SENTENZA N. 195
ANNO 2019
Commenti alla decisione di
I. Carlo Padula, Le decisioni della
Corte costituzionale del 2019 sul decreto sicurezza, in questa Rivista, Studi, 2019/II, 377
II.
Laura Buffoni, La
stra-ordinarietà perduta dell’art. 120, comma 2,
della Costituzione, per g.c. del Forum di Quaderni Costituzionali
III. Carlo
Padula, Le
decisioni della Corte costituzionale del 2019 sul decreto sicurezza, per g.c. del Forum
di Quaderni Costituzionali
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario
Rosario MORELLI, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò
ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni
AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli
artt. 21, comma 1, lettera a), 21-bis, commi 1 e 2, e 28, comma 1, del decreto-legge
4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione
internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la
funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento
dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni
sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con
modificazioni, in legge 1° dicembre 2018, n. 132, promossi con ricorsi
delle Regioni Umbria, Emilia-Romagna, Toscana e Calabria, notificati il 31
gennaio-4 febbraio, il 1°-6 febbraio, il 31 gennaio-4 febbraio e il 1° febbraio
2019, depositati in cancelleria il 1°, il 4, il 6 e l’8 febbraio 2019, iscritti
rispettivamente ai numeri 10, 11, 17 e 18 del
registro ricorsi 2019 e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica numeri 11 e 13, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visti gli atti di costituzione del Presidente
del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 19 giugno 2019
il Giudice relatore Giovanni Amoroso;
uditi gli avvocati Massimo Luciani per la
Regione Umbria, Giandomenico Falcon e Andrea Manzi per la Regione
Emilia-Romagna, Marcello Cecchetti per la Regione Toscana, Giuseppe Naimo e Vincenzo Cannizzaro per la Regione Calabria e gli
avvocati dello Stato Giuseppe Albenzio e Ilia
Massarelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Le Regioni Emilia-Romagna (r.r. n. 11 del 2019), Toscana (r.r.
n. 17 del 2019) e Calabria (r.r. n. 18 del 2019)
hanno promosso, tra le altre, questioni di legittimità costituzionale dell’art.
21, comma 1, lettera a), del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni
urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza
pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione
e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la
destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata),
convertito, con modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132;
disposizione questa che – modificando l’art. 9, comma 3, del decreto-legge 20
febbraio 2017, n. 14 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle
città), convertito, con modificazioni, nella legge 18 aprile 2017, n. 48 –
inserisce, dopo le parole «su cui insistono», le parole «presidi sanitari,».
Le ricorrenti, assumendo la violazione di
parametri pressoché coincidenti, hanno svolto un motivo di censura
sostanzialmente analogo, impugnando la disposizione nella parte in cui prevede
l’ampliamento dell’elenco dei luoghi in relazione ai quali, per tutelarne il
decoro, può trovare applicazione il divieto di accesso in specifiche aree
urbane (cosiddetto DASPO urbano) consentendo così che, a fronte di una delle
condotte presupposto della misura (stato di ubriachezza, compimento di atti contrari
alla pubblica decenza, esercizio di commercio abusivo di spazi pubblici e
attività di parcheggiatore abusivo), il soggetto possa essere colpito dal
provvedimento di allontanamento anche da aree urbane in cui insistono «presidi
sanitari».
In particolare, la Regione Emilia-Romagna ha
ravvisato la violazione dell’art. 32 della
Costituzione, unitamente all’art. 3 Cost., in
quanto «[l]a reazione dell’ordinamento rispetto alla condotta […] si rivela del
tutto irragionevole e sproporzionata nel momento in cui comprime gravemente il
diritto alla salute di determinati soggetti che, oltretutto, in una parte dei
casi previsti, possono essere particolarmente bisognosi di cure (come chi sia
colto in stato di ubriachezza, magari in ragione di un’abitualità in tale
condotta) e in un’altra parte non hanno tenuto alcuna condotta che suggerisca
una misura grave come l’allontanamento dalle strutture ospedaliere».
Anche la Regione Toscana ha sostenuto la
violazione dell’art.
32 Cost., in quanto, in applicazione della norma impugnata, alla persona
sottoposta a DASPO urbano potrà essere vietata la possibilità di accedere al
luogo ove è ubicato il presidio sanitario con la conseguenza che, in caso di
sopravvenuti problemi di salute (anche, in ipotesi, non conclamati da
situazioni di assoluta urgenza o evidenza), potrebbero ingenerarsi dubbi sul
diritto della persona sottoposta alla misura ad accedere alla struttura
sanitaria. Inoltre, secondo la citata Regione, l’art. 21, comma 1, lettera a)
del d.l. n. 113 del 2018, si porrebbe in contrasto con l’art. 117, terzo comma,
Cost., poiché concerne la materia della «tutela della salute», in ordine
alla quale le Regioni hanno competenza concorrente.
La Regione Calabria ha promosso la questione in
riferimento all’art.
117, terzo comma (e non anche quarto, erroneamente indicato per mero
refuso), Cost., congiuntamente all’art. 34 Cost. (recte:
32), nonché al principio
di leale collaborazione fra Stato e Regioni.
La ricorrente afferma che la norma censurata
viola i parametri evocati (che la difesa tecnica ben ha articolato con maggiore
completezza rispetto alla delibera della Giunta regionale, richiamante il solo
art. 117, terzo comma, Cost.) in quanto consente di precludere l’accesso alle
strutture sanitarie ai soggetti bisognosi di cure mediche ledendo, così, il
diritto alla salute, inteso non solo come diritto fondamentale dell’individuo,
ma anche come interesse della collettività a che vengano garantite cure
gratuite per gli indigenti.
Per altro verso, ricordato che ai sensi
dell’art. 117, terzo comma, Cost., la tutela della salute costituisce materia
di legislazione concorrente, lamenta che la disposizione «incide indebitamente
sulla competenza regionale relativa all’organizzazione dei servizi sanitari»,
impedendo l’accesso nelle «aree nelle quali la Regione realizza l’interesse
pubblico alla tutela della salute».
Secondo la ricorrente sarebbe violato anche il
principio di leale collaborazione fra Stato e Regioni.
2.– La sola Regione Emilia-Romagna ha promosso,
con lo stesso ricorso, questioni di legittimità costituzionale, tra gli altri,
anche dell’art. 21-bis, commi 1 e 2, del d.l. n. 113 del 2018. Ad avviso della
Regione ricorrente, la norma impugnata lederebbe l’art. 117, quarto comma,
Cost., in quanto concerne anche la materia del commercio, in ordine alla
quale le Regioni hanno competenza residuale, materia «chiaramente coinvolta nel
momento in cui vengono chiamate in causa le organizzazioni rappresentative
degli esercenti e i gestori degli esercizi commerciali»; nonché violerebbe l’art. 118, terzo comma,
Cost., nella parte in cui – al fine di rafforzare la tutela della sicurezza
pubblica nelle vicinanze di esercizi pubblici, in un regime di collaborazione e
coordinamento tra il prefetto e le organizzazioni degli esercenti, nel quadro
di linee guida ministeriali – «prevede il solo coinvolgimento della Conferenza
Stato-città ed autonomie locali, anziché quello della Conferenza unificata, e
nella parte in cui non prevede la possibile partecipazione delle Regioni e
degli enti locali interessati agli accordi locali rivolti al rafforzamento
della sicurezza pubblica».
La disposizione stabilisce che «ai fini di una
più efficace prevenzione di atti illegali o di situazioni di pericolo per
l’ordine e la sicurezza pubblica all’interno e nelle immediate vicinanze degli
esercizi pubblici […], con appositi accordi sottoscritti tra il prefetto e le
organizzazioni maggiormente rappresentative degli esercenti possono essere
individuate specifiche misure di prevenzione, basate sulla cooperazione tra i
gestori degli esercizi e le Forze di polizia, cui i gestori medesimi si
assoggettano, con le modalità previste dagli stessi accordi». Tali accordi sono
adottati localmente nel rispetto delle linee guida nazionali approvate, su
proposta del Ministro dell’interno, d’intesa con le organizzazioni maggiormente
rappresentative degli esercenti, sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie
locali.
La ricorrente contesta il mancato
coinvolgimento delle Regioni all’elaborazione di tali linee guida e chiede che
sia invece la Conferenza unificata a dover essere sentita.
3.– In relazione a tutti tali ricorsi, con
argomenti in larga parte coincidenti, è intervenuto in giudizio il Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano
dichiarate inammissibili o comunque infondate.
In punto di ammissibilità, la difesa dello
Stato rileva che le Regioni, secondo la costante giurisprudenza costituzionale,
sono legittimate a censurare le leggi dello Stato solo con riferimento a
parametri relativi al riparto delle competenze legislative, mentre
l’invocazione di parametri diversi è ammissibile esclusivamente quando la
violazione ridondi su competenze regionali che la Regione abbia espressamente
individuato. Nella specie, per contro, le ricorrenti non hanno sufficientemente
specificato i motivi per cui l’intervento del legislatore statale avrebbe
compromesso le attribuzioni regionali.
Nel merito, in relazione all’art. 21, comma 1,
lettera a), del d.l. n. 113 del 2018, il Presidente del Consiglio dei ministri
osserva che la disposizione, lungi dal costituire un impedimento all’accesso
alle strutture interessate, è volta, piuttosto, a contrastare i fenomeni che ne
ostacolano la libera fruizione da parte dei cittadini.
Pertanto, a suo avviso, nessuna violazione del
diritto alla salute può essere ravvisata. Tale conclusione risulterebbe
confermata anche dall’art. 10, comma 2, del d.l. n. 14 del 2017, ai sensi del
quale il questore che dispone il DASPO urbano deve individuare modalità
«compatibili con le esigenze di mobilità, salute e lavoro del destinatario
dell’atto».
Quanto all’omesso coinvolgimento della Regione
nell’elaborazione delle linee guida di cui all’art. 21-bis, la difesa dello
Stato assume l’insussistenza di motivi giuridici che impongano l’attivazione di
strumenti di cooperazione. In particolare, il Presidente del Consiglio dei
ministri sostiene che la previsione del coinvolgimento della sola Conferenza
Stato-città ed autonomie locali e non della Conferenza unificata si spiega in
ragione del fatto che le attività, alle quali si riferisce la disposizione,
sono soggette a licenza ai sensi dell’art. 86 del regio decreto 18 giugno 1931,
n. 773 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) e che le specifiche
misure di prevenzione previste dalla disposizione oggetto di censura, basate
sulla cooperazione tra i gestori degli esercizi e le forze di polizia, sono
destinate a incidere solo su di esse.
4.– Con memorie del 28 maggio 2019, depositate
in pari data, l’Avvocatura generale ha ribadito le sue difese, comuni a tutti i
ricorsi proposti dalle Regioni.
La Regione Calabria, con memoria del 28 maggio
2019, depositata in pari data, e le Regioni Emilia-Romagna e Toscana, con
distinte memorie del 29 maggio 2019, depositate in pari data, hanno anch’esse
ulteriormente ribadito le loro difese, contestando in particolare l’eccezione,
sollevata dall’Avvocatura, di inammissibilità delle censure riferite a
parametri non competenziali.
5.– Con ricorso depositato in data 1° febbraio
2019 (r.r. n. 10 del 2019) la Regione Umbria ha
promosso questioni di legittimità costituzionale, tra gli altri, dell’art. 28,
comma 1, del d.l. n. 113 del 2018, in riferimento agli artt. 3, 5, 23, 25, 27, 77, 97, 114, 117, secondo e terzo
comma, 118, primo
e secondo comma, 119
e 120, secondo comma,
Cost., nonché all’art.
117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU),
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge
4 agosto 1955, n. 848.
In particolare, l’art. 28, comma 1, del d.l. n.
113 del 2018, novellando l’art. 143 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n.
267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), inserendovi
il comma 7-bis, sarebbe gravemente lesivo dell’autonomia degli enti locali.
Ad avviso della Regione la norma in questione
detterebbe una disciplina irragionevole, lesiva del principio di legalità, di
buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione e sarebbe,
altresì, in violazione del principio autonomistico.
Con la disposizione in esame – si osserva da
parte della ricorrente – si introducono provvedimenti di sostituzione e di
commissariamento «la cui logica è del tutto incomprensibile».
La Regione ricorrente osserva, altresì,
l’estrema latitudine dei presupposti legittimanti l’esercizio dei poteri
sostitutivi e di commissariamento da parte dei prefetti, evincibile dal
generico riferimento a «condotte illecite», alla semplice «alterazione delle
procedure», al «buon andamento», al «regolare funzionamento dei servizi». In
tal modo la disposizione apre un campo così indefinito, tale che l’autonomia
degli enti locali finisce per essere aperta alle discrezionali determinazioni dell’esecutivo
statale sul territorio regionale.
Sarebbe compromesso anche il principio di buon
andamento (art. 97 Cost.), tra l’altro perché l’amministrazione degli enti
locali può essere soggetta alla misura anche per il semplice fatto dei suoi
dipendenti, là dove, in simile fattispecie, l’ordinamento prevede una pluralità
di ben più efficienti rimedi e meno invasivi strumenti, quali l’azione
disciplinare nei confronti dei dipendenti degli enti interessati.
Compromessa sarebbe anche l’autonomia degli
enti locali, di cui agli artt. 5 e 114 Cost., venendo questa rimessa all’ampia
discrezionalità di un organo dello Stato, qual è il prefetto.
La nuova disciplina violerebbe, altresì, gli
artt. 117, secondo e terzo comma, 118, primo e secondo comma, 119 e 120,
secondo comma, Cost.
In primo luogo, gli enti territoriali risultano
sostanzialmente espropriati delle loro funzioni e la Regione si vede incisa la
propria competenza in materia di attribuzione di funzioni agli enti locali,
desumibile dal secondo e terzo comma dell’art. 117 Cost. Verrebbe, altresì,
impedito il funzionamento del principio di sussidiarietà verticale di cui
all’art. 118, primo comma, e all’art. 120, secondo comma, Cost., attraendo le
funzioni degli enti locali verso l’alto, oltretutto in sede di decisione
prefettizia senza coinvolgimento della responsabilità politica del Governo.
Sarebbe violato anche l’art. 118, secondo
comma, Cost., in quanto il commissariamento e la sostituzione sono forme di
interferenza con l’esercizio delle funzioni amministrative proprie riconosciute
al Comune, alle Province e alle Città metropolitane.
Conseguentemente, sarebbe violato anche l’art.
120, secondo comma, Cost., in quanto la sostituzione e il commissariamento non
sarebbero disposti dal Governo, ma dal prefetto, con completo disinteresse per
il principio di sussidiarietà e leale collaborazione, dal momento che «l’ente
locale può sfuggire al commissariamento solo se resta prono a quanto il
prefetto impone (addirittura stabilendo gli atti da adottare e il termine per
la loro adozione) rinunciando completamente alla propria autonomia».
Altresì, risulterebbe violato l’art. 119 Cost.,
in quanto gli enti locali sarebbero costretti a sostenere le spese di
qualsivoglia attività ritenuta opportuna dal prefetto nell’individuare «i
prioritari interventi di risanamento».
Da ultimo, la norma censurata configura una
forma di vera e propria responsabilità oggettiva, che il nostro ordinamento
rifiuta, salvi casi eccezionali. Ad avviso della difesa regionale si è di
fronte a una misura di tipo sanzionatorio che, per la sua gravità in
applicazione dei criteri "Engel”, dovrebbe ricevere un trattamento analogo a
quello delle sanzioni penali. Di qui, la lesione anche degli artt. 25 e 27 Cost.,
nonché, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., degli artt. 6 e 7
CEDU.
Infine, in via sostanzialmente subordinata, la
Regione deduce anche la violazione dell’art. 77 Cost., in quanto il
decreto-legge sarebbe stato adottato, quanto alla disposizione censurata, in
carenza dei presupposti di cui al parametro costituzionale.
6.– Anche in relazione a tale ricorso è
intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato
e difeso dall’Avvocatura generale, chiedendo che le questioni di legittimità
costituzionale siano dichiarate inammissibili o comunque infondate.
La difesa della Stato ritiene che il ricorso
sia inammissibile per la mancanza di un’adeguata motivazione in merito
all’asserita lesione delle sfere di competenza legislativa regionale e al
riguardo richiama la giurisprudenza costituzionale secondo cui è possibile
invocare parametri costituzionali diversi da quelli relativi al riparto delle
competenze legislative soltanto quando la violazione di questi comporti una compromissione
delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite.
Nel merito, la difesa dello Stato osserva che
quello previsto dalla disposizione censurata è un potere straordinario
riconosciuto al prefetto, rappresentante dello Stato sul territorio, nel caso
in cui, all’esito dell’attività di accesso, pur non rinvenendosi elementi
concreti, univoci e rilevanti per disporre lo scioglimento degli organi degli
enti locali, tuttavia siano state riscontrate in relazione a uno o più settori
amministrativi, anomalie e illiceità tali da determinare uno sviamento
dell’attività dell’ente, nonché un’alterazione delle procedure atte a
compromettere il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione e il
regolare funzionamento dei servizi a essa affidati.
Pone in rilievo che l’art. 120, secondo comma,
Cost., attribuisce al Governo il potere di sostituirsi a organi delle Regioni,
delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni, nei casi ivi indicati,
e anche la censurata disposizione, di cui all’art. 28 del decreto-legge citato,
è posta a presidio di fondamentali esigenze di eguaglianza, sicurezza e
legalità.
Il potere sostitutivo è attribuito al prefetto,
cui è riconosciuto tradizionalmente un potere di vigilanza sull’andamento delle
pubbliche amministrazioni sul territorio. È il prefetto che avvia
un’interlocuzione con l’amministrazione locale interessata, un’attività di
mediazione che prevede anche ogni utile supporto tecnico-amministrativo a mezzo
dei propri uffici, con l’individuazione degli interventi prioritari da assumere
per il risanamento dell’ente, fissando un termine per l’adozione degli stessi.
Solo se il termine è disatteso, si configura l’ipotesi di nomina del
commissario ad acta prevista, dunque, come extrema
ratio. Di talché, non sarebbe violata in alcun modo l’autonomia dell’ente.
La difesa dello Stato osserva, poi, che la
disposizione censurata non fa altro che introdurre un’ulteriore ipotesi di
intervento in materia di controlli sugli organi, già disciplinata dal t.u. enti locali, agli artt. 141 e 142, i quali riguardano
situazioni eccezionali derivanti da accertate gravi anomalie idonee a
compromettere il regolare funzionamento e l’imparzialità delle amministrazioni
locali coinvolte.
L’Avvocatura evidenzia che la disposizione
censurata non contempla un intervento sugli amministratori e sull’ente locale,
ma un intervento dell’autorità statale, rientrante nell’ambito delle sue
competenze, qualora emergano situazioni sintomatiche di condotte gravi e
reiterate e di mala gestio – condotte di cui possono
essere responsabili sia gli organi di governo sia l’apparato burocratico – e si
pone come clausola di chiusura dell’ordinamento. L’intervento surrogatorio del
prefetto si giustifica in presenza di situazioni indicative di illiceità o di mala
gestio.
7.– Con memoria depositata il 28 maggio 2019 la
difesa dello Stato ha ulteriormente ribadito le proprie difese e conclusioni.
8.– Con memoria del 29 maggio 2019 anche la
Regione Umbria ha ribadito le argomentazioni a sostegno delle censure svolte in
ricorso.
Considerato in diritto
1.– Le Regioni Emilia-Romagna (r.r. n. 11 del 2019), Toscana (r.r.
n. 17 del 2019) e Calabria (r.r. n. 18 del 2019)
hanno, tra le altre, promosso, in riferimento agli artt. 3, 32 e 117, terzo
comma, della Costituzione e al principio di leale collaborazione, questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 1, lettera a), del decreto-legge
4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione
internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la
funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento
dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni
sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con
modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132; disposizione questa che –
modificando l’art. 9, comma 3, del decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14
(Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città), convertito, con
modificazioni, nella legge 18 aprile 2017, n. 48 – ha inserito, dopo le parole
«su cui insistono», le parole «presidi sanitari,».
Assumono le ricorrenti che l’ampliamento
dell’elenco dei luoghi in relazione ai quali, al fine di tutelarne il decoro e
la sicurezza pubblica, può trovare applicazione il divieto di accesso in
specifiche aree urbane (il cosiddetto DASPO urbano) consente che, a fronte di
una delle condotte previste a presupposto della misura (stato di ubriachezza,
compimento di atti contrari alla pubblica decenza, esercizio di commercio abusivo
e attività di parcheggiatore abusivo), la persona bisognosa di cure mediche
possa essere colpita dal provvedimento di allontanamento proprio da quelle aree
urbane su cui insistono «presidi sanitari» con conseguente lesione del suo
diritto alla salute.
La sola Regione Emilia-Romagna, con lo stesso
ricorso, ha promosso anche questioni di legittimità costituzionale dell’art.
21-bis, commi 1 e 2, del d.l. n. 113 del 2018 in riferimento all’art. 117,
quarto comma, Cost., per quanto concerne, come competenza legislativa
residuale, la materia del commercio, «chiaramente coinvolta nel momento in cui
vengono chiamate in causa le organizzazioni rappresentative degli esercenti e i
gestori degli esercizi commerciali», nonché in relazione all’art. 118, terzo comma,
Cost., nella parte in cui – al fine di rafforzare la tutela della sicurezza
pubblica nelle vicinanze di esercizi pubblici, in un regime di collaborazione e
coordinamento tra l’autorità di pubblica sicurezza e le organizzazioni degli
esercenti, nel quadro di linee guida ministeriali – prevede il solo
coinvolgimento della Conferenza Stato-città ed autonomie locali, anziché quello
della Conferenza unificata Stato-Regioni e autonomie locali.
Con ricorso depositato in data 1° febbraio 2019
(r.r. n. 10 del 2019) la Regione Umbria ha, tra le
altre, promosso in riferimento agli artt. 3, 5, 23, 25, 27, 77, 97, 114, 117,
secondo e terzo comma, 118, secondo e terzo comma, 119 e 120, secondo comma,
Cost., nonché all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 7
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa
esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 28, comma 1, del d.l. n. 113 del 2018, disposizione
questa che ha inserito il comma 7-bis nell’art. 143 del decreto legislativo 18
agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti
locali), che prevede lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali
conseguente a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso o
similare.
La Regione lamenta, in particolare, che
l’ampiezza del potere prefettizio sostitutivo, previsto dalla disposizione
censurata, in caso emergano «situazioni sintomatiche di condotte illecite gravi
e reiterate tali da determinare un’alterazione delle procedure e da
compromettere il buon andamento e l’imparzialità delle amministrazioni comunali
e provinciali nonché il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati»,
comporti, sotto plurimi profili, la lesione dell’autonomia costituzionalmente
garantita degli enti locali territoriali.
2.– I giudizi aventi a oggetto le suddette
disposizioni − riconducibili a una matrice unitaria, in quanto tutte contenute
nel Titolo II del d.l. n. 113 del 2018, concernente la materia di sicurezza
pubblica, prevenzione e contrasto al terrorismo e alla criminalità mafiosa –
possono essere riuniti e trattati congiuntamente, restando riservata a separate
pronunce la decisione delle questioni relative alle altre disposizioni
impugnate con i medesimi ricorsi.
3.– Va esaminata innanzi tutto la questione di
legittimità costituzionale avente a oggetto l’art. 21, comma 1, lettera a), del
menzionato decreto-legge.
La disposizione ha inserito il riferimento ai
«presidi sanitari» nel comma 3 dell’art. 9 del richiamato d.l. n. 14 del 2017,
in materia di sicurezza delle città.
Il legislatore del 2017, nel contesto di un
articolato intervento diretto a rafforzare la sicurezza nelle città, ha
introdotto una speciale misura, mirata a tutelare anche il decoro di
particolari luoghi (il cosiddetto DASPO urbano), conformandola al modello del
divieto di accesso ai luoghi dove si svolgono manifestazioni sportive (DASPO),
regolato dall’art. 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401 (Interventi nel
settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza
nello svolgimento di manifestazioni sportive); disposizione richiamata, in
particolare, quanto al regime di convalida giudiziaria dei provvedimenti
interdittivi e della ricorribilità per cassazione.
L’art. 9 del d.l. n. 14 del 2017 prende in
considerazione, sanzionandola, la condotta di chi – commettendo la violazione,
alternativamente, degli artt. 688 (Ubriachezza) e 726 del codice penale (Atti
contrari alla pubblica decenza e turpiloquio), nonché dell’art. 29 del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore
del commercio), quanto all’abusivo esercizio del commercio su aree pubbliche, e
dell’art. 7, comma 15-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285
(Nuovo codice della strada), quanto all’esercizio senza autorizzazione
dell’attività di parcheggiatore o guardiamacchine – impedisce l’accessibilità e
la fruizione delle infrastrutture ferroviarie, aeroportuali, marittime e di
trasporto pubblico locale. Oltre alla sanzione amministrativa pecuniaria,
l’organo accertatore può ordinare l’allontanamento dalle aree interne di tali
infrastrutture (art. 9, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, nelle forme previste
dal successivo art. 10, comma 1) e in caso di reiterazione della condotta, così
sanzionata, il questore può adottare il maggiormente incisivo provvedimento di
divieto di accesso a una o più delle aree suddette (art. 10, comma 2, del d.l.
n. 14 del 2017).
Il comma 3 del richiamato art. 9 consente ai
regolamenti di polizia urbana di individuare aree ulteriori, la cui
accessibilità e fruizione possano essere parimenti presidiate dalla misura
suddetta, articolata nella sanzione amministrativa e nell’ordine di
allontanamento, nonché, in progressione, nel provvedimento recante il divieto
di accesso. La disposizione indica la tipologia di queste aree suscettibili
dell’estensione della possibilità di applicazione della misura: scuole, plessi
scolastici e siti universitari, musei, aree e parchi archeologici, complessi
monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da
consistenti flussi turistici, ovvero adibite a verde pubblico.
L’art. 21, comma 1, lettera a), del d.l. n. 113
del 2018 ha esteso questo elenco, aggiungendo i «presidi sanitari» e le «aree
destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli».
Le Regioni ricorrenti censurano tale
disposizione limitatamente alla parte in cui nell’elenco suddetto è stata
aggiunta la previsione dei presidi sanitari, che ora i regolamenti di polizia
urbana possono includere tra le aree protette dalla misura in questione (il
cosiddetto DASPO urbano).
I parametri che le Regioni ricorrenti assumono
violati sono, da una parte, l’art. 32 Cost., congiuntamente all’art. 3 Cost.,
perché l’estensione della misura viola il diritto alla salute della persona che
sia bisognosa di cure mediche, precludendole o comunque ostacolando la
necessaria assistenza sanitaria, così assoggettandola a una misura
sproporzionata e irragionevole; dall’altra parte, l’art. 117, terzo comma,
Cost., e il principio di leale collaborazione, perché sarebbe lesa la
competenza concorrente del legislatore regionale in materia di tutela della
salute, senza peraltro la previsione di alcuna forma di leale collaborazione
dello Stato con la Regione.
4.– Va innanzi tutto riconosciuta
l’ammissibilità delle censure anche con riferimento ai parametri estranei al
riparto di competenze legislative.
Le Regioni ricorrenti evocano anche parametri
non compresi nel Titolo V della Parte seconda della Costituzione – l’art. 32
Cost. (tutte le Regioni) nonché, in connessione con quest’ultimo, l’art. 3
Cost. (la sola Regione Emilia-Romagna) – e, asserendo la ridondanza dei vizi
denunciati sulle attribuzioni regionali, lamentano l’irragionevole impedimento
dell’accesso ai presidi sanitari per le persone – quali quelle previste dalla
disposizione censurata – che si trovino ad essere bisognevoli di cure, con
conseguente compromissione del loro diritto alla salute.
Come questa Corte ha da ultimo ribadito nella
coeva sentenza
n. 194 del 2019, «le Regioni possono evocare parametri di legittimità costituzionale
diversi da quelli che sovrintendono al riparto di competenze tra Stato e
Regioni solo a due condizioni: quando la violazione denunciata sia
potenzialmente idonea a riverberarsi sulle attribuzioni regionali
costituzionalmente garantite […] e quando le Regioni ricorrenti abbiano
sufficientemente motivato in ordine alla ridondanza della lamentata
illegittimità costituzionale sul riparto delle competenze, indicando la
specifica competenza che risulterebbe offesa e argomentando adeguatamente in
proposito». In particolare, con riferimento allo stesso d.l. n. 113 del 2018,
questa Corte ha precisato che «la ridondanza del vizio sulle competenze
regionali e locali deve essere argomentata in relazione allo specifico
contenuto normativo del decreto e alla idoneità dello stesso ad obbligare la
Regione a esercitare le proprie attribuzioni in conformità ad una disciplina
legislativa statale in contrasto con norme costituzionali».
Nella specie, la disposizione censurata
riguarda l’accesso e la permanenza di determinate categorie di persone nei
presidi sanitari, la cui organizzazione rientra nella competenza concorrente
del legislatore regionale in materia di «tutela della salute» (art. 117, terzo
comma, Cost.), e quindi essa, prevedendo la possibilità dell’ordine di
allontanamento e del divieto di accesso di persone individuate in ragione di
determinate condotte da esse tenute, avrebbe un’incidenza su tale competenza in
quanto asseritamente imporrebbe di escludere le stesse dalle prestazioni
sanitarie erogate in tali presidi.
Le Regioni ricorrenti hanno, inoltre,
adeguatamente motivato in ordine alla conseguente compressione degli spazi
della loro autonomia costituzionalmente garantita nella misura in cui sarebbe
loro imposto, per effetto della disposizione censurata, un criterio selettivo
di accesso alle prestazioni sanitarie, la cui regolamentazione rientra nella
loro competenza legislativa concorrente.
Ciò assicura la ridondanza della dedotta
lesione di parametri (artt. 3 e 32 Cost.) che, pur non attenendo direttamente
alla competenza legislativa regionale, riguardano la tutela della salute e
quindi sono ammissibili le relative censure.
5.– Nel merito, le questioni non sono fondate
in riferimento ai parametri evocati, essendo possibile un’interpretazione adeguatrice, costituzionalmente orientata, della
disposizione impugnata; la quale, comunque, perseguendo la finalità di evitare
turbative dell’ordine pubblico nelle aree alle quali il regolamento di polizia
urbana può estendere l’applicabilità del DASPO urbano, concerne la materia
«ordine pubblico e sicurezza» e appartiene quindi alla competenza legislativa
esclusiva dello Stato (art. 117, primo comma, lettera h, Cost.).
Il perseguimento degli interessi costituzionali
alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza, infatti, è
affidato dalla Costituzione in via esclusiva allo Stato, mentre le Regioni
possono cooperare a tal fine solo mediante misure ricomprese nelle proprie
attribuzioni (ex plurimis, sentenze n. 63 del
2016 e n. 35
del 2012).
Nella fattispecie in esame l’art. 10, comma 2,
del d.l. n. 14 del 2017 prevede espressamente che le modalità applicative del
divieto di accesso alle aree protette devono essere compatibili con le esigenze
di salute del destinatario dell’atto. Una lettura di tale disposizione
orientata alla conformità ai parametri evocati (artt. 3 e 32 Cost.), comporta
che tale destinatario può comunque fruire dei servizi sanitari per ragioni di
cura, senza che gli sia precluso l’accesso, anche ove egli sia stato
destinatario del provvedimento del questore, che per il resto gli abbia fatto
divieto di accedere a tale area per ogni altra ragione.
La stessa interpretazione può adottarsi, pur in
mancanza di un riferimento testuale, stante la medesima ratio sottesa all’una e
all’altra misura, per delimitare l’ambito applicativo dell’ordine di
allontanamento dal presidio sanitario negli stessi termini previsti per il
divieto di accesso.
In ogni caso, quindi, la persona che ricorre al
presidio sanitario, perché le siano erogate cure mediche (o prestazioni
terapeutiche o di analisi e diagnostica), non può essere allontanata, né le può
essere precluso l’accesso alla struttura, essendo il diritto alla salute
prevalente sull’esigenza di decoro dell’area e di contrasto, per ragioni di
sicurezza pubblica, delle condotte – tutte sanzionate solo in via
amministrativa – elencate nel comma 2 dell’art. 9 del d.l. n. 14 del 2017.
La necessità di accedere alle prestazioni
sanitarie, verificata dal personale del presidio, non esclude, però, la
sanzionabilità, in via amministrativa, delle eventuali condotte che la persona,
pur bisognosa di cure mediche, abbia posto in essere in violazione delle
disposizioni richiamate dal comma 2 dell’art. 9.
Così interpretata la disposizione censurata,
non vi è alcun ostacolo alla fruizione delle prestazioni sanitarie da parte di
chi ne ha bisogno, il cui diritto alla salute rimane pienamente tutelato, e non
vi è, in concreto, alcuna incidenza sull’organizzazione dei presidi sanitari,
sicché non è violata la competenza regionale concorrente in materia di tutela
della salute, né il principio di leale collaborazione.
6.– Va, poi, esaminata la questione di
legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 21-bis, commi 1 e 2, del
menzionato d.l. n. 113 del 2018, promossa dalla sola Regione Emilia-Romagna, la
quale, pur non contestando la sua riferibilità alla competenza esclusiva dello
Stato in materia di ordine pubblico e sicurezza (art. 117, secondo comma,
lettera h, Cost.), deduce la sua incidenza sulla competenza residuale regionale
in materia di commercio, che richiederebbe un coinvolgimento delle Regioni
nella predisposizione delle linee guida per l’applicazione della norma in
conformità del principio di leale collaborazione.
In realtà la censura investe il comma 2
dell’art. 21-bis del citato d.l. n. 113 del 2018 che prevede che sia sentita la
Conferenza Stato-città ed autonomie locali e non invece la Conferenza
unificata, come dovrebbe essere secondo la Regione ricorrente.
7.– La questione è fondata.
L’art. 21-bis, comma 1, del medesimo d.l.
prevede che «[a]i fini di una più efficace prevenzione di atti illegali o di
situazioni di pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica all’interno e nelle
immediate vicinanze degli esercizi pubblici, individuati a norma dell’articolo
86 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, di cui al regio decreto
18 giugno 1931, n. 773, con appositi accordi sottoscritti tra il prefetto e le
organizzazioni maggiormente rappresentative degli esercenti possono essere
individuate specifiche misure di prevenzione, basate sulla cooperazione tra i
gestori degli esercizi e le Forze di polizia, cui i gestori medesimi si
assoggettano, con le modalità previste dagli stessi accordi».
Si tratta di una norma ascrivibile alla materia
dell’ordine pubblico e sicurezza, di competenza esclusiva statale (art. 117,
primo comma, lettera h, Cost.); ciò di cui non dubita la Regione ricorrente. È
in essa previsto non già un potere autoritativo del prefetto, ma un modulo
convenzionale di regolazione pattizia di specifiche misure di prevenzione, non
ignoto all’ordinamento giuridico che già conosce i «patti per l’attuazione
della sicurezza urbana» di cui all’art. 5 del d.l. n. 14 del 2017.
Mentre per questi ultimi, che intervengono tra
prefetto e sindaco, le associazioni di categoria comparativamente più
rappresentative, interessate alla misura, possono solo presentare indicazioni o
osservazioni, invece gli accordi contemplati dalla disposizione impugnata sono
sottoscritti direttamente dalle organizzazioni maggiormente rappresentative
degli esercenti e dal prefetto.
A questi accordi possono aderire
individualmente i gestori degli esercizi pubblici, autorizzati con licenza ai
sensi dell’art. 86 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Testo unico delle
leggi di pubblica sicurezza), assoggettandosi così volontariamente al «loro
puntuale e integrale rispetto» e quindi adottando le specifiche misure di
prevenzione in essi convenute. Tale comportamento collaborativo è valutato – in
chiave sostanzialmente di esimente o di circostanza attenuante – ai fini
dell’adozione dei provvedimenti di sospensione o di revoca della licenza ove si
verifichino eventi rilevanti ai sensi dell’art. 100 TULPS, quali tumulti o
gravi disordini.
Gli accordi suddetti – prevede il comma 2 del
citato art. 21-bis – sono adottati localmente nel rispetto delle linee guida
nazionali approvate, su proposta del Ministro dell’interno, d’intesa con le
organizzazioni maggiormente rappresentative degli esercenti, sentita la
Conferenza Stato-città e autonomie locali.
Pur essendo l’oggetto di tali linee guida
ascrivibile alla materia dell’ordine pubblico e sicurezza, di competenza
esclusiva statale, vi è comunque una possibile ricaduta sulla disciplina del
commercio, appartenente, come materia, alla competenza legislativa residuale
della Regione (art. 117, quarto comma, Cost.), come già riconosciuto da questa
Corte (ex plurimis, sentenza n. 98 del
2017); disciplina alla quale è connessa anche la regolamentazione
dell’attività svolta negli esercizi pubblici suddetti. Ciò richiede un
coinvolgimento delle Regioni, tanto più necessario se si considera che l’art.
118, terzo comma, Cost., prescrive che la legge statale disciplina forme di
coordinamento fra Stato e Regioni proprio nella materia dell’«ordine pubblico e
sicurezza», di cui alla lettera h) del secondo comma dell’art. 117 Cost.
La mancanza di alcun coinvolgimento della
Regione nella formazione di tali linee guida costituisce quindi – come lamenta
la ricorrente – lesione dei parametri evocati e comporta, in questa parte,
l’illegittimità costituzionale dell’art. 21-bis, comma 2, del d. l. n. 113 del
2018.
La reductio ad legitimitatem
della norma può avvenire – come richiesto dalla Regione ricorrente –
sostituendo, nel comma 2 del citato art. 21-bis, il riferimento alla Conferenza
Stato-città e autonomie locali con quello alla Conferenza unificata
Stato-regioni, città e autonomie locali (art. 8 del decreto legislativo 28
agosto 1997, n. 281, recante «Definizione ed ampliamento delle attribuzioni
della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le
province autonome di Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i
compiti di interesse comune delle regioni, delle province e dei comuni, con la
Conferenza Stato-città ed autonomie locali»), che, vedendo la partecipazione
delle Regioni, soddisfa l’esigenza di coinvolgimento delle stesse, in
conformità al principio di leale collaborazione.
7.1.‒ Va pertanto dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 21-bis, comma 2, del d.l. n. 113 del
2018, convertito, con modificazioni, nella legge n. 132 del 2018, nella parte
in cui prevede «sentita la Conferenza Stato-città e autonomie locali» anziché
«sentita la Conferenza unificata Stato-Regioni, città e autonomie locali».
8.– Vanno, infine, esaminate le questioni di
legittimità costituzionale aventi ad oggetto l’art. 28, comma 1, del d.l. n.
113 del 2018, promosse dalla sola Regione Umbria.
Tale disposizione ha inserito – nell’art. 143
del t.u. enti locali, che regola lo scioglimento dei
consigli comunali e provinciali conseguente a fenomeni di infiltrazione e di
condizionamento di tipo mafioso – un nuovo comma (7-bis), oggetto delle plurime
censure della ricorrente; comma la cui formulazione è la seguente:
«Nell’ipotesi di cui al comma 7, qualora dalla relazione del prefetto emergano,
riguardo ad uno o più settori amministrativi, situazioni sintomatiche di
condotte illecite gravi e reiterate, tali da determinare un’alterazione delle
procedure e da compromettere il buon andamento e l’imparzialità delle
amministrazioni comunali o provinciali, nonché il regolare funzionamento dei
servizi ad esse affidati, il prefetto, sulla base delle risultanze
dell’accesso, al fine di far cessare le situazioni riscontrate e di ricondurre
alla normalità l’attività amministrativa dell’ente, individua, fatti salvi i
profili di rilevanza penale, i prioritari interventi di risanamento indicando
gli atti da assumere, con la fissazione di un termine per l’adozione degli
stessi, e fornisce ogni utile supporto tecnico-amministrativo a mezzo dei propri
uffici. Decorso inutilmente il termine fissato, il prefetto assegna all’ente un
ulteriore termine, non superiore a 20 giorni, per la loro adozione, scaduto il
quale si sostituisce, mediante commissario ad acta, all’amministrazione
inadempiente. Ai relativi oneri gli enti locali provvedono con le risorse
disponibili a legislazione vigente sui propri bilanci».
9.– Giova premettere il contesto normativo di
riferimento.
Nell’ambito dei controlli sugli organi
disciplinati dal Capo II del Titolo VI del citato decreto legislativo, dove è
regolata la fattispecie generale dello scioglimento e sospensione dei consigli
comunali e provinciali (art. 141), oltre quella della rimozione o sospensione
dei loro amministratori (art. 142), il successivo art. 143, in cui è inserita
la disposizione censurata, prevede un’ipotesi più specifica, centrata sui
fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso nella vita e
nell’azione amministrativa di Comuni e Province, e ne regola il procedimento.
Si tratta di una «misura governativa straordinaria di carattere sanzionatorio»
che è «funzionale all’esigenza di contrasto della criminalità organizzata
mafiosa o similare» (sentenza n. 182 del
2014).
L’iniziativa parte dal prefetto competente per
territorio, che promuove l’accesso presso l’ente interessato e contestualmente
nomina una commissione d’indagine, disponendo comunque ogni opportuno
accertamento e acquisendo anche informazioni dal procuratore della Repubblica
competente, il quale le comunica in deroga all’obbligo di segreto di cui
all’art. 329 del codice di procedura penale, sempre che a ciò non siano di
impedimento particolari esigenze di segretezza del procedimento penale.
Raccolti e valutati tutti gli elementi utili, a
partire dalle conclusioni della commissione d’indagine, il prefetto, sentito il
comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, stila una relazione
finale inviandola al Ministro dell’interno. Il quale, sulla base di tale relazione,
può ritenere che emergano «concreti, univoci e rilevanti» elementi indicativi
del collegamento, diretto o indiretto, con la criminalità organizzata di tipo
mafioso. In tal caso, può proporre lo scioglimento del consiglio comunale o
provinciale interessato all’indagine, se i collegamenti con la criminalità
emergono a carico di un amministratore locale (art. 77 t.u.
enti locali); scioglimento che è deliberato dal Consiglio dei ministri e
disposto con decreto del Presidente della Repubblica (art. 143, comma 4).
Se, invece, sono coinvolti, non già gli
amministratori locali, bensì il segretario (comunale o provinciale), il
direttore generale, i dirigenti o dipendenti a qualunque titolo dell’ente
locale, il Ministro dell’interno, su proposta del prefetto, adotta ogni
provvedimento utile a far cessare il pregiudizio in atto e ricondurre alla
normalità la vita amministrativa dell’ente, ivi inclusi provvedimenti, in senso
lato cautelari, riguardanti i dipendenti suddetti (quali la sospensione
dall’impiego o la destinazione ad altro ufficio o altra mansione) con obbligo
di avvio del procedimento disciplinare da parte dell’ente (art. 143, comma 5).
Laddove, al contrario, non emergano «concreti,
univoci e rilevanti» elementi indicativi del collegamento con la criminalità
organizzata di tipo mafioso, il Ministro dell’interno emana un decreto di
conclusione del procedimento, in cui dà conto degli esiti dell’attività di
accertamento (art. 143, comma 7).
In tale evenienza – ossia quando dalla
relazione del prefetto non risulta il presupposto per l’attivazione del potere
governativo di scioglimento dei consigli comunali e provinciali, sia perché
emerge che non vi sono in realtà gli ipotizzati collegamenti con la criminalità
organizzata, sia perché, pur sussistendone elementi indiziari, questi non
raggiungono quella soglia di affidabilità probatoria tale da qualificarli
«concreti, univoci e rilevanti» – il procedimento si conclude con una sorta di
provvedimento di non luogo a procedere oltre, senza pertanto attivare la fase
deliberativa finale mirata allo scioglimento del consiglio comunale o
provinciale, interessato dall’iniziativa prefettizia: è adottato dal Ministro
dell’interno un decreto motivato di conclusione (e quindi chiusura) del
procedimento.
10.– È qui che si inserisce la disposizione
impugnata.
All’esito del procedimento previsto dai primi
sette commi dell’art. 143, di cui si è detto sopra, si innesta in sequenza,
senza soluzione di continuità, la nuova misura introdotta (comma 7-bis).
L’esito negativo di tale procedimento costituisce il primo presupposto di avvio
di un distinto, ma collegato, subprocedimento mirato all’attivazione di poteri
sostitutivi del prefetto sugli atti dell’ente locale. L’esordio del comma 7-bis
rende manifesto tale collegamento sequenziale prevedendo che questo
subprocedimento può essere attivato «[n]ell’ipotesi
di cui al comma 7», ossia nell’ipotesi di insussistenza del presupposto per lo
scioglimento del consiglio comunale o provinciale (comma 1) ovvero per
l’adozione di provvedimenti, correttivi dell’azione dell’ente e sanzionatori,
in senso lato, dei dipendenti coinvolti nell’infiltrazione di tipo mafioso
(comma 5).
La finalità del legislatore traspare proprio da
questa singolare collocazione della disposizione censurata come appendice del
procedimento regolato dai primi sette commi dell’art. 143 t.u.
enti locali.
Può accadere, in effetti, che il collegamento
di amministratori (o dipendenti) di enti locali con la criminalità di tipo
mafioso, che altera l’attività e la gestione dell’ente locale, pregiudicandola,
si presenti senza raggiungere proprio l’evidenza di «concreti, univoci e
rilevanti elementi», ma abbia comunque comportato una riscontrata mala gestio dell’ente.
Può ricordarsi che la formulazione originaria
della norma che ha preceduto l’art. 143 – ossia l’art. 15-bis della legge 19
marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di
tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale)
– prevedeva la possibilità di scioglimento di consigli comunali e provinciali,
sempre in ragione di collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con
la criminalità organizzata, ma sulla base solo dell’emersione di «elementi» non
meglio qualificati. Questa Corte (sentenza n. 103 del
1993) ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale
sollevate in riferimento a plurimi parametri, indicando, in sostanza,
un’interpretazione adeguatrice della norma, nel senso
che questa «rend[e] possibile lo straordinario potere
di scioglimento solo in presenza di situazioni di fatto evidenti e quindi
necessariamente suffragate da obiettive risultanze che rendano attendibili le
ipotesi di collusioni anche indirette degli organi elettivi con la criminalità
organizzata».
Successivamente il legislatore, nel riformulare
la disposizione, attualmente recata dall’art. 143 t.u.
enti locali, tenendo conto della pronuncia di questa Corte, ha prescritto che
gli elementi indicativi dei collegamenti con la criminalità organizzata di tipo
mafioso siano «concreti, univoci e rilevanti».
Tale rigoroso presupposto è richiesto proprio
perché risulta essere particolarmente incisivo e drastico l’esercizio del
potere governativo di scioglimento del consiglio comunale o provinciale,
espressione della volontà popolare, presidiata da garanzia costituzionale.
Ma, tra la misura estrema dello scioglimento
del consiglio comunale o provinciale (del comma 1 dell’art. 143) e la
dismissione dell’iniziativa di controllo mediante il decreto di conclusione del
procedimento (del successivo comma 7), non era previsto, a valle di
quest’ultimo, uno sbocco intermedio, meno invasivo, con la previsione di una
misura non incidente sugli organi, ma riguardante solo l’attività dell’ente
volta a promuovere, intanto, la correzione della eventuale mala gestio di quest’ultimo, in ipotesi causata da possibili
infiltrazioni della criminalità organizzata.
Invero vi era – e vi è – in generale, l’art.
135 t.u. enti locali che, in caso di tentativi di
infiltrazioni di tipo mafioso nelle attività dell’ente locale, prevede già un
potere del prefetto, che però è solo di iniziativa, perché può richiedere ai
competenti organi statali e regionali gli interventi di controllo e sostitutivi
previsti dalla legge; interventi in ipotesi già attivati proprio con il
procedimento di cui al suddetto art. 143, ma sfociati nel decreto di
conclusione del procedimento di cui al comma 7 della medesima disposizione.
Il legislatore, allora, si è fatto carico di
questa ritenuta non piena adeguatezza degli strumenti di contrasto della
criminalità organizzata di tipo mafioso e ha introdotto la disposizione
censurata nel tentativo di costruire uno strumento correttivo meno invasivo
dello scioglimento dei consigli comunali e provinciali, nonché più duttile
degli ordinari interventi sostitutivi.
Ma ciò ha fatto disegnando un potere
prefettizio sostitutivo extra ordinem, ampiamente
discrezionale, sulla base di presupposti generici e assai poco definiti, e per
di più non mirati specificamente al contrasto della criminalità organizzata;
ossia complessivamente in termini tali da non essere compatibili con
l’autonomia costituzionalmente garantita degli enti locali territoriali.
11.– Tutto ciò premesso, va preliminarmente
ritenuta l’ammissibilità delle censure che riguardano la dedotta violazione
dell’autonomia costituzionalmente garantita degli enti locali territoriali.
In generale, le Regioni sono legittimate a
denunciare la legge statale anche per la lesione delle attribuzioni degli enti
locali, indipendentemente dalla prospettazione della violazione della
competenza legislativa regionale (sentenze n. 220 del
2013, n. 311
del 2012 e n.
298 del 2009). Questa Corte, infatti, ha più volte affermato che tale
legittimazione sussiste in capo alle Regioni, in quanto «la stretta connessione
[…] tra le attribuzioni regionali e quelle delle autonomie locali consente di
ritenere che la lesione delle competenze locali sia potenzialmente idonea a
determinare una vulnerazione delle competenze
regionali» (sentenze
n. 169 e n.
95 del 2007, n.
417 del 2005 e n. 196 del 2004).
Va pertanto ulteriormente ribadita la
possibilità, per la Regione, di impugnare la legge statale per dedotta
violazione di attribuzioni costituzionalmente garantite degli enti locali
territoriali (sentenze
n. 261 del 2017 e n. 29 del 2016).
Parimenti ammissibile – in disparte gli altri
parametri non appartenenti al titolo V della seconda parte della Costituzione
che, come si dirà, risulteranno assorbiti – è la censura di violazione
dell’art. 97, secondo comma, Cost. sotto il profilo del buon andamento della
pubblica amministrazione, che include anche il principio di legalità
dell’azione amministrativa (sentenza n. 115 del
2011), stante l’evidente incidenza sull’autonomia costituzionalmente
garantita degli enti locali territoriali. La disposizione censurata infatti,
prevedendo che il prefetto indica gli «atti da assumere» quali «prioritari
interventi di risanamento», afferisce proprio alla regolamentazione dell’azione
amministrativa dell’ente.
12.– Nel merito, le questioni sono fondate.
13.– Va considerato innanzi tutto che la
disposizione censurata affianca, al presupposto negativo della mancanza di
«concreti, univoci e rilevanti» elementi su collegamenti diretti o indiretti
con la criminalità organizzata di tipo mafioso, un presupposto positivo: il
riscontro di «situazioni sintomatiche di condotte illecite gravi e reiterate,
tali da determinare un’alterazione delle procedure e da compromettere il buon
andamento e l’imparzialità delle amministrazioni comunali o provinciali, nonché
il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati».
Entrambi questi presupposti devono sussistere,
senza però che il dato testuale della disposizione evidenzi, in realtà, alcuna
connessione logica o causale tra loro, che non sia la loro mera sequenzialità
temporale.
Situazioni analoghe, se emerse in un contesto
diverso, quale in ipotesi quello del controllo sugli atti dell’ente locale,
secondo le disposizioni previste dal Capo I del Titolo VI del t.u. enti locali, sarebbero fuori dall’ambito applicativo
della disposizione censurata e non consentirebbero l’esercizio del potere
sostitutivo prefettizio in esame. Ciò appare inspiegabile, tanto più che è
prevista, in termini generali, la fattispecie di «gravi e persistenti
violazioni di legge», anche al di fuori dell’ipotesi di collegamenti con la
criminalità organizzata di tipo mafioso, che già rende attivabile una misura di
contrasto, quale l’ordinario procedimento di scioglimento e sospensione dei
consigli comunali e provinciali di cui all’art. 141 t.u.
enti locali, con specifiche garanzie.
A ciò si aggiunge l’assoluta genericità della
definizione di tale presupposto positivo del potere sostitutivo introdotto
dalla disposizione censurata.
Essendo già previsto dal t.u.
enti locali – oltre al potere sostitutivo del Governo in determinate
circostanze (art. 137) – anche un generale potere di annullamento straordinario
con cui il Governo si sostituisce agli organi degli enti locali in caso di
«atti […] viziati di illegittimità» (art. 138), le «condotte illecite gravi e
reiterate», di cui al censurato comma 7-bis dell’art. 143, non possono
consistere soltanto in meri atti illegittimi, per i quali è già previsto un
rimedio in chiave di potere sostitutivo. Occorre qualcosa di più, che però la
disposizione censurata non solo non specifica, ma neppure espressamente
richiede.
Il riferimento a «condotte illecite gravi e
reiterate», se inteso come riguardante fatti penalmente rilevanti di
amministratori dell’ente locale o di dipendenti dello stesso, sarebbe comunque
ampiamente generico se comparato a quello del primo comma dell’art. 143, il
quale evoca chiaramente una fattispecie penale ben specifica: il reato di
associazione a delinquere di tipo mafioso di cui all’art. 416-bis cod. pen.
Né tale presupposto di fatto risulta meglio
definito dalle conseguenze che da tali «condotte illecite gravi e reiterate»
devono derivare. È richiesto infatti che esse siano tali da comportare
«un’alterazione delle procedure e da compromettere il buon andamento e l’imparzialità
delle amministrazioni comunali o provinciali, nonché il regolare funzionamento
dei servizi»; formulazione questa pur sempre generica e che non aggiunge nulla
alla definizione del presupposto, se sol si consideri che ogni condotta
illecita, grave e reiterata, non può che incidere negativamente ex se sul buon
andamento dell’attività dell’ente.
Alla genericità del presupposto per
l’attivazione del potere sostitutivo del prefetto si aggiunge la vaghezza del
livello indiziario degli elementi emersi nell’attività di accertamento di cui
al comma 3 dell’art. 143. Mentre per l’attivazione del potere di scioglimento
del consiglio comunale o provinciale occorre che tali elementi, su collegamenti
diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso, raggiungano
un livello di coerenza e significatività tali da poterli qualificare come
«concreti, univoci e rilevanti» (art. 143, comma 1, t.u.
enti locali), invece, quanto alle «condotte illecite gravi e reiterate», di cui
al comma 7-bis impugnato, è sufficiente che risultino mere «situazioni
sintomatiche».
Nel complesso, quindi, il presupposto positivo
del potere sostitutivo prefettizio è disegnato dalla disposizione censurata in
termini vaghi, ampiamente discrezionali e certamente assai meno definiti di
quelli del potere governativo di scioglimento dei consigli comunali e
provinciali, pur essendo il primo agganciato a quest’ultimo come occasionale
appendice procedimentale.
14.– Inoltre, la disposizione censurata assegna
allo stesso prefetto, che ritenga sussistere una situazione di mala gestio dell’ente, non già un potere d’impulso e
sollecitatorio dell’adempimento di obblighi di legge (come, ad esempio, nel
procedimento che può condurre alla deliberazione dello stato di dissesto
dell’ente: art. 243-quater, comma 7, t.u. enti
locali), bensì quello ben più incisivo della diretta individuazione, ampiamente
discrezionale, di «prioritari interventi di risanamento» da cui sorge, per
l’ente locale, l’obbligo di conformazione. È quest’obbligo – non preesistente
nella legge, ma sorto ad hoc per determinazione del prefetto – che poi, ove non
adempiuto dall’ente, facoltizza l’esercizio del potere sostitutivo mediante
commissario ad acta.
L’insufficiente determinazione del presupposto
del potere sostitutivo risulta così aggravata dalla latitudine del suo
contenuto atipico e indifferenziato, mentre – ha affermato questa Corte (sentenza n. 115 del
2011) – ogni potere amministrativo deve essere «determinato
nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur
elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa».
Tutto ciò inficia irrimediabilmente la
compatibilità di tale potere sostitutivo extra ordinem,
in primo luogo, con il principio di legalità dell’azione amministrativa (art.
97 Cost.), nonché con l’autonomia costituzionalmente garantita che la
Repubblica promuove e riconosce agli enti locali territoriali (art. 5 Cost.);
autonomia anche recentemente richiamata da questa Corte (sentenze n. 33
e n. 29 del 2019).
L’enunciazione dell’art. 114, secondo comma,
Cost., secondo cui Comuni, Province e Città metropolitane sono enti autonomi
con «propri statuti, poteri e funzioni», si salda con il riconoscimento della
titolarità di «funzioni amministrative proprie» (art. 118, secondo comma,
Cost.) e della potestà regolamentare in ordine alla disciplina
dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite (art.
117, sesto comma, Cost.), nonché con l’autonomia finanziaria di entrata e di
spesa (art. 119, primo comma, Cost.). Tale complessiva garanzia costituzionale
di autonomia risulta accentuata dopo la riforma costituzionale del 2001 –
ispirata a un «largo decentramento di funzioni» (sentenza n. 44 del
2014) – la quale, tra l’altro, più non prevede il controllo preventivo di
legittimità, e talora di merito, sugli atti degli enti locali, essendo stato
abrogato l’art. 130 Cost. dall’art. 9, comma 2, della legge costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione).
15.– Da ultimo, ma non con minor rilievo, c’è
da considerare che il potere sostitutivo introdotto dalla disposizione
censurata – essendo previsto con un’incidenza nell’attività dell’ente locale
tendenzialmente molto ampia, stante che l’individuazione da parte del prefetto
di «prioritari interventi di risanamento» non è limitata ad attività vincolata
per legge e non discrezionale – avrebbe dovuto essere rispettoso del canone
dell’art. 120, secondo comma, Cost., secondo cui i poteri sostitutivi devono essere
esercitati secondo il principio di sussidiarietà e di leale collaborazione.
Questa Corte, con riferimento a tale parametro, ha affermato che «[l]a
previsione del potere sostitutivo fa […] sistema con le norme costituzionali di
allocazione delle competenze» (sentenza n. 236 del
2004) e quindi occorre che tale potere sia rispettoso delle autonomie
locali. È lo stesso art. 120, secondo comma, Cost. a prevedere l’intervento
sostitutivo del Governo, implicante l’assunzione di responsabilità politica del
potere esecutivo, quando vi è, in particolare, un’esigenza di «tutela
dell’unità giuridica o dell’unità economica» dell’ordinamento. Ha affermato
questa Corte (sentenza
n. 43 del 2004) che «[l]a Costituzione ha voluto […] che, a prescindere dal
riparto delle competenze amministrative, come attuato dalle leggi statali e
regionali nelle diverse materie, fosse sempre possibile un intervento
sostitutivo del Governo per garantire tali interessi essenziali». Si è
ritenuto, ad esempio, che la protratta inerzia degli enti locali «giustifica la
previsione di un potere sostitutivo, che consenta un intervento di organi
centrali a salvaguardia di interessi generali ed unitari» (sentenza n. 44 del
2014), mentre è il prefetto che rileva la mancata attuazione da parte
dell’ente locale di quanto prescritto dalla legge; potere «attribuito al
Prefetto che lo esercita senza margini di discrezionalità» (ancora, la sentenza n. 44 del
2014).
Lo stesso t.u. enti
locali, del resto, assegna al Governo il potere sostitutivo in plurime
fattispecie di maggiore incidenza nell’autonomia dell’ente locale, quali quelle
di sua inattività qualificata (art. 138), di atti viziati da illegittimità
(art. 139), di malfunzionamento di organi e servizi o di gravi e persistenti
violazioni di legge (art. 141), e finanche per gravi motivi di ordine pubblico
(art. 142). Mentre il prefetto può sostituirsi in fattispecie più limitate e
circoscritte, come in caso di inosservanza degli obblighi di convocazione del
consiglio (art. 39) o di inerzia del sindaco nell’esercizio di funzioni statali
(art. 54) ovvero, in via solo provvisoria, per motivi di grave e urgente
necessità nei procedimenti di cui agli artt. 141, 142 e 143.
Insomma, quanto più il potere sostitutivo,
incidente nell’autonomia dell’ente locale territoriale, presenta una
connotazione di discrezionalità nei presupposti e nel contenuto, tanto più il
livello di assunzione di responsabilità si eleva da quello amministrativo
(provvedimento del prefetto) a quello politico (deliberazione del Governo).
La garanzia costituzionale di autonomia degli
enti locali territoriali (Comuni, Province e Città metropolitane) richiede non
solo che i presupposti di tali poteri sostitutivi, incidenti nell’attività
dell’ente, siano sufficientemente determinati dalla legge, ma anche che
l’eventuale sostituzione a organi dell’ente rispetti il canone dell’art. 120,
secondo comma, Cost., integrato dalla norma di attuazione di cui all’art. 8
della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento
della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3),
sull’assunzione a livello governativo della responsabilità per l’esercizio di
tali poteri.
Invece, la disposizione censurata lascia
l’esercizio di un potere sostitutivo, che si è visto essere ampiamente
discrezionale, al livello meramente amministrativo dei poteri del prefetto,
senza alcun coinvolgimento del Governo (come nell’ipotesi del comma 1 dell’art.
143) e neppure del Ministro dell’interno (come nell’ipotesi del comma 5 della
stessa disposizione).
Risulta, quindi, violato anche tale parametro,
parimenti evocato dalla Regione ricorrente.
16.– Le considerazioni finora esposte
convergono nel far ritenere la norma censurata essere viziata di illegittimità
costituzionale per violazione degli artt. 5, 97, secondo comma, 114, 118,
secondo comma, e 120, secondo comma, Cost.
Rimane ovviamente nella discrezionalità del
legislatore riformulare la norma in termini compatibili con il principio di
legalità dell’azione amministrativa e con la garanzia di autonomia
costituzionalmente garantita di cui godono gli enti locali territoriali.
In conclusione – assorbiti gli altri parametri
indicati dalla Regione ricorrente – va dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 28, comma 1, del d.l. n. 113 del 2018, convertito, con
modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132.
per questi
motivi
LA CORTE
COSTITUZIONALE
riservata a separata pronuncia la decisione
delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale promosse con i ricorsi
indicati in epigrafe;
riuniti i giudizi,
1) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 21-bis, comma 2, del decreto-legge 4
ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione
internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la
funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento
dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni
sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con
modificazioni, nella legge 1° dicembre 2018, n. 132, nella parte in cui prevede
«sentita la Conferenza Stato-città ed autonomie locali», anziché «sentita la
Conferenza unificata Stato-regioni, città e autonomie locali»;
2) dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma 1, del d.l. n. 113 del 2018,
convertito, con modificazioni, nella legge n. 132 del 2018;
3) dichiara
non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 21, comma 1, lettera a), del d.l. n. 113 del 2018,
convertito, con modificazioni, nella legge n. 132 del 2018, promosse, con i
ricorsi indicati in epigrafe, rispettivamente dalla Regione Emilia-Romagna in
riferimento agli artt. 3 e 32 della Costituzione, dalla Regione Toscana in
riferimento agli artt. 32 e 117, terzo comma, Cost., e dalla Regione Calabria
in riferimento agli artt. 32 e 117, terzo comma, Cost., nonché al principio di
leale collaborazione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 giugno 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Giovanni AMOROSO, Redattore
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 24 luglio 2019.