2022 e n. 57 del 2020) e determina una particolare forma d’incapacità del destinatario, tendenzialmente temporanea, in riferimento ai rapporti giuridici con la pubblica amministrazione (sentenze n. 118 del 2022 e n. 178 del 2021 che richiamano Consiglio di Stato, adunanza plenaria, sentenza 6 aprile 2018, n. 3).
Con specifico riferimento ai contratti pubblici, l’informazione interdittiva: a) costituisce causa di esclusione dalla procedura di evidenza pubblica (art. 80 del d.lgs. n. 50 del 2016 e art. 94 del decreto legislativo 31 marzo 2023, n. 36, recante «Codice dei contratti pubblici in attuazione dell’articolo 1 della legge 21 giugno 2022, n. 78, recante delega al Governo in materia di contratti pubblici»); b) impedisce l’aggiudicazione per riscontro del difetto dei requisiti di capacità a contrarre (in particolare l’efficacia dell’aggiudicazione ai sensi dell’art. 32 del d.lgs. n. 50 del 2016 e la sua adozione ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. n. 36 del 2023); c) preclude alle stazioni appaltanti di stipulare, approvare o autorizzare contratti o subcontratti (art. 94 cod. antimafia); d) nel caso in cui sopravvenga nel corso dell’esecuzione del contratto, a mente degli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2, cod. antimafia, le stazioni appaltanti «recedono».
Alla regola generale dell’obbligo di recesso (recte: risoluzione), l’art. 94, comma 3, cod. antimafia giustappone l’eccezionale facoltà per le stazioni appaltanti di proseguire il rapporto contrattuale «nel caso in cui l’opera sia in corso di ultimazione ovvero, in caso di fornitura di beni e servizi ritenuta essenziale per il perseguimento dell’interesse pubblico, qualora il soggetto che la fornisce non sia sostituibile in tempi rapidi».
Altra deroga all’ordinario obbligo di “scioglimento del rapporto” con la contraente è costituita proprio dall’art. 32, comma 10, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito.
Tale disposizione prevede che il prefetto che abbia emesso un’informazione interdittiva, al fine di «assicurare il completamento dell’esecuzione del contratto ovvero dell’accordo contrattuale, ovvero la sua prosecuzione al fine di garantire la continuità di funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, nonché per la salvaguardia dei livelli occupazionali o dell’integrità dei bilanci pubblici», possa adottare diverse misure di sottoposizione dell’impresa appaltatrice ad un regime di “legalità controllata”: il rinnovo degli organi sociali, il sostegno e il monitoraggio dell’impresa con nomina di esperti e la «gestione straordinaria e temporanea dell’impresa» con nomina di amministratori.
In particolare, con la gestione straordinaria si attribuiscono agli amministratori prefettizi tutti i poteri e le funzioni degli organi di amministrazione dell’operatore economico (cosiddetto commissariamento dell’impresa) o solo quelli necessari all’ultimazione della prestazione contrattuale (cosiddetto commissariamento del contratto), ipotesi quest'ultima verificatasi nel giudizio a quo (combinato disposto dei commi 1, lettera b, e 3, dell’art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, per come modificato dall’art. 12, comma 1, del decreto-legge 10 settembre 2021, n. 121, recante «Disposizioni urgenti in materia di investimenti e sicurezza delle infrastrutture, dei trasporti e della circolazione stradale, per la funzionalità del Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili, del Consiglio superiore dei lavori pubblici e dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie e delle infrastrutture stradali e autostradali», convertito, con modificazioni, nella legge 9 novembre 2021, n. 156).
La misura prefettizia cessa in via naturale con l’ultimazione della prestazione contrattuale, ma il legislatore ne prevede la definizione anticipata al sopravvenire di provvedimenti favorevoli all’impresa costituiti dall’annullamento dell’informazione interdittiva, dichiarato con sentenza passata in giudicato, dalla sua sospensione cautelare disposta con ordinanza definitiva (cosiddetto giudicato cautelare), ovvero dall’aggiornamento della predetta informazione in senso liberatorio, ai sensi dell’art. 91, comma 5, cod. antimafia, per il venir meno degli elementi che avevano fondato il riscontro dei tentativi di infiltrazione mafiosa (art. 32, comma 10, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito).
3.2.− Quanto al rapporto tra la prosecuzione del contratto per determinazione dell’appaltante (art. 94, comma 3, cod. antimafia) e il commissariamento prefettizio, è lo stesso comma 10 dell’art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, che dirime il concorso tra norme in termini di prevalenza della misura prefettizia (essa è disposta «ancorché ricorrano i presupposti di cui all’articolo 94, comma 3, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159»).
3.3.− Per quanto di interesse è necessario, ancora, rammentare che il commissariamento può essere anche disposto, in virtù dell’art. 32, commi 1 e 2, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, dal prefetto su proposta del Presidente dell’ANAC in caso di pendenza di un procedimento penale per una serie di reati contro la pubblica amministrazione o se sia acquisita notizia di «situazioni anomale e comunque sintomatiche di condotte illecite o eventi criminali» attribuibili alla aggiudicataria del contratto pubblico (cosiddetto commissariamento anticorruzione).
3.4.− Per entrambe le gestioni straordinarie è previsto che gli amministratori prefettizi accantonino l’utile dell’impresa derivante dalla esecuzione dei contratti da loro gestiti in apposito fondo che «non può essere distribuito né essere soggetto a pignoramento» sino all’esito dei giudizi penali, nel caso del commissariamento anticorruzione, o sino all’esito dei giudizi amministrativi di impugnazione dell’interdittiva (di merito e cautelare), nel caso del commissariamento antimafia (art. 32, comma 7, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito).
In proposito, con specifico riguardo al commissariamento antimafia, deve essere rimarcata la previsione, da parte del combinato disposto dei commi 7 e 10, di due distinte cesure temporali: quella di durata della misura (per ultimazione della prestazione contrattuale o per effetto del sopravvenire dei suddetti provvedimenti favorevoli all’impresa), cui è correlato l’obbligo di accantonamento degli utili in apposito fondo, e quella di indisponibilità del fondo (per effetto della definizione del contenzioso amministrativo sulla interdittiva).
Il diverso termine può far sì che la permanenza del fondo vincolato possa oltrepassare la fine della misura: così nel caso in cui il facere dell’appaltatore sia ultimato, ma non lo sia il giudizio amministrativo, o così nel caso (come in quello del giudizio a quo) in cui l’impresa abbia ottenuto l’aggiornamento liberatorio e, dunque, abbia riacquisito ex nunc la capacità a contrarre e a eseguire la prestazione contrattuale, ma sia ancora sub iudice l’originaria interdittiva.
In sede applicativa, è stato rilevato il silenzio del comma 7 dell’art. 32 in ordine alla destinazione degli utili accantonati nel fondo all’esito definitivo dei giudizi amministrativi sull’informazione interdittiva cui la misura di gestione straordinaria è collegata: così, tanto le seconde linee guida ANAC («per l’applicazione delle misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio di imprese nell’ambito della prevenzione anticorruzione ed antimafia» adottate dal Ministro dell’interno e dal Presidente dell’ANAC il 27 gennaio 2015), che hanno recepito sul punto il parere dell’Avvocatura generale dello Stato (del 23 dicembre 2014), quanto le quinte linee guida ANAC che hanno recepito il parere del Consiglio di Stato n. 1567 del 2018.
Nessun dubbio esegetico in proposito si è posto per l’ipotesi in cui venga annullato o sospeso in via definitiva il provvedimento interdittivo: argomentando dal comma 10 e dagli effetti retroattivi del provvedimento giurisdizionale, la gestione temporanea perde immediatamente e retroattivamente il suo presupposto, al pari, di conseguenza, del meccanismo accessorio del congelamento degli utili, i quali vanno corrisposti all’impresa secondo le originarie previsioni contrattuali.
Al contrario, discussa è la sorte delle somme giacenti nel fondo nell’opposta ipotesi di rigetto definitivo (o diniego definitivo della sospensiva) dell’impugnazione dell’informazione interdittiva.
L’interrogativo non ha, anzitutto, trovato soluzione nella “logica funzionale”.
Infatti, mentre nel commissariamento anticorruzione il congelamento delle somme è, pacificamente, strumentale a garantire l’attuazione della confisca eventualmente emessa in caso di sentenza di condanna per i reati che lo hanno giustificato, nel commissariamento antimafia alla conferma giurisdizionale del provvedimento antimafia non consegue una specifica misura “ablativa” che vada a soddisfarsi su quanto cautelativamente accantonato. L’accantonamento è stato, infatti, definito «fine a sé stesso».
Piuttosto, l’Autorità anticorruzione e il Consiglio di Stato in sede consultiva hanno ricavato dall’inquadramento sistematico delle disposizioni la regola della retrocessione degli utili e, dunque, il riversamento delle somme accantonate nel fondo in favore dell’amministrazione contraente o del soggetto finanziatore dell’investimento pubblico.
Il parere consultivo e le quinte linee guida hanno sostenuto l’operatività di tale meccanismo in base al seguente ragionamento: in esito all’interdittiva, per l’incapacità giuridica dell’operatore economico che ne consegue, si ha una automatica risoluzione del contratto e il provvedimento prefettizio di commissariamento diviene nuova e unica fonte della obbligazione di ultimazione dell’originario programma negoziale. Ne deriva in capo all’impresa, in termini pubblicistici, una prestazione imposta «nella logica dell’art. 23 della Costituzione» e, in termini civilistici, una obbligazione rapportabile a una gestione di affari altrui; correlativamente viene meno l’obbligo contrattuale del corrispettivo in capo all’appaltante con obbligo di restituzione all’impresa dei soli costi sopportati «per portare a compimento, nell’interesse pubblico, il programma negoziale» e con «(definitiva) ablazione del profitto» (in virtù degli artt. 2030, primo comma, e 1713, primo comma, cod. civ. e della «logica “compensativa” [della] prestazione personale imposta»).
Si ritiene, così, di evitare che l’operatore economico interdetto consegua un arricchimento patrimoniale in virtù di un proprio comportamento antigiuridico.
4.− La conclusione esegetica della retrocessione degli utili cui sono pervenuti il Consiglio di Stato e le linee guida ANAC è stata dal TAR rimettente assunta a diritto vivente e sottoposta al vaglio di legittimità costituzionale di questa Corte.
Alla riportata interpretazione il giudice a quo afferma di ritenersi vincolato per l’autorevolezza degli organi che l’hanno resa, perché seguita da una sentenza del giudice amministrativo (Consiglio di Stato, n. 392 del 2019) e da una ordinanza del giudice ordinario (Tribunale di Napoli Nord, 19 ottobre 2020) nonché per l’attinenza della questione al delicato settore della prevenzione antimafia.
Questa Corte ritiene, per contro, che l’isolato precedente giurisdizionale del Consiglio di Stato e il riferimento ad unico precedente di merito del giudice ordinario non danno luogo a quella interpretazione giurisprudenziale consolidata, perché reiterata e uniforme, idonea ad integrare un diritto vivente (ex plurimis, sentenze n. 54 del 2023, n. 243 e n. 20 del 2022, n. 192 e n. 123 del 2020, n. 141 del 2019 e n. 122 del 2017).
Neppure conducono in senso diverso le linee guida ANAC, che − prive di valore vincolante, in difetto di apposita “delega di disciplina” da parte di fonti primarie e di natura regolamentare (Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 3 marzo 2021, n. 1791 e sezione prima, parere 17 ottobre 2019, n. 2627) – sono atti di indirizzo interpretativo, fatte proprie dai provvedimenti dei prefetti e che hanno, al più, dato origine a una prassi amministrativa alla quale da lungo tempo è stato negato autonomo valore di diritto vivente (sentenza n. 83 del 1996 e ordinanza n. 188 del 1998).
5.− Nel merito le questioni di legittimità costituzionale non sono fondate, nei termini che seguono.
5.1.− Ritiene, infatti, questa Corte che diversa sia l’interpretazione da attribuire alle disposizioni censurate, secondo il loro corretto inquadramento sistematico e alla luce dei canoni costituzionali (sentenze n. 65 del 2022, n. 206 del 2015, n. 198 del 2003, n. 316 del 2001 e n. 113 del 2000). E tale diversa interpretazione consente di superare i prospettati dubbi di illegittimità costituzionale.
5.1.1.− Più elementi comprovano, anzitutto, che l’originario rapporto contrattuale prosegua senza essere risolto.
In tal senso depone la lettera dell’art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, che espressamente prevede la gestione straordinaria come misura (sull’impresa) strumentale al «completamento dell’esecuzione del contratto» (comma 10) e l’utile accantonato come «derivante dalla conclusione de[l] contratt[o]» (recte: della prestazione contrattuale) (comma 7).
Ancora, dal punto di vista sistematico, la determinazione prefettizia di cui all’art. 32, comma 10, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, va equiparata alla determinazione della stazione appaltante di cui all’art. 94, comma 2, cod. antimafia, in quanto entrambe giustificano per ragioni di pubblico interesse l’eccezionale prosecuzione del rapporto contrattuale in deroga alla regola dell’obbligo per le appaltanti di risolvere il contratto al sopravvenire dell’interdittiva.
L’equivalente protrazione dell’accordo nelle due ipotesi derogatorie non solo è ricavabile dalla citata prevalenza per specialità della prima misura sulla seconda, ma risulta anche esplicitata in un recente intervento legislativo: l’art. 3 del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120, nel consentire la stipula degli appalti sulla base di informative liberatorie provvisorie (comma 2), obbliga ancora le amministrazioni alla risoluzione in caso di pervenimento di informazioni interdittive definitive, «fermo restando quanto previsto dall’articolo 94, commi 3 e 4, [cod. antimafia], e dall’articolo 32, comma 10» del d.l. n. 90 del 2014, come convertito (comma 4).
Infine, la conclusione cui questa Corte perviene in via ermeneutica trova ulteriore conforto in quelle pronunce del giudice amministrativo che ritengono la riassunzione della titolarità dell’esecuzione del contratto in corso, in caso di riacquisizione della capacità da parte dell’operatore economico per annullamento o revoca dell’interdittiva, o per effetto della ammissione alla misura del «controllo giudiziario» (così, Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 25 luglio 2019, n. 5268).
5.1.2.− Se pur, dunque, è certa la prosecuzione del rapporto tra amministrazione e impresa in virtù dell’originario contratto, altrettanto vero è che questo subisce mutamenti sia sul versante soggettivo sia su quello oggettivo.
Dal punto di vista soggettivo, la prestazione contrattuale è posta in essere dall’impresa con i propri mezzi, ma è eseguita sotto la “direzione e vigilanza” degli amministratori prefettizi. Dal punto di vista oggettivo, inoltre, la “ratio” funzionale del rapporto contrattuale viene a permearsi del pubblico interesse.
Infatti, da un lato, il mantenimento del contratto è giustificato non dall’essenzialità per l’interesse pubblico della prestazione contrattuale “di per sé” (come nel caso dell’art. 94, comma 3, cod. antimafia), bensì dall’essere questa a sua volta mezzo di soddisfazione di selezionati e preminenti interessi pubblici (individuati nella continuità di funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, nella salvaguardia dei livelli occupazionali o nell’integrità dei bilanci pubblici).
Dall’altro lato, l’attività di temporanea e straordinaria gestione dell’impresa è espressamente definita «di pubblica utilità» dal comma 4 dell’art. 32 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito.
Proprio la significativa incidenza del commissariamento sullo svolgimento del contratto non consente di ricondurre la vicenda in termini di modifica solo soggettiva per sopravvenuta gestione (da parte degli amministratori prefettizi) dell’affare altrui (dell’imprenditore interdetto). D’altra parte, l’inquadramento della vicenda nella negotiorum gestio porterebbe a conseguenze opposte a quelle prospettate dall’interpretazione che il rimettente ha censurato: i commissari, gravati dei medesimi obblighi del mandatario (art. 2030 cod. civ.), dovrebbero rimettere alla gerita impresa il corrispettivo ricevuto dalla stazione appaltante (art. 1713 cod. civ.) al netto di spese (art. 2031 cod. civ.) e compenso (artt. 1709 e 2031 cod. civ.).
5.1.3.− Nel descritto rinnovato contesto contrattuale, anche il corrispettivo originariamente pattuito risulta inciso dalla sopravvenuta misura prefettizia ove divenga definitiva l’interdittiva su cui è stata fondata.
Il sinallagma contrattuale si trova, infatti, alterato da vicende imputabili alla contraente privata cui quella pubblica ha dovuto porre rimedio.
È, invece, nella lettura sistematica delle disposizioni censurate con quelle relative all’incidenza dell’interdittiva sui contratti in corso che si rinviene la rideterminazione del dovuto nel contratto conformato dall’interesse pubblico.
Posto che dall’originario corrispettivo va detratto il compenso liquidato ai commissari (art. 32, comma 7, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito), è nell’art. 94, commi 2 e 3, cod. antimafia che deve essere rivenuta la regola di rideterminazione del quantum della prestazione resa nel regime di “legalità controllata”.
Le indicate norme regolano, infatti, le conseguenze della sopravvenienza dell’interdittiva sui contratti pubblici in corso e all’appaltatore riconoscono espressamente, per il caso della “ordinaria” scelta dell’amministrazione di risolvere il contratto, «il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l’esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite» dall’amministrazione. La medesima quantificazione si ritrova ribadita nel comma 3 dell’art. 93 cod. antimafia e nel menzionato art. 3 del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, e coincide con quella dettata per le risoluzioni conseguenti al sopravvenire della comunicazione antimafia (art. 88 cod. antimafia).
Tale regime pecuniario si discosta da quello previsto dal codice dei contratti pubblici per le ordinarie ipotesi di risoluzione pubblicistica, che riconosce all’appaltatore il prezzo delle prestazioni regolarmente eseguite decurtato degli oneri aggiuntivi derivanti dallo scioglimento del contratto (art. 108 del d.lgs. n. 50 del 2016 e art. 122, commi 5 e 6, del d.lgs. n. 36 del 2023).
L’art. 94, comma 3, cod. antimafia non detta a sua volta espressamente la regola del compenso per l’ipotesi, ivi prevista in termini alternativi, seppur residuali, in cui l’amministrazione si determini per la prosecuzione del contratto. In proposito (diversamente da quanto affermato dal rimettente) non si rinvengono pronunce giurisprudenziali o prassi amministrative, ma alla fattispecie può agevolmente estendersi la regola dettata nella disposizione che la precede e a cui è legata: le opere interamente eseguite per volontà dell’amministrazione vanno ugualmente compensate nel loro valore nei limiti dell’utilità ricavata dalla controparte.
Nel caso del commissariamento tale regola vale a maggior ragione: se il legislatore, nell’ipotesi in cui l’amministrazione si determini a recidere il rapporto con l’impresa interdetta (in primis per tentativi di infiltrazione pregressi, ma successivamente acclarati), riconosce all’appaltatrice per la prestazione, sino ad allora eseguita in autonomia, il relativo valore nei limiti dell’utilità, a fortiori il medesimo importo deve essere riconosciuto all’impresa che, per valutazione discrezionale della stessa amministrazione (prefettizia), porti a termine la prestazione con propri mezzi, ma nel regime di legalità controllata.
Al venir meno del vincolo di indisponibilità del correlato fondo, dunque, andrà versato all’operatore economico non l’intero guadagno lì accantonato (costituito dalla differenza tra il prezzo e i costi già corrisposti), bensì il minor importo dato dal valore della prestazione nei limiti dell’utilità conseguita dall’amministrazione, al netto dei costi già versati. Ciò, comunque, sempre salve le eventuali ritenzioni per compensazioni con somme dovute all’appaltante dall’appaltatrice per risarcimenti da inadempimento o per confische penali (artt. 240, 240-bis, 416-bis, comma 7, cod. pen.) o confische della prevenzione (artt. 24 e 34, comma 7, cod. antimafia), se l’interdittiva è collegata a vicende di rilevanza penale o della prevenzione giurisdizionale.
5.1.4.− Il riconoscimento del compenso nei limiti dell’utilità conseguita dall’amministrazione è coerente, del resto, per diversi profili con i princìpi sottesi alla logica del sistema, i quali si rinvengono anche nell’istituto dell’arricchimento ingiustificato.
In primo luogo, gli utili accantonati in costanza di commissariamento non costituiscono di per sé guadagni illecitamente prodotti dall’operatore economico e rispetto ai quali l’ordinamento reagisce con specifiche misure di neutralizzazione dell’arricchimento, come con le misure ablatorie penali o della prevenzione (sentenza n. 24 del 2019): essi, piuttosto, si producono per richiesta dell’amministrazione e sotto il suo controllo.
In secondo luogo, il riconoscimento del valore della prestazione compiuta dall’imprenditore interdetto nei limiti dell’utilità dell’amministrazione che ne trae vantaggio si può accostare (con i dovuti distinguo) a quelle fattispecie in cui il legislatore codicistico, per «trovare in un’ottica redistributiva un equilibrio tra le prestazioni (e comunque tra i due patrimoni)», compensa lo spostamento patrimoniale del “depauperato” in favore dell’“arricchito” con il suo valore (del bene o del suo uso o il valore della prestazione ex artt. 935, 936, 939, 940 e 1150 cod. civ.) anziché con la sola diminuzione subita (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 11 settembre 2008, n. 23385).
Infine, tramite la previsione del comma 2 dell’art. 94 cod. antimafia (e con quella identica dell’art. 92, comma 3), il legislatore intende riconoscere «al soggetto interdetto [...] il diritto a vedersi corrisposto un compenso limitato all’utilità conseguita dall’amministrazione, onde evitare che quest’ultima, dall’esecuzione dell’opera, possa trarre un ingiustificato arricchimento» (così, Consiglio di Stato, adunanza plenaria, sentenze 6 agosto 2021, n. 14 e 26 ottobre 2020, n. 23).
5.1.5.− La predetta interpretazione delle disposizioni censurate, diversamente dalla regola della retrocessione degli utili, ipotizzata dal giudice a quo, trova anche riscontro nel dato letterale: al venir meno del vincolo di indisponibilità del fondo, il comma 7 dell’art. 32 prevede che quell’importo vada «distribuito», con significativo utilizzo del linguaggio codicistico adottato per il pagamento degli utili o dividendi tra soci (artt. 2303, 2433, e 2433-bis e 2478-bis, cod. civ.). Ancora, in quel momento le somme tornano soggette al regime ordinario di aggredibilità («pignora[bilità]») da parte dei creditori dell’imprenditore, altrimenti soppiantati da una non prevista acquisizione al soggetto pubblico.
5.2.− Questa ricostruzione ermeneutica delle disposizioni censurate supera ogni profilo di contrasto con i parametri evocati (artt. 3, 23, 41 e 42 Cost.) oltre che con il pur pertinente principio di legalità.
5.2.1.− In primo luogo, il riversamento delle somme accantonate in favore dell’impresa interdetta che le ha prodotte, con sola riduzione fondata sulla dinamica contrattuale secondo il combinato disposto dell’art. 32, comma 7, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, e dell’art. 94, comma 2, cod. antimafia, trova chiaro fondamento in norme primarie.
Ciò, innanzi tutto, integra quella «base legale» richiesta dal dettato costituzionale agli artt. 41 e 42 Cost. (per tutte, rispettivamente, sentenze n. 113 del 2022 e n. 24 del 2019), oltre che dall' art. 1 del Protocollo addizionale CEDU, secondo l’interpretazione datane dalla Corte EDU, per fondare i limiti alla libertà di impresa e al diritto di proprietà.
In più, diversamente dall’ipotizzato meccanismo della retrocessione in favore dell’amministrazione degli utili accantonati, l’interpretazione adottata esclude la configurabilità di una ablazione amministrativa del ricavato che, pur giustificata dalla finalità della prevenzione, risulti priva della necessaria previsione legislativa e, dunque, in contrasto con le disposizioni costituzionali e convenzionali (artt. 41 e 42 Cost. e art. 1 Prot. addiz. CEDU; ancora sentenza n. 24 del 2019).
Del pari, in applicazione del principio di legalità posto a presidio dell’attività dell’amministrazione (sentenze n. 12 del 2019, n. 115 del 2011 e, per lo specifico caso dell’informazione antimafia, n. 57 del 2020), si evita di estendere gli effetti restrittivi dell’interdittiva oltre ai casi legislativamente previsti: il pagamento del valore nei limiti dell’utilità per la prestazione contrattualmente resa è erogazione pubblica sottratta al divieto sancito dall’art. 94, comma 1, cod. antimafia in quanto espressamente fatta salva dagli artt. 92, comma 3, e 94, comma 2, cod. antimafia (Consiglio di Stato, sentenze n. 14 del 2021 e n. 23 del 2020).
5.2.2.− Sotto diverso angolo visuale, l’interpretazione adottata consente di superare ogni dubbio di violazione dell’art. 23 Cost.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la riserva di legge relativa posta da tale disposizione costituzionale è rispettata quando la fonte primaria stabilisce sufficienti criteri direttivi e linee generali di disciplina, richiedendosi in particolare che la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dai pertinenti precetti legislativi (sentenze n. 139 del 2019, n. 69 del 2017, n. 83 del 2015 e n. 115 del 2011).
Orbene, sulla base della adottata interpretazione, il facere richiesto all’impresa non trova imposizione pubblicistica, avendo la sua fonte nell’originario contratto, e inoltre questo, come il suo “valore”, sono determinati da norma primaria nel rispetto della riserva di legge in parola.
5.2.3.− Ancora, il riconoscimento all’imprenditore del compenso, pur ridotto, evita la configurabilità di irragionevoli compressioni della libertà di impresa e del diritto di proprietà.
Costante è, in proposito, la giurisprudenza di questa Corte nell’affermare che la restrizione della libertà di iniziativa economica è giustificata dall’utilità sociale, ma alla condizione che gli interventi del legislatore non la perseguano mediante «misure palesemente incongrue» (ex plurimis, sentenze n. 150 e n. 113 del 2022, n. 218 del 2021, n. 85 del 2020) e che sussista un «giusto equilibrio» tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e l’ingerenza nel diritto individuale al godimento dei beni (da ultimo, sentenza n. 213 del 2021).
Si è visto che la misura del commissariamento è eccezionale deroga all’incapacità dell’impresa interdetta ad intrattenere rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione per ragioni di interesse generale: essa è prevista per assicurare il completamento di prestazioni contrattuali di peculiare rilievo pubblicistico ed è bilanciata dall’intervento (anche solo parziale) sull’assetto di governo dell’impresa ad argine del rischio di infiltrazione della criminalità organizzata nella gestione del contratto.
Orbene, con la determinazione prefettizia è richiesta all’imprenditore l’esecuzione di attività gravose e protratte nel tempo, con distoglimento dei relativi mezzi aziendali a lui necessari per intraprendere o svolgere attività imprenditoriali nei confronti dei privati di cui, nonostante l’interdizione, rimane capace o che potrebbe altrimenti mettere a frutto: l’acquisizione pubblica delle «utilità» prodotte con il compendio aziendale e sotto “controllo pubblico”, senza alcun compenso – cui si perverrebbe sulla base dell’interpretazione prospettata dal rimettente − darebbe luogo a misura che, aggiungendosi agli effetti restrittivi dell’interdittiva, andrebbe a comprimere in termini sproporzionati il diritto di proprietà e la libertà di iniziativa economica.
Il congelamento degli utili per il tempo di durata della misura commissariale e sino al successivo momento della definizione del giudizio amministrativo, del resto, costituisce già sufficiente garanzia per l’interesse pubblico, in quanto assicura sia l’esatto adempimento sia la realizzabilità delle misure dei sequestri e delle confische, anche solo della prevenzione, laddove ne ricorressero i relativi presupposti.
6.− In conclusione, le disposizioni censurate si prestano a una interpretazione diversa da quella posta a base dei prospettati dubbi di legittimità costituzionale e conforme a Costituzione; da qui la non fondatezza, nei sensi indicati, delle questioni sollevate.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 32, commi 7 e 10, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 23, 41 e 42 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione prima ter, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 marzo 2023.
F.to:
Silvana SCIARRA, Presidente
Filippo PATRONI GRIFFI, Redattore
Valeria EMMA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2023.