Sentenza n. 254 del 2020

SENTENZA N. 254

ANNO 2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Mario Rosario MORELLI;

Giudici: Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro), e degli artt. 1, 3 e 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), promosso dalla Corte d’appello di Napoli, nel procedimento instaurato da C. R. contro B. srl, con ordinanza del 18 settembre 2019, iscritta al n. 39 del registro ordinanze 2020 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2020.

Visto l’atto di costituzione di C. R.;

udito nell’udienza pubblica del 3 novembre 2020 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

uditi gli avvocati Maria Matilde Bidetti e Arcangelo Zampella per C. R.;

deliberato nella camera di consiglio del 4 novembre 2020.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 18 settembre 2019, iscritta al n. 39 del registro ordinanze 2020, la Corte d’appello di Napoli ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e degli artt. 1, 3 e 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183).

La Corte rimettente espone di dovere decidere sul ricorso di C. R., una lavoratrice che ha impugnato il licenziamento collettivo intimato il 1° luglio 2016 «per violazione dei criteri di scelta […] e comunque per violazione della procedura». Alla parte ricorrente nel giudizio principale, assunta dopo il 7 marzo 2015, si applicherebbe la disciplina dell’art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, nella versione antecedente alle innovazioni apportate dal decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96.

1.1.– In primo luogo, la Corte d’appello di Napoli ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014 e degli artt. 1 e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, quest’ultimo «sia unitariamente inteso che nel combinato disposto con l’art. 3 del medesimo decreto legislativo», in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35, 38, 41 e 111 della Costituzione. Le disposizioni censurate irragionevolmente introdurrebbero un regime sanzionatorio differenziato «a seconda della data di assunzione» nell’ipotesi della «stessa violazione dei criteri di scelta, avvenuta contestualmente in una medesima procedura di licenziamento collettivo tra omogenei rapporti di lavoro».

Il giudice a quo denuncia, anzitutto, la violazione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.).

Il rimettente assume che «una medesima violazione realizzatasi in un medesimo momento, afferente ai criteri di scelta di una stessa procedura» conduca a «forme di tutela profondamente difformi per misura di indennizzo, per tipologia di provvedimento e per capacità dissuasiva». Solo per i rapporti di lavoro instaurati fino al 7 marzo 2015, sarebbe riconosciuta una tutela reintegratoria, «all’interno di un modello processuale caratterizzato da efficace celerità» e con la «ricostituzione integrale della posizione previdenziale». Per i rapporti di lavoro sorti a decorrere dal 7 marzo 2015, la reintegrazione sarebbe esclusa.

Il fluire del tempo non potrebbe legittimare «l’applicazione di sanzioni adeguate e dissuasive per alcuni e non effettive per altri». Né, con riguardo a una procedura di licenziamento collettivo, la finalità di incentivare l’occupazione potrebbe giustificare in modo plausibile un trattamento difforme di vecchi e nuovi assunti.

Il rimettente prospetta, inoltre, la violazione dell’art. 3 Cost., sotto un distinto profilo, correlato agli artt. 4 e 35 Cost. Il sistema di tutela delineato dal legislatore sarebbe inidoneo a ristorare il danno subìto per effetto di un licenziamento collettivo illegittimo e non presenterebbe un’adeguata capacità di deterrenza. Il riconoscimento di una tutela eminentemente indennitaria non salvaguarderebbe il «diritto del prestatore alla conservazione del posto di lavoro, che costituisce la fonte del proprio sostentamento».

Per le medesime ragioni, la disciplina in esame sarebbe lesiva anche dell’art. 41 Cost., in quanto comprometterebbe il «rispetto dei valori della dignità umana e dell’utilità sociale, che deve caratterizzare l’iniziativa economica privata, anche nella particolare espressione che connota il riconosciuto potere del datore di lavoro di recedere (legittimamente) dal contratto di lavoro».

L’inadeguatezza caratterizzerebbe anche il profilo previdenziale e processuale.

Ad avviso del rimettente, solo la reintegrazione, limitata ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, tutelerebbe «la pienezza della posizione previdenziale». La disciplina censurata, nell’escludere la reintegrazione, contrasterebbe con l’art. 38 Cost.

Per quel che attiene alle implicazioni processuali della disciplina, l’eliminazione del “rito Fornero” (art. 1, commi da 47 a 68, della legge 28 giugno 2012, n. 92, recante «Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita»), introdotto allo scopo di garantire in maniera più rapida i diritti del lavoratore illegittimamente licenziato, pregiudicherebbe l’effettività della tutela giurisdizionale. In contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost., il nuovo modello processuale, applicabile ai lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, differirebbe il ristoro del pregiudizio subìto, «peraltro limitato, e non assistito dalla ricostruzione del presupposto pensionistico».

1.2.– La Corte d’appello di Napoli, in secondo luogo, censura l’art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, «sia unitariamente inteso che nel combinato disposto con l’art. 3 del d.lgs. 23/15», sul presupposto che la materia dei licenziamenti collettivi sia riconducibile alle «competenze normative dell’Unione» e che dunque si possano invocare le disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. L’introduzione di un sistema sanzionatorio inefficace violerebbe i «vincoli derivanti dall’adesione all’Unione Europea e ai trattati internazionali», che presentano una «diretta incidenza costituzionale per il tramite del contenuto normativo degli artt. 10 e 117, 1° co., Cost.».

Le disposizioni censurate, «nell’ambito di una stessa procedura di licenziamento collettivo», introdurrebbero per i soli lavoratori assunti a far data dal 7 marzo 2015 «un sistema sanzionatorio peggiorativo in quanto privo dei caratteri di efficacia ed effettività della sanzione, che le fonti internazionali impongono quale necessaria tutela di un diritto sociale fondamentale». Esse violerebbero, anzitutto, gli artt. 10 e 117, primo comma, Cost., attraverso l’interposizione dell’art. 30 CDFUE, che riconoscerebbe il diritto di ogni lavoratore alla tutela contro il licenziamento ingiustificato, in conformità al diritto dell’Unione e alle legislazioni e alle prassi nazionali.

Secondo il rimettente, la previsione citata non rappresenterebbe «una disposizione meramente programmatica priva di un proprio nucleo precettivo specifico attuabile nel giudizio», ma vincolerebbe «la potestà normativa» dei singoli Stati in base agli artt. 10 e 117, primo comma, Cost., a prescindere «dalla integrazione eteronoma degli interventi rimessi ai singoli Stati». Il contenuto precettivo dell’art. 30 CDFUE sarebbe definito dall’art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30. Tale fonte internazionale, richiamata nelle Spiegazioni che accompagnano l’art. 30 CDFUE, identificherebbe la tutela del lavoratore, in caso di licenziamento illegittimo, in un congruo indennizzo o in un’altra misura adeguata.

Le disposizioni in esame determinerebbero «un arretramento di tutela», che porrebbe «l’assetto normativo censurato in conflitto anche con gli artt. 20, 21 e 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione», rilevanti nell’ordinamento interno per il tramite degli artt. 10 e 117, primo comma, Cost. L’applicazione di sanzioni difformi per «violazioni del tutto equiparabili», nel pregiudicare «i lavoratori più giovani», si porrebbe in contrasto con i princìpi di eguaglianza (art. 20 CDFUE) e di non discriminazione (art. 21 CDFUE).

L’apparato sanzionatorio introdotto dalle disposizioni censurate non sarebbe neppure compatibile con l’art. 47 CDFUE, che imporrebbe di «assicurare un rimedio efficace, effettivo e con capacità di inibire la violazione di un diritto fondamentale».

1.3.– L’art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, «sia unitariamente inteso che nel combinato disposto con l’art. 3 del d.lgs. 23/15», sarebbe lesivo, infine, degli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., «nella parte in cui ha introdotto in assenza di una specifica attribuzione normativa e comunque in violazione dei principi e dei criteri direttivi della legge delega, una disciplina sanzionatoria per i licenziamenti collettivi, statuendo un modello sanzionatorio in contrasto con i principi e i diritti fondamentali dell’Unione e con le Convenzioni internazionali».

L’estensione ai licenziamenti collettivi del sistema sanzionatorio «previsto per i “licenziamenti economici”» confliggerebbe «con l’oggetto, i principi e i criteri direttivi della legge che ha conferito al Governo il temporaneo potere di legiferare». La legge di delega riguarderebbe soltanto i licenziamenti individuali, senza estendersi alla diversa materia dei licenziamenti collettivi, come dimostrerebbero i lavori parlamentari (sedute del 17 febbraio 2015 della Commissione lavoro della Camera dei deputati e dell’11 febbraio 2015 della Commissione lavoro pubblico e privato, previdenza sociale del Senato della Repubblica).

Una delega destinata a incidere «profondamente su materie di rilevanza dell’Unione» avrebbe richiesto «una chiara ed esplicita enunciazione». Per garantire «il raccordo tra l’ordinamento italiano e i processi normativi dell’UE», sarebbe necessaria quella «articolata procedura di elaborazione», prevista dall’art. 30 della legge 24 dicembre 2012, n. 234 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea).

La disciplina in esame si porrebbe, inoltre, in contrasto con l’art. 76 Cost. anche sotto un differente profilo, strettamente connesso con la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. Essa, nell’apprestare un «modello inadeguato di tutela», violerebbe l’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014 e l’obbligo ivi prescritto di rispettare il diritto dell’Unione europea e le convenzioni internazionali.

2.– Con atto depositato il 15 maggio 2020, si è costituita C. R., parte ricorrente nel giudizio principale, e ha chiesto l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’appello di Napoli.

Le questioni in esame sarebbero ammissibili, perché suffragate da una motivazione adeguata in merito alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza e accompagnate dalla formulazione di un petitum inequivocabile.

Esse, inoltre, sarebbero fondate, anzitutto in riferimento ai «principi direttamente posti dalla Costituzione italiana», che assicurano una «tutela più ampia e completa».

La disciplina censurata sarebbe lesiva del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.).

A fronte della violazione dei criteri di scelta, nell’àmbito della medesima procedura coesisterebbero forme di tutela quanto mai eterogenee, distinte in base alla data dell’assunzione. Ai lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015, sarebbe riconosciuta una tutela meramente indennitaria, con esclusione della reintegrazione e del pieno ripristino della posizione previdenziale, garantiti ai soli lavoratori assunti in epoca anteriore. Né il fluire del tempo né la finalità di incentivare l’occupazione, estranea all’area di licenziamenti collettivi, potrebbero giustificare la contemporanea applicazione di due regimi diversificati a soggetti che si trovano in una identica situazione di fatto.

Una sanzione di tipo meramente indennitario non rappresenterebbe un adeguato ristoro del pregiudizio sofferto e un’efficace dissuasione, in contrasto con gli artt. 3, 4 e 35 Cost., che impongono di assicurare piena tutela ai diritti del lavoratore illegittimamente licenziato.

Sarebbe violato anche l’art. 38 Cost. Al venir meno della contribuzione obbligatoria, correlata alla perdita del posto di lavoro, non potrebbe sopperire la contribuzione figurativa, di importo minore, associata alla Nuova assicurazione sociale per l’impiego (NASpI).

L’eliminazione del “rito Fornero” determinerebbe «un ritardo nella erogazione di un indennizzo […] già decurtato ab origine» e vanificherebbe quel simultaneus processus, «necessario particolarmente per le violazioni dei criteri di scelta». In base alla data di assunzione, difatti, muterebbero i riti applicabili, con violazione dell’art. 24 Cost.

Il descritto sistema sanzionatorio, in quanto inefficace, colliderebbe con l’art. 30 CDFUE, che si ispira all’art. 24 della Carta sociale europea. Le decisioni del Comitato europeo dei diritti sociali, nell’interpretare tale ultima previsione anche con riguardo alla disciplina italiana dei licenziamenti collettivi, attribuirebbero rilievo primario alla tutela specifica.

La compresenza di regimi sanzionatori sperequati in una procedura unitaria si porrebbe in contrasto anche con i princìpi di eguaglianza (art. 20 CDFUE) e di non discriminazione (art. 21 CDFUE).

La disciplina dettata dall’art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015 lederebbe, da ultimo, l’art. 76 Cost. La legge n. 183 del 2014 non avrebbe conferito al legislatore delegato il potere di regolare la materia dei licenziamenti collettivi, che non potrebbe essere ricondotta all’àmbito dei licenziamenti economici e sarebbe da sempre assoggettata a «una disciplina differenziata rispetto ai licenziamenti individuali».

2.1.– In vista dell’udienza, la parte ha depositato una memoria illustrativa, per ribadire le conclusioni formulate nell’atto di costituzione.

La parte osserva, in linea preliminare, che, con l’ordinanza del 4 giugno 2020 (causa C-32/20, TJ contro Balga srl), la Corte di giustizia dell’Unione europea ha dichiarato manifestamente irricevibili le questioni pregiudiziali poste dalla Corte d’appello di Napoli.

A sostegno della fondatezza delle restanti censure, la parte richiama la decisione del Comitato europeo dei diritti sociali, pubblicata l’11 febbraio 2020, sul reclamo collettivo n. 158/2017 proposto dalla Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) contro l’Italia, e invoca l’autorevolezza peculiare di tali decisioni e la necessità di tenerne conto (si richiama la sentenza di questa Corte n. 194 del 2018).

Il Comitato, in particolare, avrebbe ritenuto incompatibile con l’art. 24 della Carta sociale europea un sistema di tutela meramente indennitaria, con la predeterminazione di un limite massimo, e avrebbe sottolineato che un rimedio risarcitorio potrebbe costituire una adeguata forma di riparazione, in alternativa alla reintegrazione, soltanto se assicurasse l’integrale ristoro del pregiudizio derivante dal licenziamento illegittimo.

La parte ha rilevato che il fulcro delle censure «non è tanto, e non è solo, la diversità di regimi applicati contestualmente in ragione del tempo», ma «la diversa portata protettiva dei due rimedi globalmente considerati», quello meramente indennitario, da ultimo introdotto con le disposizioni censurate, e quello reintegratorio, il solo efficace e dissuasivo.

Sarebbe, inoltre, irragionevole la scelta legislativa di accordare la tutela reintegratoria per la sola ipotesi del licenziamento orale e di negarla per quella, altrettanto grave, del licenziamento intimato in violazione dei criteri di scelta, definiti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, nel rispetto delle previsioni inderogabili della legge e dei princìpi di non discriminazione e di razionalità. Alla violazione dei criteri di scelta dovrebbe essere ricondotta anche la fattispecie del licenziamento collettivo «intimato in violazione delle percentuali di manodopera femminile e di lavoratori appartenenti alle categorie protette».

Alla luce di tali rilievi, la parte auspica «una pronuncia ablativa o manipolativa» di questa Corte, che riconduca ad legitimitatem le previsioni censurate.

3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri non è intervenuto in giudizio.

All’udienza del 3 novembre 2020, la parte costituita ha insistito per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate negli scritti difensivi.

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 39 del 2020), la Corte d’appello di Napoli dubita della legittimità costituzionale – per violazione degli artt. 3, 4, 24, 35, 38, 41, 111, 10 e 117, primo comma, della Costituzione, questi ultimi due in relazione agli artt. 20, 21, 30 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 e all’art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30 –, dell’art. 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e degli artt. 1, 3 e 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183).

Le questioni sono sorte in un giudizio di appello avente ad oggetto l’impugnazione di un licenziamento collettivo.

Il rimettente afferma di dover applicare l’art. 10, secondo periodo, del d.lgs. n. 23 del 2015. Tale disposizione, per l’inosservanza dei criteri di scelta che il giudice a quo ritiene di ravvisare nel caso di specie, richiama a sua volta quel che stabilisce l’art. 3, comma 1, del medesimo decreto legislativo per i licenziamenti intimati in difetto di giustificato motivo, oggettivo o soggettivo, o di giusta causa.

Il citato art. 3, comma 1, statuisce che il giudice «dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio», in un intervallo originariamente compreso tra un minimo di quattro e un massimo di ventiquattro mensilità.

Con una motivazione che supera il vaglio di non implausibilità, il giudice a quo argomenta che, per un licenziamento intimato il 1° luglio 2016, non viene in rilievo l’incremento dell’indennità nel minimo (sei mensilità) e nel massimo (trentasei mensilità), successivamente disposto dall’art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96.

L’art. 1 del d.lgs. n. 23 del 2015 individua nella data dell’assunzione il discrimine temporale tra la vecchia e la nuova disciplina, applicabile ai lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 o per i quali a decorrere dal 7 marzo 2015 l’originario contratto a tempo determinato sia stato convertito in contratto a tempo indeterminato.

Quanto alla disciplina che opera per i lavoratori assunti fino al 7 marzo 2015, a regolare le conseguenze della violazione dei criteri di scelta interviene l’art. 5, comma 3, terzo periodo, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro), così come modificato dall’art. 1, comma 46, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita).

La previsione citata dispone che il giudice annulli il licenziamento e condanni il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria, non superiore a dodici mensilità, «commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione».

Le censure si incentrano sulla complessiva inadeguatezza della tutela, esclusivamente indennitaria, ora prevista nell’ipotesi di licenziamenti collettivi intimati in violazione dei criteri di scelta. Le questioni possono essere aggregate in alcuni nuclei essenziali, nei termini di séguito esposti.

1.1.– Le disposizioni censurate contrasterebbero, anzitutto, con l’art. 3 Cost., in quanto, nel contesto della medesima procedura di licenziamento collettivo, introdurrebbero «un ingiustificato differente regime sanzionatorio» nell’ipotesi di violazione dei criteri di scelta.

Pur in presenza di «identiche violazioni relative a fattispecie del tutto omogenee, intervenute simultaneamente nella medesima procedura comparativa», sarebbero previsti due regimi sanzionatori «del tutto disomogenei per livelli di tutela», con una conseguente «irragionevole disparità di trattamento».

Il fluire del tempo non giustificherebbe una tale disomogeneità, nell’àmbito di un medesimo licenziamento collettivo, né si potrebbe invocare la finalità di «favorire l’ingresso nel mondo del lavoro dei nuovi assunti attraverso una flessibilizzazione dell’uscita», finalità che di per sé si contrappone alla disciplina dei licenziamenti collettivi.

Il giudice a quo denuncia, inoltre, il contrasto con l’art. 3 Cost., sotto un distinto profilo, correlato con gli artt. 4 e 35 Cost.

Il legislatore avrebbe attuato un irragionevole bilanciamento tra gli interessi di rilievo costituzionale, coinvolti nella disciplina dei licenziamenti collettivi. I lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 vedrebbero fortemente compresso il diritto, tutelato costituzionalmente, a restare occupati, mentre un’ampia flessibilità sarebbe riconosciuta al datore di lavoro nell’effettuare scelte di riduzione del personale.

Il sistema così congegnato, «del tutto svincolato dal danno effettivo» e parametrato alla retribuzione utile ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto (TFR), che la contrattazione collettiva potrebbe perfino azzerare, sarebbe privo di efficacia dissuasiva e non contribuirebbe a orientare il datore di lavoro verso un esercizio responsabile del potere di recesso.

Le medesime considerazioni inducono il rimettente a ritenere violato anche l’art. 41 Cost.: la disciplina in esame sacrificherebbe i «valori della dignità umana e dell’utilità sociale», che il datore di lavoro non può ignorare, neanche quando esercita la scelta di ridurre il personale occupato.

L’inadeguatezza della tutela si coglierebbe anche guardando al profilo previdenziale, come pure a quello processuale.

Per il profilo previdenziale, la Corte rimettente sostiene che solo la reintegrazione assicura «[i]l ripristino della posizione previdenziale effettiva». La tutela indennitaria implicherebbe la «perdita della posizione contributiva», che non sarebbe compensata dal sistema degli ammortizzatori sociali. Vi sarebbe dunque contrasto con l’art. 38 Cost.

Nel considerare il profilo processuale, le censure si incentrano sulla scelta del legislatore di eliminare lo speciale e più celere “rito Fornero” (art. 1, commi da 47 a 68, della legge n. 92 del 2012), applicabile «alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro».

Le controversie in esame sarebbero ora trattate secondo il meno spedito rito ordinario di cognizione. Il legislatore avrebbe violato gli artt. 24 e 111 Cost., rendendo «meno efficace, perché privo di immediatezza», il rimedio giurisdizionale.

1.2.– L’inefficace sistema sanzionatorio infrangerebbe anche gli «obblighi derivanti dall’adesione ai Trattati dell’Unione» e la «normativa interposta», in particolare la Carta sociale europea, che prevedono sanzioni effettive «quale necessaria tutela di un diritto sociale fondamentale».

La Corte d’appello di Napoli muove dal presupposto che, per effetto della direttiva 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, tale disciplina sia «ormai “attratta” nelle competenze concretamente attuate dall’Unione Europea» e che tanto basti per ricondurla nell’àmbito di applicazione della CDFUE.

Le previsioni censurate lederebbero il diritto a una tutela effettiva, efficace, adeguata e dissuasiva contro i licenziamenti ingiustificati, in violazione degli artt. 10 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 30 CDFUE e all’art. 24 della Carta sociale europea.

Secondo la Corte rimettente, l’art. 30 CDFUE non rappresenterebbe «una disposizione meramente programmatica priva di un proprio nucleo precettivo specifico attuabile nel giudizio», ma porrebbe «un vincolo nei confronti del Legislatore nazionale», poiché, interpretato alla luce dell’art. 24 della Carta sociale europea, dovrebbe comportare un congruo indennizzo o altre misure adeguate nel caso di licenziamento ingiustificato.

Il giudice a quo denuncia il contrasto con gli art. 10 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 20 e 21 CDFUE, in quanto «un sistema sanzionatorio, suscettibile di generare per violazioni del tutto equiparabili una sostanziale difformità di disciplina rispetto alla misura applicabile in capo al soggetto responsabile dell’illecito» rischierebbe di penalizzare «i lavoratori più giovani» e di introdurre disparità di trattamento.

Gli artt. 10 e 117, primo comma, Cost. sarebbero violati anche per il tramite dell’art. 47 CDFUE, che sancisce il diritto a rimedi adeguati, poiché il legislatore non avrebbe assicurato «un rimedio efficace, effettivo e con capacità di inibire la violazione di un diritto fondamentale».

1.3.– La scelta del legislatore delegato di estendere il nuovo regime sanzionatorio anche ai licenziamenti collettivi violerebbe, infine, l’art. 76 Cost.

La Corte d’appello di Napoli denuncia il contrasto con l’oggetto, i principi e i criteri direttivi della legge delega che, nel citare i licenziamenti economici, farebbe riferimento alle sole «ipotesi di recesso individuale per motivo oggettivo».

L’inadeguato modello di tutela delineato dal legislatore contrasterebbe con l’art. 76 Cost. e con l’art. 117, primo comma, Cost., per violazione dei criteri direttivi enunciati dall’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014, che vincolano il legislatore delegato al «puntuale rispetto dei principi e dei diritti sanciti» dalla normativa dell’Unione europea e dalle convenzioni internazionali.

2.– Occorre preliminarmente evidenziare taluni tratti peculiari che contraddistinguono la vicenda oggi sottoposta al vaglio di questa Corte e dare conto delle novità sopravvenute all’ordinanza di rimessione.

Con riguardo alla violazione delle norme della Carta di Nizza, il giudice a quo ha ritenuto di proporre contemporaneamente rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea e incidente di costituzionalità. La questione proposta in via pregiudiziale si prefigge, nell’ottica del doppio rinvio che il rimettente esperisce, di chiarire il «contenuto della Carta dei Diritti fondamentali», per assumere poi «una diretta rilevanza nel giudizio di costituzionalità»

2.1.– Come questa Corte ha ribadito di recente (sentenze n. 63 e n. 20 del 2019 e ordinanze n. 182 del 2020 e n. 117 del 2019), l’attuazione di un sistema integrato di garanzie ha il suo caposaldo nella leale e costruttiva collaborazione tra le diverse giurisdizioni, chiamate – ciascuna per la propria parte – a salvaguardare i diritti fondamentali nella prospettiva di una tutela sistemica e non frazionata.

A tale riguardo, non è senza significato che l’art. 19, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea (TUE), firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1° novembre 1993, consideri nel medesimo contesto – così da rivelarne il legame inscindibile – il ruolo della Corte di giustizia, chiamata a salvaguardare «il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati» (comma 1), e il ruolo di tutte le giurisdizioni nazionali, depositarie del compito di garantire «una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione» (comma 2).

2.2.– A séguito del rinvio pregiudiziale avviato dall’odierno rimettente, si è pronunciata per prima la Corte di giustizia dell’Unione europea che, con ordinanza del 4 giugno 2020 (causa C-32/20, TJ contro Balga srl), ha dichiarato manifestamente irricevibili le questioni proposte.

Tale decisione è incentrata sull’assenza «di un collegamento tra un atto di diritto dell’Unione e la misura nazionale in questione», collegamento richiesto dall’art. 51, paragrafo 1, della Carta di Nizza. Esso non si identifica nella mera affinità tra le materie prese in esame e nell’indiretta influenza che una materia esercita sull’altra (punto 26).

In consonanza con tali indicazioni, anche questa Corte opera una rigorosa ricognizione dell’àmbito di applicazione del diritto dell’Unione europea ed è costante nell’affermare che la CDFUE può essere invocata, quale parametro interposto, in un giudizio di legittimità costituzionale soltanto quando la fattispecie oggetto di legislazione interna sia disciplinata dal diritto europeo (sentenza n. 194 del 2018, punto 8. del Considerato in diritto e, già in precedenza, sentenza n. 80 del 2011, punto 5.5. del Considerato in diritto).

La direttiva 98/59/CE istituisce una procedura di consultazione dei rappresentanti dei lavoratori e di informazione dell’autorità pubblica competente, al fine di limitare il ricorso a riduzioni del personale e attenuarne le conseguenze mediante «misure sociali di accompagnamento intese in particolare a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori licenziati» (Corte di giustizia, ordinanza 4 giugno 2020, già citata, punto 30). Questa fonte di diritto secondario ha dato luogo, per la natura procedurale delle disposizioni ora richiamate, a una «armonizzazione parziale», che tuttavia «non si propone di realizzare un meccanismo di compensazione economica generale a livello dell’Unione in caso di perdita del posto di lavoro né armonizza le modalità della cessazione definitiva delle attività di un’impresa» (punto 31).

La violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, così come le modalità adottate dal datore di lavoro nel dar séguito ai licenziamenti, sono materie che, nella ricostruzione fornita dalla Corte di Lussemburgo, non si collegano con gli obblighi di notifica e di consultazione derivanti dalla direttiva 98/59 CE e restano, in quanto tali, affidate alla competenza degli Stati membri (punto 32).

Da questi rilievi discende che la situazione giuridica della ricorrente nel procedimento principale «non rientra nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione» e che l’interpretazione delle disposizioni della Carta dunque «non ha alcun rapporto con l’oggetto del procedimento principale» (punto 23).

3.– Sulle vicende ora richiamate questa Corte non ha ragione di esprimersi. Sussistono, infatti, molteplici profili di inammissibilità da esaminare d’ufficio.

4.– Il primo di tali profili attiene alla descrizione della fattispecie concreta e alla motivazione in ordine al requisito della rilevanza.

4.1.– La parte ricorrente nel giudizio principale ha impugnato il licenziamento collettivo, intimato il 1° luglio 2016, «per violazione dei criteri di scelta ai sensi dell’art. 5 della legge 223/91 e comunque per violazione della procedura» (punto 4.), come confermano anche le argomentazioni svolte nell’atto di costituzione della parte.

La Corte rimettente riferisce di dover decidere sull’appello proposto contro la sentenza di primo grado, che ha rigettato l’impugnazione del licenziamento collettivo «per genericità ed infondatezza dei motivi» (punto 3.).

In ordine alla rilevanza, il giudice a quo si limita a puntualizzare che un rapporto di lavoro sorto dopo il 7 marzo 2015 è assoggettato alla disciplina dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, che regola le «conseguenze sanzionatorie nel caso di accoglimento delle domande» (punto 8.).

La declaratoria di illegittimità costituzionale implicherebbe «un cambiamento del quadro normativo assunto dal giudice rimettente» e, in tale prospettiva, troverebbe conferma la rilevanza delle questioni proposte, che il giudice a quo sarebbe chiamato a illustrare con «una motivazione non implausibile» (punto 7.).

4.2.– La rilevanza del dubbio di costituzionalità non si identifica nell’utilità concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare (sentenza n. 174 del 2019, punto 2.1. del Considerato in diritto). Essa presuppone la necessità di applicare la disposizione censurata nel percorso argomentativo che conduce alla decisione e si riconnette all’incidenza della pronuncia di questa Corte su qualsiasi tappa di tale percorso.

4.3.– A fronte di un’impugnazione che investe l’inosservanza dei criteri di scelta e, in via subordinata, il mancato rispetto delle procedure, la Corte d’appello di Napoli non illustra in alcun modo le ragioni che inducono a privilegiare l’inquadramento della vicenda controversa nella prima delle fattispecie dedotte nel ricorso e, pertanto, a censurare la relativa disciplina sanzionatoria, comparandola, quanto a efficacia dissuasiva, a quella antecedente.

È proprio con riguardo alla violazione dei criteri di scelta, difatti, che appare netta la cesura tra la tutela reintegratoria assicurata dall’art. 5, comma 3, terzo periodo, della legge n. 223 del 1991 e la tutela meramente indennitaria introdotta dall’art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015. Per la violazione delle procedure, al contrario, non si riscontra una apprezzabile discontinuità, poiché anche la disciplina anteriore (art. 5, comma 3, secondo periodo, della legge n. 223 del 1991) contempla una tutela meramente indennitaria, pur se diversamente configurata.

L’onere di motivazione si rivela, peraltro, ancor più pregnante in un giudizio di appello, chiamato a sindacare, sulla base di specifici motivi di gravame, la correttezza di una decisione di primo grado che ha rigettato integralmente il ricorso.

La Corte rimettente non offre alcun ragguaglio sulle ragioni che fondano l’illegittimità del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta e inducono, dunque, a disattendere le valutazioni di segno contrario espresse dal giudice di primo grado.

Con riguardo alla disciplina sanzionatoria dei licenziamenti individuali viziati sotto il profilo sostanziale (sentenza n. 194 del 2018) o dal punto di vista formale o procedurale (sentenza n. 150 del 2020), questa Corte ha potuto scrutinare il merito delle censure anche alla luce dell’argomentazione esaustiva svolta in punto di rilevanza dai giudici a quibus, che hanno di volta in volta illustrato il ricorrere di una ipotesi di illegittimità, sostanziale o formale, dei licenziamenti impugnati e la necessità di applicare la corrispondente disciplina di protezione.

Pur consapevole del fatto che il dubbio di costituzionalità verte sulle conseguenze sanzionatorie previste solo nel caso di accoglimento delle domande (punto 8 citato), l’odierno rimettente trascura di descrivere la fattispecie concreta e di allegare elementi idonei a corroborare l’accoglimento dell’impugnazione in virtù di una violazione dei criteri di scelta, già esclusa dal giudice di prime cure.

L’applicazione della disciplina sanzionatoria, che il giudice a quo sospetta di incostituzionalità, richiede preventivamente l’individuazione dei vizi del licenziamento collettivo. Tale presupposto riveste un rilievo cruciale alla luce sia dell’alternativa che la parte delinea tra inosservanza dei criteri di scelta e inosservanza della procedura, sia dell’intervento di una pronuncia di primo grado che ha escluso ogni vizio dell’impugnato licenziamento collettivo.

Su tale ineludibile antecedente logico, il rimettente non si sofferma e omette, anche solo con un’argomentazione non implausibile, di avvalorare la rilevanza dei prospettati dubbi di costituzionalità.

Tali lacune nella descrizione della fattispecie concreta impediscono, dunque, a questa Corte di valutare la rilevanza delle questioni sollevate.

5.– A determinare l’inammissibilità delle questioni concorre, inoltre, l’incertezza in ordine all’intervento richiesto a questa Corte.

5.1.– Dalla formulazione delle censure, non è dato comprendere se il rimettente prefiguri l’integrale caducazione dell’art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui sanziona la violazione dei criteri di scelta, o una pronuncia sostitutiva, che allinei il contenuto precettivo di tale previsione alle soluzioni dettate dall’art. 5, comma 3, terzo periodo, della legge n. 223 del 1991, come ridefinito dall’art. 1, comma 46, della legge n. 92 del 2012.

È la stessa parte ricorrente nel giudizio principale che auspica, nella memoria illustrativa depositata in prossimità dell’udienza, «una pronuncia ablativa o manipolativa», con una indicazione perplessa, di per sé rivelatrice dell’ambiguità del petitum.

Né spetta a questa Corte sciogliere l’alternativa descritta, in difetto di indicazioni univoche da parte del rimettente.

5.2.– Egualmente irrisolta permane l’alternativa, che comunque investe le scelte eminentemente discrezionali del legislatore, tra il ripristino puro e semplice della tutela reintegratoria o la rimodulazione della tutela indennitaria, in una più accentuata chiave deterrente.

Dalla giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 150 del 2020, punto 9. del Considerato in diritto, n. 194 del 2018, punto 9.2. del Considerato in diritto, e n. 46 del 2000, punto 5. del Considerato in diritto) e dalle stesse fonti internazionali evocate dal giudice a quo (art. 24 della Carta sociale europea), si ricava, difatti, che molteplici possono essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per il lavoratore arbitrariamente licenziato.

Sia la tutela reintegratoria sia la tutela indennitaria possono essere diversamente modulate e ampio è il margine di apprezzamento che spetta al legislatore nell’attuazione dei diritti sanciti dagli artt. 4 e 35 Cost. e, in una prospettiva convergente, dall’art. 24 della Carta sociale europea.

A fronte di una vasta gamma di soluzioni, la Corte rimettente non enuncia in termini nitidi l’intervento idoneo a sanare le numerose sperequazioni censurate, sulla base di precisi punti di riferimento già presenti nella trama normativa.

Anche per tali ulteriori ragioni, le questioni di legittimità costituzionale devono essere dichiarate inammissibili.

6.– Tali profili assorbono ogni ulteriore ragione di inammissibilità.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e degli artt. 1, 3 e 10 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella versione antecedente alle modifiche dettate dall’art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35, 38, 41, 76, 111, 10 e 117, primo comma, della Costituzione, questi ultimi due in relazione agli artt. 20, 21, 30 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e all’art. 24 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30, dalla Corte d’appello di Napoli, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 novembre 2020.

F.to:

Mario Rosario MORELLI, Presidente

Silvana SCIARRA, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 novembre 2020.