SENTENZA N. 223
ANNO 2022
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Silvana SCIARRA
Giudici: Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia. (Testo A)», promosso dal Tribunale ordinario di Firenze, prima sezione penale, sull’istanza proposta da S. Z., con ordinanza del 26 agosto 2021, iscritta al n. 213 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell’anno 2022.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 5 ottobre 2022 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;
deliberato nella camera di consiglio del 5 ottobre 2022.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 26 agosto 2021 (reg. ord. n. 213 del 2021), il Tribunale ordinario di Firenze, prima sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, commi secondo e terzo, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia. (Testo A)», nella parte in cui ricomprende i reati di cui all’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), qualora ricorrano le ipotesi aggravate previste dall’art. 80, comma 1, lettere a) o g), del medesimo t.u. stupefacenti, tra quelli la cui condanna definitiva determini, in capo al reo, una presunzione di superamento dei limiti di reddito per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.
Il giudice rimettente riferisce che, una volta definito, con sentenza di assoluzione, un processo per il reato previsto e punito dagli artt. 2 e 76, comma 3, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), il difensore dell’imputato, ammesso a patrocinio a spese dello Stato, presentava istanza per la liquidazione del compenso.
A fronte del deposito di tale richiesta, peraltro, il giudice a quo rilevava che dal certificato penale dell’imputato risultava a carico dello stesso una sentenza di condanna, irrevocabile dalla data del 3 settembre 2018, per due reati ex art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti, aggravati ai sensi dell’art. 80, comma 1, lettere a) e g), del medesimo testo unico.
Poiché nella concreta fattispecie processuale l’imputato non aveva fornito, secondo le indicazioni della sentenza n. 139 del 2010 di questa Corte (che ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale della norma censurata laddove poneva una presunzione assoluta a carico dei soggetti condannati in via definitiva per i reati ostativi di superamento dei limiti di reddito), la prova contraria, posta a proprio carico, rispetto alla presunzione relativa di superamento del reddito posta, a fronte della condanna definitiva per tali reati, dall’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. n. 115 del 2002, sottolinea il rimettente che dovrebbe conseguentemente revocare, con effetti retroattivi, l’ammissione al patrocinio statale ai sensi dell’art. 112, lettera d), del d.P.R. n. 115 del 2002, per insussistenza, sin dal momento dell’ammissione, del presupposto di reddito per il conseguimento del beneficio ex art. 76, comma 1, dello stesso decreto.
Il Tribunale di Firenze dubita, pertanto, della conformità del descritto assetto normativo – la chiarezza del quale precluderebbe un’interpretazione costituzionalmente orientata – agli artt. 3 e 24, commi secondo e terzo, Cost.
In punto di rilevanza, il giudice rimettente osserva che, se le questioni sollevate fossero accolte, verrebbero meno i presupposti per la revoca del beneficio, consentendo la liquidazione del richiesto compenso al difensore.
In punto di non manifesta infondatezza, assume, in primo luogo, il contrasto della norma censurata con l’art. 3 Cost., in quanto – come può evincersi dalla stessa motivazione della citata sentenza n. 139 del 2010 – è dubbia la coerenza della disposizione censurata laddove include – tra i soggetti che non possono accedere senza limiti di tempo, per effetto di una presunzione, sebbene relativa, di conseguimento di un reddito superiore ai relativi limiti, al patrocinio a spese dello Stato – anche quelli condannati con pronuncia irrevocabile per la fattispecie di reato di cui all’art. 73 t.u. stupefacenti, ove ricorra, indistintamente, una delle circostanze aggravanti ex art. 80 del medesimo testo unico, in quanto si tratta di circostanze molto differenti tra loro specie in ordine all’incidenza sul possibile conseguimento di ingenti redditi da parte del reo.
Invero, la ratio della norma censurata, che vuole evitare che soggetti in possesso di ingenti ricchezze, acquisite con le proprie attività delittuose, possano fruire del beneficio dell’accesso al patrocinio a spese dello Stato, riservato ai non abbienti dall’art. 24, terzo comma, Cost., non sussisterebbe almeno rispetto ad alcune fattispecie aggravate del reato previsto e punito dall’art. 73 t.u. stupefacenti, comprese quelle per le quali era stato condannato l’imputato nel processo a quo, ossia quella contemplata dal comma 5 dell’art. 73, per fatti di «lieve entità», aggravata dalle lettere a) e g) del comma 1 dell’art. 80 t.u. stupefacenti (cessione di dette sostanze a soggetti minori di età in prossimità delle scuole).
Sottolinea, in particolare, il giudice rimettente che, se è vero che l’integrazione di siffatte circostanze incide indubbiamente sul disvalore del fatto, tuttavia non determina una maggiore redditività dell’attività delittuosa, con conseguente incoerenza della ricomprensione di tali fattispecie aggravate nell’ambito di quelle a fronte della condanna definitiva per quella che, in virtù di una condanna definitiva, fanno scattare la presunzione del possesso di un reddito superiore ai limiti contemplati dallo stesso art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002 per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.
Né secondo il Tribunale di Firenze tali dubbi di legittimità costituzionale sarebbero stati superati a seguito della “trasformazione”, per effetto dell’intervento additivo della citata sentenza n. 139 del 2010, della presunzione da assoluta in relativa, poiché a fronte di quest’ultima sarebbe comunque più gravoso l’onere probatorio posto a carico del condannato in via definitiva per i relativi reati, rispetto a chi sia incensurato o sia stato condannato in via definitiva per reati diversi, per essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato.
2.– Con atto depositato in data 31 gennaio 2022, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto dichiararsi le questioni di legittimità costituzionale inammissibili e comunque non fondate.
In particolare a seguito della “trasformazione”, per effetto della sentenza di questa Corte n. 139 del 2010, della presunzione posta dalla norma censurata da assoluta in relativa, dovrebbe essere escluso qualsivoglia vulnus all’esercizio del diritto di difesa, in quanto il soggetto interessato può addurre la prova contraria idonea a superare la presunzione di superamento dei limiti di reddito contemplati dall’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002.
Per altro verso, l’Avvocatura generale deduce che il giudice a quo avrebbe omesso di verificare la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, suffragata anche da un precedente di legittimità, nel senso di ritenere che la fattispecie autonoma di reato di cui al comma 5 dell’art. 73 t.u. stupefacenti non rientri, anche se aggravata ai sensi dell’art. 80 del medesimo testo unico, tra quelle in linea di principio ostative all’ammissione al patrocinio a spese dello Stato poiché a detta fattispecie di «lieve entità» non si associa il significativo provento illecito che giustifica la presunzione (in tal senso, Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 7 marzo-11 aprile 2018, n. 16127).
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 26 agosto 2021 (reg. ord. n. 213 del 2021), il Tribunale ordinario di Firenze, prima sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, commi secondo e terzo, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. n. 115 del 2002, nella parte in cui ricomprende anche i soggetti condannati con sentenza definitiva per i reati di cui all’art. 73 t.u. stupefacenti, qualora ricorrano le ipotesi aggravate previste dall’art. 80, comma 1, lettere a) o g), del medesimo testo unico, tra quelli per i quali si presume che abbiano un reddito superiore ai limiti previsti per l’accesso al patrocinio a spese dello Stato.
Il giudice rimettente riferisce che dal certificato penale dell’imputato era emerso che, già alla data dell’ammissione al beneficio, egli era stato condannato in via definitiva (con sentenza dello stesso Tribunale di Firenze del 18 aprile 2018, divenuta irrevocabile il 3 settembre 2018) per due reati ex art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti, aggravati ai sensi dell’art. 80, comma 1, lettere a) e g), del medesimo testo unico. Non avendo l’imputato fornito alcuna prova contraria in ordine al possesso di redditi inferiori ai limiti contemplati dall’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002, per effetto della presunzione posta dal comma 4-bis della stessa norma, il giudice rimettente dovrebbe revocare, con effetti retroattivi, l’ammissione al patrocinio statale ai sensi dell’art. 112, lettera d), del medesimo d.P.R.
Sul piano della rilevanza, il giudice rimettente evidenzia che, se le indicate questioni fossero accolte, verrebbero meno i presupposti per la revoca del beneficio e potrebbe così liquidare al difensore dell’imputato il compenso richiesto.
In punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale di Firenze assume, in primo luogo, un possibile contrasto della norma censurata con l’art. 3 Cost., in quanto la stessa non sarebbe coerente nella parte in cui ricomprende, nel novero dei soggetti che non possono accedere al beneficio del patrocinio a spese dello Stato per effetto di una presunzione (relativa) di superamento dei relativi limiti di reddito, anche quelli condannati con pronuncia irrevocabile per una fattispecie di reato di cui all’art. 73 t.u. stupefacenti, aggravata ex art. 80 del medesimo testo unico. Sarebbero, infatti, così irragionevolmente accomunati reati molto diversi tra loro specie in ordine all’incidenza sul possibile conseguimento di ingenti redditi da parte del reo.
Invero, la ratio della norma censurata, alla stregua di quanto sottolineato dalla sentenza n. 139 del 2010 di questa Corte, risiede nell’«evitare che soggetti in possesso di ingenti ricchezze, acquisite con le attività delittuose […], possano paradossalmente fruire del beneficio dell’accesso al patrocinio a spese dello Stato, riservato, per dettato costituzionale (art. 24, terzo comma) ai “non abbienti”». Tuttavia, detta ratio legis non sussisterebbe almeno rispetto ad alcune fattispecie aggravate del reato previsto e punito dall’art. 73 t.u. stupefacenti, comprese quelle per le quali era stato condannato l’imputato nel processo a quo, ossia quella del comma 5 di tale disposizione, aggravata ex art. 80, comma 1, lettere a) e g), t.u. stupefacenti (cessione di sostanze stupefacenti «di lieve entità» a soggetti minori di età in prossimità delle scuole).
Inoltre, l’onere di fornire una prova contraria a fronte di detta presunzione renderebbe comunque più gravoso l’accesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato all’imputato «non abbiente» che sia stato, in precedenza, condannato in via definitiva per reati di cui all’art. 73 t.u. stupefacenti rispetto a chi sia stato condannato, in via definitiva, per reati diversi, con conseguente violazione dell’art. 24, commi secondo e terzo, Cost.
2.– Sussiste la rilevanza delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, dovendo il giudice rimettente fare applicazione della disposizione censurata al fine di ritenere la sussistenza, o no, del diritto dell’imputato al patrocinio a spese dello Stato in ragione della mancanza della prova contraria rispetto alla presunzione di superamento del limite reddituale previsto per l’accesso al beneficio, che l’art. 76, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002 fissa in un reddito annuo ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) di euro 11.746,68 (decreto del Ministro della giustizia del 23 luglio 2020); presunzione nella fattispecie operante, in applicazione della disposizione censurata, per essere stato l’imputato condannato, in precedenza, con sentenza definitiva per il reato previsto dal comma 5 dell’art. 73 t.u. stupefacenti, con le aggravanti di cui al successivo art. 80, comma 1, lettere a) e g), per aver ceduto quantità «di lieve entità» di sostanza stupefacente a minori in prossimità di una scuola.
Il giudice rimettente ha, poi, sufficientemente motivato la non manifesta infondatezza delle sollevate questioni.
3.– In via ancora preliminare, c’è da considerare che l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per non avere il giudice a quo considerato, al fine di pervenire a una diversa ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale, nell’ipotesi di fatto «di lieve entità» punito dall’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti – che costituisce ormai un reato autonomo e non una semplice circostanza attenuante dei fatti di reato puniti dai commi precedenti – non opera in radice la presunzione contemplata dalla norma censurata e, quindi, anche ove ricorrano le aggravanti di cui al successivo art. 80 (in tal senso, Cassazione, sentenza n. 16127 del 2018).
È vero che, in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte, il mancato confronto con il complessivo quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento può determinare un’insufficiente motivazione dell’ordinanza di rimessione sulla non manifesta infondatezza, con conseguente inammissibilità della questione sollevata (ex multis, sentenze n. 36 del 2022, n. 114 del 2021, n. 265 e n. 102 del 2019 e n. 182 del 2018).
Ma nella fattispecie l’eccezione non è fondata perché il citato precedente di legittimità, la cui mancata considerazione da parte del giudice a quo avrebbe determinato la lacunosa ricostruzione dell’ordinanza di rimessione, è uno solo – per quanto consta e secondo quanto dedotto dall’Avvocatura generale – come tale inidoneo, di norma, a identificare una situazione di diritto vivente, sì da fugare, con l’interpretazione conforme, i sollevati dubbi di illegittimità costituzionale.
4.– Tuttavia l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale e la simmetrica deduzione di non fondatezza delle questioni in esame per essere possibile l’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata, riferite entrambe al solo reato di cessione di sostanze stupefacenti «di lieve entità», quale previsto dal comma 5 dell’art. 73 t.u. stupefacenti, quand’anche aggravato dalle circostanze di cui al successivo art. 80, offrono lo spunto per precisare l’oggetto e il perimetro delle questioni di legittimità costituzionale.
È infatti possibile, in generale, «individuare l’oggetto della questione da scrutinare, in quanto non coincidente con il portato letterale del petitum formulato dal ricorrente (ex multis, sentenze n. 36 del 2021, n. 217 e n. 193 del 2020)» (sentenza n. 145 del 2021).
Il giudice a quo – si legge nell’ordinanza di rimessione – «dubita […] della legittimità costituzionale dell’art. 76, co. 4-bis, DPR 115/2002 nella parte in cui ricomprende – tra i soggetti per i quali si presume un reddito superiore ai limiti previsti – i soggetti condannati con sentenza definitiva per i reati di cui all’art. 73 DPR 309/1990 ove ricorrano le ipotesi aggravate di cui all’art. 80, lett. a) o lett. g)» del medesimo testo unico.
Questa formulazione testuale del petitum appare per un verso eccedente, per un altro limitativa, rispetto alla reale portata delle questioni sollevate dall’ordinanza di rimessione.
In essa è ben chiaro che il presupposto, che fa operare la contestata presunzione relativa di un reddito superiore alla soglia massima di cui al comma 1 dell’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002, è costituito da una pregressa condanna, riportata dall’imputato che chiede il patrocinio a spese dello Stato, per il reato di cessione di sostanze stupefacenti «di lieve entità», quale previsto dal comma 5 dell’art. 73 t.u. stupefacenti, come sostituito, da ultimo, dall’art. 1, comma 24-ter, lettera a), del decreto-legge 20 marzo 2014, n. 36 (Disposizioni urgenti in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nonché di impiego di medicinali), convertito, con modificazioni, nella legge 16 maggio 2014, n. 79.
Si tratta, dunque, di “piccolo spaccio”, che fin dall’art. 2, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2014, n. 10, è previsto come reato autonomo e non più come circostanza attenuante dei più gravi reati contemplati dai precedenti commi dello stesso art. 73 t.u. stupefacenti.
Pertanto, da una parte, ancorché il petitum dell’ordinanza di rimessione faccia riferimento ai reati (e quindi, letteralmente, a tutti i reati) di cui all’art. 73, quale richiamato dal comma 4-bis dell’art. 76, in realtà deve ritenersi che le questioni di legittimità costituzionale siano sollevate con riferimento al solo reato del comma 5 dell’art. 73, l’unico rilevante in giudizio, e non già anche ai diversi e più gravi reati di cui ai precedenti commi della stessa disposizione.
D’altra parte, il riferimento che il giudice rimettente fa a due specifiche aggravanti – quelle previste dall’art. 80, comma 1, lettere a) e g), nel caso in cui, rispettivamente, la sostanza stupefacente è consegnata a un minore o in prossimità di scuole – non vale a limitare le questioni di legittimità costituzionale a queste sole ipotesi. La considerazione espressa dal giudice rimettente – secondo cui la cessione di sostanze stupefacenti «di lieve entità» non diventa maggiormente remunerativa (e non giustifica la presunzione suddetta) per il solo fatto che essa sia avvenuta in favore di minori nelle prossimità di una scuola – non circoscrive il perimetro delle questioni sollevate alle sole ipotesi così aggravate, ma costituisce una puntualizzazione, in chiave narrativa e argomentativa, della fattispecie concreta, la quale mostra sì la particolare odiosità della condotta (e da qui l’aggravamento di pena), ma nulla consente di inferire quanto ai “ricavi”, in ipotesi più elevati, della condotta criminosa circostanziata rispetto a quella base.
A fronte delle sollevate questioni di legittimità costituzionale è demandato, quindi, a questa Corte verificare se il reato base sia, o no, già di per sé, quand’anche aggravato ex art. 80, in contraddizione con la ragione posta dal legislatore a fondamento della presunzione di superamento della soglia reddituale per l’accesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato.
Pertanto, le questioni di legittimità costituzionale investono la fattispecie del reato di cui al comma 5 dell’art. 73 (e non già di tutti i reati da tale disposizione contemplati), aggravata dal successivo art. 80 tout court, secondo la testuale previsione della disposizione censurata, e non già solo quella aggravata dalle specifiche circostanze di cui alle lettere a) e g) del comma 1 dello stesso art. 80.
5.– All’esame del merito delle questioni sollevate, è opportuno premettere una sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento nel quale si colloca la disposizione censurata.
L’art. 76, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002 individua una soglia di reddito il cui mancato superamento consente di ottenere l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato in attuazione del disposto costituzionale che vuole che siano «assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione» (art. 24, terzo comma, Cost.).
Detta condizione reddituale è, peraltro, l’unica richiesta per accedere al beneficio all’indagato e all’imputato nel processo penale, a differenza di quanto avviene per le parti di processi di altra natura, per i quali è necessario anche un previo vaglio in ordine alla non manifesta infondatezza della difesa.
Questa diversa regolamentazione – che ridonda in una più intensa protezione – si giustifica, come la giurisprudenza costituzionale ha avuto più volte occasione di ricordare, perché il processo penale è caratterizzato da innegabili specificità quali, da un lato, l’essere frutto di un’azione dell’organo pubblico che viene “subita” dal soggetto che aspira al beneficio in parola e, dall’altro, avere, come posta in gioco, il bene supremo della libertà personale (ex plurimis, sentenza n. 47 del 2020).
L’istanza di ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato deve essere corredata, ai sensi dell’art. 79, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 115 del 2002, da una dichiarazione sostitutiva di certificazione da parte dell’interessato ai sensi dell’art. 46, comma 1, lettera o), del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa. (Testo A)», attestante la sussistenza delle condizioni di reddito previste per l’ammissione, con specifica determinazione del reddito complessivo valutabile a tali fini, fissato secondo le modalità indicate dall’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002. La soglia è stata stabilita, da ultimo, in un reddito annuo ai fini IRPEF di euro 11.746,68.
Tale dichiarazione di parte è sufficiente per ottenere il beneficio, salva la richiesta di ulteriore documentazione proveniente dall’autorità giudiziaria, nonché i diversi esiti risultanti dalle verifiche disposte dalla stessa a mezzo della Guardia di finanza.
In ogni caso, anche con successivo decreto motivato, dopo l’ammissione, il giudice può revocare la stessa in una delle ipotesi contemplate dall’art. 112 del d.P.R. n. 115 del 2002, ove accerti, d’ufficio o su richiesta dell’ufficio finanziario competente, la mancanza, originaria o sopravvenuta, delle condizioni di reddito per accedere al beneficio.
Se la mancanza delle condizioni per l’ammissione è originaria, la revoca del decreto di ammissione ha effetti retroattivi ex art. 114 del medesimo testo unico.
6.– Il delicato problema della considerazione, ai fini dell’integrazione della soglia di reddito per ottenere l’ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, di proventi illeciti è stato affrontato da questa Corte già nella sentenza n. 144 del 1992, la quale – nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento agli artt. 1 e 3 Cost., degli artt. 3 e 4 della legge 30 luglio 1990, n. 217 (Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti), nella parte in cui non avrebbero previsto che «nel valutare il diritto ad ottenere il patrocinio a spese dello Stato si tenga conto del tenore di vita, delle effettive capacità economiche, anche provenienti da attività illecite, dell’imputato» – ha precisato che, a differenza di quanto ritenuto dal rimettente, assumono rilevanza anche redditi che non sono stati assoggettati ad imposta, vuoi perché non rientranti nella base imponibile, vuoi perché esenti, vuoi perché di fatto non hanno subìto alcuna imposizione.
La successiva giurisprudenza di legittimità, tenendo conto di tali principi, ha ripetutamente affermato che, ai fini della sussistenza del requisito reddituale per l’ammissione al patrocinio a carico dello Stato, devono essere considerati tutti i redditi dei richiedenti, compresi quelli che non sono stati assoggettati ad imposta (perché esenti o non rientranti nella base imponibile), nonché quelli derivanti da attività illecite che non siano stati sottoposti a tassazione (ex multis, Corte di cassazione, sezione quarta penale, 22 novembre-15 dicembre 2016, n. 53387), precisando che siffatti redditi possono essere accertati con tutti i mezzi di prova, comprese presunzioni, purché gravi, precise e concordanti, emergenti, ad esempio, dal tenore di vita del contribuente (Corte di cassazione, sezione quarta penale, 4 ottobre-13 dicembre 2005, n. 45159).
7.– L’affermazione di tali principi, tuttavia, non ha completamente sopito il dibattito, derivante dall’estrema difficoltà concreta di accertare il possesso di redditi di provenienza illecita, anche in ragione di tecniche di occultamento degli stessi via via più sofisticate.
Nel delineato contesto, il legislatore è intervenuto con la norma censurata introducendo una presunzione di superamento dei limiti di reddito per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato a fronte della condanna del ricorrente in via definitiva per alcuni reati, sul duplice presupposto della particolare “redditività” degli stessi e della maggiore possibilità di occultamento dei profitti da parte dei componenti, specie di vertice, delle associazioni criminali.
In particolare, l’art. 12-ter del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, nella legge 24 luglio 2008, n. 125, ha introdotto il comma 4-bis nell’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002; disposizione questa che, nella formulazione originaria, ha stabilito che «Per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli articoli 416-bis del codice penale, 291-quater del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 80, e 74, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, ai soli fini del presente decreto, il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti».
Pertanto, l’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. n. 115 del 2002 ha circoscritto le condizioni generali per l’ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, prevedendo che il reddito «si ritiene superiore ai limiti previsti» a fronte di un’intervenuta condanna definitiva dell’interessato, relativa a un diverso processo anteriore, per i reati ivi elencati.
Tale disposizione è stata dichiarata costituzionalmente illegittima «nella parte in cui, stabilendo che per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati indicati nella stessa norma il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti per l’ammissione al patrocino a spese dello Stato, non ammette la prova contraria» (sentenza n. 139 del 2010), talché la presunzione, da assoluta che era, è divenuta relativa.
La ratio della norma, come evidenziato da questa Corte nella citata pronuncia, è «evitare che soggetti in possesso di ingenti ricchezze, acquisite con le attività delittuose […] indicate, possano paradossalmente fruire del beneficio dell’accesso al patrocinio a spese dello Stato, riservato, per dettato costituzionale (art. 24, terzo comma), ai “non abbienti”. Tale eventualità è resa più concreta dall’estrema difficoltà di accertare in modo oggettivo il reddito proveniente dalle attività delittuose della criminalità organizzata, a causa delle maggiori possibilità, per i partecipi delle relative associazioni, di avvalersi di coperture soggettive e di strumenti di occultamento delle somme di denaro e dei beni accumulati».
La disposizione censurata, comunque emendata dalla pronuncia suddetta, ha operato, nella sostanza, il bilanciamento di due esigenze contrapposte: per un verso, garantire la difesa ai non abbienti, in attuazione dell’art. 24, terzo comma, Cost., e, per un altro, evitare che possa giovarsi del beneficio colui il quale, sebbene formalmente nullatenente, di fatto possieda adeguate risorse finanziarie, a volte anche ingenti, derivanti dal compimento di attività criminose.
8.– Questa Corte, con la richiamata sentenza n. 139 del 2010, nel riconoscere comunque la legittimità dello scopo perseguito dalla disposizione, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il comma 4-bis dell’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002, per violazione degli artt. 3 e 24, commi secondo e terzo, Cost., perché la portata assoluta della presunzione era irragionevole in sé, in particolare, per la sua ampiezza, in quanto: a) non distingueva, all’interno dei soggetti condannati per reati in materia di criminalità organizzata, tra i capi e i gregari delle organizzazioni criminali; b) non aveva limiti di tempo; c) non consentiva di considerare l’eventuale percorso rieducativo seguito dal soggetto successivamente alla condanna, financo nell’ipotesi di riabilitazione dello stesso; d) precludeva, per l’effetto, l’accesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato anche in processi diversi da quello penale.
Questa Corte – pur evidenziando in parte motiva la possibile incoerenza, rispetto alle finalità perseguite dal legislatore, dell’inserimento nel “catalogo” di alcuni reati – ha ritenuto, a fronte della questione in concreto prospettata dal rimettente, che la reductio ad legitimitatem del sistema potesse essere assicurata dalla “trasformazione”, con una pronuncia additiva, della presunzione da assoluta in relativa, così rendendo possibile al soggetto, condannato in via definitiva per uno dei reati indicati dalla norma censurata, di fornire la prova contraria rispetto alla presunzione di superamento dei limiti di reddito, contemplati dallo stesso art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002, per l’accesso al patrocinio a spese dello Stato.
9.– Nella fattispecie concreta, demandata alla decisione del Tribunale di Firenze nel giudizio a quo, l’imputato era stato condannato in via definitiva per due fatti di reato di cessione di sostanze stupefacenti «di lieve entità» – aggravati ai sensi delle lettere a) e g), dell’art. 80, comma 1, t.u. stupefacenti – ex art. 73, comma 5, del medesimo testo unico.
In vero, in origine i fatti indicati dal comma 5 dell’art. 73 t.u. stupefacenti integravano una circostanza attenuante delle condotte contemplate dai commi precedenti, volta a riequilibrare la risposta sanzionatoria in fattispecie espressione di criminalità minore (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 26 ottobre-17 novembre 2016, n. 48697).
A seguito delle modifiche introdotte dall’art. 2 del d.l. n. 146 del 2013, come convertito, e dal successivo art. 1, comma 24-ter, lettera a), del d.l. n. 36 del 2014, come convertito, l’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti prevede, oggi, che: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque commette uno dei fatti previsti dal presente articolo che, per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità, è punito con le pene della reclusione da sei mesi a quattro anni e della multa da euro 1.032 a euro 10.329».
A seguito della novella è ormai consolidato l’assunto secondo il quale la fattispecie prevista dall’art. 73, comma 5, in materia di sostanze stupefacenti, si è trasformata da circostanza attenuante in figura autonoma di reato (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 settembre-9 novembre 2018, n. 51063).
Nella fattispecie oggetto del giudizio a quo rileva proprio questa più recente formulazione della norma incriminatrice, atteso che i fatti di reato, per i quali l’imputato è stato, in precedenza, condannato con sentenza definitiva, sono stati rispettivamente commessi, come si evince dai capi di imputazione riportati nell’ordinanza di rimessione, nelle date del 27 ottobre 2015 e nel periodo dal settembre 2014 all’ottobre 2015.
10.– Ciò premesso, va innanzi tutto rilevato, con specifico riguardo alle questioni ora all’esame di questa Corte, che si è affermato nella giurisprudenza di legittimità – come già ricordato sopra – che il reato di cessione (o condotta equiparata) di sostanze stupefacenti «di lieve entità», di cui al comma 5 del citato art. 73, anche in presenza di un’aggravante ex art. 80 del medesimo d.P.R. n. 309 del 1990, non rientra tra quelli per i quali, ove oggetto di condanna definitiva, opera la presunzione contemplata dall’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. n. 115 del 2002 (Cassazione, sentenza n. 16127 del 2018).
Tuttavia il dato testuale di quest’ultima disposizione, oggetto delle censure di illegittimità costituzionale, il quale continua a far riferimento all’art. 73 tout court, senza escludere la fattispecie del suo comma 5, non consente di accedere a questa interpretazione adeguatrice, tanto più in mancanza nella fattispecie di una situazione di vero e proprio diritto vivente, non identificabile, di norma, in un’unica pronuncia (come già rilevato al punto 3).
11.– Nel merito, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Firenze sono fondate in riferimento a entrambi i parametri di cui agli artt. 3 e 24, commi secondo e terzo, Cost.
12.– Sotto un primo profilo, occorre rilevare che la disposizione censurata, nel prevedere una presunzione di superamento dei limiti di reddito per ottenere il patrocinio a spese dello Stato ove il soggetto richiedente sia stato, in precedenza, condannato in via definitiva per i fatti di reato puniti dall’art. 73 t.u. stupefacenti, in presenza di una delle circostanze aggravanti di cui all’art. 80 del medesimo testo unico, si pone in primo luogo in contrasto, per incoerenza rispetto allo scopo perseguito, con l’art. 3 Cost., nella parte in cui ricomprende nel proprio ambito di applicazione anche i fatti «di lieve entità», di cui al comma 5 dello stesso art. 73.
Giova nuovamente ricordare, al riguardo, che la finalità della disposizione censurata è quella di evitare che soggetti in possesso di ingenti ricchezze, acquisite con attività delittuose, possano paradossalmente fruire del beneficio dell’accesso al patrocinio a spese dello Stato, riservato, per dettato costituzionale (art. 24, terzo comma), ai non abbienti (sentenza n. 139 del 2010).
Invece i fatti di “piccolo spaccio” (quelli «di lieve entità») si caratterizzano per un’offensività contenuta per essere modesto il quantitativo di sostanze stupefacenti oggetto di cessione (ex multis, Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 15 novembre 2018-24 gennaio 2019, n. 3616). Di qui, non è ragionevole presumere che la “redditività” dell’attività delittuosa sia stata tale da determinare il superamento da parte del reo dei limiti di reddito contemplati dall’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002 per ottenere l’ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, senza che a diversa conclusione si possa pervenire in considerazione del fatto che la presunzione opera solo per le condanne aggravate ai sensi dell’art. 80 t.u. stupefacenti.
Infatti, le circostanze aggravanti elencate dal comma 1 di tale disposizione – se si connotano, come quelle in rilievo nel giudizio a quo, per la spiccata riprovevolezza della condotta del soggetto agente – non sono ex se suscettibili di incidere sul profitto tratto dall’attività delittuosa.
Il proprium della presunzione relativa in esame, che dal fatto noto consente di dedurre quello presupposto secondo l’id quod plerumque accidit, risulta dalla matrice comune del catalogo di reati introdotti nell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. n. 115 del 2002 dal richiamato art. 12-ter del d.l. n. 92 del 2008, come convertito. Si tratta di reati relativi alla criminalità organizzata, ossia dei reati di cui agli artt. 416-bis (Associazioni di tipo mafioso anche straniere) del codice penale, 291-quater (Associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri) del testo unico di cui al d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale), 74, comma 1 (Associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), t.u. stupefacenti, nonché dei reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo.
In questo contesto omogeneo di reati di criminalità organizzata il “piccolo spaccio” – quello del comma 5 dell’art. 73 citato – appare spurio e, quand’anche aggravato ai sensi dell’art. 80, è privo dell’idoneità ex se a far presumere un livello di reddito superiore alla (peraltro non esigua) soglia minima dell’art. 76, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002 (id est un reddito IRPEF di circa mille euro al mese), in ragione dei proventi derivanti dall’attività criminosa. È anzi vero il contrario: si tratta spesso di manovalanza utilizzata dalla criminalità organizzata e proveniente dalle fasce marginali dei «non abbienti», ossia di quelli che sono sprovvisti dei «mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione» (art. 24, terzo comma, Cost.).
Non è privo di rilievo, poi, che tra le circostanze aggravanti di cui all’art. 80 t.u. stupefacenti, vi sia anche quella del comma 2, che ricorre quando il fatto riguarda «quantità ingenti» di sostanze stupefacenti. Ciò è ontologicamente incompatibile con il fatto «di lieve entità» che consente l’integrazione della fattispecie autonoma di reato “minore” di cui al comma 5 dell’art. 73 del medesimo testo unico.
Pertanto, in una scelta nella quale pure, trattandosi di materia processuale, il legislatore gode di ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti, è stata raggiunta la soglia della manifesta irragionevolezza (ex plurimis, sentenze n. 203, n. 143 e n. 13 del 2022, n. 213, n. 148 e n. 87 del 2021 e n. 80 del 2020). Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il principio di ragionevolezza è leso «quando si accerti l’esistenza di una irrazionalità intra legem, intesa come contraddittorietà intrinseca tra la complessiva finalità perseguita dal legislatore e la disposizione espressa dalla norma censurata» (sentenze n. 195 e n. 6 del 2019; nello stesso senso, più di recente sentenza n. 125 del 2022). Ed è ciò che può riscontrarsi nella norma censurata laddove presume che coloro i quali sono stati condannati in via definitiva per fatti di spaccio «di lieve entità», quand’anche aggravati ai sensi dell’art. 80 t.u. stupefacenti, superino i limiti di reddito per accedere al patrocinio a spese dello Stato: dunque la disposizione vìola in parte qua l’art. 3 Cost. sotto il profilo dell’intrinseca irrazionalità.
13.– Per motivazioni analoghe, poi, la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Firenze è fondata anche in riferimento all’art. 24, commi secondo e terzo, Cost.
È costante nella giurisprudenza di questa Corte l’affermazione del principio secondo il quale il diritto dei non abbienti al patrocinio a spese dello Stato è inviolabile nel suo nucleo intangibile, quale strumento fondamentale per assicurare l’effettività del diritto di azione e di difesa in giudizio (di recente, sentenze n. 10 del 2022, n. 157 del 2021 e n. 80 del 2020).
La presunzione posta dal comma 4-bis dell’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002 viola tale fondamentale diritto rendendo più gravoso l’onere probatorio posto a carico del richiedente per essere ammesso (o per conservare) il beneficio, anche per i soggetti come quelli condannati per il reato di cui al comma 5 dell’art. 73 t.u. stupefacenti, sebbene aggravato ai sensi dell’art. 80 del medesimo testo unico.
Quest’onere ulteriore e maggiore, differenziato rispetto al regime ordinario, costituisce un ostacolo ingiustificato all’accesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, per chi è stato condannato per il reato di cessione di sostanze stupefacenti «di lieve entità» (o condotta equiparata), quand’anche aggravato dall’art. 80 citato, e ridonda, pertanto, in violazione dell’art. 24, commi secondo e terzo, Cost.
14.– In conclusione, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. n. 115 del 2002, nella parte in cui ricomprende anche la condanna per il reato di cui al comma 5 dell’art. 73 t.u. stupefacenti, rimanendo invece impregiudicata la previsione della presunzione relativa alle altre fattispecie di reato, previste da tale ultima disposizione, aggravate ai sensi del successivo art. 80.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia. (Testo A)», nella parte in cui ricomprende anche la condanna per il reato di cui al comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 ottobre 2022.
F.to:
Silvana SCIARRA, Presidente
Giovanni AMOROSO, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 3 novembre 2022.