Sentenza n. 193 del 2020

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SENTENZA N. 193

 

ANNO 2020

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente: Marta CARTABIA;

 

Giudici: Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3-bis, comma 1, del decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione), convertito, con modificazioni, nella legge 17 aprile 2015, n. 43, promosso dalla Corte di assise d’appello di Brescia nel procedimento penale a carico di S. S., con ordinanza del 23 luglio 2019, iscritta al n. 217 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 2019.

 

Visto l’atto di costituzione di S. S., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell’udienza pubblica del 21 luglio 2020 il Giudice relatore Francesco Viganò;

 

uditi l’avvocato Marco Capra per S. S. e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri;

 

deliberato nella camera di consiglio del 21 luglio 2020.

 

Ritenuto in fatto

 

1.– Con ordinanza del 23 luglio 2019, la Corte di assise d’appello di Brescia ha sollevato, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3-bis del decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione), convertito, con modificazioni, nella legge 17 aprile 2015, n. 43, «nella parte in cui, inserendo all’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 richiamato dall’art. 656 comma 9, lett. a) c.p.p. il reato di cui all’art. 12, commi 1 e 3, D.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, non prevede una norma transitoria al fine di evitare l’applicazione retroattiva del divieto di sospensione dell’esecuzione della pena».

 

1.1.– Il rimettente è investito dell’istanza di S. S., di sospensione – previa detrazione dalla pena da scontare del periodo trascorso in custodia cautelare –dell’ordine di esecuzione emesso il 12 marzo 2019 dalla Procura generale presso la Corte d’appello di Brescia, in relazione alla pena detentiva di due anni e otto mesi di reclusione, inflitta dalla Corte d’assise d’appello di Brescia con sentenza del 6 aprile 2018, irrevocabile dal 21 febbraio 2019, per il reato di cui all’art. 12, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggravato ai sensi del comma 3-bis, lettera c-bis), della medesima disposizione e commesso il 10 novembre 2007.

 

1.2.– Premessa la fondatezza della domanda di detrazione dalla pena da espiare del periodo di custodia cautelare, il giudice a quo osserva che, pur essendo stato S. S. condannato per un reato che, all’epoca della sua commissione, consentiva la sospensione dell’ordine di esecuzione, per effetto della modifica recata all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante «Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà» (richiamato dall’art. 656, comma 9, lettera a, del codice di procedura penale) dall’art. 3-bis del d.l. n. 7 del 2015, come convertito, tale sospensione risulta oggi preclusa dall’inclusione, ad opera di tale ultima disposizione, nel novero dei reati “ostativi”.

 

Sarebbe d’altra parte irrilevante la circostanza che la condotta addebitata a S. S. costituisse, all’epoca della sua commissione, un’autonoma fattispecie “qualificata” di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, laddove oggi integra una circostanza aggravante del medesimo delitto, atteso che il fatto commesso dall’interessato risulterebbe comunque riconducibile alla condotta punita dall’attuale art. 12, commi 1 e 3, t.u. immigrazione, cui fa riferimento l’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., modificato dall’art. 3-bis del d.l. n. 7 del 2015, come convertito.

 

Per effetto di quest’ultima disposizione, S. S. non può dunque beneficiare della sospensione dell’ordine di esecuzione, laddove, in caso di accoglimento delle questioni prospettate, egli potrebbe invece ottenerla e presentare da libero istanza di concessione di misure alternative alla detenzione. Di qui la rilevanza delle questioni.

 

1.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente, dato atto del consolidato orientamento giurisprudenziale in ordine alla natura processuale delle norme di ordinamento penitenziario (sono citate Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 luglio 2006, n. 24561 e sezione prima penale, sentenza 27 aprile 2018, n. 18496), che precluderebbe un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, volta a escluderne l’applicabilità a fatti di reato precedenti alla sua entrata in vigore, dubita della compatibilità della stessa con gli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU.

 

Il divieto di retroattività della legge penale sfavorevole, di cui all’art. 7 CEDU, abbraccerebbe infatti, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, «istituti pur inseriti nella normativa di matrice penitenziaria, laddove incidano in termini di sostanziale modificazione quantitativa o qualitativa della pena».

 

Le misure alternative alla detenzione, secondo quanto affermato da questa stessa Corte nella sentenza n. 349 del 1993, «partecipano alla natura della pena, proprio per il loro coefficiente di afflittività», sicché modifiche normative che restringano i presupposti di accesso alle stesse dovrebbero soggiacere alla garanzia dell’irretroattività, così come ricavabile dagli artt. 117, primo comma, Cost. e 7 CEDU.

 

Il censurato art. 3-bis del d.l. n. 7 del 2015, come convertito, inserendo il delitto di cui all’art. 12, commi 1 e 3, t.u. immigrazione nel catalogo dei reati di cui all’art. 4-bis ordin. penit., per i quali l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. prevede il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione, avrebbe «regol[ato] in senso restrittivo l’accesso alle misure alternative alla detenzione» rispetto a fatti di reato precedenti alla sua entrata in vigore, così violando l’art. 7 CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo.

 

La stessa Corte di cassazione, sezione sesta penale, nella sentenza 20 marzo 2019, n. 12541, avrebbe incidentalmente rilevato la dubbia conformità agli artt. 117, primo comma, Cost. e 7 CEDU di modifiche dell’art. 4-bis ordin. penit., non accompagnate da alcuna disciplina transitoria, che si riverberino sulla sospendibilità dell’ordine di esecuzione della pena inflitta per fatti di reato precedenti alla modifica stessa, evidenziando come il «passaggio – “a sorpresa” e dunque non prevedibile – da una sanzione patteggiata “senza assaggio di pena” ad una sanzione con necessaria incarcerazione» leda il principio dell’affidamento dei consociati in ordine alla prevedibilità della legge penale, tutelato dall’art. 7 CEDU.

 

La necessità costituzionale di limitare l’ambito applicativo delle modifiche all’art. 4-bis ai fatti commessi successivamente alle modifiche stesse sarebbe infine comprovata dal rilievo che lo stesso legislatore, in occasione di precedenti interventi sulla richiamata disposizione, si sarebbe premurato di prevedere una disciplina transitoria in tal senso.

 

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili o infondate.

 

Le censure del giudice a quo poggerebbero su un acritico richiamo alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo Del Rio Prada contro Spagna – pur non espressamente citata dall’ordinanza di rimessione – laddove sarebbe, invece, necessario «valutare come ed in quale misura il prodotto dell’interpretazione della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano» (è citata la sentenza n. 311 – recte: 317 – del 2009), tenuto conto del margine di apprezzamento di cui gode questa Corte nel valutare la giurisprudenza europea (è citata la sentenza n. 311 del 2009).

 

La sentenza Del Rio Prada contro Spagna non avrebbe disconosciuto che le norme penitenziarie e quelle relative all’esecuzione delle pene non costituiscono norme penali in senso proprio, ma si sarebbe limitata ad accertare che, nel caso concreto, un mutamento non prevedibile nell’interpretazione giurisprudenziale aveva prodotto effetti deteriori sul trattamento penitenziario della ricorrente. Di qui, l’inconferenza della pronuncia al caso di specie.

 

In ogni caso, alla luce del rango subcostituzionale delle disposizioni della CEDU, le stesse non potrebbero integrare il «rinvio mobile» di cui all’art. 117, primo comma, Cost., ove entrassero in conflitto con le norme della Costituzione. La stessa previsione dell’art. 7 CEDU lascerebbe agli Stati contraenti un margine di apprezzamento nel recepire la giurisprudenza della Corte EDU, che non potrebbe comunque essere interpretata, ex art. 53 CEDU, in senso limitativo rispetto ai diritti assicurati dalle fonti nazionali.

 

Questa Corte avrebbe poi ripetutamente escluso l’incidenza del divieto di retroattività della legge penale sui mutamenti della normativa penitenziaria (sono citate la sentenza n. 273 del 2001 e l’ordinanza n. 28 – recte: 280 – del 2001), il che comporterebbe l’inammissibilità della questione sollevata dal rimettente in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost.

 

La giurisprudenza di legittimità sarebbe infine consolidata nel ritenere che le disposizioni concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione siano soggette al principio tempus regit actum (sono richiamate Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 luglio 2006, n. 24561, sezione prima penale, sentenze 3 dicembre 2009, n. 46649 e 12 marzo 2013, n. 11580, nonché sezione sesta penale, sentenza 20 marzo 2019, n. 535 – recte: 12541).

 

3.– Si è costituita in giudizio la parte S. S., che ha insistito per l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di assise d’appello di Brescia, riproponendo nella sostanza le argomentazioni offerte dall’ordinanza di rimessione.

 

4.– All’udienza del 21 luglio 2020, l’Avvocatura generale dello Stato ha chiesto che le questioni vengano dichiarate inammissibili per sopravvenuta carenza di oggetto, essendo intervenuta la sentenza n. 32 del 2020, con cui questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento, tra l’altro, alla disciplina del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen.

 

Considerato in diritto

 

1.– La Corte di assise d’appello di Brescia dubita – in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) – della legittimità costituzionale dell’art. 3-bis del decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione), convertito, con modificazioni, nella legge 17 aprile 2015, n. 43, «nella parte in cui, inserendo all’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 richiamato dall’art. 656 comma 9, lett. a) c.p.p. il reato di cui all’art. 12, commi 1 e 3, D.lgs. 25 luglio 1998 n. 286, non prevede una norma transitoria al fine di evitare l’applicazione retroattiva del divieto di sospensione dell’esecuzione della pena».

 

Ad avviso del giudice a quo, l’applicazione immediata delle modifiche recate all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) – che determina l’impossibilità di sospendere l’ordine di esecuzione della pena inflitta a S. S. per fatti, relativi al delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, commessi prima dell’entrata in vigore del censurato art. 3-bis del d.l. n. 7 del 2015 – confliggerebbe con la garanzia di irretroattività della legge penale sfavorevole, di cui agli artt. 25, secondo comma, Cost. e 7 CEDU.

 

2.– Preliminare all’esame dell’ammissibilità e della fondatezza delle questioni è la delimitazione del thema decidendum.

 

Benché l’ordinanza di rimessione denunci l’intero testo dell’art. 3-bis del d.l. n. 7 del 2015, composto dai commi 1 e 2, risulta evidente che le censure del rimettente si appuntano sul solo comma 1 della disposizione, che testualmente prevede: «all’articolo 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, dopo le parole: “630 del codice penale,” sono inserite le seguenti: “all’articolo 12, commi 1 e 3, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni,”». Il comma 2 dell’art. 3-bis reca infatti modifiche all’art. 380 del codice di procedura penale, che disciplina le ipotesi di arresto obbligatorio in flagranza: tema, questo, pacificamente estraneo all’oggetto delle questioni sollevate dal giudice a quo.

 

3.– Le questioni sono ammissibili.

 

3.1.– L’Avvocatura generale dello Stato ha invero eccepito l’inammissibilità della questione relativa alla sospettata lesione del divieto di retroattività della legge penale sfavorevole di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., sul rilievo che analoghe censure sarebbero già state respinte da questa Corte nella sentenza n. 273 del 2001 e nell’ordinanza n. 28 (recte: 280) del 2001.

 

L’eccezione non può evidentemente essere accolta, atteso che – «anche ad ammettere che vi sia perfetta coincidenza tra le questioni ora sollevate e altre già decise in passato – nulla vieta a questa Corte di riconsiderare i propri stessi orientamenti interpretativi» (sentenza n. 32 del 2020).

 

3.2.– Nel corso dell’udienza pubblica, l’Avvocatura generale dello Stato ha altresì eccepito l’inammissibilità delle questioni per sopravvenuta carenza di oggetto, in ragione della sopravvenienza della sentenza n. 32 del 2020.

 

Neppure tale eccezione è fondata.

 

Nella sentenza n. 32 del 2020, questa Corte si è espressa in relazione all’applicazione del divieto di retroattività della legge penale sfavorevole, di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., alle modifiche apportate all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. dall’art. 1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), che vi ha incluso i delitti contro la pubblica amministrazione, senza prevedere alcuna disciplina transitoria; ed ha dichiarato, nei termini che saranno illustrati oltre (infra, punto 4.2.), l’illegittimità costituzionale dell’interpretazione dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 offerta dal diritto vivente.

 

Poiché la sentenza n. 32 del 2020 concerne l’interpretazione di una disposizione (l’art. 1, comma 6, lettera b, della legge n. 3 del 2019) diversa da quella censurata dall’odierno rimettente (l’art. 3-bis, comma 1, del d.l. n. 7 del 2015, come convertito), deve escludersi che le questioni oggi in esame possano essere dichiarate inammissibili per sopravvenuta carenza di oggetto.

 

4.– La sopravvenienza della sentenza n. 32 del 2020 risulta tuttavia determinante ai fini dell’esame del merito delle censure del rimettente, determinandone la non fondatezza, nei sensi di seguito precisati.

 

4.1.– Prima di tale sentenza, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità era costante nel senso della non riconducibilità all’alveo dell’art. 25, secondo comma, Cost. delle norme sull’esecuzione della pena, e conseguentemente nel senso della pacifica applicabilità di modifiche normative di segno peggiorativo anche ai condannati che avessero commesso il reato prima dell’entrata in vigore delle modifiche stesse, secondo il principio tempus regit actum (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 17 luglio 2006, n. 24561, nonché, ex multis, sezione prima penale, sentenza 9 settembre 2016, n. 37578).

 

Proprio sulla scorta di tale diritto vivente, correttamente ricostruito sulla base dello stato della giurisprudenza di legittimità al momento dell’ordinanza di rimessione, il giudice a quo ritiene che l’inclusione – a opera dell’art. 3-bis, comma 1, del d.l. n. 7 del 2015, come convertito – del delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, di cui all’art. 12, commi 1 e 3, t.u. immigrazione, nel catalogo di reati di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. determini, ai sensi dell’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., l’impossibilità di sospendere l’ordine di esecuzione della pena inflitta al condannato nel procedimento a quo, benché egli abbia commesso il reato prima dell’entrata in vigore del citato decreto-legge.

 

4.2.– Tuttavia, nella sentenza n. 32 del 2020 questa Corte, ritenendo necessario «procedere a una complessiva rimeditazione della portata del divieto di retroattività sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., in relazione alla disciplina dell’esecuzione della pena», ha affermato che la regola secondo cui le pene devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento dell’esecuzione, e non in base a quella in vigore al tempo della commissione del reato, «deve […] soffrire un’eccezione allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato». In questa ipotesi, l’applicazione retroattiva di una tale legge è incompatibile con l’art. 25, secondo comma, Cost.

 

Questa Corte ha quindi ritenuto che soggiacciano alla garanzia di irretroattività le implicazioni dell’inclusione di un determinato titolo di reato (in quel caso, i delitti contro la pubblica amministrazione) nel catalogo di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. sull’accesso alle misure alternative alla detenzione, sulla liberazione condizionale (artt. 176 e 177 cod. pen.) e sul divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione (art. 656, comma 9, lettera a, cod. proc. pen.). Ciò in quanto detti istituti consentono, a vario titolo e in varia misura, di accedere a un regime extramurario di espiazione della pena, la cui preclusione – in forza della sopravvenuta applicabilità del regime “ostativo” di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. – comporta una radicale modifica della natura della pena inflitta.

 

Per quel che qui più rileva, nella citata sentenza questa Corte, nel ritenere fondate le censure di diversi giudici dell’esecuzione che lamentavano di non poter sospendere ordini di esecuzione della pena emessi nei confronti di condannati per reati contro la pubblica amministrazione, commessi prima dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, ha osservato che «l’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. – nel vietare la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena in una serie di ipotesi, tra cui quella, che qui viene in considerazione, relativa alla condanna per un reato di cui all’art. 4-bis, ordin. penit. – produce l’effetto di determinare l’inizio dell’esecuzione della pena stessa in regime detentivo, in attesa della decisione da parte del tribunale di sorveglianza sull’eventuale istanza di ammissione a una misura alternativa; e dunque comporta che una parte almeno della pena sia effettivamente scontata in carcere, anziché con le modalità extramurarie che erano consentite – per l’intera durata della pena inflitta – sulla base della legge vigente al momento della commissione del fatto. Tanto basta per riconoscere alla disposizione in questione un effetto di trasformazione della pena inflitta, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto; con conseguente sua inapplicabilità, ai sensi dell’art. 25, secondo comma, Cost., alle condanne per reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della novella legislativa, che ne ha indirettamente modificato l’ambito applicativo, tramite l’inserimento di numerosi reati contro la pubblica amministrazione nell’elenco di cui all’art. 4-bis ordin. penit.».

 

Questa Corte ha peraltro rilevato che il censurato art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, così come formulato dal legislatore, nulla prevedeva in relazione alla sua applicazione nel tempo; sicché «[i]n contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost. – sotto i profili denunciati dalle ordinanze di rimessione in questa sede esaminate – [era] la norma risultante dal diritto vivente, a tenore della quale le modifiche introdotte con la disposizione censurata sarebbero applicabili anche retroattivamente».

 

Al cospetto dell’univoco orientamento del diritto vivente, questa Corte ha ritenuto – allora – di non poter adottare una sentenza interpretativa di rigetto, e ha così dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, «in quanto interpretato» nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento – tra l’altro – alla disciplina della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena prevista dall’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen.

 

4.3.– Tale declaratoria di incostituzionalità ha modificato il principio espresso dal diritto vivente relativo al regime intertemporale delle modifiche normative che inseriscano nuovi reati nel catalogo dell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit.

 

Dal momento che il censurato art. 3-bis, comma 1, del d.l. n. 7 del 2015, come convertito – che ha aggiunto il delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, di cui all’art. 12, commi 1 e 3, t.u. immigrazione, al novero dei reati di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. – nulla dispone circa la sua applicabilità alle condanne per reati commessi anteriormente all’entrata in vigore del decreto-legge stesso, nessun ostacolo si oppone più a che il giudice a quo adotti, rispetto a tali reati, l’unica interpretazione della disposizione censurata compatibile con il principio di legalità della pena di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., così come declinato da questa Corte nella sentenza n. 32 del 2020.

 

L’art. 3-bis, comma 1, del d.l. n. 7 del 2015 dovrà dunque trovare applicazione ai soli fatti di reato commessi successivamente alla sua entrata in vigore con riferimento alla disciplina del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena prevista dall’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen.

 

Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di assise d’appello di Brescia devono essere dichiarate non fondate, potendo e dovendo la disposizione censurata essere interpretata in modo conforme a Costituzione.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3-bis, comma 1, del decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione), convertito, con modificazioni, nella legge 17 aprile 2015, n. 43, sollevate, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), dalla Corte di assise d’appello di Brescia con l’ordinanza indicata in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 luglio 2020.

 

F.to:

 

Mario Rosario MORELLI, Presidente

 

Francesco VIGANÒ, Redattore

 

Roberto MILANA, Cancelliere

 

Depositata in Cancelleria il 31 luglio 2020.