Sentenza n. 118 del 2022

SENTENZA N. 118

ANNO 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giuliano AMATO;

Giudici: Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 67, comma 8, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), «come richiamato dal secondo comma dell’art. 84» del medesimo d.lgs. n. 159 del 2011, promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, sezione prima, nel procedimento vertente tra la società L. e il Ministero dell’interno e altri, con ordinanza del 29 aprile 2021, iscritta al n. 142 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visti l’atto di costituzione della società L., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 5 aprile 2022 il Giudice relatore Nicolò Zanon;

uditi l’avvocato Vincenzo Maiello per la società L., e l’avvocato dello Stato Wally Ferrante per il Presidente del Consiglio dei ministri.

deliberato nella camera di consiglio del 5 aprile 2022.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 29 aprile 2021, iscritta al n. 142 del r.o. del 2021, il Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, sezione prima, solleva, in riferimento agli artt. 3, 25, 27, 38 e 41 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 67, comma 8, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), «come richiamato dal secondo comma dell’art. 84» del medesimo d.lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui, rinviando all’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale, si riferisce anche al reato di «Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti» di cui all’art. 452-quaterdecies del codice penale, «anche nella sua forma non associativa», e «quindi nella parte in cui prevede l’automatismo di cui alla comunicazione antimafia nel caso di condanna per il reato di cui all’art. 452-quaterdecies del c.p. anche nella sua forma non associativa».

2.– Il giudice a quo è stato investito di un ricorso proposto della società L., operante nel settore del prelievo, traporto e smaltimento di sottoprodotti di origine animale, volto all’annullamento del provvedimento del Prefetto della Provincia di Alessandria recante la comunicazione che, nei confronti della società stessa, risultano sussistere le situazioni ostative di cui alla disposizione censurata.

Riferisce il rimettente che la comunicazione antimafia in questione aveva tratto esclusiva giustificazione dalla condanna emessa dalla Corte d’appello di Cagliari nei confronti di A. M., P. M. e M. M. per il reato di «Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti», delitto al momento dei fatti previsto dall’art. 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), e successivamente inserito nel codice penale all’art. 452-quaterdecies, per effetto dell’art. 3, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 1° marzo 2018, n. 21, recante «Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103».

Si apprende dall’ordinanza di rimessione che due dei destinatari della condanna sono procuratori della società L., parte del giudizio a quo, il cui socio unico è, a sua volta, la società M. G. Soci di maggioranza di quest’ultima sono i già citati A. M., P. M. e M. M.

Costoro, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative e organizzate, avevano ricevuto, trasportato, gestito e smaltito abusivamente ingenti quantitativi di sottoprodotti di origine animale, destinandoli alla produzione di farine e oli da utilizzarsi per la preparazione di mangimi animali. La Corte d’appello di Cagliari aveva invece escluso la sussistenza della contestata fattispecie di associazione per delinquere di cui all’art. 416 cod. pen., giacché non vi era prova che il riscontrato e pur «ben congegnato sistema criminoso, non occasionale o contingente» fosse assimilabile ad un più generale programma permanente ed indeterminato di azioni illecite, anche del medesimo genere.

3.– Il rimettente premette una ricostruzione del quadro normativo. Ai sensi dell’art. 84, comma 2, cod. antimafia «[l]a comunicazione antimafia consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67». Quest’ultima disposizione stabilisce, al suo comma 1, che «[l]e persone alle quali sia stata applicata con provvedimento definitivo una delle misure di prevenzione previste dal libro I, titolo I, capo II non possono ottenere» una serie di licenze, autorizzazioni, concessioni, iscrizioni, attestazioni e contributi per lo svolgimento di attività professionale o imprenditoriale, puntualmente indicati dalla lettera a) alla lettera h) del medesimo comma 1.

Il successivo comma 2 stabilisce poi che l’applicazione in via definitiva della misura di prevenzione comporta la decadenza di diritto da tali licenze, autorizzazioni, concessioni, iscrizioni, attestazioni ed erogazioni, nonché il divieto di concludere contratti pubblici di lavoro, servizi e forniture.

Il comma 4, ancora, prevede che il tribunale estenda, con efficacia pari a cinque anni, i divieti e le decadenze in questione ai conviventi con la persona sottoposta a misura di prevenzione, nonché alle imprese, associazioni e società e consorzi di cui questi sia amministratore o determini in qualsiasi modo scelte e indirizzi.

Il comma 8 dell’art. 67, oggetto di censure, prescrive che «[l]e disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 4», appena richiamati, «si applicano anche nei confronti delle persone condannate con sentenza definitiva o, ancorché non definitiva, confermata in grado di appello, per uno dei delitti di cui all’articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale». Tale ultima disposizione stabilisce che, quando si tratti dei procedimenti per determinati delitti, consumati o tentati – tra i quali è ricompresa la fattispecie di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen. – le funzioni di pubblico ministero sono assegnate all’ufficio della procura presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente, e precisamente, in forza dell’art. 102 del d.lgs. n. 159 del 2011, ai magistrati della direzione distrettuale antimafia.

Il giudice a quo ricorda che, secondo la più recente giurisprudenza di legittimità (viene citata la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima penale, 12 novembre 2018-12 aprile 2019, n. 16123), i delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen, «individuano, per la maggior parte, fattispecie di natura associativa, ma più in generale evocano condotte antigiuridiche radicate in fenomeni di criminalità organizzata che, alla stregua dell’esperienza vissuta e dei conseguenti rimedi ordinamentali apprestati, necessitano di essere contrastati con indagini che abbiano un coordinamento accentrato negli uffici distrettuali del pubblico ministero disciplinati dallo stesso art. 51 c.p.p.». Tuttavia, aggiunge la Corte di cassazione nella pronuncia citata, «non poche di queste figure criminose comunque implicanti un rilevante tasso di allarme sociale e in generale tali da presupporre una struttura organizzativa alla rispettiva base […] non riguardano direttamente reati aventi carattere associativo», come è per l’appunto per il reato di cui all’art. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006 (ora art. 452-quaterdecies cod. pen.).

4.– Svolta tale premessa, il rimettente esclude di poter accedere ad un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 67, comma 8, del d.lgs. n. 159 del 2011, secondo la quale anche nelle ipotesi contemplate da tale disposizione la comunicazione antimafia potrebbe essere emessa solo se si sia verificato, in concreto, che il reato si riconnetta all’attività delle organizzazioni criminali di stampo mafioso. Infatti, il «preciso dato testuale» imporrebbe di ritenere che la comunicazione antimafia sia provvedimento vincolato, con la conseguenza che «unico e sufficiente presupposto» per incorrere nelle preclusioni contemplate dall’art. 67 è l’aver riportato condanna con sentenza definitiva o confermata in secondo grado per uno dei delitti previsti all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., e dunque anche per il reato di «Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti».

5.– In punto di rilevanza, specifica il rimettente che, allo stato degli atti, il ricorso dovrebbe essere rigettato; laddove, invece, questa Corte accogliesse le prospettate questioni di legittimità costituzionale, il giudizio avrebbe «un esito diverso alla luce della possibilità di sottrarre il reato in esame all’effetto automatico scaturito dalla condanna, e proprio della comunicazione antimafia».

6.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo premette che la documentazione antimafia, nelle due forme della comunicazione e della informazione, «assolve una funzione cautelare e preventiva volta ad assicurare una difesa anticipata della legalità ed una risposta efficace dello Stato nel contrasto alla criminalità organizzata». Mentre l’informazione antimafia (art. 84, comma 3, cod. antimafia) si connota per uno «spiccato momento di autonomia valutativa da parte del Prefetto», chiamato ad attestare la sussistenza o meno di «eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate», la comunicazione antimafia (art. 84, comma 2, cod. antimafia) si risolve nella emissione di un provvedimento di «natura vincolata». Un automatismo, aggiunge il giudice a quo, «formulato in modo tale da non permettere alla Pubblica Amministrazione di tenere conto delle peculiarità del caso concreto in tutti quei casi in cui si realizzino le fattispecie ivi previste, tra le quali, appunto, la condanna (ancorché non definitiva, ma confermata in grado di appello) per il reato di cui all’art. 452-quaterdecies del codice penale». Tale disposizione, inserita nel titolo dedicato ai delitti contro l’ambiente, sanziona con la reclusione da uno a sei anni «[c]hiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti». Si tratta di un reato che, secondo la Corte di cassazione, si configura anche quando l’attività criminosa sia marginale o secondaria rispetto all’attività principale lecitamente svolta (viene citata la sentenza della Corte di cassazione, sezione terza penale, 23 maggio-28 ottobre 2019, n. 43710). Inoltre, non è richiesta la pluralità di soggetti agenti, trattandosi di fattispecie monosoggettiva (viene citata la sentenza della Corte di cassazione, sezione terza penale, 10-23 luglio 2008, n. 30847).

La fattispecie, specifica ulteriormente il rimettente, «non presuppone necessariamente una struttura associativa» e, per configurazione e finalità, si distingue dal reato di cui all’art. 416 cod. pen., quest’ultimo posto a tutela non dell’ambiente ma dell’ordine pubblico, e volto a sanzionare, inoltre, il sodalizio criminale senza che rilevi l’effettiva commissione dei reati programmati. Proprio per queste ragioni, i due delitti possono concorrere (viene citata la sentenza della Corte di cassazione, sezione terza penale, 17 gennaio-6 febbraio 2014, n. 5773).

Il giudice a quo, inoltre, sottolinea che, mentre la giurisprudenza avrebbe dilatato il concetto di «traffico illecito di rifiuti» facendovi rientrare anche fattispecie che nulla avrebbero a che vedere con la criminalità organizzata, l’art. 67, comma 8, cod. antimafia, ponendo a presupposto delle misure interdittive il reato in questione, produrrebbe l’effetto di ampliare i confini applicativi della normativa antimafia «senza garantire un effettivo riscontro in merito alla sussistenza dei requisiti giustificativi della misura stessa».

Invero, pur essendo «fatto notorio» l’interesse mostrato dalle organizzazioni criminali di tipo mafioso per il settore dei rifiuti (viene citata la sentenza del Consiglio di Stato, sezione terza, 30 giugno 2020, n. 4168, che ha a tal proposito parlato di «ecomafie»), non si potrebbe da ciò trarre la conclusione che tutti i condannati per il reato di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen. «siano ipso facto a rischio di collusione con ambienti della criminalità organizzata». Una tale presunzione, secondo la giurisprudenza amministrativa chiamata a pronunciarsi su fattispecie relative alla informazione antimafia, «non può essere assoluta», tenuto conto degli effetti dirompenti dell’interdittiva (viene citata la sentenza del TAR Lazio, sezione prima-ter, 15 luglio 2014, n. 7571). L’ancoraggio dell’informazione antimafia ad elementi prefissati dal legislatore ne farebbe infatti un provvedimento fondato «su inammissibili automatismi» (viene citata la sentenza del Consiglio di Stato, sezione terza, 27 dicembre 2019, n. 8883).

Il rimettente è consapevole che tali considerazioni hanno riguardo alla informazione antimafia e non alla comunicazione antimafia, ma, aggiunge, non si dovrebbe trascurare il «sempre più intenso accostamento tra i due istituti», dovuto anche all’introduzione – ad opera dall’art. 2, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 13 ottobre 2014, n. 153 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, recante codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136) – dell’art. 89-bis cod. antimafia, secondo cui se il prefetto, in esito alle verifiche richieste per una comunicazione antimafia, accertata la sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, adotta una informazione antimafia interdittiva che tiene luogo della comunicazione antimafia. In presenza di una condanna anche non definitiva per il reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, previsto tra i “delitti-spia” dall’art. 84, comma 4, lettera a), cod. antimafia, l’autorità amministrativa, dunque, anche se richiesta di rilasciare una comunicazione antimafia, emetterebbe una informazione antimafia all’esito di una valutazione discrezionale della condanna in questione, quale mero indice di collusione con ambienti della criminalità organizzata.

7.– Tanto premesso, il TAR Piemonte afferma che l’art. 67, comma 8, richiamando l’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., e dunque, tra gli altri, il reato di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen., anche nella sua forma associativa, «necessiti […] di una revisione sul piano della conformità costituzionale», posto che «la legittimità dell’automatismo interdittivo della comunicazione antimafia» sarebbe da considerarsi fondata unicamente in riferimento a reati che presentino uno stretto collegamento con l’attività della criminalità organizzata di stampo mafioso. Con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen., il rimettente riterrebbe allora necessaria «un’ulteriore valutazione in concreto, non prevista dalla norma, in merito alla sussistenza dei requisiti riguardanti la connessione con il fenomeno associativo criminale», posto che il carattere associativo e il collegamento con l’attività della criminalità organizzata di stampo mafioso non sarebbero elementi costitutivi del reato in questione.

La norma oggetto di censura, ovverosia l’«automatismo di cui alla comunicazione antimafia nel caso di condanna per il reato di cui all’art. 452-quaterdecies c.p.», sarebbe pertanto lesiva dei principi di ragionevolezza e proporzionalità.

L’art. 67, comma 8, aggiunge il giudice a quo, parificherebbe irragionevolmente due diverse situazioni: da una parte, quella in cui sia stata definitivamente adottata, all’esito di uno specifico procedimento, una misura di prevenzione, così come quella in cui vi sia stata condanna confermata in appello per gravissimi reati espressivi di un’attività criminale organizzata; dall’altra, la situazione in cui vi sia stata una condanna confermata in appello per il reato di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen., che, come detto, non ha struttura associativa e non è necessariamente correlato ad attività della criminalità organizzata.

Il dubbio sulla irragionevolezza della disposizione censurata deriverebbe anche dalla circostanza che una condanna per il medesimo reato è opportunamente considerata, dall’art. 84 cod. antimafia, come fattore dal quale inferire – senza però alcun automatismo probatorio – la sussistenza in concreto di un rischio di infiltrazione mafiosa ai fini dell’adozione di una informazione interdittiva.

L’effetto automatico proprio della comunicazione antimafia, invece, sarebbe irragionevolmente sproporzionato, laddove esso consegua ad una condanna per il reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, anche nella sua variante non associativa e non correlata alla criminalità organizzata.

Invece, l’art. 452-quaterdecies cod. pen. dovrebbe rilevare, in tale contesto, solo «nella misura in cui lo stesso si presenti in concreto nella dimensione associativa e, in tale senso, si configuri come reato-fine dell’art. 416 del c.p.».

8.– L’automatismo censurato, non rispondendo compiutamente alla tutela dell’interesse pubblico sotteso all’istituto della comunicazione antimafia, comporterebbe anche, ad avviso del giudice a quo, una lesione della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost., «fortemente pregiudicata» dai provvedimenti ostativi che tale comunicazione determina. La norma avrebbe effetti altresì «sul sistema di sicurezza sociale di cui all’art. 38 della Costituzione». Ciò in conseguenza della inibizione, «nei rapporti tra i privati stessi», di qualsivoglia attività soggetta ad autorizzazione, licenza, concessione, abilitazione, iscrizione ad albi, segnalazione certificata di inizio attività e disciplina del silenzio assenso.

9.– Infine, «il collocamento della condanna per il reato di cui all’art. 452-quaterdecies c.p., nella sua forma non associativa, tra i presupposti richiesti ai fini del rilascio della comunicazione interdittiva determinerebbe un irragionevole aggravio del trattamento sanzionatorio […], peraltro, non giustificato da un’adeguata motivazione da parte dell’Autorità prefettizia», proprio a cagione dell’automatismo previsto.

Sui meccanismi presuntivi, ricorda conclusivamente il giudice a quo, questa Corte si è espressa di recente anche con la sentenza n. 24 del 2020, dichiarando costituzionalmente illegittima la norma scrutinata nella parte in cui dispone che il Prefetto «provvede», anziché «può provvedere», alla revoca della patente.

10.– Si è costituita in giudizio la società L., parte nel giudizio a quo, con atto depositato il 19 ottobre 2021.

Prospettando l’accoglimento delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, la parte sottolinea come, pur trattandosi di reato connotato da elevato allarme sociale, la fattispecie di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti non presuppone una struttura organizzativa di tipo necessariamente associativo, e che gli artt. 416 e 452-quaterdecies cod. pen. «possono, ma non devono concorrere». La libertà dell’individuo sarebbe allora irragionevolmente limitata da una «gravissima misura di incapacità di agire» senza che sia garantito l’accertamento dei presupposti giustificativi di un simile effetto. La comunicazione antimafia, infatti, al contrario della informazione antimafia, non demanda al prefetto il potere di svolgere una valutazione concreta, finalizzata a verificare se la condotta illecita si cali o meno in un contesto di matrice mafiosa.

L’irragionevolezza dell’effetto interdittivo automatico, d’altra parte, sarebbe già stata sancita con la sentenza n. 178 del 2021 di questa Corte, la quale avrebbe in tale occasione evidenziato come l’art. 640-bis cod. pen., al pari, aggiunge il rimettente, dell’art. 452-quaterdecies cod. pen., non ha natura associativa, ha dimensione individuale, può riguardare anche condotte di minore rilievo, ed è punito con pene più lievi. Tale condotta delittuosa, dunque, «ha ben altra portata e non costituisce, di per sé, un indice di appartenenza a un’organizzazione criminale».

Prospettata per le anzidette ragioni una violazione dell’art. 3 Cost., la parte chiede in alternativa a questa Corte di adottare una pronuncia interpretativa, che faccia rientrare nel perimetro dell’art. 67, comma 8, cod. antimafia unicamente il reato associativo (art. 416 cod. pen.) finalizzato alla commissione di delitti di traffico illecito di rifiuti in forma organizzata (art. 452-quaterdecies cod. pen.).

Infine, è invocata la violazione dell’art. 41 Cost., perché l’estensione degli effetti interdittivi, prevista dalla norma censurata, al reato di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen., sganciato da qualsiasi contesto associativo, provocherebbe danni irragionevolmente elevati alla libertà d’iniziativa economica. Il codice antimafia, infatti, avrebbe dato iniqua prevalenza agli obiettivi sottesi al contrasto alle mafie, senza considerare adeguatamente le «ricadute irreversibili» sul diritto di proprietà e sulla iniziativa economica.

11.– È intervenuto in giudizio, con atto depositato il 19 ottobre 2021, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate non fondate in riferimento a tutti i parametri evocati.

La difesa erariale, richiamati i fatti all’origine della condanna che ha motivato il prefetto ad emettere comunicazione antimafia e il complessivo contesto normativo in cui si situa l’istituto, sottolinea come il legislatore avrebbe operato una «selezione a monte delle fattispecie suscettibili di destare maggiore allarme sociale», e al cui ricorrere l’autorità amministrativa sarebbe vincolata all’emissione della misura interdittiva (viene citata la sentenza del Consiglio di Stato, sezione terza, 30 giugno 2020, n. 4168).

Ragionevole e proporzionata sarebbe, in particolare, la scelta di aver incluso in questo catalogo anche il reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti. In considerazione dei suoi elementi costitutivi (ovvero: più operazioni, allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, ingenti quantitativi di rifiuti, dolo specifico di ingiusto profitto), si tratterebbe infatti di reato che, nella prassi, e anche in caso di forma non associativa, si presterebbe ad essere frequentemente posto in essere «per ottenere il controllo illecito degli appalti». Peraltro, ai sensi dell’art. 32-quater cod. pen., alla condanna per tale condotta consegue la pena accessoria della incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione.

Sottolinea poi l’Avvocatura generale che l’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. elenca reati, anche non associativi, che costituirebbero di per sé una «“spia” sufficiente della permeabilità ad infiltrazioni e condizionamenti da parte delle consorterie criminali»; ciò che sarebbe confermato dalla circostanza che per tali delitti, i quali presuppongono comunque una struttura organizzata, sia stata prevista la competenza investigativa della Direzione distrettuale antimafia e antiterrorismo (viene richiamata la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima penale, 5 luglio-21 settembre 2017, n. 43599).

Ancora, si evidenzia come l’art. 452-quaterdecies cod. pen. sanzioni unicamente le forme più gravi di gestione abusiva dei rifiuti, in quanto connotate da una struttura imprenditoriale e dalla abitualità della condotta, mentre in mancanza di queste si applica la fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 256 del d.lgs. n. 152 del 2006, rubricato «Attività di gestione dei rifiuti non autorizzata».

12.– L’Avvocatura generale richiama inoltre la sentenza n. 178 del 2021, con la quale questa Corte, pronunciandosi nel senso della illegittimità costituzionale della norma che ha inserito nel catalogo considerato dall’art. 67, comma 8, cod. antimafia il reato di cui all’art. 640-bis cod. pen., avrebbe «espressamente escluso da una analoga valutazione l’articolo 452-quaterdecies del codice penale». Nella decisione si afferma, infatti, che «gli altri casi previsti dalla disposizione censurata, cioè quelli di cui all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen., hanno una specifica valenza nel contrasto alla mafia». Si tratta, aggiunge la pronuncia, di reati che hanno in gran parte natura associativa oppure che «presentano una forma di organizzazione di base (come per il sequestro di persona ex art. 630 cod. pen) o comunque richiedono condotte plurime (come per il traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen.), oltre a prevedere pene che possono essere anche molto alte». Ed è in virtù di «siffatta complessità che si radica la competenza della procura distrettuale antimafia, operante secondo linee di intervento dotate della necessaria coerenza, organicità, programmazione».

Da questi passi della pronuncia, deduce conclusivamente la difesa erariale che la questione oggetto dell’odierno giudizio non risulterebbe in alcun modo sovrapponibile a quella decisa con la citata sentenza n. 178 del 2021. Anzi, le argomentazioni che sorreggono quella decisione dimostrerebbero, a contrario, che la previsione degli altri reati considerati dalla disposizione sarebbe sorretta da ragionevolezza e proporzionalità, in ossequio all’art. 3 Cost.

13.– Non fondate sarebbero altresì le censure riferite agli artt. 38 e 41 Cost.

Questa Corte, si sostiene, pronunciandosi sugli artt. 89-bis e 92, commi 3 e 4 cod. antimafia, ha infatti ritenuto non fondate, con la sentenza n. 57 del 2020, le censure mosse alla pur grave limitazione della libertà di impresa derivante dal ricorso allo strumento amministrativo, perché la tutela dei valori in gioco impone di «colpire in anticipo» il fenomeno mafioso.

Anzi, sottolinea l’Avvocatura generale, proprio allo scopo di non vanificare la finalità preventiva che permea la legislazione antimafia (è richiamata la sentenza del Consiglio di Stato, sezione terza, 30 gennaio 2019, n. 758), sarebbero da considerarsi giustificati, sia la compressione dell’attività imprenditoriale soggetta a regime autorizzatorio, sia gli ulteriori effetti derivanti dalla condanna per i reati considerati dalla disciplina censurata.

14.– Da ultimo, viene richiesta una pronuncia di non fondatezza anche per le questioni sollevate in riferimento alla violazione degli artt. 25 e 27 Cost. Infatti, sarebbe proprio la logica «anticipatoria» delle misure interdittive a collocare tali misure in un ambito diverso rispetto a quello proprio delle misure afflittive e punitive. Quelle considerate dalla legislazione antimafia sarebbero in altri termini «nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzato, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale o inveratosi, ma anche solo potenziale» (è richiamata la sentenza del Consiglio di Stato, sezione terza, 2 maggio 2019, n. 2855).

Anche sotto tale profilo, in definitiva, la disciplina scrutinata sarebbe da considerarsi non irragionevole e non sproporzionata rispetto allo scopo di contrastare il grave fenomeno della criminalità organizzata (è citata la sentenza del Consiglio di Stato, sezione terza, 24 aprile 2020, n. 2651).

15.– La parte, in data 15 marzo 2022, ha presentato memoria in vista dell’udienza, insistendo per l’accoglimento delle questioni sollevate. In questa prospettiva, sostiene che la citata sentenza n. 178 del 2021 non pregiudicherebbe affatto l’odierna questione di legittimità costituzionale, non essendosi questa Corte pronunciata in alcun modo sui reati elencati dall’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. Anzi, la pronuncia avrebbe affermato l’irragionevolezza dell’effetto automatico discendente da un reato privo di concreta connotazione mafiosa.

Anche l’art. 41 Cost. risulterebbe violato, in considerazione delle ricadute irreversibili prodotte dalla disciplina censurata. Si tratterebbe, infatti, di «“sanzioni” (nell’accezione comunitaria)», tali da «squilibrare il rapporto Autorità/Libertà» in carenza di un rapporto di bilanciamento con i contrapposti beni costituzionali in gioco.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte solleva, in riferimento agli artt. 3, 25, 27, 38 e 41 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 67, comma 8, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), «come richiamato dal secondo comma dell’art. 84» del medesimo d.lgs. n. 159 del 2011.

La disposizione è censurata nella parte in cui, rinviando al catalogo di reati previsto dall’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale, si riferisce al reato di «Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti» di cui all’art. 452-quaterdecies del codice penale, «anche nella sua forma non associativa».

I dubbi di legittimità costituzionale del rimettente si concentrano sul fatto che la disposizione censurata impone l’emissione della comunicazione antimafia interdittiva in caso di condanna definitiva, o confermata in appello, per il reato ricordato, anche laddove quest’ultimo non si manifesti in forma associativa.

Così disponendo, l’art. 67, comma 8, del d.lgs. n. 159 del 2011 violerebbe, in primo luogo, l’art. 3 Cost. sotto i profili della ragionevolezza e della proporzionalità rispetto allo scopo perseguito dal legislatore. Considerato, infatti, l’automatico effetto interdittivo della comunicazione antimafia in caso di condanna definitiva o confermata in appello per il reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, la disposizione non consentirebbe una valutazione in concreto «in merito alla sussistenza dei requisiti riguardanti la connessione con il fenomeno associativo criminale», posto che il carattere associativo e il collegamento con l’attività della criminalità organizzata non sarebbero elementi costitutivi del reato in questione.

Inoltre, aggiunge il giudice a quo, la disposizione parificherebbe irragionevolmente due situazioni assai diverse: da una parte, quella in cui sia stata definitivamente adottata, all’esito di uno specifico procedimento, una misura di prevenzione, così come quella in cui vi sia stata condanna, confermata in appello, per gravissimi reati espressivi di un’attività criminale organizzata; dall’altra, la situazione in cui vi sia stata una condanna confermata in appello per il reato di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen., pur quando questo non si configuri «come reato-fine» dell’art. 416 cod. pen.

Vi sarebbe, ancora, lesione dell’art. 41 Cost., atteso che la libertà di iniziativa economica risulterebbe «fortemente pregiudicata» dai vari provvedimenti ostativi che la comunicazione interdittiva determina. L’automatismo previsto dalla norma censurata avrebbe effetti altresì «sul sistema di sicurezza sociale di cui all’art. 38 della Costituzione», in conseguenza della inibizione, «nei rapporti tra i privati stessi», di qualsivoglia attività soggetta ad autorizzazione, licenza, concessione, abilitazione, iscrizione ad albi, segnalazione certificata di inizio attività e disciplina del silenzio assenso.

Infine, risulterebbero lesi gli artt. 25 e 27 Cost., in quanto «il collocamento della condanna per il reato di cui all’art. 452-quaterdecies c.p., nella sua forma non associativa, tra i presupposti richiesti ai fini del rilascio della comunicazione interdittiva determinerebbe un irragionevole aggravio del trattamento sanzionatorio […], peraltro, non giustificato da un’adeguata motivazione da parte dell’Autorità prefettizia».

2.– Devono essere innanzitutto dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale incentrate sull’asserita lesione agli artt. 38, 25 e 27 Cost.

Quanto alla questione sollevata in riferimento all’art. 38 Cost, l’ordinanza di rimessione risulta eccessivamente concisa e, quindi, oscura, evocando, come si è visto, un effetto della disposizione censurata «sul sistema di sicurezza sociale di cui all’art. 38 della Costituzione», che comporterebbe l’inibizione, «nei rapporti tra i privati stessi», di qualsivoglia attività soggetta ad autorizzazione, licenza, concessione e iscrizione ad albi.

All’evidenza, la censura non è sorretta da alcuna argomentazione che consenta di apprezzarne la pertinenza nella fattispecie (in termini, sulla omessa illustrazione dei motivi di censura riferiti all’art. 38 Cost., sentenza n. 178 del 2021; in generale, sull’inammissibilità per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza, tra le molte, sentenze n. 213 del 2021 e n. 126 del 2018; ordinanza n. 224 del 2021).

Anche le censure relative all’asserita violazione degli artt. 25 e 27 Cost. – richiamati congiuntamente, senza alcuna distinzione – risultano prive di adeguata motivazione in punto di non manifesta infondatezza. In modo del tutto apodittico, l’ordinanza accenna alla circostanza che, nel caso di specie, la comunicazione interdittiva determinerebbe un «aggravio del trattamento sanzionatorio», ma non contiene alcuna analisi critica dell’ampia giurisprudenza amministrativa – del resto neppure menzionata (si veda, in particolare, Consiglio di Stato, adunanza plenaria, sentenza 6 aprile 2018, n. 3) – che ha qualificato quelle derivanti dalla documentazione antimafia come misure di carattere anticipatorio cui conseguono forme di incapacità giuridica, prive di carattere sanzionatorio (nel senso della natura preventiva anche dello specifico strumento della comunicazione antimafia, ancora sentenza n. 178 del 2021 di questa Corte).

Stante la complessità e la delicatezza della materia, lo svolgimento di una qualche verifica sul punto risultava condizione indispensabile per l’accesso allo scrutinio di merito da parte di questa Corte. La sua completa assenza determina, pertanto, l’inammissibilità delle questioni (sentenze n. 197 del 2021 e n. 222 del 2019).

3.– Quanto alle censure incentrate sulla violazione dell’art. 3 Cost. (rispetto alla quale l’asserita lesione dell’art. 41 Cost. si presenta come questione “ancillare”), esse, a differenza delle precedenti, risultano ampiamente motivate. Anche per tali questioni, tuttavia, lo scrutinio di merito risulta precluso, a causa della perplessità e della contraddittorietà della motivazione contenuta nell’ordinanza di rimessione, che si snoda lungo due percorsi tra loro non conciliabili, e che, come si dirà, avrebbero, ciascuno, conseguenze ben distinte: percorsi e conseguenze fra cui questa Corte risulta inammissibilmente chiamata a scegliere.

3.1.– Da un primo punto di vista, l’ordinanza di rimessione chiede a questa Corte di dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 67, comma 8, del d. lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui ricomprende il reato di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen. pure nella sua forma non associativa, anche quando, dunque, lo stesso delitto non concorra con il reato di associazione per delinquere.

In tal caso, la strategia d’attacco alla disposizione censurata ha l’obbiettivo di rimuovere dal novero dei reati richiamati da tale disposizione – ricompresi nell’elenco recato dall’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. – quello di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, in quanto realizzato in forma non associativa.

Si tratterebbe, perciò, di una sentenza di accoglimento parziale, che inibirebbe, quanto al reato citato (in quanto commesso in forma non associativa), l’operatività del richiamo all’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. operato dalla disposizione direttamente censurata.

Dall’eventuale sentenza di accoglimento fondata su un simile percorso argomentativo deriverebbe che, in virtù dell’art. 67, comma 8, del d.lgs. n. 159 del 2011, non sarebbe consentita l’emissione di una comunicazione antimafia interdittiva quando la condanna per il reato di traffico illecito di rifiuti, confermata almeno in appello, non contempli, appunto, anche il concorso con il reato di cui all’art. 416 cod. pen.

Secondo questa prima prospettiva, dunque, l’automatismo censurato nella disposizione oggetto delle questioni di legittimità costituzionale dovrebbe essere sostituito, per così dire, da un automatismo di segno opposto: il dato oggettivo sulla cui base stabilire se la comunicazione interdittiva vada emessa, o meno, sarebbe, infatti, la sentenza che pronuncia la condanna.

In questo caso, semmai, la condotta rientrante nell’art. 452-quatercedies cod. pen. potrebbe rilevare, sostiene il rimettente, quale “reato-spia” ai sensi della disciplina sulla informazione antimafia, e perciò concorrere a sostenere la valutazione del prefetto circa la sussistenza, o meno, di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa.

3.2.– Da un secondo punto di vista, tuttavia, la stessa ordinanza di rimessione propone anche, sulla base di una ben diversa argomentazione, di dichiarare costituzionalmente illegittimo l’art. 67, comma 8, del d.lgs. n. 159 del 2011 nella parte in cui non prevede che, in caso di condanna per il reato di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen., debba essere valutata in concreto la sussistenza di elementi di connessione con il fenomeno associativo criminale.

Afferma, in particolare, l’ordinanza che, in tal caso, sarebbe infatti «necessaria» «un’ulteriore valutazione in concreto, non prevista dalla [disposizione censurata], in merito alla sussistenza dei requisiti riguardanti la connessione con il fenomeno associativo criminale». Significativamente, nella parte finale dell’ordinanza è richiamata la sentenza n. 24 del 2020 di questa Corte, che, pur in un ambito molto diverso, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 120, comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui dispone che il prefetto «provvede», anziché «può provvedere», alla revoca della patente di guida nei confronti di coloro che sono sottoposti a misura di sicurezza personale.

In modo sensibilmente diverso da quanto accadrebbe secondo la prima prospettiva, l’art. 67, comma 8, del d.lgs. n. 159 del 2011 dovrebbe dunque essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede, in caso di condanna per il reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, una valutazione in concreto circa l’effettiva connessione dei condannati con fenomeni criminali associativi.

In questa seconda prospettiva, la strategia d’attacco alla disposizione censurata non ha l’obbiettivo di rimuovere, di per sé, dai reati richiamati da tale disposizione – fra quelli ricompresi nell’elenco recato dall’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. – quello di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, in quanto realizzato in forma non associativa. Non ha, in altri termini, l’obbiettivo di “sostituire” l’automatismo censurato con uno di segno opposto. Secondo la logica che ha mosso la sentenza n. 24 del 2020 di questa Corte, significativamente richiamata dal rimettente, essa ha invece lo scopo di introdurre, con riferimento allo specifico reato previsto all’art. 452-quaterdecies cod. pen. – ma secondo una logica “espansiva”, che ben potrebbe riguardare altri reati ricompresi dall’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. – il compimento di un’attività valutativa da esercitarsi sulla sentenza di condanna.

Di questa attività discrezionale, peraltro, non sono del tutto chiariti i presupposti e l’oggetto. Non è dato, infatti, comprendere se alla pubblica amministrazione sia sufficiente verificare (come avverrebbe in base al primo percorso argomentativo) la sussistenza di una condanna per il reato anche in forma associativa, alla luce delle oggettive risultanze giudiziarie. Oppure se, invece, sia richiesto all’autorità prefettizia l’esercizio di una attività discrezionale ancora più penetrante che, a prescindere dalle risultanze della sentenza, in caso di condanna per il reato in questione valuti comunque, in concreto, la sussistenza delle condizioni per emettere una comunicazione interdittiva.

Vero che, nell’ambito del suo complessivo iter argomentativo, più volte il rimettente richiama il diverso istituto dell’informazione antimafia e anche l’evenienza che, ai sensi dell’art. 89-bis cod. antimafia, a fronte di una richiesta di comunicazione antimafia il prefetto, accertati tentativi di infiltrazione mafiosa, emetta una informazione che tiene luogo della comunicazione. Ma non chiarisce se la discrezionalità, che ritiene necessario restituire all’autorità amministrativa per effetto di una declaratoria di illegittimità costituzionale, sia, per l’appunto, quella propria della disciplina dell’informazione antimafia o una “nuova” discrezionalità, da ricostruire nello specifico ambito della comunicazione antimafia.

4.– L’ordinanza mantiene irrisolte e compresenti le due descritte, ben diverse, prospettive argomentative. Questa Corte, tuttavia, non può essere chiamata a scegliere tra di esse. Ne risulta, inevitabilmente, l’inammissibilità anche di questo gruppo di censure, per contraddittorietà e ambiguità della motivazione (sentenze n. 123 del 2021, n. 254 del 2020, n. 153 del 2020, n. 175 del 2018 e n. 247 del 2015; ordinanza n. 159 del 2021).

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 67, comma 8, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136) «come richiamato dal secondo comma dell’art. 84» del medesimo d.lgs. n. 159 del 2011, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, 27, 38 e 41 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, sezione prima, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 aprile 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Nicolò ZANON, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 10 maggio 2022.