Sentenza n. 123 del 2021

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SENTENZA N. 123

ANNO 2021

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 124, comma 4, della legge della Regione Siciliana 1° settembre 1993, n. 25 (Interventi straordinari per l’occupazione produttiva in Sicilia), come sostituito dall’art. 29 della legge della Regione Siciliana 5 novembre 2004, n. 15 (Misure finanziarie urgenti. Assestamento del bilancio della Regione e del bilancio dell’Azienda delle foreste demaniali della Regione Siciliana per l’anno finanziario 2004. Nuova decorrenza di termini per la richiesta di referendum), promosso dalla Corte d’appello di Palermo, prima sezione civile, nel procedimento vertente tra M. M. e altri e il Comune di Palermo, con ordinanza del 24 settembre 2020, iscritta al n. 169 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Visti gli atti di costituzione di G. M., anche nella qualità di procuratore generale di G. M., entrambi nella qualità di eredi di F.P. M. e di G. M. e altri, nonché l’atto di intervento della Regione Siciliana;

udita nell’udienza pubblica del 23 marzo 2021 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta;

uditi l’avvocato Luca Giardina Cannizzaro per G. M., anche nella qualità di procuratore genitoriale di G. M., entrambi nella qualità di eredi di F.P. M. e di G. M. e altri, e l’avvocata Giuseppa Mistretta per la Regione Siciliana, in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 16 marzo 2021;

deliberato nella camera di consiglio del 28 aprile 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 24 settembre 2020, iscritta al n. 169 del registro ordinanze 2020, la Corte d’appello di Palermo, prima sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 124, comma 4, della legge della Regione Siciliana 1° settembre 1993, n. 25 (Interventi straordinari per l’occupazione produttiva in Sicilia), come sostituito dall’art. 29 della legge della Regione Siciliana 5 novembre 2004, n. 15 (Misure finanziarie urgenti. Assestamento del bilancio della Regione e del bilancio dell’Azienda delle foreste demaniali della Regione Siciliana per l’anno finanziario 2004. Nuova decorrenza di termini per la richiesta di referendum), «per contrasto con l’art. 117 Cost., anche alla luce dell’art. 6 e dell’art. 1 del primo Protocollo addizionale della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» (recte: dell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà, CEDU, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla medesima convenzione, firmato a Parigi il 20 marzo 1952).

2.– In punto di fatto, il rimettente riferisce che il procedimento ha avuto origine dall’opposizione, promossa dai proprietari di una porzione del palazzo Gulì, residenza nobiliare del Cinquecento, sita nel centro di Palermo, avverso la stima effettuata nel giudizio di primo grado delle indennità di espropriazione e di occupazione temporanea, relative a detto immobile e dovute dal Comune di Palermo.

2.1.– Nell’ordinanza si afferma che la Corte d’appello aveva accolto l’opposizione, determinando l’indennità di espropriazione sulla base del criterio del valore venale, previsto dall’art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica).

2.2.– Il giudice a quo espone, di seguito, che la sentenza della Corte d’appello veniva impugnata e che la Corte di cassazione (prima sezione civile, sentenza 5 marzo 2015, n. 4488) accoglieva il ricorso del Comune di Palermo, fondato sulla emanazione, nelle more tra la dichiarazione di pubblica utilità e la pronuncia del decreto di espropriazione, dell’art. 29, comma 1, della legge reg. Siciliana n. 15 del 2004, che, modificando l’art. 124, comma 4, della legge reg. Siciliana n. 25 del 1993, sulla determinazione dell’indennità di espropriazione di fabbricati, aveva stabilito l’applicabilità della disciplina dell’art. 13, terzo comma, della legge 15 gennaio 1885, n. 2892 (Risanamento della città di Napoli). Secondo tale disposizione, l’indennità per l’espropriazione di fabbricati deve essere determinata sulla base della «media del valore venale e dei fitti coacervati dell’ultimo decennio purché essi abbiano la data certa corrispondente al rispettivo anno di locazione». A tale criterio la norma censurata aggiunge l’ulteriore previsione secondo cui, «in mancanza di coacervo dei fitti, l’indennità è determinata sulla media tra il valore venale del fabbricato ed il coacervo della rendita catastale, rivalutata, dell’ultimo decennio».

2.3.– L’ordinanza precisa ulteriormente che, all’esito del giudizio di cassazione con rinvio, gli originari attori riassumevano la controversia dinanzi alla Corte di appello, eccependo, in via preliminare, il dubbio di legittimità costituzionale dell’art. 124, comma 4, della legge reg. Siciliana n. 25 del 1993, come modificato dall’art. 29, comma 1, della legge reg. Siciliana n. 15 del 2004, per violazione degli artt. 3, 42, 117, terzo e primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione ai parametri interposti di cui all’art. 1 Prot. addiz. CEDU e all’art. 6 CEDU. In particolare, nel rilevare che il criterio di calcolo introdotto «darebbe luogo a una ingiustificata disparità con la disciplina delle procedure espropriative realizzate nel restante territorio nazionale aventi a oggetto fabbricati legittimamente edificati, nelle quali, ai sensi dell’art. 38, comma 1, del 8 giugno 2001, n. 327, l’indennità è determinata nella misura pari al valore venale», le parti private chiedevano che le indennità oggetto di opposizione venissero determinate in misura corrispondente al valore di mercato dell’immobile espropriato.

3.– Tanto premesso, la Corte d’appello afferma che, in virtù della decisione resa dalla Corte di cassazione (sentenza n. 4488 del 2015) nello stesso giudizio, si imporrebbe l’applicazione della norma censurata alla fattispecie oggetto del giudizio in riassunzione. D’altro canto, precisato che a tale fattispecie, in mancanza del coacervo dei fitti, si dovrebbe applicare, in base alla citata disposizione regionale, il criterio della media tra il valore venale del fabbricato ed il coacervo della rendita catastale, motiva la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale. In particolare, deduce tale profilo dalla comparazione fra la stima, pari ad euro 112.577,15, cui conduce il richiamato criterio, e il valore dell’indennizzo cui si addiverrebbe, applicando, viceversa, il parametro del valore di mercato del bene espropriato, che, in base alla consulenza tecnica d’ufficio espletata nel corso del giudizio rescissorio, era stato quantificato in euro 217.649,00.

4.– Sotto il profilo, poi, della non manifesta infondatezza, il giudice a quo sostiene che la norma regionale censurata si porrebbe in insanabile contrasto con gli obblighi internazionali derivanti dall’art. 1 Prot. addiz. CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

4.1.– A tal fine, la Corte d’appello si riporta alla sentenza di questa Corte n. 348 del 2007, nella parte in cui dichiara che l’art. 117, primo comma, Cost. condiziona l’esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto degli obblighi internazionali e menziona la conseguente necessità di verificare la compatibilità delle norme da applicare con l’interpretazione data dalla Corte EDU alle regole convenzionali a tutela della proprietà.

4.2.– In particolare, dopo aver rapidamente rammentato la giurisprudenza costituzionale antecedente al 2007 (le sentenze n. 283 del 1993 e n. 5 del 1980) nonché la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, 29 marzo 2006, Scordino contro Italia, il rimettente argomenta sulla base della già citata sentenza n. 348 del 2007.

4.2.1.– Rileva, infatti, che la norma censurata sarebbe sostanzialmente sovrapponibile all’art. 5-bis, commi 1 e 2, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, già giudicato costituzionalmente illegittimo nel giudizio da ultimo richiamato, sicché la questione sollevata dinanzi a questa Corte risulterebbe «del tutto simile» a quella ivi decisa.

4.2.2.– Il giudice rimettente esclude, inoltre, la ricorrenza di una finalità di riforma economica o di giustizia sociale nella legislazione regionale siciliana, che potrebbe giustificare un indennizzo inferiore al valore venale, anche in base alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. La norma censurata, introdotta a posteriori con «evidenti finalità di contenimento della spesa», avrebbe integrato una legge caratterizzata da «un insieme molto eterogeneo di interventi, qualificati come “interventi straordinari per l’occupazione produttiva in Sicilia”, che non sono unificati da un unico filo conduttore o da una specifica e coerente finalità di riforma economica o di giustizia sociale».

5.– Il giudice a quo rileva, infine, l’insussistenza di elementi che consentano di pervenire a una risoluzione della questione in via interpretativa, partendo dalla constatazione secondo cui il riferimento operato dalla normativa regionale censurata alla disciplina di cui al terzo comma dell’art. 13 della legge n. 2892 del 1885 non potrebbe ritenersi un rinvio dinamico. In tal senso, deporrebbe l’espressa integrazione della disciplina statale oggetto di rinvio con la previsione dell’alternativa tra il coacervo dei fitti e quello della rendita catastale.

6.– Con atti depositati il 10, il 15 e il 18 dicembre 2020, si sono costituite in giudizio G. M. e G. M., nella qualità di eredi di F.P. M. e di G. M.; A. C. e G. P.S., quest’ultimo nella qualità di erede di M. M. e di G. M.; B. C. e E. S., nella qualità di eredi di G. S., parti ricorrenti nel giudizio a quo, insistendo per l’accoglimento delle questioni sollevate. Le difese delle parti hanno richiamato le censure del rimettente, ribadendo la violazione dei parametri evocati, oltre che dell’art. 42, terzo comma, Cost. In particolare, le parti hanno ribadito che il calcolo imposto dalla legge siciliana condurrebbe, nella generalità dei casi, a un dimidiamento del valore venale del bene espropriato; hanno enfatizzato l’impossibilità di considerare una tale indennità quale «serio ristoro»; hanno evidenziato la sostanziale sovrapponibilità fra la norma censurata e l’art. 5-bis dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla precedente sentenza n. 348 del 2007; hanno, infine, contestato la possibilità di ravvisare obiettivi di riforma economica o di giustizia sociale negli interventi finalizzati al risanamento del centro storico cittadino.

7.– Con atto depositato il 22 dicembre 2020, a mezzo PEC, e` intervenuto il Presidente della Regione Siciliana, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e, comunque, non fondate.

7.1.– In primo luogo, la difesa regionale eccepisce l’inammissibilità delle questioni in relazione alle lettere a) e c) dell’art. 124, comma 4, della legge reg. Siciliana n. 25 del 1993, evidenziandone la irrilevanza nel giudizio a quo, alla luce della estraneità delle stesse ai fatti di causa, oltre che l’assenza di argomentazioni e censure rispetto a tali disposizioni. La Regione Siciliana ritiene, poi, inammissibile la questione anche con riferimento alla lettera b) dell’art. 124, comma 4, della legge reg. Siciliana n. 25 del 1993, per difetto di rilevanza, poiché «nel giudizio di rinvio, che è un procedimento “chiuso”, tendente ad una nuova pronuncia in sostituzione di quella cassata, non solo è inibito alle parti di ampliare il thema decidendum, formulando nuove domande e nuove eccezioni, ma operano le preclusioni che derivano dal giudicato implicito, formatosi con la sentenza della Corte di Cassazione. Di conseguenza, neppure le questioni esaminabili di ufficio, non rilevate dalla Corte Suprema, possono in sede di rinvio essere dedotte o comunque esaminate, giacché il loro esame tende a porre nel nulla o a limitare gli effetti della stessa sentenza di cassazione, in contrasto con il principio della sua intangibilità».

7.2.– La difesa regionale deduce, inoltre, quale ulteriore ragione di inammissibilità, il difetto di motivazione in relazione alla non manifesta infondatezza. Con riferimento all’art. 6 CEDU, il giudice si sarebbe limitato alla sua mera evocazione, senza svolgere alcuna argomentazione al fine di giustificare l’asserito contrasto della disposizione regionale con i principi dell’equo processo.

7.3.– Con riguardo, poi, all’art. 117, primo comma, Cost. e al parametro interposto di cui all’art. 1 Prot. addiz. CEDU, la difesa regionale sostiene la non fondatezza della questione, evidenziando che la norma censurata non sarebbe sovrapponibile all’art. 5-bis dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla sentenza n. 348 del 2007, poiché quest’ultimo riguardava l’espropriazione di aree edificabili. Inoltre, si rileva che le due norme detterebbero criteri di determinazione dell’indennità differenti: nella disposizione regionale, infatti, la rendita è presa a riferimento solo quale criterio sussidiario nella determinazione dell’indennità e non è prevista la decurtazione del quaranta per cento, in mancanza della cessione volontaria del bene.

7.4.– Infine, la difesa regionale argomenta la ricorrenza di una finalità di riforma economica o di giustizia sociale che, secondo la sentenza n. 348 del 2007 e le statuizioni della Corte EDU, giustificherebbe la riduzione dell’indennizzo, in ragione della finalità degli interventi previsti dalla legge regionale censurata, volti al recupero del centro storico di Palermo, a tutela del patrimonio storico-artistico della città, in conformità all’art. 9, secondo comma, Cost.

8.– All’udienza del 23 marzo 2021, le parti e la difesa erariale hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate negli scritti difensivi.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 24 settembre 2020, iscritta al reg. ord. n. 169 del 2020, la Corte d’appello di Palermo, prima sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 124, comma 4, della legge della Regione Siciliana 1° settembre 1993, n. 25 (Interventi straordinari per l’occupazione produttiva in Sicilia), come sostituito dall’art. 29 della legge della Regione Siciliana 5 novembre 2004, n. 15 (Misure finanziarie urgenti. Assestamento del bilancio della Regione e del bilancio dell’Azienda delle foreste demaniali della Regione siciliana per l’anno finanziario 2004. Nuova decorrenza di termini per la richiesta di referendum), per contrasto con l’art. 117 della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (di seguito, CEDU) e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla medesima Convenzione, firmato a Parigi il 20 marzo 1952. La disposizione censurata prevede, in particolare, che: «[l]e opere relative agli interventi che dovranno essere realizzati dal Comune per il recupero del centro storico di Palermo, sono dichiarate di pubblica utilità, indifferibili ed urgenti. Alle espropriazioni previste dalla presente legge si applicano le norme del titolo II della legge 2 ottobre 1971, n. 865 e riguardo alla determinazione delle indennità: a) per le aree libere, quelle di cui ai commi 1, 2, 3 e 4 dell’articolo 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito con modificazioni dalla legge 8 agosto 1992, n. 359; b) per i fabbricati, quelle di cui al comma 3 dell’articolo 13 della legge 15 gennaio 1885, n. 2892. In mancanza di coacervo dei fitti, l’indennità è determinata sulla media tra il valore venale del fabbricato ed il coacervo della rendita catastale, rivalutata, dell’ultimo decennio; c) per le aree sulle quali insistono ruderi, quelle di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, convertito con modificazioni dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, sostituendo al reddito dominicale rivalutato il coacervo della rendita catastale, rivalutata, dell’ultimo decennio».

2.– A parere del rimettente, in virtù della decisione resa dalla Corte di cassazione (prima sezione civile, sentenza 5 marzo 2015, n. 4488) nel giudizio rescindente, si renderebbe necessaria l’applicazione della norma censurata e, alla luce dei dati di fatto acquisiti nell’istruttoria, emergerebbe la chiara rilevanza del giudizio di legittimità costituzionale, per la sua incidenza sul criterio di determinazione dell’indennizzo per l’espropriazione di fabbricati e di occupazione temporanea.

3.– Secondo la Corte d’appello, la disposizione regionale si porrebbe in insanabile contrasto con gli obblighi internazionali derivanti dall’art. 1 Prot. addiz. CEDU, quale interpretato dalla Corte europea per i diritti dell’uomo.

3.1.– Il giudice a quo si sofferma, in particolare, sull’indirizzo accolto da questa Corte a partire dalla sentenza n. 348 del 2007 che, per un verso, ha riconosciuto alle norme CEDU l’idoneità a fungere da parametro interposto, e, per altro verso, anche sulla scorta della giurisprudenza convenzionale, ha reputato costituzionalmente illegittimo l’art. 5-bis, commi 1 e 2, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1992, n. 359, previsione che la Corte d’appello considera sostanzialmente sovrapponibile a quella regionale censurata.

3.2.– Il rimettente, inoltre, esclude che il tipo di ablazione cui si riferisce la legge regionale siciliana sia funzionale a obiettivi di riforma economica o di giustizia sociale.

4.– Infine, il giudice a quo dà atto di ritenere non percorribile l’interpretazione costituzionalmente orientata, argomentando sulla base di alcuni elementi letterali, oltre che della ratio della norma.

5.– Preliminarmente, risulta non fondata l’eccezione, avanzata dalla difesa regionale, di irrilevanza delle questioni, che discenderebbe dal carattere vincolante del giudicato interno formatosi a seguito della pronuncia della Corte di cassazione n. 4488 del 2015. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, se è vero che il giudice del procedimento in riassunzione è tenuto a conformarsi a quanto deciso dalla suprema Corte, è vero anche che, nel fare applicazione della norma al giudizio di rinvio, deve essere legittimato ad eccepirne l’illegittimità costituzionale (sentenze n. 293 del 2013 e n. 204 del 2012; ordinanza n. 118 del 2016).

6.– Le questioni sollevate sono, in ogni caso, inammissibili, in ragione delle ulteriori eccezioni avanzate dal Presidente della Regione Siciliana e dei vizi di seguito rilevati d’ufficio.

È, innanzitutto, fondata l’eccezione di irrilevanza, nel giudizio a quo, delle questioni relative alle lettere a) e c) dell’art. 124, comma 4, della legge della Regione Siciliana n. 25 del 1993, data la loro estraneità ai fatti di causa, che hanno ad oggetto un fabbricato e non aree libere, regolate dalla citata lettera a), né aree sulle quali insistono ruderi, disciplinate dalla richiamata lettera c).

7.– Quanto alla lettera b) della disposizione censurata (riferita, viceversa, ai fabbricati), deve ritenersi fondata l’eccezione di difetto di motivazione sollevata dalla difesa regionale in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., relativamente al parametro interposto dell’art. 6 CEDU.

Il giudice rimettente non articola, in proposito, alcuna specifica contestazione, limitandosi ad affermare l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata. In conformità alla giurisprudenza costante di questa Corte, ove manchi nell’ordinanza di rimessione un’adeguata e autonoma illustrazione delle ragioni a sostegno della violazione del parametro costituzionale evocato, la questione risulta viziata nel rito (ex plurimis, sentenze n. 240 del 2017, n. 219 del 2016 e n. 120 del 2015).

8.– Parimenti inammissibile, per inadeguatezza della motivazione, per incompleta ricostruzione del quadro normativo di riferimento e per indeterminatezza del petitum, è l’ulteriore questione di legittimità costituzionale sollevata, con riguardo sempre alla citata lettera b), in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., relativamente al parametro interposto dell’art. 1 Prot. addiz. CEDU.

8.1.– Secondo la giurisprudenza di questa Corte, il giudizio sulla conformità ai principi costituzionali, nonché agli obblighi convenzionali, dell’indennizzo per l’espropriazione dipende dalle caratteristiche essenziali del bene ablato; dal tipo di procedimento espropriativo previsto dalla normativa; dal carattere congruo, serio e adeguato dell’indennità (si vedano, in particolare, le sentenze n. 181 del 2011 e n. 348 del 2007).

8.1.1.– Per converso, l’ordinanza di rimessione si limita a motivare per relationem l’illegittimità costituzionale, adducendo che l’art. 5-bis, commi 1 e 2, del d.l. n. 333 del 1992, reputato costituzionalmente illegittimo dalla citata sentenza n. 348 del 2007, sarebbe «pressoché sovrapponibil[e]» alla norma regionale censurata.

Sennonché le due disposizioni non sono affatto sovrapponibili e divergono non solo per i criteri che evocano, ma in primis per il profilo determinante costituito dalla natura del bene oggetto della previsione relativa all’indennizzo: l’art. 5-bis si riferisce ai terreni edificabili; l’art. 124, comma 4, lettera b), censurato nel presente giudizio, riguarda i fabbricati, con quanto ne consegue anche in termini di possibile incidenza sul diritto all’abitazione.

8.1.2.– Altrettanto assertoria e inconferente è la motivazione sulla insussistenza nella legislazione regionale censurata del presupposto della riforma economica o di giustizia sociale, che viene ritenuta assente, adducendo, oltre ad una constatazione meramente tautologica, il solo carattere eterogeneo delle finalità perseguite dalla legge regionale.

Nulla, peraltro, si argomenta sulla congruità dell’indennizzo individuato dalla norma censurata, anche nell’ipotesi in cui si ravvisassero dette finalità.

8.2.– Sotto il profilo, poi, della ricostruzione del quadro normativo, l’ordinanza riferisce che lo scrutinio di legittimità costituzionale, alla luce dei principi illustrati da questa Corte, «deve essere condotto in modo da verificare […] se le norme della Convenzione E.D.U. invocate come integrazione del parametro, nell’interpretazione ad esse data dalla medesima Corte, siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano» (in senso conforme, si vedano, ex plurimis, sentenze n. 193 del 2016, n. 181 del 2011, n. 311 del 2009 e n. 348 del 2007).

Nondimeno, il giudice a quo, salvo rammentare che, prima della sentenza n. 348 del 2007, questa Corte si era occupata in altri precedenti dell’indennità di espropriazione, sulla base all’art. 42 Cost., omette qualsivoglia argomentazione volta a coordinare l’art. 1 Prot. addiz. CEDU con la citata norma costituzionale.

In particolare, non tiene conto degli sviluppi successivi alla sentenza n. 348 del 2007, a partire dal confronto con l’importante riforma del testo unico espropri (di cui al decreto del Presidente della Repubblica, 8 giugno 2001, n. 327, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità – Testo A»), introdotta con l’art. 2, comma 89, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)», proprio al fine di adeguare la stima degli indennizzi ai principi formulati da questa Corte, in coordinamento con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Più in generale, neppure un cenno viene riservato al raffronto tra la norma regionale e i criteri di determinazione degli indennizzi previsti per i fabbricati dalla legislazione nazionale, onde uniformare, nel rispetto dell’art. 42 Cost., la stima del valore della proprietà (si vedano le sentenze n. 64 del 2021 e n. 153 del 1995).

8.3.– Da ultimo, deve rilevarsi l’indeterminatezza del petitum di cui all’ordinanza di rimessione.

Questa Corte ha costantemente affermato che «l’ordinanza di rimessione delle questioni di legittimità costituzionale non necessariamente deve concludersi con un dispositivo recante altresì un petitum, essendo sufficiente che dal tenore complessivo della motivazione emerga[no] con chiarezza il contenuto ed il verso delle censure» (sentenza n. 176 del 2019; nello stesso senso, sentenza n. 175 del 2018).

Tuttavia, dalla lettura del dispositivo dell’ordinanza di rimessione, anche alla luce della motivazione, si profila, a ben vedere, un difetto di chiarezza circa il verso delle censure, risultando incerto lo stesso tipo di intervento richiesto, se manipolativo o meramente ablativo della normativa censurata (sentenze n. 21 del 2020 e n. 239 del 2019).

In alcuni passaggi della motivazione, il rimettente sembra richiedere una pronuncia di tipo manipolativo, che vada a sostituire il criterio adottato dalla norma impugnata, rimuovendo il solo riferimento alla rendita catastale, con l’esito di preservare nella lettera b) della disposizione censurata l’alternativa tra la media del valore venale e del coacervo dei fitti e il valore venale tout court. L’ordinanza, infatti, riconosce che, con il coacervo dei fitti, sin dai tempi della legge di risanamento della città di Napoli, «si intendeva […] indennizzare i proprietari per il venire meno di un reddito concreto costituito dai fitti che gli stessi percepivano e l’indennizzo così calcolato poteva essere anche più alto del valore venale del bene in sé e per sé considerato». Tale giudizio positivo sembrerebbe, dunque, voler preservare la norma, purché depurata dal criterio della rendita catastale, censurato dal rimettente in quanto abbatterebbe del cinquanta per cento il valore venale del bene.

Per converso, nel dispositivo dell’ordinanza pare emergere una richiesta di intervenire con una pronuncia di mero accoglimento sull’intero art. 124, comma 4, della legge reg. Siciliana n. 25 del 1993, che oltretutto – come si è sopra rilevato – solo nella lettera b) si riferisce ai fabbricati.

In definitiva, l’incertezza che scaturisce dall’alternativa sopra richiamata conferma l’indeterminatezza del petitum (ex plurimis, sentenze n. 21 e n. 7 del 2020, e n. 239 del 2019).

9.– Da quanto sopra illustrato, consegue l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 124, comma 4, della legge della Regione Siciliana 1° settembre 1993, n. 25 (Interventi straordinari per l’occupazione produttiva in Sicilia), come sostituito dall’art. 29 della legge della Regione Siciliana 5 novembre 2004, n. 15 (Misure finanziarie urgenti. Assestamento del bilancio della Regione e del bilancio dell’Azienda delle foreste demaniali della Regione Siciliana per l’anno finanziario 2004. Nuova decorrenza di termini per la richiesta di referendum), sollevate, in riferimento all’art. 117 della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla medesima Convenzione, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, dalla Corte d’appello di Palermo, prima sezione civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 aprile 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Emanuela NAVARRETTA, Redattrice

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 giugno 2021.